domenica 29 gennaio 2023

Video della conferenza del 25 Gennaio 2023 Relatore Dott. Enzo Ferrara

 Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali), ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della conferenza tenuta dal Dott. Enzo Ferrara (Chimico ricercatore presso l'INRIM di Torino, Presidente del Centro Studi per la Pace "Sereno Regis") con titolo:

"Le frontiere delle Terre Rare e dei minerali strategici"

Per accedere al video cliccare qui: Conferenza Enzo Ferrara




mercoledì 11 gennaio 2023

Il "Saggio" del mese - Gennaio 2023

 

Il “Saggio” del mese

 GENNAIO 2023

Il 24 Febbraio 2022, il giorno in cui le truppe russe invadono l’Ucraina, viene sempre più assunto, dagli analisti ed ormai anche dagli storici, come una data spartiacque per gli equilibri geopolitici globali. Il conflitto che ne è seguito, e che ancora dura in forme diverse ma non meno aspre, è l’esito, secondo molti inevitabile, di un percorso che ha caratterizzato la fine della “guerra fredda”. La recente conferenza del prof. Valter Coralluzzo (il cui video è visionabile nel nostro blog) ha analiticamente ricostruito le tappe più importanti che hanno segnato, da lì a questa guerra, i rapporti Ovest (USA ed Europa) ed Est (Cina e Russia), sollecitando ulteriori approfondimenti per meglio comprenderne le logiche di fondo. Un contributo in questo senso viene dal recente saggio di Lucio Caracciolo

[1954, laureato in filosofia da tempo affianca ad una intensa attività accademica come docente di geografia politica ed economica una apprezzata produzione di articoli giornalistici e su riviste (La Repubblica, L’espresso, MicroMega, Limes di cui a direttore) e di saggi che affrontano le questioni geopolitiche globali] pubblicato proprio per analizzare il dietro le quinte, ideologiche e storiche, della “fine della pace


Il saggio si apre con una frase che sintetizza perfettamente il quadro storico-politico che Caracciolo intende analizzare: il 24 Febbraio 2022 è definitivamente finita la fine della storia. “The End of History and the last man” (tradotto in italiano in “La fine della Storia e l’ultimo uomo”), è il titolo del famoso, e dibattutissimo, saggio di Francis Fukuyama (1952, politologo statunitense) che in questi termini celebrava, nel 1992 all’indomani della caduta dell’URSS, quella che sembrava essere la definitiva realizzazione di un “Nuovo Ordine Mondiale(slogan al tempo coniato dal presidente americano George H. Bush senior) basato su una incontrastata egemonia americana e sulla definitiva affermazione dei valori sociali ed economici dell’Occidente neo-liberista capaci di garantire una definitiva pace. Meno di dieci anni dopo (nel corso dei quali non sono comunque mancate “guerre guerreggiate” in diverse parti del mondo a partire dalla “guerra dei Balcani” nella stessa Europa), con gli attacchi terroristici delle “Torri gemelle” USA e mondo intero erano drammaticamente chiamati a fare i conti con una realtà completamente differente. Secondo Caracciolo il 24 Febbraio 2022 segna quindi, in questo quadro, il definitivo passaggio ad un nuovo, diverso ed instabile, equilibrio globale, che per essere meglio compreso richiede di scavare sotto la superficie della dinamica dei fatti. E’ quanto si propone di fare con questo suo saggio nel quale si trova una particolare attenzione al ruolo dell’Europa, alle sue irrealizzate potenzialità ed ai suoi attuali evidenti limiti.

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Conclusioni in forma di premessa

Il saggio prende avvio proprio con il richiamo alla fallacia della profezia di Fukuyama: quella che è finita infatti, già allora ma ora lo si può apertamente dire, non è la storia, ma la pace. O meglio ancora quella illusione di pace che la progressiva e magnifica occidentalizzazione del mondo intero sembrava consentire. Quella illusione era sostenuta dalla convinzione ideologica, alla base della stessa “Fine della storia”, che la storia dell’umanità abbia una direzione e che siano le idee a fare la storia e non viceversa. E’ questa una convinzione tipica della cultura occidentale che, nata dall’intreccio tra l’Illuminismo e le Rivoluzioni americana e francese, tendeva ad avere un carattere “universale”. Dimentica di come il baricentro mondiale si sia ormai spostato altrove (basta il dato demografico a dimostrarlo) essa ha alimentato i progetti geopolitici “di potenza” americani e quelli “in potenza” europei. Peccato però che l’impero americano sia ormai in crisi di legittimazione, esterna perché, rispetto alla Guerra Fredda, è aumentato il numero dei concorrenti, ed interna perché la società americana, spaccata in due, è ormai incapace di un adeguato sostegno al ruolo di “gendarme del mondo”. Peggio ancora sta la speranza europea di continuare ad avere un ruolo centrale sullo scacchiere internazionale, una pura idea, priva di una propria visione geopolitica globale, e men che meno sostenuta da una concreta realizzazione di una vera Europa Unita. Paradossalmente era proprio la Guerra Fredda a garantire un residuo di centralità europea negli scenari globali, oggi nel gioco incrociato USA-Cina-Russia, l’Europa non ha più voce. Queste considerazioni dovrebbero avere carattere di conclusioni, qui sono anticipate come linee guida per una disamina che non può, stante l’attuale quadro, avere carattere definitivo: l’analisi del passaggio epocale tra la Fine della Storia e storie della fine non può che offrirsi aperta.

Parte prima

The End of History

Se la Fine della Storia è stata la frase che sintetizzava il marchio dell’America trionfante, la fine della Fine della Storia rappresenta il de profundis di questo paradigma. Dieci anni dopo il sogno a stelle e strisce non è più il sogno globale, ha perso la sua forza magnetica. Il suicidio dell’unica alternativa globale, il comunismo sovietico, se ha sgombrato il campo da ogni ostacolo, ha però costretto il paradigma americano, rimasto solo, a misurarsi con sé stesso, e nel nuovo millennio ciò si è tradotto in un preciso dilemma: essere nazione o impero? Negli anni di Bush, delle sue guerre in Iraq e in Afghanistan, la risposta andava nella seconda direzione, ma i risultati ottenuti, molto diversi da quelli sperati, hanno riproposto la stessa domanda, ma stavolta declinata nei termini di un secco ripensamento. Quello che oggi sembra emergere negli USA è però un “ripiegamento culturale, prima ancora che geopolitico”. Quello che a cavallo del millennio ha iniziato a vacillare è infatti l’ideologia (coniugata con indubbie convenienze economiche) che ha sin lì ispirato le sue scelte strategiche. Questa ideologia ha le sue radici culturali nei valori che hanno accompagnato la nascita della nazione americana ed espressamente richiamate nella Costituzione. Al suo centro sta “l’individuo”, che ha il pieno diritto di perseguire la propria personale felicità, un progetto sul quale lo Stato deve interferire il meno possibile. Il citizen della Rivoluzione americana non è il citoyen di quella francese, alla visione collettiva di questa corrisponde infatti quella personale del singolo individuo. La difesa e la diffusione di questo valore cardine, e di tutti quelli che in campo sociale ed economico ne discendono, sono state alla base delle scelte in politica estera americane fin dalla partecipazione alla Prima Guerra e dalla estensione al mondo intero della “Dottrina Monroe” (dal nome del Presidente Monroe che nel 1823 affermava l’inviolabilità dei valori americani). La conquistata egemonia economica e politica sul mondo intero ha implicato la loro difesa su scala globale, e la profonda convinzione del valore di queste “idee giuste” ha reso lecito l’imporle anche con la forza (il concetto alla base della recente “esportazione della democrazia affidata alle armi”). Questa visione ideologica sembrava essersi pienamente concretizzata con la fine dell’URSS, ma, come spesso accade ai trionfatori, il successo pieno e definitivo ha comportato in qualche modo la “scomparsa del futuro”, ormai pienamente assorbito nel vittorioso presente. Se “The End of History” del 1992 condensava perfettamente questa convinzione allo stesso modo può oggi aiutarci a meglio capire la svolta ideologica che ha accompagnato il ripensamento/ripiegamento. A dire il vero il titolo è ambiguo e si presta a diverse interpretazioni, ma non stupisce che l’euforia dei primi anni Novanta abbia favorito (con il beneplacito di Fukuyama) la sua universale frettolosa traduzione in “La fine della storia”, vale a dire il compimento del trionfale percorso di cui si è detto. Con il mutare del vento e con la fine dell’illusione del Nuovo Ordine Mondiale è lo stesso Fukuyama ad aver accreditato una sua declinazione molto differente. “The End” passa (la grammatica inglese lo consente) dalla versione al femminile “La fine” a quella maschile, con il mantenimento della maiuscola, diventando “Il Fine”, ed “History”, recuperando anch’essa il maiuscolo, diventa invece che la “storia”, il semplice scorrere dei fatti storici, la “Storia”, ossia il senso ultimo di questo scorrere. Questo radicale cambiamento (al quale si accompagna il pieno recupero del sottotitolo “e l’ultimo uomo” ripreso da Nietzsche) sta ad indicare che la liberal-democrazia ormai globalmente realizzata non ha più motivo di lottare per affermarsi, e quindi che per l’ultimo uomo “Il Fine della Storia” significa la fine di guerre e rivoluzioni. Il “progetto morale” americano è realizzato, tanto da rendere inutili, se non controproducenti, altri interventi armati da “gendarme del mondo”. Fukuyama precisa, in questo rifacendosi all’identica affermazione della “fine della storia” fatta da Hegel all’indomani della vittoria napoleonica ad Jena (1806) [il saggio di Fukuyama è molto ispirato dalla lettura di Hegel fatta dal pensatore Alexandre Kojève (1902-1968)], che il progresso umano ha così raggiunto il suo apogeo realizzando piena convergenza fra la fine ed il fine della storia. E’ questo lo sfondo ideologico nel quale si muove, seppure con inevitabili contraddizioni, il progressivo ripensamento/ripiegamento americano. Gli USA alla domanda di cui sopra tendono armai a rispondere, con tutto ciò che ne può conseguire, “la nazione!" Aprendo in questo modo insperati spazi ad un nuovo più importante ruolo del vecchio continente, ma l’Europa, formalmente Unita, sta cogliendo l’occasione?

