domenica 9 luglio 2017

Cosa ci rende umani? - Articolo di Federica Sgorbissa (dalla rivista on.line la Tascabile)


Cosa ci rende umani?

La neuroarcheologia è una “nuova scienza” che mira a scoprire come siamo diventati Homo sapiens.



Articolo di Federica Sgorbissa . (Giornalista scientifica freelance scrive principalmente per le riviste Mente e Cervello e Le Scienze (L’Espresso). Ha diretto la rivista online OggiScienza)


Una donna, seduta, batte energicamente un sasso contro l’altro facendo saltare via alcune schegge di pietra. Sta cercando di ottenere un bordo affilato, simile a un coltello. Nelle settimane precedenti si è esercitata diligentemente e ora riesce a produrre un’ascia olduvaiana abbastanza efficiente. I coltelli in pietra Oldowan – così chiamati perché ritrovati la prima volta nella Gorgia di Olduvai in Tanzania – risalgono a un periodo che si estende fra 2,5 milioni e 250.000 anni fa. La donna di cui parliamo, però, è una nostra contemporanea: è seduta in un laboratorio dell’Università dell’Indiana e indossa una cuffia da cui spuntano decine di fili elettrici collegati a un macchinario. Sta partecipando a uno studio che mette alla prova alcune teorie sull’evoluzione della cognizione umana moderna. Questo, nello specifico, è un esperimento che punta a capire se le strutture neurali che guidano la costruzione delle asce di pietra si sovrappongono almeno in parte a quelle del linguaggio (nel nostro cervello di Homo sapiens contemporaneo e presumibilmente anche in quello dei nostri antenati paleolitici). Secondo l’ipotesi al momento più in voga fra gli studiosi del campo, infatti, i processi cognitivi richiesti per la lavorazione degli utensili in pietra sarebbero stati poi nel corso della nostra storia evolutiva utilizzati anche per il linguaggio. A differenza di altri lavori simili, l’ultimo studio di Shelby Putt non ha rilevato alcuna sovrapposizione di questo tipo nel nostro cervello. La ricerca (pubblicata su Nature Human Behaviour) si inserisce però in un neonato e promettente settore chiamato neuroarcheologia. Il suo “scopo specifico”, spiega la stessa Putt a il Tascabile, “è quello di esplorare l’evoluzione del sistema cognitivo al fine di comprendere meglio la condizione umana”. Secondo i suoi sostenitori potrebbe aiutare ad affrontare problemi che neuroscienze e archeologia separatamente non sono riuscite a risolvere, e “aiutarci a dirimere alcune grandi questioni: cosa ci rende umani, come e perché abbiamo sviluppato un sistema cognitivo che ci permette di parlare, costruire e manipolare strumenti…”. La neuroarcheologia, al momento accolta favorevolmente dagli archeologi (specialmente nell’ambito dell’archeologia sperimentale), è ancora poco considerata dai neuroscienziati, ed è ancora troppo presto, in generale, per dire se siamo di fronte alla nascita di un nuovo e influente filone di ricerca o se si tratti di un nuova voce nella lista delle tante “neuro-qualcosa” apparse in questi ultimi decenni e rimaste poi sullo sfondo. Le promesse, però, sono molto interessanti. In base ai reperti sappiamo che Homo sapiens è apparso, secondo le ultime ricerche, 300.000 anni fa. Gli aspetti comportamentali del nostro stato di “menti sapienti” sono emersi un bel po’ dopo, in particolar modo con l’esplosione culturale dell'alto paleolitico. Perché tutto questo tempo? Stabilire “quando” e “dove” siamo diventati umani, per quanto affascinante e importante, non basta per comprendere la nostra natura. Serve sapere anche, e soprattutto, “come” e “perché”. Unendo i metodi e le teorie delle neuroscienze a quelli dell’archeologia, credono in molti, abbiamo buone possibilità di arrivarci.