L’Europa come antistoria

(ricordiamo, per assonanza di riflessione, il libro “L’identità dell’Europa” di Pietro Rossi” nostro “Saggio del mese” di Dicembre scorso). E’ al contrario impossibile non vedere che l’idea di Europa, un’idea immortale perché rientra nel campo dell’utopia, così come finora concretamente declinata, ha perso, e la ragione consiste nel suo negare il vero corso della sua stessa storia.  Quattro significativi elementi discendono da questa, solo apparente, contraddizione:

*   come tutti i sogni utopici, indifferenti allo spazio tempo, l’europeismo per troppi si è fatto religione, il culto di sé stesso, indifferente alle miserie dell’europeismo reale

*   proprio perché idea antistorica e irrazionale ha aperto spazi ad una pletora di complottismi (l’Europa come costruzione dei “poteri forti”) a braccetto con i vari sovranismi

*   in quanto ideologia è “materiale pieghevole”, strumentalmente richiamato per giustificare il permanere di visioni ed interessi nazionalistici (gli stessi paesi fondatori, e poi quelli che via via si sono aggiunti, hanno troppo spesso portato avanti un’idea di Europa sulla quale sovrapporre la propria identità nazionale)

*   elevata a religione non consente il dubbio. Essere razionalmente scettici sull’Europa viene bollato come ”euroscetticismo, un atteggiamento “ateo” e come tale irricevibile

Per cercare di comprendere le ragioni di questa evoluzione/involuzione ideologica può essere utile recuperare due testi alla base della pubblicistica europea: “Pan-Europa” di Richard Nikolaus, Conte di Coudenhove-Kalergi (politico e filosofo austriaco, fondatore dell'Unione Paneuropea e primo uomo politico a proporre un concreto progetto di Europa unita) e il “Manifesto di Ventotene”. Il testo di Coudendhove-Kalergi (uscito nel 1923 nel pieno delle turbolenze post belliche della Prima Guerra) è al tempo stesso frutto di una passione visionaria e di un concreto sforzo di costruzione di una reale confederazione europea (definita USE, United State of Europe, per promuovere la quale fonda il movimento paneuropeo). Parte dalla constatazione che, dopo la Prima Guerra Mondiale, il mondo si è ormai emancipato dall’Europa, la quale, per evitare di finire sotto l’egemonia americana, inglese e russa, deve unificarsi in un’unica confederazione. Definita con precisione nei suoi confini geopolitici [compare in questo periodo per la prima volta questo termine coniato dallo svedese Rudolf Kjellen (1864-1922, geografo e politico)]. USE comprende 26 Stati dal Portogallo alla Polonia, restano esclusi l’Inghilterra (ancora considerata impero mondiale a sé stante) ed i Balcani.  Sono anche precisate le istituzioni confederali: una Camera dei Popoli ed una Camera degli Stati, e persino la bandiera (croce rossa su campo dorato). Sono però sforzi inutili: non avrà seguito alcuno la conferenza fondativa del 1926 alla presenza dei Cancellieri e dei Ministri degli esteri di ben 24 Stati (con i messaggi di auguri di Thomas Mann e Albert Einstein). L’Europa è ormai alle soglie di ben altro percorso. E’ la prima evidenza della separatezza fra elitismo ideologico, per quanto in questo caso declinato in concreti e precisi termini, e l’Europa reale. Anche il “Manifesto di Ventotene” si pone l’obiettivo di Stati Uniti d’Europa. Ma la vocazione si fa più marcata sul piano valoriale ma qui declinata in termini più politici, persino rivoluzionari.  L’idea di Europa di Altiero Spinelli (1907-1986) e Ernesto Rossi (1897-1967), convinti che una certa vaghezza potesse consentire una maggiore aggregazione, non è invece volutamente precisata nei suoi contorni geopolitici (termine da loro persino demonizzato) affidati a successive definizioni. La forte connotazione ideologica e politica del Manifesto parte da una critica radicale all’autodeterminazione statale (che, a loro avviso, contiene in nuce una sempre possibile deriva nazionalistica e totalitaria) che però sfocia, in alcuni passaggi, in una evidente sfiducia della “prassi democratica” (sostengono apertamente che il popolo non sa mai cosa volere e cosa fare). La loro idea di Europa Unita, per quanto considerata obiettivo irrinunciabile, assume quindi una sorta di impostazione “leninista” consegnando ad avanguardie illuminate il compito di guidare la sua realizzazione. Si cita a chiare lettere che “l’europeismo è rivoluzionario anche quando non lo sa” e che questo cambiamento rivoluzionario va conseguito in tempi brevi e con modi secchi. Non è un caso che questi passaggi, quelli che non poco lo caratterizzano, nell'attuale pubblicistica europeista siano trascurati, sminuiti. Manca nel Manifesto un adeguato sforzo di precisazione geopolitica: Spinelli e Rossi sono alfieri di un europeismo coniugato con in-definizione spaziale e indeterminazione temporale. Non vale di meno, anche per esso, l’evidenza della separatezza fra elitismo ideologico ed Europa reale. (Caracciolo richiama anche il maldestro tentativo, portato avanti da componenti conservatrici di Francia e Germani, di recupero del mito dell’Europa carolingia. Tentativo del tutto fallito anche se, annualmente, ancora si assegna con solenne liturgia il “premio Carlo Magno”, il cui primo vincitore è stato proprio Coudenhove Kalergi)