Non sono passati nemmeno dieci anni da quando, per la prima volta, si è sentita l’esigenza di far confluire archeologia e neuroscienze in una disciplina ibrida. L’occasione è stata il simposio, dal titolo “The sapient mind: archaeology meets neuroscience”, tenutosi all’Università di Cambridge, che ha riunito i ricercatori che fino a quel momento si erano mossi in maniera più o meno implicita al confine fra le due discipline. Un “atto di fondazione” da cui sono emersi subito alcuni personaggi chiave, tra cui gli organizzatori della conferenza, Colin Renfrew, archeologo, paleolinguista ed esperto di datazione al radiocarbonio dell’Università di Cambridge, e Lambros Malafouris, neuroscienziato con grande interesse per l’archeologia dell’Università di Oxford. Renfrew e Malafouris sono stati anche i curatori di un numero speciale 
della rivista Philosophical Transactions B (edita dalla Royal Society Publishing), che di quell’incontro ha raccolto i contributi più significativi, gettando le basi per gli sviluppi futuri di queste ricerche. “Sotto molti punti di vista, la neuroarcheologia”, spiega a Il Tascabile Dietrich Stout, un’altra figura di spicco nel settore, “è semplicemente l’ultima incarnazione della tradizione inaugurata dall’archeologia cognitiva”. Stout, professore di antropologia dell’Università Emory, negli Stati Uniti, ha condotto numerose ricerche sulla costruzione degli strumenti in pietra ed è autore, insieme a Erin Hecht (che di Stout è stata studente di dottorato e ora lavora alla Georgia State University), di uno dei pochi capitoli dedicati alla neuroarcheologia inseriti in un testo per corsi universitari: “Human Paleoneurology”, edito da Springer.Come spiega Stout, l’archeologia cognitiva, nata intorno agli anni Sessanta e Settanta, si propone di desumere le capacità mentali e gli schemi di pensiero a partire dagli studi archeologici usando le teorie e i metodi delle scienze cognitive. La neuroarcheologia, in modo simile, introduce ulteriore rigore sperimentale, nuovi metodi di indagine high-tech e maggiore attenzione al substrato biologico (il cervello) oltre che alle funzioni cognitive (la mente). La prospettiva evolutiva è oggi un elemento fondamentale in qualsiasi scienza biologica. Nella ricerca sul cervello esiste una lunga tradizione di studi comparativi che, confrontando cervello e cognizione umana con quelli di altre specie, hanno contribuito enormemente a ricostruire alcune tappe dell’evoluzione del nostro sistema cognitivo. Rimangono però molte lacune: “si può certo individuare l’ultimo antenato comune privo di una certa struttura cerebrale o funzione cognitiva, come gli scimpanzé che non possiedono le specializzazioni cerebrali umane per il linguaggio, l’uso degli strumenti e la cognizione sociale,” spiega Stout, “ma questo non risponde alla domanda su come e quando nei successivi 7-8 milioni di anni queste specializzazioni siano emerse”. La neuroarcheologia potrebbe colmare questi vuoti, grazie al supporto dei metodi e delle teorie archeologiche: “L’archeologia può infatti documentare la cronologia, la geografia e il contesto in cui emergono nuovi comportamenti nella nostra specie – e in quelle antenate”, precisa Stout. Per chiarire i passaggi, è utile un esempio concreto. La lateralizzazione cerebrale è una caratteristica importante del nostro cervello: le funzioni cognitive sono distribuite in maniera asimmetrica, con le aree del linguaggio poste principalmente nell’emisfero sinistro. La predominanza dell’uso della mano destra è un indizio visibile di questa lateralizzazione. Possiamo allora chiederci se siamo stati sempre destrimani o se questa specializzazione è emersa a un certo punto nel corso della nostra storia evolutiva. Per rispondere a questa domanda è possibile osservare i reperti archeologici. Secondo uno studio di Nicholas Toth, del 1985, la forma delle asce preistoriche risalenti a 1,5 milioni di anni fa dimostra una leggera preferenza nell’uso della mano destra (circa il 56%), mentre l’analisi di record più recenti, le pitture rupestri risalenti a circa 30.000 anni fa ritrovate in Francia e Spagna, mostrano che circa il 75% degli individui che le hanno disegnate usava la mano destra. Queste e altre osservazioni supportano l’idea che la preferenza per la mano destra si è evoluta nel corso della storia umana, suggerendo la possibilità di una lateralizzazione cerebrale progressiva, con conseguenze forse sullo sviluppo del linguaggio. Gli strumenti dell’archeologia, che grazie alla replicazione sperimentale e all’analogia etnografica permettono ai ricercatori di formulare ipotesi sui comportamenti che gli oggetti implicano (l’uso della mano destra o sinistra), si intrecciano con quelli delle neuroscienze (le conoscenze sulla lateralizzazione cerebrale) e ci permettono di raccontare una storia che con altri metodi non sarebbe possibile ricostruire. L’archeologia ha sviluppato metodi precisi e codificati  per dedurre i comportamenti umani dallo studio degli oggetti. Questo “focus” sull’oggetto potrebbe essere la carta che la neuroarcheologia può giocarsi per guadagnare una posizione di rilievo all’interno delle neuroscienze. Per capire