Parte seconda

Antieuropa, impero europeo dell’America

Si è detto dei progetti “di potenza” americani e quelli “in potenza” europei. I primi sono sollecitati, forse persino imposti, dalla globale vittoria degli USA nella Seconda Guerra, i secondi, all’esatto opposto, dal senso di sconfitta definitiva di chi si riteneva il centro del mondo. In aggiunta all’essere, come già evidenziato, ambizioni antistoriche, i due progetti, fin dall’immediato dopoguerra, si sono alla lunga rivelati, nonostante una coesione di facciata, difficilmente conciliabili fino alla svolta del 24 Febbraio 2022 che ha di fatto sancito l’esistenza di due strategie alternative. Di questa svolta non si coglie però il senso se non si ripercorre, dal punto di vista ideologico, il percorso di questi sette decenni. Quello americano è in sintesi definibile come la perseverante costruzione di una vera e propria “Antieuropa”, una scelta, in perfetta sintonia con quella degli USA del “farsi impero” (vedi Parte Prima), e quindi di restare in Europa dopo la Seconda Guerra a presidiare un continente della cui tradizione culturale si riteneva la legittima erede. Questa scelta è stata fin da subito incompatibile con qualsiasi ipotesi di una reale autonomia europea, soprattutto se declinata nei termini di una realizzata confederazione dei suoi Stati. Non deve quindi stupire se l’America, sotto l’ombrello della stessa divisione nei due blocchi, si sia fatta concreta sostenitrice della “proliferazione di Stati e confini” nella parte d’Europa sotto la sua influenza. Così come non fa meraviglia se questa stessa proliferazione sia stata interpretata dal punto di vista europeo come una evidente conferma del sogno comunitario, mai però tradotto in un più compiuto procedere. Da una parte quindi il vero potere di decidere, dall’altra una sorta di virtuosismo intellettuale costantemente refrattario alle leggi storiche, la prima delle quali consiste in una inaggirabile constatazione: prima viene la Storia, il procedere dei fatti reali, poi, a distanza, seguono le idee volte a indirizzarla verso i propri astratti fini. L’Antieuropa americana è così stata una realtà storica non trattabile figlia dell’ambizione americana di potenza globale, ma non di meno del suicidio europeo della prima metà del Novecento e della conseguente inevitabile fine del ruolo universale dell’Europa. Nulla è di fatto cambiato fino alla vigilia della svolta del 24 Febbraio 2022: il senso del procedere storico europeo, fatta la tara a provvisorie accelerazioni e retromarce, ha mantenuto il suo carattere di “Antieuropa” nel cuore dell’Europa.  La quale per tutti questi decenni, seppur consapevole di muoversi in uno spazio geopolitico condizionato, non ha di certo fatto tesoro di questa consapevolezza per un suo più netto smarcamento. Al termine di tutti questi decenni l’interesse degli USA verso l’Europa rimane quello per un continente stabile, con spazi comunitari non troppo strutturati, e strategicamente dipendente dalle scelte americane. Nella sua sostanza il paradigma dell’Antieuropa americana resta ancora oggi quello stabilito nel 1945: gli USA primi “inter non pares” anche sul suolo europeo.  La minaccia per questi disegni strategici americani, oggi non viene però dal percorso europeo di costruzione comunitaria, sin qui così incompleto da non suscitare preoccupazioni, ma paradossalmente proprio da questa impotenza europea. Nell’attuale gioco a tre con Cina e Russia la debolezza della UE sta imponendo agli USA la scelta, obtorto collo, di una sua presenza diretta (a partire dal forte supporto all’Ucraina) proprio mentre il vento sembra cambiare anche in suolo americano (vedi sempre la Parte Prima) e mentre il confronto geopolitico più rilevante è ormai quello con la Cina che però, al momento, non si gioca in Europa.  Per capire se e come, in questo quadro, un conflitto a bassa intensità, come quello russo-ucraino, possa rappresentare una opportunità di ridimensionare il ruolo dell’Antieuropa americana è utile ripercorrere e fissare alcuni dei passaggi che hanno consentito la sua nascita ed il suo consolidamento:

*   la decisione americana di restare in Europa dopo la seconda guerra non è frutto di una strategia predeterminata. E’ stata la conseguenza della scelta di vincere la guerra e di quel istinto messianico di esportazione dell’identità americana di cui si è detto. Non a caso è tesi sostenuta da molti storici quella dell’ Impero riluttante.

*   ha poi inciso, al tempo, la constatazione che gli Stati Europei, Inghilterra compresa, non potevano, da soli, reggere alla pressione sovietica

*   al di là delle mire sovietiche la stessa Guerra Fredda è però stata resa funzionale a questo quadro. Il suo essere di fatto un sistema di pace in Europa, fondato su complicità fra due nemici, ha ampliato il raggio d’azione americano nel rafforzare, anche strategicamente, la sua presenza in Europa

*   basata su tre pietre miliari: il Piano Marshall di aiuti straordinari per la ripresa economica europea (1947) – la NATO, braccio armato del Patto Atlantico (1949) – ma soprattutto in prospettiva (come meglio si vedrà qui di seguito), su un fondamentale teorema politico “americani dentro/russi fuori/tedeschi sotto

*   le idealità comunitarie europee, già del loro fragili e incompiute, hanno per certi versi incontrato  nell’Antieuropa americana spazi in più di manovra e di speranza, ma teorici.

*   la strategia degli USA, confermata da tutti i Presidenti americani, repubblicani e democratici, non è mai mutata: non deve sorgere in Europa una istituzione comunitaria capace di divenire una vera potenza autonoma. E’ stato così nel  quadro bipolare della Guerra Fredda, e così deve restare oggi in una quadro ormai tripolare

Una frase di Dean Acheson (1893-1971, Segretario di Stato americano dal 1949 al 1953) riassume i caposaldi dell’Antieuropa americana: “bisogna che gli Stati Europeo riconoscano un dato di fatto: gli USA sono irrevocabilmente una potenza europea

Antigermania, segreto di Antieuropa

Ma l’Antieuropa non è stata soltanto alimentata, dall’esterno, dagli interessi egemonici americani, molto ha inciso, al suo stesso interno, la rilevante linea di frattura – storica, ideologica e geopolitica - con la Germania così accentuata da poter essere definita “germanofobia”. Uno stato d’animo, prima ancora che atteggiamento strategico, che ha attraversato l’intera storia europea fin dalla antica diffidenza verso i “popoli germanici” per poi rivelarsi in modo compiuto alla nascita del II Reich nel 1871. Va da sé che le vicende novecentesche della potenza militare prima tedesco/prussiana e poi nazista (non a caso il nazismo è da molti visto come il culmine di una tendenza barbarica inscritta nel codice genetico dei tedeschi) hanno poi, per molti aspetti comprensibilmente, solidificato questo sentimento. Non è per nulla una forzatura sostenere che la stessa Unione Europea non sarebbe stata concepibile senza la paura della Germania. Ogni nazione europea ha infatti coltivato la paura della Germania, ma è in Francia ed in Inghilterra che si è formato il canone germanofobo. La germanophobie francese ha matrici geopolitiche, sorte come reazione all’annessione di Alsazia e Lorena nel 1871 ed è quindi strettamente legata al cuore del suolo europeo. La germanophobia inglese ha pari natura geopolitica, ma declinata su scala più ampia, il Regno Unito, ebbro della sua potenza mondiale, non poteva accettare che nascesse, già nei primi del Novecento, uno scomodo rivale. La nascita e lo sviluppo del sentimento antitedesco meriterebbe ben altro racconto, qui però interessa come elemento fondamentale per meglio capire il rafforzamento dell’Antieuropa, anni dopo la sua genesi nel secondo dopoguerra, avvenuto nel 1989-1991 con l’annessione della ex DDR da parte della Repubblica Federale tedesca. Scontate le iniziali reazioni di giubilo per la ritrovata libertà dei tedeschi dell’Est, la prospettiva della riunificazione germanica è stata da subito accompagnata da dubbi e da sgomento, figli della storica paura della “Grande Germania”, da parte della totalità dei partner europei. Uno sgomento accentuato dalla constatazione che sia gli USA che l’URSS di Gorbacév, ormai prossima a divenire Federazione Russa, erano, per ragioni diverse ma convergenti, favorevoli alla riunificazione (l’America lo era perché la nuova Germania sanciva la fine dell’impero sovietico, la Russia perché, non in grado di gestire una diversa posizione, sperava che, a titolo di compensazione, gli USA accettassero un’area cuscinetto formata da quel che restava del Patto di Varsavia). L’Europa, ancora una volta messa spalle al muro da poteri esterni, decise di serrare le fila e (preceduta da un intenso lavorio della Francia di Mitterand e della Gran Bretagna di Margaret Thatcher) che portò alla scelta di accelerare il percorso di costruzione comunitaria proprio per avviluppare in esso la  nuova Germania. Il risultato, non casuale quindi, è stato il Trattato di Maastricht del 1992 che sanciva la nascita dell’Unione Europea. Sorge però spontanea una domanda: come si può concepire un soggetto unitario europeo fondato sulla paura del più rilevante suo Stato? Aiuta a capire tale situazione, e le conseguenze che ne deriveranno fino ai giorni nostri, consultare, negli archivi storici ormai accessibili, gli atti di un seminario segreto che si svolge nel Marzo 1990 con la presenza della Thatcher e di un folto gruppo di intellettuali esperti in campo geopolitico. Fra le domande che a loro vengono rivolte spiccano le seguenti:

*   considerate le preoccupazioni per una possibile influenza dominante della Germania unificata quale tipo di cornice europea può meglio contenerla?

*   in che misura tale cornice deve coinvolgere l’URSS?

*   hanno ancora senso le attuali (del tempo) sfere di influenza?

(Nella discussione che ne segue emerge, a compensare i timori, si conta una paradossale vena ottimistica: la Germania si riunificherà ma sarà comunque frenata dalla difficile coabitazione dei tedeschi del NordEst, in prevalenza protestanti, con quelli di inclinazione renano-cattolica base della CDU suo principale partito) Buona parte delle motivazioni alla base di tale germanofobia sono state però smentite dalla successiva realtà storica: la Germania riunificata è, inevitabilmente, rimasta  nel quadro dell’Antieuropa a stelle e strisce accettando quindi una sua limitata autonomia da questo contesto generale. Una autonomia, comunque mal sopportata, che non ha impedito che negli anni successivi [a Federazione Russa formalizzata, ed in parallelo al progressivo allargamento (che smentisce le precedenti promesse americane a non procedere in tal senso) della Nato in tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia (e, vicende di questi mesi, anche nei paesi del Nord)] di tessere più strette relazioni autonome con la Russia (Ostpolitick, politica verso l’Est) fino a strutturare una sua forte dipendenza energetica da quest’ultima (aspetto che ha avuto una evidente ricaduta sulla crisi energetica seguita alla guerra russo-ucraina). Ma in generale va detto che la posizione tedesca si è, per tutti gli anni a seguire l’unificazione, articolata su due distinte modalità: un marcato attivismo sulle politiche economiche e finanziarie comunitarie ed una più timida incidenza su quelle di politica estera. Ha non poco pesato il non semplice percorso di omogeneizzare due realtà, il SudOvest ed il Nord Est tedeschi, già del loro non esattamente coincidenti nelle rispettive identità storiche (un aspetto reso ancora più complesso dall’eredità dei quarant’anni di regime dell’ex DDR). Per certi aspetti, sociali, culturali e religiosi, è persino possibile sostenere che la più piccola delle due Germanie è stata ed è tuttora quella più “tedesca”. Se infatti la Germania unita è stata realizzata con l’annessione dell’Est all’Ovest, è stato però l’Est a portare in dote, e a far oggi pesare anche elettoralmente, un originale codice storico tedesco (tutto sommato preservato meglio anche nei quarant’anni sotto il controllo sovietico). La storia ha respiro lungo, questo decisivo pezzo nel cuore dell’Europa si è, a partire dal Romanticismo in poi, costruita una identità, fortemente autocentrata, che sembra però anch’essa, come per tutti, rimessa in discussione dalla svolta del 24 Febbraio.

Antimpero

Al termine delle traiettorie fin qui esaminate, e trent’anni dopo l’annunciata fine della storia, sembra proprio imporsi una prima disarmante constatazione: il segno del tempo attuale è l’impossibilità di un ordine mondiale. Ma non necessariamente questo segno implica il ritorno ad una sorta di tutti contro tutti, c’è infatti logica in questo caos. Individuarla non è certo garanzia di previsione certa di quale sarà il futuro, a breve e medio periodo, del quadro geopolitico globale, ma è condizione necessaria quanto meno per orientarsi. Il primo passo per farla emergere è riprendere i postulati che dovevano ispirare la fine della pace e osservare quel che ne resta. Al cuore di tutto stava il paradigma degli USA come centro regolatore del mondo. Trent’anni dopo quel paradigma,  contestato in patria e nel resto dell’Occidente, si entra in una fase, che si può definire “Antimpero” , di apnea dell’Impero Americano. Un impero maturo e vincente ricorre il meno possibile alla forza, semmai impiega forze altrui per i propri fini. E’ successo esattamente il contrario: dal giorno di Natale del 1991 (il giorno in cui sul pennone più alto del Cremlino viene ammainata la bandiera rossa dell’URSS e sale quella tricolore della Federazione Russa), la storia americana è fitta di guerre, non a caso tutte perse (in primis il disastro iracheno e la caotica fuga dall’Afghanistan). Il fatto è che a Washington prima della Guerra Fredda nessuno aveva programmato l’Impero, la cui genesi, imposta dalla non prevista presenza dell’URSS rivale globale, è per molti versi casuale. Ma è proprio quella bandiera sul Cremlino a sancire che senza più il “nemico” l’Impero, divenuto unico, si è svuotato, ha perso senso. La fine del paradigma americano come “ordine del mondo” concede agli USA tre opzioni:

*   la prima è tornare, ricreandola, ad una situazione di “bipolarismo”, una sorta di “usato sicuro” per ridare fiato all’afflato di Impero. La Cina è oggettivamente un forte rivale, economico e geopolitico, ma, seguendo questa logica, quanto c’è di forzato da parte americana per ingigantire il confronto/scontro?

*   la seconda è rinchiudersi, con Canada e Messico, nella fortezza del Nord America: ipotesi realistica, attraente, rassicurante. Coltivata, seppure con accenti e adesioni differenti, da ambedue i partiti. Il realismo di Biden, seppure con ben altri accenti, non è così lontano dall’America First di Trump. Ma è una ipotesi che implica l’abbandono del ruolo di Impero. Perlomeno da questa parte dell’Atlantico

*   la terza è quella di scegliere di non scegliere, tra le tre è quella che “viene facile”, ed è quella che, per ora, di fatto prevale. Ma non è certo in grado di risolvere né i problemi di coesione interna né quelli di controllo sugli equilibri globali (non a caso questa indecisione americana spiega in buona misura i fermenti autonomisti della Turchia, del Giappone, di Francia e Germania. E, come evidenziato dal prof. Coralluzzo, lo stesso espansionismo della Russia di Putin)

Peraltro l’attuale prevalere della terza opzione si spiega, ancora una volta, con considerazioni ideologiche che si rifanno ai caratteri originari degli USA:

*   l’America nasce come Repubblica emancipandosi da un Impero, per certi versi l’antimperialismo è nel suo stesso Dna.

*   Non a caso l’Impero americano non ha né imperatore (il Presidente è un portabandiera deciso ogni quattro anni) né formale struttura imperiale (gli USA sono cinquanta Stati sovrani sotto un leggero tetto confederale).

*   Gli USA hanno però da sempre una irrefrenabile pulsione alla guerra (in due secoli e mezzo hanno combattuto più di un centinaio di conflitti armati) non sempre accompagnata dalla necessaria lucidità per distinguere tra guerre inevitabili e quelle inutili.