questo passaggio è forse utile un breve ripasso nella storia recente degli studi scientifici su mente e cervello. Nella seconda metà del secolo scorso dominava l’approccio cognitivista: la mente è un sistema di elaborazione di simboli astratti. Le informazioni raccolte dai sistemi sensoriali, che mantengono una forma di analogia con il mondo materiale, vengono codificate ed elaborate in forma simbolica, astratta, del tutto slegata dalla natura materiale dell’input. Pensiero e mondo esterno sono perciò cose del tutto diverse. In reazione a questo approccio negli ultimi decenni, a partire diciamo dagli anni Novanta, ha preso piede un nuovo paradigma, solitamente identificato con il termine di embodied cognition, cognizione incorporata (ma si parla anche di grounded cognition, di extended mind, ecc.) che dà grande risalto all’aspetto “materiale” della cognizione umana. Secondo questo approccio, la mente anche a livello di codifica ed elaborazione mantiene un’analogia con la stimolazione sensoriale (o l’output motorio). Secondo le teorie incorporate per esempio, quando dobbiamo comprendere la parola che indica un colore nel nostro cervello si attivano anche le aree percettive che elaborano il colore. Appare dunque chiara l’importanza degli oggetti nelle neuroscienze più recenti, che vedono nel mondo materiale un elemento fondante delle funzioni cognitive. Secondo le versioni più “spinte” di questi approcci, gli oggetti creati dall’uomo sarebbero allo stesso tempo prodotti ed estensioni del sistema cognitivo. “Come le tavolette micenee ”, spiega Stout, utilizzate come documenti contabili, “che diventano, secondo alcuni studiosi, estensioni della memoria di un sistema cognitivo che include lettura e scrittura fra le sue funzioni”. Alcuni neuroscienziati “di razza” hanno già fatto incursioni “neuroarcheologiche”, come Ramachandran Vilayanur, che nel 2000 ha suggerito che l'esplosione culturale dell'alto paleolitico possa essere spiegata con i neuroni specchio(che avrebbero favorito l’apprendimento per osservazione). “Il futuro della neuroarcheologia come una semplice nicchia all’interno dell’archeologia o come una scienza a sé stante alla fine dipenderà dalla sua rilevanza rispetto ai problemi e alle agende scientifiche dei neuroscienziati”, spiega Stout. Che aggiunge scherzando: “Se lo chiedete a me naturalmente vi dirò che non ci sarà mai abbastanza attenzione. Ma, seriamente, devo dire che mi fa molto piacere vedere come la curiosità stia aumentando e, soprattutto, che ci sia sempre maggiore interesse da parte della comunità scientifica a collaborare con noi neuroarcheologi”.

domenica 2 luglio 2017

Che fine hanno fatto le classi sociali? - Articolo di Denise Celentano


Che fine hanno fatto le classi sociali?



Articolo di Denise Celentano  (studiosa di filosofia politica. Attualmente svolge un periodo di ricerca all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi) tratto dal sito “lasinistrainrete”


Qualcuno ricorderà il gioco da tavolo Taboo, nel quale i partecipanti devono indovinare una certa parola senza mai pronunciarla ma evocandola in vari modi. Nello stesso modo il dibattito pubblico sembra impegnato da qualche anno in un’elaborata partita di Taboo pur di non pronunciare una certa parola. Chi la pronunciasse rischierebbe di essere accusato di passatismo, d’intenti polemici, o ancora di voler semplificare troppo le questioni sociali; eppure ce l’abbiamo tutti sulla punta della lingua, pronta a scappar fuori. È la parola “classe”. Ma cos’è successo a questo termine, dalla storia lunga e gloriosa? Oggi per poter dire la stessa cosa – che non siamo tutti uguali, che c’è chi ha di più e chi ha di meno, e che questo rende sin dall’inizio i nostri destini diversi – si tende a preferire termini come «diseguaglianza» o «strati sociali», che assegnano alla questione un’aria neutralmente statistica. Perché con la classe non vogliamo fare i conti. Nel suo bestseller intitolato Chavs. The Demonization of the Working Class, Owen Jones ha notato che se nel Regno Unito commenti razzisti o omofobi sono ormai da tempo banditi, lo stesso non si può dire di espressioni classiste come chav, grossomodo traducibile con ‘tamarro’ o ‘poveraccio’ — al punto che il termine può essere utilizzato pubblicamente senza conseguenze. La stessa strana coesistenza di progressismo e classismo emerge dal racconto di Bell Hooks, che in Where We Stand: Class Matters osserva come negli Stati Uniti l’argomento delle classi sia diventato uncool: i suoi vicini del Greenwich Village, prevalentemente bianchi e benestanti, non esitano a celebrare la diversità e il multiculturalismo, ma quando si viene alle classi e ai soldi non possono fare a meno di sentirsi «scelti, speciali, meritevoli» – a differenza dell’ingiustizia razziale, del sessismo o dell’omofobia, la questione non suscita in loro il minimo dubbio morale. Forse si potrebbe liquidare la questione con le lapidarie parole di Beverly Skeggs: le classi sono ignorate da chi ha il privilegio di poterle ignorare. Evidentemente, al fenomeno di “imbarazzo delle classi”, come lo ha chiamato Andrew Sayer in The Moral Significance of Class, sembra associarsi una forma di indignazione selettiva, a seconda che si tratti di ‘diversità culturali’ o di classe. L’idea stessa che le classi non esistano più riemerge regolarmente, giustificata dai più diversi argomenti. Si è parlato di una ‘cetomedizzazione’ della società – si pensi al Tony Blair di “we’re all middle class now” –, e di una generalizzazione di stili di vita prima riservati a fasce più ristrette di persone; una tesi piuttosto difficile da sostenere dopo la fine del Boom economico e a fronte della crescente polarizzazione delle diseguaglianze globali. Altri hanno parlato di “individualizzazione”: secondo Ulrich Beck, a fronte della logica sempre più individuale della modernità, quella di classe sarebbe una “categoria zombie” cui riservare degna sepoltura. Un “capitalismo senza classi”, dove ciascuno costruisce da sé la propria biografia, prenderebbe il posto dei vecchi pattern di diseguaglianza.Che l’argomento delle classi tenda a essere rimosso, contestato o a comportarsi come un tabù, ci dice qualcosa del nostro tempo, ma è forse anche un indicatore della natura stessa delle classi. Come ha scritto Bourdieu, “finché ci saranno classi, ‘classe’ non sarà una parola neutrale. La questione dell’esistenza o non esistenza delle classi è essa stessa una posta in gioco nella lotta fra le classi”. La questione non si lascia derubricare a diatriba terminologica o sociologica, tendendo a sconfinare sul piano politico. In seno alla sinistra da diversi anni si dibatte attorno alla necessità di superare le vecchie tassonomie per privilegiare nuove e più scrupolose mappature dell’ineguaglianza – razza, genere, eccetera – oppure al contrario di ritornarvi per restare fedeli a una visione che mantiene al suo cuore il dato economico. Non è da sottovalutare la natura politicamente divisiva del concetto. “La nozione di classe è carica di passioni e di equivoci […] chi pretende di essere senza pregiudizi su questo argomento non è creduto”, ha scritto Raymond Aron. Da questo punto di vista, l’idea che “il concetto di classe è un concetto comunista” di Margaret Thatcher (verosimilmente per lo stesso motivo per cui “la società non esiste”) sembrerebbe interpretare un sentimento diffuso: la parola tende a evocare un immaginario socialista che, a quasi trent’anni dalla Guerra fredda, appare ai più sbiadito e anacronistico. Indubbiamente il marxismo è molto esigente con le classi: esse non sono mere categorie sociologiche, ma le protagoniste di un conflitto considerato come il motore della storia (“la storia è una storia di lotte di classi”), da superare in vista dell’obiettivo di una “società senza classi”. Nel marxismo tradizionale il soggetto dell’emancipazione è inoltre chiaramente distinguibile, trattandosi della classe operaia. Si direbbe allora che le classi sono passate di moda perché il marxismo è passato di moda. Oggi, una simile filosofia della storia non è più accettabile; a fare problema è la promessa stessa di un’emancipazione universale. L’idea che un soggetto collettivo possa essere considerato speciale detentore di prerogative politiche in virtù della propria posizione, non è più difendibile nemmeno per i progressisti. Ernesto Laclau e Chantal Mouffe lo scrivevano già trent’anni fa in Hegemony and Socialist Strategy, preferendo alla lotta di classe il modello di una conflittualità sociale più fluida, aperta e irriducibile a schemi. La sinistra intellettuale ha fatto i conti con questo problema in più modi, preferendo categorie come “egemonia”, “moltitudine” o “populismo” a seconda dei casi. In questo contesto, in cui le classi sono diventate un problema più sociologico che politico (i dibattiti accademici sui confini della classe media sono un esempio), l’idea di emancipazione di classe finisce per individualizzarsi, potendo al massimo ambire a una strategia privata di autodifesa dal declassamento, come nelle transclasses di Chantal Jaquet: risposte solitarie all’ingiustizia di classe che nell’atto stesso di negare le classi, le riconfermano. Evidentemente, quel che fa problema della classe è la sua interpretazione politica: l’idea che sia associabile a qualche forma di ‘emancipazione’. Le opinioni sul tema sono fortemente condizionate dalla definizione, non sempre resa esplicita, di che cosa debba intendersi con ‘classe’. Se si intende l’idea di una coscienza di classe o di un forte senso di appartenenza a un gruppo sociale, chiamando in causa l’azione politica collettiva, è facile dire che le classi non esistono più. (A poco serve ricordare che persino nel marxismo l’idea di una ‘coscienza di classe’ è concettualmente distinta da quella di classe). Del resto, non solo il marxismo non detiene il monopolio del concetto di classe, che è stato utilizzato e reinterpretato da diverse tradizioni – si pensi a Weber, Dahrendorf, Bourdieu –, ma persino nell’ambito dello stesso marxismo è stato fatto negli ultimi decenni un notevole sforzo di riattualizzazione, per liberarlo da ogni residuo di dogmatismo e filosofia della storia. Da questo punto di vista, se alcuni hanno preferito abbandonare il concetto di classe, altri si sono presi la briga di ripensarlo. È il caso di Erik