La combinazione tra le tre opzioni e questi caratteri ideologici spiega l’attuale incertezza americana a scegliere fra i due corni: più impero uguale meno nazione più nazione uguale meno impero. Ma una nazione che troppo a lungo non decide rischia di estremizzare i contrasti interni: l’assalto a Capitol Hill del 6 Gennaio 2021 potrebbe essere solo il prologo dello scontro aperto tra due Americhe che non si riconoscono reciprocamente. Si assiste così ad una tempesta geopolitica americana che è diventata, per il ruolo sin qui avuto, tempesta mondiale. Cambia l’America e cambia il mondo. Ma come?

L’ordine impossibile: il trionfo dei diritti storici

L’attuale quadro geopolitico del mondo vede, non a caso, una pericolosa miscela di crisi e conflitti diffusi, in parte determinati da dinamiche locali ed in parte dall’incrocio delle convenienze e aspettative delle tre maggiori potenze: USA, Cina e Russia. (spiccano fra gli altri: l’accesso via Mar Nero al Mediterraneo della Russia, il consolidamento del ruolo strategico nell’indo-pacifico della Cina, e la conseguente resistenza USA a che ciò si realizzi). Con poste in palio così alte e decisive (per gli USA perderle sancirebbe la fine del ruolo di principale potenza, per la Russia l’autentica fine della sua stessa esistenza, per la Cina la sottomissione ai disegni strategici americani) le vie di uscita sembrano essere solo due, quelle classiche: una Guerra Mondiale o una Grande Tregua, preludio ad una Grande Pace. Per meglio capire i movimenti concreti sul campo è ancora una volta necessario mettere a fuoco le ragioni ideologiche che ispirano le relative strategie operative. Una prima evidenza si impone: l’attuale disordine geopolitico mondiale è la conseguenza della convinzione, comune a Cina, Russia e USA, della incompatibilità della propria dentità con quella delle potenze rivali. Durante la Guerra Fredda il contrasto russo-americano, mettendo di fronte due visioni del mondo diametralmente opposte, era più netto e pericoloso, ma i due contendenti, hanno dimostrato di saper accettare questa diversità. Oggi non sembra possibile intravedere una analoga accettazione dello status quo, e questa comune ostinazione rappresenta il più grande  ostacolo verso un percorso di Grande Tregua. Concorre poi ad esasperare questo trincerarsi sulla propria identità il timore, in tutte e tre ben presente, circa la tenuta dei rispettivi regimi interni. In questo quadro La tempesta americana resta però quella decisiva perché investe la potenza principale. Per ora, per fortuna, non sembra che questo conflitto a tre si stia manifestando in uno scontro diretto a tutto campo: tutte le guerre, magari da loro innescate ma finora condotte per delega da altri contendenti, puntano in primo luogo alla destabilizzazione, per ricaduta, all’interno delle potenze rivali. Al momento la guerra USA alla Cina è immaginata vinta quando la Repubblica Popolare cinese si sfalderà in più Cine meglio ancora se in contrasto tra di loro e quella contro la Russia lo sarà quando la Federazione Russa farà la fine dell’URSS. Non diversamente Cina e Russia molto lavorano sottotraccia per acuire il contrasto fra le due anime americane di cui si è detto. La stessa apparente alleanza russo-cinese non sembra essere così stabile, l’avventata mossa russa di invadere l’Ucraina, senza chiarezza di obiettivi e con modalità improvvisate, sta disturbando non poco le strategie cinese di invasione economica globale (le varie vie della Seta). Emerge da questa seppur sintetica fotografia che nell’era che secondo Fukuyama segnava la fine della Storia sono al contrario proliferate altre opposte “storie”. Tutte segnate, tutt’altro che inspiegabilmente, dalla esaltazione di identità nazionali a sancire che il fallimento del Nuovo Ordine Mondiale ha riaperto loro le porte. Ovunque si assiste al recupero dei miti fondativi delle singole nazioni, degli imperi, delle etnie. Oggi la giustificazione nazionalistica dei distinti diritti storici sembra essere il principio ideologico principale di sostegno a tutti i conflitti. (lo stesso conflitto russo-ucraino si gioca anche su questo aspetto). Vale a dire che la base ideologica dietro ai conflitti fra le tre grandi potenze, nella confusione geopolitica che ne è derivata, si è diffusa a macchia in molte parti del mondo (ne sono evidente testimonianza i miti delle “grandi” Serbia, Croazia, Albania, Ungheria, Polonia) 

Premessa in forma di conclusioni

L’europeismo mirava a fare della pace la norma del continente, una norma difesa da dighe giuridiche (Via della Legge è il nome dell’arteria sulla quale, a Bruxelles, si articola il distretto europeo), capace di stemperare i conflitti prima che possano degenerare in scontri armati. Con il 24 Febbraio 2022 questa speranza è stata annullata, nessuna norma può, da sola, cancellare la guerra nel cammino dell’umanità. Si è aggiunta a questa illusione pacifista una scarsa cultura geopolitica che ha vieppiù accentuato la convinzione europea che, ammessi limitati conflitti su scala locale, la Grande Guerra fosse ormai sparita dall’orizzonte mondiale (un postulato in ambito geopolitico cita: “la democrazia rifiuta di pensare strategicamente finchè non è costretta a farlo per difendersi”). Il 24 Febbraio con l’avvio della confusa guerra tra USA e Russia via Ucraina ha definitivamente evidenziato il peso di questo deficit ideologico e strategico. Al punto tale da poter affermare, prove alla mano, che l’Europa non ha abolito, con le sue illusioni pacifiste, la storia e che, al contrario, è la storia ad aver abolito, per la sia insipienza strategica, l’Europa. Sembra poi aggiungersi un ulteriore rischio: se l’America, stanti le considerazioni precedenti, dovesse ridurre la sua presa sul vecchio continente il conseguente vuoto di potere aprirebbe ulteriori i spazi ai vari nazionalismi accentuando così questa sua inadeguatezza geopolitica: Potrebbe allora crearsi un quadro, ancor più confuso e ingovernabile, in cui da una parte potrebbe magari  alleggerirsi la nevrosi russa di accerchiamento, ma dall’altra acquisterebbero baldanza le mire di potenza della Turchia e la stessa maggiore penetrazione cinese nei mercati europei. Forse è ritornato il tempo per l’Europa, più compiutamente definita come UE, di “tornare a sporcarsi le mani” per assumere finalmente un suo più preciso e rilevante ruolo nel quadro geopolitico globale. In questo senso, se è pur vero che non è possibile anticipare il futuro, osservare le tendenze in corso è condizione indispensabile per meglio orientarsi. Il saggio di Caracciolo si chiude riportando, in ordine sparso, alcune di queste tendenze, quelle che, allo stato attuale dei fatti, sembrano essere fra le più rilevanti,:

*   lo scontro per interposta Ucraina fra USA e Russia è pressoché impossibile che sfoci in conflitto aperto. I timori russi, manifestati con la sindrome da allargamento della Nato, sono più spiegabili con la paura di un contagio “democratico” da Occidente

*   la Russia è finita, pur di costruire un  “cuscinetto” atto a fronteggiare tale rischio, in una guerra per la quale non era preparata ma che, ormai, non può assolutamente perdere.