Olin Wright, che di recente ha sostenuto la necessità di superare le vecchie “battaglie fra paradigmi”, in favore di un pragmatismo capace di integrare in un unico modello letture solitamente ritenute incompatibili. Anziché posizionarsi sull’uno o l’altro fronte della guerra fra weberiani e marxisti, secondo Wright occorre prendere quanto c’è di buono in ogni tradizione a seconda delle domande a cui vogliamo rispondere: If Class is the Answer, What is the Question?, è il titolo eloquente di un capitolo da lui scritto nel 2005. Parafrasando ironicamente un noto passaggio di Marx, per il sociologo americano si può essere “weberiani per la descrizione della mobilità di classe, bourdieusiani per i fattori determinanti gli stili  di vita, e marxiani per la critica del capitalismo”. La società è cambiata, e con essa la geografia delle classi: la vecchia classe operaia non esiste più nelle forme tradizionali. Non solo sono venute meno, in Occidente, le condizioni materiali per la sua esistenza – la terziarizzazione dell’economia, la delocalizzazione delle industrie nei paesi dove il lavoro costa meno –, ma quel che oggi rimane della vecchia working class sembrerebbe godere di una posizione di relativo privilegio. Secondo Guy Standing, il suo erede ideale sarebbe il “precariato”, una classe emergente sorta da specifiche scelte economiche compiute a livello globale in favore della deregolazione del lavoro. A differenza del proletariato tradizionale, protetto da un sistema di diritti e dai sindacati, i precari incarnerebbero un inedito movimento di regressione nell’esercizio dei diritti di cittadinanza. Farebbero parte del precariato tre distinte componenti sociali talvolta in conflitto fra loro: i “non-cittadini”; i figli della classe operaia in via di declassamento, dotati di scarsa istruzione e facilmente sedotti da programmi politici conservatori; i giovani istruiti cui era stato promesso un futuro interessante ma che ora si trovano trascinati in un generale stato di “frustrazione da mancato status”. Questo esercito di figli della classe media divisi fra gig economy ed emigrazione all’estero vivrebbe una peculiare condizione esistenziale di scollamento fra aspirazioni e realtà, entro il contesto di un generale abbassamento della soglia di ciò che si può realisticamente pretendere. Del resto, se la classe funziona come un filtro selettivo, come un recinto invisibile che circoscrive preventivamente il campo di ciò che è ragionevole aspettarsi (“il campo del possibile” di Bourdieu), la dialettica di rinegoziazione fra i due poli della traiettoria – le aspirazioni e la realtà, appunto – tipica di ogni esperienza di classe, diventa particolarmente dolorosa nel caso del declassamento. Si tratta di una forma di malessere che Raffaele Ventura, facendo il verso a Veblen, ha catturato con l’espressione “classe disagiata”: si tratterebbe di una “classe aspirazionale”, che nel continuare a desiderare quello che non può più avere trova il suo tratto distintivo. Il rapporto fra classe percepita e classe reale, per così dire, si è sfalsato. Vincent de Gaulejac chiamava névrose de classe la crisi d’identità di coloro che hanno fatto l’esperienza di migrare da una classe all’altra. Tuttavia, il tono patologizzante ed eccezionalista dell’espressione sembra difficile da applicare a una realtà che somiglia oggigiorno alla norma più che all’eccezione. Di frattura generazionale parla anche Mike Savage nel libro Social Class in the 21st Century, in cui sono riportati i risultati del Great British Class Survey del 2013 commissionato dalla BBC sulle nuove strutture sociali del Regno Unito. Significativamente, all’estremità inferiore della mappa di sette classi emersa dallo studio guidato da Savage troviamo il precariato. Secondo Savage, la categoria rilanciata da Standing consente di porre l’accento sulla collocazione strutturale di questo gruppo sociale, evitando giudizi di valore e stigmatizzazioni. Si presta a riempire un vuoto sociologico e politico: quello lasciato aperto dal declino della working class tradizionale. Savage riflette sulla questione generazionale sottolineando come la possibilità di accumulare capitali nel tempo – non solo economici, ma anche culturali, sociali e simbolici – costituisca una fonte di specifici vantaggi: in linea di principio, una persona anziana gode di un vantaggio competitivo rispetto a una persona giovane già per il sol fatto di avere avuto più tempo a disposizione (un capitale temporale?). Vale a dire che se la classe ha a che fare con i “diritti preventivi sul futuro”, come diceva Bourdieu, è per via dei vantaggi cumulativi del passato. È questa la ragione per cui non basta per così dire ‘vincere al lotto’ per cambiare classe sociale, quasi fossero un paio di infradito. Le classi non corrispondono semplicemente a fasce di reddito o a categorie occupazionali: come scrive Savage, le classi sono “cristallizzazioni di vantaggi”: i marxisti direbbero che il reddito è solo un effetto dei rapporti di produzione, e che confonderlo con le classi è un modo di scambiare le cause per le conseguenze. L’enfasi sullo scollamento dell’individuo da gruppi e strutture accomuna molte riflessioni, al punto da poter essere considerata una vera e propria tendenza culturale del nostro tempo. Si direbbe che faccia parte di un orientamento eterogeneo che, a partire almeno dagli anni Ottanta, ha attaccato da ogni parte il concetto di classe. Quel che è interessante notare, è che tali riserve non sono affatto una prerogativa liberale o conservatrice. Fra i maggiori critici del concetto di classe troviamo in prima linea i progressisti. Protagonisti di questo deflazionamento generale del concetto di classe sono stati, a vario titolo e in modi diversi, il femminismo, il post-marxismo, le filosofie post-moderne, nell’ambito di un doppio movimento che va dall’arena politica all’accademia e viceversa. Dalle classi, l’accento si è progressivamente spostato su categorie come ‘soggettività’, ‘identità’, ‘differenze’, contribuendo a ridisegnare il vocabolario politico a disposizione nel senso di una politica delle identità. Com’è noto, questo slittamento nella sensibilità pubblica dalla “politica delle classi” ai ‘conflitti culturali’ ha preso il nome di “svolta culturale”: l’idea che la categoria di classe fosse insufficiente si è progressivamente imposta, per dare spazio ad analisi e riflessioni ispirate a categorie alternative. In questo contesto, le teorie del riconoscimento hanno svolto un ruolo strategico nel fornire un lessico alternativo, capace di reinterpretare la “grammatica morale” (Honneth) dei conflitti in un modo che l’idea della lotta di classe non riusciva più a rappresentare. L’idea di fondo è che le categorie economiche non siano sufficienti: a essere ripartite in modo diseguale non sono soltanto le risorse, ma anche il rispetto e la considerazione sociale. Honneth esponeva la sua teoria in un libro molto fortunato, Lotta per il riconoscimento, nello stesso anno – il 1992 – in cui il filosofo canadese Charles Taylor poneva il concetto di riconoscimento al centro di una riflessione sul multiculturalismo e sulle identità, anch’essa di grande risonanza. Attraverso due letture del riconoscimento diverse fra loro – come bisogno umano universale il primo, come rivendicazione culturale il secondo – l’idea di riconoscimento ha contribuito a dare voce a istanze che premevano da tempo e rispetto alle quali il lessico delle classi appariva inadeguato. In questo contesto, almeno due tipi di discorso hanno finito per contendersi il terreno. Un tipo di discorso tende a ridimensionare l’idea di classe o a squalificarla come un relitto dell’“economicismo”. Il concetto di classe è considerato socialmente angusto e politicamente superato. In generale, questo discorso definito a seconda dei casi identitario o culturalista include uno spettro eterogeneo di posizioni, che vanno idealmente dalla rivendicazione identitaria alla negazione di ogni statuto di esistenza alle stesse identità – ridotte ad atti performativi – di Judith Butler. Se la critica femminista ha mostrato che le diseguaglianze di genere seguono una logica autonoma, irriducibile a quella di classe, i post-marxisti hanno insistito sul carattere politicamente limitato dell’idea di classe. A questo discorso se ne oppone un altro, che difende i diritti sociali e insiste sul primato dei conflitti economici. Si potrebbe sintetizzare questa posizione con il noto detto (attribuito a Sanguineti): “va bene la pornografia, va bene il femminismo, ma torniamo alla lotta di classe”. Un po’ come dire, ‘torniamo alle cose serie’. La vecchia idea di una gerarchia fra questioni ‘strutturali’ e questioni ‘sovrastrutturali’ sembra riemergere nella forma di una delegittimazione dei conflitti culturali o di una loro riduzione a conflitti di classe in ultima istanza. Essi vengono derubricati alla sezione ‘cultura’ della società, dove per cultura si intende qualcosa di politicamente irrilevante o secondario. Nella sua versione più mediatica e popolare, l’idea è che si debbano mettere da parte le questioni di genere, sessuali, culturali per tornare a occuparsi dei ‘veri problemi’. A sostegno di questa tesi non mancano letture banalizzanti e caricaturali, che accusano per esempio i difensori dei diritti LGBT di complicità con il capitalismo mascherata da progressismo. Si dice che questi darebbero una rappresentazione mercificata delle identità come di qualcosa che si compra al supermercato, contribuendo ad asservire alla logica del mercato quello che volevano emancipare. Judith Butler ha risposto alle accuse di “culturalismo” con un saggio significativamente intitolato Merely Cultural. Secondo Butler, il presupposto delle critiche è una discutibile distinzione fra “vita materiale” e “vita culturale”, che risponderebbe a una tattica della “sinistra egemonica” intesa a squalificare i nuovi movimenti sociali. Dietro queste critiche vi sarebbe una forma di “conservatorismo sociale e sessuale”. È interessante notare come ciascuno dei due discorsi concorrenti tenda talora ad opporsi a quella che appare una rappresentazione caricaturale dell’avversario, più che l’avversario in sé. I “culturalisti” attaccano il presunto economicismo delle classi in un modo che tende a ignorare deliberatamente gli sforzi fatti da molti di