*   Russia e USA, peraltro più concentrati a fronteggiare nell’area indo-pacifica la Cina, non sembrano più capaci di ripristinare il dialogo mantenuto per tutta la Guerra Fredda

*   la guerra russo-ucraina ha accentuato la frattura fra il cuore della vecchia Europa ed i paesi centro-orientali, quasi a riprodurre la divisione, certo su tutt’altre basi, fra Est ed Ovest tipica della Guerra Fredda. Con l’Est (con la sola eccezione dell’Ungheria, ma in questo apertamente sostenuto dal Regno Unito non più UE) più duro nei confronti di Putin

*   l’Italia ondeggia e non ha sin qui individuato una vera strategia che vada oltre la fedeltà, sospettosamente troppo spesso dichiarata a parole, all’ortodossia americana

*   si è riaperta la questione tedesca. L’unificazione politica non ha prodotto una omogeneità strategica in campo geopolitico: i Lander dell’ex Germania dell’Est sono, nemmeno tanto paradossalmente, più disponibili al dialogo con la Russia

*   questa incertezza tedesca ha ridato fiato da una parte alle ambizioni sovraniste e antirusse polacche e dall’altra ad un raffreddamento dei rapporti con la Francia (un teorema geopolitico cita espressamente che: chi controlla la Germania controlla il centro dell’Europa e chi controlla quest’ultimo domina il vecchio continente)

*   non a caso quindi la Germania (quella della precedente Repubblica Federale) ha attuato la svolta epocale di riarmarsi pesantemente. Un ritorno alla storia che non può essere trascurato

*   non è irrilevante la ricaduta delle difficoltà tedesche sui rapporti italo-tedeschi fin qui segnati da motivi di attrito (le diverse politiche fiscali ed economiche) ma anche  di forte relazione commerciale (il mercato tedesco è quello più importante per l’industria italiana del Nord)

*   il quadro europeo, con queste sue problematiche, ha una ricaduta diretta su “caoslandia”, quell’enorme parte del mondo che va dall’America centro-meridionale al Medio Oriente in cui si concentrano istituzioni fragili, criminalità diffusa, terrorismo e buona parte delle guerre in corso. Le crisi alimentare ed energetica che ne conseguono accentueranno l’impatto delle emergenze climatiche e ambientali, con l’inevitabile incremento di flussi migratori, la fonte primaria delle tensioni interne europee (e l’Italia è una delle prime terre di confine con Caoslandia).

Emerge infine una certa nostalgia per i principi ideologici che hanno ispirato la Guerra Fredda garantendo una oggettiva stabilità, la cui saggezza strategica consisteva nell’aderire al “principio di realtà” che imponeva, mentre li si avversava, di rispettare regimi e culture opposte. Con il senno di poi, superate alcune episodiche crisi, si può constatare che le due potenze maggiori di allora non avrebbero mai dato avvio ad uno scontro armato, e nucleare in particolare, se non messe alle strette dal sentire minacciata la propria esistenza. Un teorema che dovrebbe valere anche oggi. Non a caso è la stessa ragione per cui la fragile Russia evoca la guerra nucleare come ultima risorsa per non finire nel cimitero delle potenze che furono….o per finirci con tutta l’umanità.


domenica 1 gennaio 2023

La Parola del mese - Gennaio 2023

 

La parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

GENNAIO 2023

La parola di questo Gennaio 2023 è comparsa, con un posto di rilievo, in numerosi nostri post, dove è stata considerata da diverse sfaccettature, in particolare economiche, politiche e filosofiche. Da tempo eravamo però convinti che il suo significato, la sua valenza generale, meritassero una attenzione più mirata. L’occasione per farlo ci è stata offerta da uno straordinario saggio che la esamina proprio da questo punto di vista, in particolare per comprendere su quali basi si sia formata la sua presunta aurea di fenomeno ineliminabile. Visti i diversi aspetti che concorrono a formare un quadro così articolato il saggio in questione non poteva non tradursi che in un testo voluminoso (ben più di settecento pagine, e quindi oltretutto di non poco costo) e decisamente complesso tale da rendere impossibile una sua sintesi nelle nostre abituali forme. Ma l’occasione non poteva essere persa e quindi, per quanto  limitata a fornire una informazione generale sulla sua articolazione e sulle sue finalità, lo percorriamo qui velocemente proprio perché davvero rappresenta una summa di tutto quanto può essere racchiuso, nel bene e nel male, nella parola

CRESCITA                       

 

CRESCITA (da vocabolario on line Treccani) sostantivo femminile derivato da crescere = Il fatto di crescere, di svilupparsi. In particolare in economia indica l’incremento, nel tempo, delle principali grandezze economiche (prodotto interno lordo e netto, investimenti, occupazione, reddito pro capite), alla quale si accompagna una continua innovazione delle tecnologie impiegate nella produzione di beni e servizi.

Non stupisce che la definizione da vocabolario si limiti, per indicare il suo significato generale, ad un generico “il fatto di crescere”, per poi poter dare più spazio alla sua valenza “economica”, perché in effetti è ormai così: crescita, al di là del suo comparire senza particolari valenze nel linguaggio quotidiano, è ormai quasi automaticamente associata a quella economica, in una sorta di ossessione che  vede nel suo scomparire, o anche solo nel suo rallentare, un'autentica tragedia collettiva. E poco cambia quando (per una sorta di pudore?)  viene sostituita con “sviluppo” o con “progresso”, termini che in effetti hanno un significato che va oltre il solo “fatto di crescere”. A chi avanza perplessità sul fatto che l’umanità possa ritenere che lo scopo ultimo della sua presenza sul pianeta Terra consista nel “fatto di crescere” (di numero, di ricchezza, di potere) viene risposto che la “crescita” è nell’ordine naturale delle cose, che è lo scopo assegnato “per natura” a tutto, universo compreso, e quindi all’uomo stesso. Ma è proprio così? La crescita è davvero un destino inaggirabile? Oppure, anche nell’ordine naturale delle cose, ad essa sono posti limiti ed ostacoli che pregiudicano il suo stesso significato etimologico? Risponde a queste domande il corposo saggio

L’ultima opera, con titolo “Crescita. Dai microrganismi alle megalopoli(Hoepli, 2022, traduzione di Luciano Canova, pagine: XXXII-720, prezzo: € 29,90. In calce riportiamo l’indice dell’opera per meglio avere nozione del suo spessore analitico) dello scienziato ambientale Vaclav Smil (accademico e ricercatore in Scienze ambientali ceco naturalizzato canadese, docente emerito presso la Facoltà di Scienze ambientali dell'Università di Manitoba a Winnipeg, autore di numerosi saggi fra i quali spiccano: “Energia e civiltà” 2017 e “I numeri non mentono” 2021. I suoi interessi di ricerca, interdisciplinari, vertono principalmente sul cambiamento climatico, sull'antropizzazione, sulla storia dell’innovazione tecnologica, sulle fonti energetiche)