riattualizzare il concetto. Per parte loro, i difensori dei diritti sociali non prendono sul serio l’idea che l’esclusione dal riconoscimento sia politicamente rilevante e non può essere derubricata a epifenomeno della lotta di classe. Squalificare come ‘non politiche’ queste istanze fa il paio con la pretesa di detenere il monopolio della ‘giusta rivendicazione’, e i confini di ciò che è legittimo considerare politico diventano essi stessi una posta in gioco, come argomento da mobilitare nell’agone o come titolo preventivo a prenderne parte. In questo quadro, ciascuno si costruisce il nemico a immagine e somiglianza di ciò che è più congeniale alle proprie intenzioni polemiche. A riportare costantemente il dibattito in un cul de sac è la logica dicotomica di fondo, condivisa tanto dai difensori dell’‘economico’ quanto dai partigiani del ‘culturale’ o come dicono i francesi del ‘sociale’ e del ‘societale’. Rappresentandosi come mutuamente alternativa l’una all’altra, ciascuna prospettiva non fa in realtà che riprodurre la logica dell’avversario, riconducendo la ‘vera questione’ ora all’uno ora all’altro polo del dualismo. L’idea che le lotte di classe e le lotte per il riconoscimento possano essere dissociate, non solo le rende entrambe politicamente vulnerabili, ma tende a trascurare la natura ambivalente degli stessi fenomeni sociali. Il fatto, cioè, che la realtà non funziona per compartimenti stagni. A completare il quadro è il gioco di reciproche appropriazioni di categorie politicamente cariche, come riflesso del conflitto intorno a cosa debba intendersi per ‘sinistra’. Se i difensori dei diritti sociali accusano i “culturalisti” di prestare il fianco al capitalismo, e quindi di credersi di sinistra perseguendo in realtà dei fini di destra, essi stessi vengono a loro volta accusati di perseguire una visione conservatrice della famiglia e della società nel delegittimare le lotte per il riconoscimento, pur credendo di difendere un’interpretazione ‘più autentica’ della sinistra. Negli ultimi anni, questa tendenza è stata messa in luce in contesti diversi. Si pensi, per esempio, a quello che Nancy Fraser ha chiamato “neoliberalismo progressista” (progressive neoliberalism) per indicare la strumentalizzazione in senso conservatore di principi egualitari, di cui il clintonismo è un esempio; o anche all’idea di “femonazionalismo” proposta da Sara Farris per descrivere l’uso xenofobo di categorie femministe e che ricorda quella di “omonazionalismo” proposta da Jasbir K. Puar per il discorso LGBT. Questa curiosa forma di strabismo politico è peraltro all’origine di fenomeni come il “rossobrunismo”, in cui il rimescolamento categoriale diventa oggetto di esplicita rivendicazione e identificazione. Questi ibridi politici sono possibili da che la politica di classe e la politica dell’identità hanno divorziato. Il fatto che si possa difendere la parità di genere disancorandola da preoccupazioni distributive, rende possibile un’interpretazione individualistica e antiegualitaria di un’idea nata per essere inclusiva. Difendere il “multiculturalismo” senza una consapevolezza circa la subordinazione economica di gruppi sociali sulla base della stessa diversità che si voleva valorizzare, significa sancire la perfetta, paradossale compatibilità fra antirazzismo e classismo che abbiamo visto negli esempi di Owen Jones e Bell Hooks. Il “culturalismo” da solo non ha i mezzi per rispondere a questo cortocircuito. Prese da sole, le sue categorie sono politicamente vulnerabili a interpretazioni di tipo escludente, compatibili con un’idea di emancipazione “per pochi”. Senza una politica di classe, idee come ‘diversità’ e ‘non-discriminazione’, come ha scritto Nancy Fraser, sono suscettibili di appropriazione indiscriminata. A sua volta, la politica di classe da sola rischia di essere compatibile con una visione conservatrice della società. Senza prendere sul serio le lotte per il riconoscimento, in linea di principio nulla impedisce a un sostenitore della ‘lotta di classe’ e dei diritti sociali di abbracciare una visione fortemente gerarchica dei sessi, o di sostenere politiche economiche ispirate al principio «prima gli italiani». A questa specie di lotta intestina del pensiero progressista fra le sue due anime, occorre rispondere rifiutando la logica dicotomica di fondo che concepisce i due discorsi come mutuamente esclusivi. Si tratta della soluzione proposta da Nancy Fraser nel dibattito con Axel Honneth in Redistribution or Recognition? del 2003, e ben sintetizzata dallo slogan “no recognition without redistribution”. Le lotte di classe e le lotte per il riconoscimento vanno considerate insieme, sono “co-essenziali”. Tanto più che l’idea di una staccionata fra l’‘economico’ e il ‘culturale’, che costituisce il presupposto logico dell’intero dibattito, non funziona. Descrivere le classi, le identità o gli status come rappresentative dell’uno o dell’altro dominio non rende giustizia al fatto che il confine fra questi stessi domini appare difficile da tracciare. La classe presenta una importante dimensione simbolica, culturale e morale oltre che economica. Come ha scritto Annette Kuhn, “class