Da convinto scienziato ambientalista Smil non poteva non essere mosso a questa analisi che dalla constatazione del peso del mito della “crescita”, economica, produttiva, dei consumi, nell’orientare l’intero percorso dell’umanità. Non a caso quindi afferma nella premessa di questo saggio che crescere, sempre e comunque, rappresenta davvero l’imperativo del nostro tempo, l’ultimo suo credo: dobbiamo crescere sempre, ad ogni costo. Senza mai porsi due semplici domande che dovrebbero al contrario limitare questa frenesia: per fare cosa? per andare dove? Persuasi dall’idea che il progresso materiale possa durare per sempre, politici neo-liberisti ed economisti ortodossi venerano la crescita della ricchezza a tal punto da considerarla la soluzione a tutti i mali, oltre che l’unica misura dello sviluppo umano. Eppure pochi altri concetti sono così sovraccarichi di ideologia come quello di crescita, che viene, con supina accettazione, collocato al di là del bene e del male, perchè considerato in sè valore, tendenza morale. In questo saggio, che si muove in perfetta sintonia con l’intera sua ricerca scientifica e produzione saggistica, Smil, per cercare di mettere a fuoco quali ragioni possano spiegare questo stato di cose, confronta le traiettorie di crescita di decine di variegati processi naturali, sociali, tecnologici (come cita il sottotitolo “dai microrganismi alle megalopoli”, fra l’altro nostra recente Parola del mese di Novembre 2022). Smil inizia con organismi di dimensioni microscopiche, fino all’evoluzione di esseri viventi sempre più grandi e alla crescita umana dall’infanzia all’età adulta. Dalla biologia alla tecnologia, il saggio percorre la storia della vita sulla Terra, dedicando ampio spazio all’evoluzione della capacità di produrre energia e manufatti che favoriscono attività economiche, segnando progressi essenziali per la civiltà. Infine, guarda alla crescita nei sistemi complessi, dalle popolazioni umane fino alle città, ed al termine di questa disamina, conclude che oggettivamente, la tendenza alla crescita sembra essere “una realtà proteiforme onnipresente nel nostro pianeta, in tutte le forme di vita, in essa  comprese”. La sua valenza è ubiqua, interviene regolarmente come meccanismo connaturato alla natura, tale da governare, dal più piccolo al più grande, lo sviluppo dei batteri come delle galassie. Tutto sembra essere indirizzato costituzionalmente alla crescita, sul nostro pianeta crescono la crosta oceanica, l’altezza delle montagne, le cellule tumorali, e poi anche la resa delle colture, il peso dei salmoni d’allevamento, la superficie dei televisori, tanto per citare alcuni esempi. A formare così un quadro che sembrerebbe sostenere la presunzione di una sua ineluttabilità, così evidente da giustificare quindi il suo orientare ogni nostra azione. Ma da questa stessa analisi emerge un preciso controcanto: nulla, proprio nulla, sembra poter espandersi all’infinito. Tutto ciò che cresce, prima o poi, alla fine si ferma, per un motivo o per l’altro. In tutti i casi presi in esame la tendenza alla crescita, superata una possibile iniziale criticità, entra in una fase di sviluppo, di accelerazione esponenziale, per poi rallentare e raggiungere un culmine, il suo “plateau”, e qui giunti alcuni casi rimangono stazionari, altri collassano repentinamente, altri ancora declinano più lentamente. Da questa osservazione delle variegate curve di crescita emergono, a volerle cogliere, molte indicazioni utili, in particolare che in molti fenomeni intervengono, a fissare limiti invalicabili, decisivisi  processi fisici (ad esempio le leggi di conservazione dell’energia e la limitatezza delle risorse materiali). L’ingegno umano sarà anche una poderosa macchina tecnologica per tentare di andare oltre questi limiti, ma non esiste, come considerazione conclusiva del saggio, traiettoria di sviluppo che possa sfuggire a queste restrizioni. Smil precisa poi che crescita, forse per il crescente timore che così non possa che essere, dimostra di essere una sorta di “calamita per aggettivi”, l’ultimo dei quali è il più equivoco di tutti: sostenibile. L’inerzia della storia per come si è sin qui sviluppata in particolare in quest'ultimo secolo, ha creato attorno al concetto di  crescita economica e produttiva una aureola ideologica che spiega e giustifica la presunzione di andare, sempre e comunque,  oltre ogni limite che un pianeta dalla risorse finite impone. Ma anche se i tecno-ottimisti sono certi  di poter disaccoppiare la crescita dell’economia dai consumi di energia e di risorse materiali, tutto quello analizzato nel saggio evidenzia al contrario che la condizione umana rimane inevitabilmente nella zona critica di un pianeta sempre più esausto. “Per quanto diversa la nostra civiltà possa essere in confronto a quelle che l’hanno preceduta - ammonisce Smil - essa opera comunque all’interno dello stesso vincolo”. E quindi più che stordirci con inutili anatemi sulla fine del mondo, si torni a coltivare la consapevolezza del mondo finito  

Completiamo questa sinteticissima presentazione del saggio di Smil con alcuni estratti della recente intervista a lui fatta da Alessio Giacometti (dottorando scienze sociali Università di Padova, del quale abbiamo già pubblicato altri interessanti articoli) reperibile nel sito on-line “La Tascabile”

Leggendo Crescita ho subito pensato ai grafici del “cruscotto planetario” diffusi qualche anno fa dal gruppo di scienziati con a capo il chimico Will Steffen per descrivere la traiettoria della Grande Accelerazione, il periodo successivo alla seconda guerra mondiale di crescita esplosiva della popolazione, dei consumi e dell’impatto umano sulla Terra. Come molti dei grafici presenti nel suo libro, quelle curve esibivano tutte una progressione inizialmente timida e impercettibile, che all’improvviso si fa indomabile e fuori controllo. Il che è un doppio problema: sulle prime non ci accorgiamo che una curva di crescita sta per diventare insostenibile, e quando ce ne accorgiamo sembra ormai inevitabile un impatto catastrofico alla fine della corsa. È questa la trappola della crescita?

Tutti i fenomeni in accelerazione alla fine decelerano: nessun albero cresce fino al paradiso, e le paure di una crescita inarrestabile non sono altro che paure. Mezzo secolo fa anche le persone meglio informate sullo stato delle cose erano terrorizzate dalla crescita demografica incontrollata, mentre oggi la maggior parte dell’umanità ha tassi di fertilità ormai vicini o al di sotto del livello di sostituzione, con molti Paesi che già registrano una popolazione in declino: il Giappone, ad esempio, ha perso quasi 750mila persone l’anno scorso, e uno studi pubblicato qualche anno calcolava che ben 17 nazioni dell’Unione Europea potrebbero vedere dimezzata la propria popolazione entro il 2100. Le cose possono sembrare fuori controllo per un po’, ma ogni volta rallentano, in un modo o nell’altro. Certo, prima che ciò accada i periodi di crescita impetuosa possono generare grandi benefici, ma anche grandi problemi, di natura ambientale e sociale. La conoscenza necessaria per affrontarli però non manca, e in un certo senso neanche i mezzi tecnologici. Quel che spesso non abbiamo è la volontà di impegnarci in modo convinto e duraturo.

La pandemia di COVID-19 ha mostrato quanto possa essere complesso arrestare una crescita esponenziale. Riuscirci è possibile, ma solo nelle fasi iniziali. Più la curva si flette e più diventa incontrollabile. È questa una legge ferrea della crescita che conosciamo da sempre, in verità, ne discutevano già i greci antichi con il paradosso del sorite (se da un mucchio di sabbia estraiamo, uno dopo l’altro, tutti i suoi granelli alla fine ne rimarrà uno solo. E allora: in quale momento quel mucchio iniziale non è più un mucchio? Per gli antichi il paradosso stava nel mettere sullo stesso piano due concetti diversi: da un lato uno di tipo qualitativo, il mucchio, e dall’altro uno di tipo quantitativo, numerico, il singolo granello): vale a dire che c’è una soglia oltre la quale un ulteriore aumento quantitativo si trasforma in un cambiamento di tipo qualitativo. All’inizio SARS-CoV-2 era un virus locale circoscritto al solo mercato di Wuhan, ma poi, di contagio in contagio, ha innescato una pandemia globale che nessuno poteva più fermare. Nel caso del riscaldamento globale alcune delle soglie critiche, i famosi tipping points (nostra parola del mese di Marzo 2021), sono già state superate, e in molti ritengono che una trasformazione qualitativa dei regimi climatici sia già entrata in moto. Cosa possiamo fare con una curva di crescita quando non è più sotto il nostro controllo?

Sulla Terra non esiste alcuna crescita esponenziale eterna, col tempo tutto si rivela essere limitato. Questo vale per ogni pandemia, e vale anche per le emissioni di gas serra. Per nostra sfortuna non possiamo prevedere con precisione la traiettoria potenziale di un certo processo quando è ancora nelle sue fasi inziali, perciò la diffusione di SARS-CoV-2 ha esibito differenze sensibili nelle diverse traiettorie nazionali: repentine in alcuni Paesi come l’Italia, straordinariamente lente altrove. Questo è vero anche per le emissioni, che in certe nazioni si sono stabilizzate e sono addirittura in declino da alcuni decenni, mentre in altri Paesi sono ancora in rapida crescita, al punto che nessuno può prevedere con sicurezza la loro traiettoria futura a livello mondiale. Se la pandemia di COVID-19 non è stata sotto l’esclusivo controllo dell’Unione Europea, non lo sarà neanche il riscaldamento globale, nonostante gli innumerevoli piani varati da Bruxelles: in Europa vive solo il 6% della popolazione mondiale, e anche se il vecchio continente dovesse riuscire ad abbattere le proprie emissioni, la Cina, l’India e l’Africa subsahariana – che assieme corrispondono al 50% dell’umanità – continueranno a usare sempre più energia, vale a dire più combustibili fossili, nel prossimo futuro. E questo perché, facendo altrimenti, condannerebbero se stesse a una cronica povertà. Nella prefazione che accompagna l’edizione italiana del libro scrivo che nuovi eventi come la pandemia di COVID-19 ci hanno ricordato quanto sia imprevedibile il nostro futuro e come questi stessi eventi possano modificare improvvisamente molte traiettorie di crescita di lungo periodo.

Il suo libro sulla crescita me ne ha ricordato un altro letto di recente, Rallentare (2021) del geografo sociale Danny Dorling. La sua tesi è che molti dei fenomeni insostenibili che pensavamo in forte espansione hanno da tempo iniziato a decelerare: non che abbiano finito di crescere in termini assoluti, solo non lo fanno più così rapidamente dal momento che la loro crescita relativa scende di anno in anno. E questo è un bene per tutti noi, perché qualcosa che sale mentre sta già rallentando ci intimorisce di meno, e possiamo anche immaginare di controllarlo in qualche modo. A detta di Dorling la Grande Accelerazione ha già cominciato a esaurirsi, stiamo per entrare nel “Grande Rallentamento”. Lei invece sembra avere una visione meno ottimistica.

Non mi pare ci sia nulla di nuovo sotto il sole. Nessun essere vivente cresce all’infinito, ma nemmeno alcun manufatto, struttura o processo: modelli di crescita vincolati caratterizzano lo sviluppo delle macchine e delle capacità tecniche tanto quanto la crescita delle popolazioni e l’espansione degli imperi. Il declino graduale dei tassi di crescita, l’eventuale saturazione e lo stadio stazionario sono l’essenza stessa delle curve a “S”, o sigmoidi, che regolano la crescita della maggior parte dei fenomeni di origine antropica non meno che la crescita degli organismi. Nel mio libro raccolgo decine di esempi di fenomeni reali con tassi di crescita che via via rallentano, assumendo nomi diversi a seconda di alcune proprietà minori che li riguardano. Il loro risultato finale è però sempre lo stesso: la fine della crescita. Come ho scritto, la crescita esponenziale – naturale o antropogenica che sia – è sempre e soltanto un fenomeno temporaneo, che termina per tutta una serie di vincoli fisici, ambientali, economici, tecnici o sociali.

Tra le decine di curve di crescita presenti nel libro, quella cui dedica più pagine riguarda l’economia. Prima della pandemia e della guerra in Ucraina, il Pil a livello mondiale cresceva del 2-3% annuo, con un periodo di raddoppiamento di circa 23 anni. Gli economisti dibattono da tempo su quanti futuri raddoppiamenti siano ancora possibili, ma anche la crescita dell’economia raggiungerà il limite, prima o poi: il fatto è che alla fine della crescita materiale siamo oggi del tutto impreparati. Esiste una via per le prosperità, il benessere e la felicità umana che non implichi il consumo pianeta? Alcuni cercano quella via in avanti, accelerando sulla crescita e il capitalismo “verde”, altri voltandosi indietro, auspicando la decrescita. Tra qualche decennio potremmo scoprire di aver preso la direzione sbagliata.

Non può esistere alcuna civiltà senza consumo materiale, ma nel futuro, con la popolazione che prima smetterà di crescere e poi inizierà a diminuire, potremmo non avere altra scelta che vivere con meno. Quel che osserviamo in questo momento in molti villaggi rurali e piccoli insediamenti urbani in via di spopolamento in Giappone, Romania, Bulgaria, Italia, Spagna e Franca diventerà la nuova norma a livello mondiale: entro la metà di questo secolo anche la popolazione della Cina si ridurrà lievemente, solo l’Africa subsahariana avrà tassi di fertilità relativamente alti ancora per un po’. Non è però la prima volta che accade nel corso della storia: nazioni in declino demografico con migrazioni di massa, squilibri economici e un tenore di vita ridimensionato non sono nulla di nuovo per l’umanità. Eventi di questo genere hanno segnato la nostra esistenza per lunghi e difficili periodi. È vero però che nessuna economia moderna è mai entrata in un periodo di recessione così duraturo e ininterrotto da poter essere visto come una nuova tendenza. L’economia cosiddetta ortodossa non ha ancora nessun modello migliore da seguire di quello basato sulla crescita continua. Nel libro dico che potremmo non conoscere ogni dettaglio di come fare la cosa giusta, ma la direzione delle azioni richieste è chiara: garantire l’abitabilità della biosfera pur mantenendo la dignità umana.

Nel libro scrive che possiamo misurare la crescita in relazione a ogni tipo di variabile, ma la crescita è soprattutto funzione del tempo: serve necessariamente che il tempo passi, affinché la crescita imprima la sua curva. Tutto questo, osserva, è in palese contraddizione con le narrazioni che invocano il mantra di un’innovazione dirompente e immediata. Un esempio è quello della transizione energetica, che non avverrà dall’oggi al domani. Anche lo sviluppo dell’intelligenza artificiale è più lento di quanto non si dica. Ogni volta che guardiamo alle curve di crescita per prevedere il futuro, incappiamo in clamorosi errori di valutazione. In un mare di promesse roboanti, il suo libro è una bussola di prudenza e realismo.

Molti fenomeni contemporanei, come quelli legati all’economia digitale, sembrano esibire tassi di crescita maggiori rispetto ad altri processi del passato, ma è solo un’illusione: nel mio libro la chiamo la fallacia della comparazione. Aspettative esagerate, previsioni indifendibili e ipotesi ingenue di un cambiamento rapido, massivo e generale sono diventate una consuetudine, e i media alimentano queste illusioni (o delusioni?) con un flusso costante di notizie di innovazioni radicali e progressi senza precedenti. Eppure ci vuole così poco per avere una prospettiva più realistica su quel che accade: basta guardarsi attorno, non stiamo volando verso Marte – il 2022 era la data inizialmente prevista da Elon Mask per i suoi viaggi interplanetari –, l’intelligenza artificiale è servita a poco o nulla per prevenire e gestire la pandemia, i destini delle nazioni dipendono come sempre dal capriccio di un uomo forte o insignificante, non esistono ancora processi decisionali governati da reti neurali perfettamente razionali. È troppo sperare che i media si convincano, un giorno o l’altro, a rimanere fedeli alla realtà? Sfortunatamente lo è, il clamore e l’irrazionalità sono destinati a continuare a lungo.

 Segue indice del saggio:

Capitolo 1° - Dinamiche e modelli comuni di crescita

-     orizzonti temporali

-     cifre di merito

-     crescita lineare ed esponenziale

-     modelli di crescita ristretti

-     risultati aggregati della crescita

Capitolo 2° - Natura: la crescita della materia vivente

-     microrganismi e virus

-     alberi e foreste

-     coltivazioni agricole

-     animali

-     uomini

Capitolo 3° - Energia: crescita dei convertitori primari e secondari

-     sfruttare acqua e vento

-     vapore, caldaie, motori, turbine

-     motori a combustione interna

-     reattori nucleari e cellule fotovoltaiche

-     luci e motori elettrici

Capitolo 4° - Manufatti: la crescita degli oggetti creati dagli uomini e delle loro prestazioni

-     strumenti e macchine semplici

-     strutture

-     infrastrutture

-     trasporti

-     dispositivi elettronici

Capitolo 5° - Popolazioni, società, economie: la crescita degli aggregati complessi

-     popolazioni

-     città

-     imperi

-     economie

-     civiltà

Capitolo 6° - Che cosa viene dopo la crescita: fine e continuità

-     cicli di vita degli organismi

-     il declino dei manufatti e dei processi

-     popolazioni e società

-     economie

-     civiltà moderna