is under your skin” (la classe è sotto la pelle): la provenienza sociale delle persone si manifesta nel loro modo di parlare, di vestirsi, di mangiare, di stare fra gli altri. Dobbiamo anche a Bourdieu l’idea che i conflitti fra classi non siano esclusivamente finalizzati a vantaggi economici, ma anche a profitti simbolici. Già Richard Sennett e Jonathan Cobb in The Hidden Injuries of Class avevano messo in luce la dimensione irriducibilmente ‘morale’ delle classi. Queste e altre considerazioni rendono problematico ogni tentativo di attribuire alle classi una natura esclusivamente economica. Quanto detto per la classe vale anche per altre categorie generalmente considerate ‘culturali’ o simboliche, come quella di ‘razza’ (da intendersi, ovviamente, non in senso biologico), che oltre a rispondere a una logica di dominio ed esclusione culturale, si lega a specifiche ingiustizie economiche – si pensi, per esempio, ai lavori meno desiderati riservati ai migranti. A sua volta, sottolinea Fraser, il genere si comporta come una categoria doppia, perché non descrive soltanto forme di svalutazione simbolica delle donne, ma struttura anche la divisione del lavoro, per esempio attribuendo alle donne l’intero carico del lavoro di cura. Infine, il prestigio o lo status sociale degli individui è esso stesso suscettibile di funzionare secondo una logica economica: le cosiddette ‘economie reputazionali’ dove l’approvazione sociale funziona come un capitale da accumulare, come una forma di compensazione psicologica e simbolica alternativa a quella materiale (di cui tuttavia non smentisce la logica di fondo), sono esempi in tal senso eloquenti. La questione continua ad attraversare il dibattito pubblico, con una destra che pretende di appropriarsi delle questioni economiche mentre la sinistra sembra vivere una profonda crisi d’identità. Ma in questa confusione è bene tenere a mente due cose: la prima è che l’attenzione della nuova destra — alt-right o rossobruni che dire si voglia — per le questioni ‘sociali’ appare perlopiù subordinata al fine più urgente e realizzabile di combattere  le rivendicazioni ‘societali’ relative al genere e alla razza, e si squaglia come neve al sole al momento di farsi politica concreta; la seconda è che l’esistenza stessa di una dicotomia tra ‘sociale’ e ‘societale’ è stata prodotta con precise finalità politiche e le energie spese per riconfermarla potrebbero essere meglio investite nel tentativo di tenere assieme queste due dimensioni.

La parola del mese - LUGLIO 2017


La parola del mese
 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
LUGLIO 2017
 In questa fase storica, così travagliata e complicata, appare evidente la necessità di mantenere  su ogni questione, per quanto dirompente, aperto ed attivo il confronto, il dialogo. Perché questo possa avere luogo in modo fruttuoso è però indispensabile essere certi, usando un modo di dire ormai classico, di “parlare la stessa lingua”. Ma siamo certi quando pronunciamo la stessa parola di intendere la stessa cosa? Peri rispondere a questa domanda  abbiamo scelto come parola del mese ……

INDICALITA’

Non è facile trovare la parola “indicalità” nei comuni vocabolari. Essa infatti è stata originariamente utilizzata nell’ambito di una teoria sociologica, l'etnometodologia:. una scuola sociologica che si muove in dissenso con la tradizione ufficiale sociologica ed il cui fondatore è stato Harold Garfinkel con la pubblicazione nel 1967 dei suoi Studi etnometodologici  L'etnometodologia si fonda principalmente su due concetti che hanno ripercussioni importanti sul modo di intendere l'agire sociale: l'indicalità e la riflessività. Se il concetto di riflessività si rifà all'idea che un'affermazione è riferibile solo a sé stessa e non fa riferimento a nessuna realtà diversa da sé stessa, vale a dire che non esiste una realtà oggettiva e modi di osservarla per descriverla, ma che ogni osservazione costituisce la realtà stessa (appare evidente il parallelo con la funzione ed il ruolo dell’osservatore esterno nell’ambito della fisica teorica) , il termine indicalità sta a significare che nessuna affermazione può avere un significato indipendente dal suo contesto. Il senso di ogni affermazione contiene qualcosa in più rispetto al significato letterale perché la sua comprensione avrà modalità diverse in contesti diversi. Ultimamente la parola indicalità si è però espansa, ad iniziare dall’ambito filosofico, in senso lato al fine di  indicare
……………… la caratteristica posseduta da certe particolari parole  di avere un significato diverso ogni volta che sono pronunciate. Un significato che è determinato da dove, da come, da quando, da chi sono pronunciate.
Non è un neologismo per indicare una sorta di nuova Torre di Babele, ma la sottolineatura che termini all’apparenza banali possono mutare radicalmente significato a seconda del contesto in cui sono utilizzati, ovvero del contesto nel quale essi sono state assimilati e quindi fatti propri. Forse per “parlare la stessa lingua” è bene sforzarci di capire le diversità anche profonde che stanno dietro termini, foneticamente identici, ma con valori “significanti” differenti.