venerdì 26 maggio 2017

La chiave a stella - commento di Demetrio Paolin al libro di Primo Levi


La chiave a stella

L’importanza del lavoro
nell’opera di Primo Levi.



Articolo (tratto dalla rivista on-line “La Tascabile”) di Demetrio Paolin vive e lavora a Torino. Ha pubblicato il romanzo Il mio nome è Legione (Transeuropa, 2009), i saggi Una tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana (il Maestrale, 2008) e Non fate troppi pettegolezzi (LiberAria, 2014) e diversi studi critici su Primo Levi. Ha collaborato con il “Corriere della Sera” e “il Manifesto”.





La chiave a stella come molte delle altre opere leviane si nutre di un perpetuo dialogo con gli altri suoi testi. Quando affrontiamo uno scritto di Levi, ci viene alla mente l’immagine del formicaio (una felice definizione di Alberto Cavaglion) ovvero di una serie di testi che sono uniti gli uni agli altri e che comunicano profondamente. Non sto, in questa sede, sostenendo che Levi abbia scritto sempre lo stesso libro o un solo libro declinato in modo diverso, ma che esiste nell’autore torinese una precisa tensione interna a tenere insieme tutta la sua bibliografia. Tornando al romanzo, in esso si raccontano alcuni episodi della vita di Libertino Faussone, montatore di gru che si trova, in una remota provincia della Unione Sovietica, a dividere le giornate libere con un chimico italiano, che non si fatica a riconoscere come Levi. Parlare di questa opera che come semplice racconto del “lavoro” non dà l’idea della complessità del testo, che nella migliore tradizione dello scrittore torinese è in primo luogo un ritratto a tutto tondo di un uomo, a partire della sua parlata. La lingua di Faussone non è una semplice riduzione scritta del parlato piemontese (gli anacoluti, le costruzioni del parlato riportate nello scritto) ma è anche l’irruzione del linguaggio tecnico nell’ordine del discorso, come ad esempio “smerigliare”, “bavature”, “bombé” etc etc. E questo non deve stupire perché fin da Se questo è uomo Levi è stato ammaliato dalle lingue parlate e da quel senso di babelica confusione che si respirava nel lager. Un uomo si descrive in primo luogo dalla lingua che usa e dal modo in cui esso la usa e, infatti, non è un caso che il suo interlocutore, Levi stesso, dica: “Ha un vocabolario ridotto e si esprime spesso attraverso luoghi comuni, che forse gli sembrano arguti e nuovi”. Faussone ama raccontare le storie, ma il suo modo di raccontarle non è un modo letterario o narrativo, tutt’altro. Non obbedisce alla regole della buona narrazione: “Non è un grande raccontatore: è anzi piuttosto monotono, e tende alla diminuzione e all’ellissi come se temesse di apparire esagerato, ma spesso si lasica trascinare, ed allora esagera senza rendersene conto”. Imperfezioni che generano simpatia, condivisione: Levi non lascia nulla al caso. Anche il cognome del protagonista contiene una serie di suggestioni. Alle nostre orecchie, abituate alla parlata piemontese, la parola “faussone” suona simile a “faus” ovvero un aggettivo molto usato nel dialetto per significare “falso” o “finto”. Questa spia linguistica è molto interessante perché introduce il tema dell’impostura, che è uno dei nodi nevralgici dell’opera leviana. Si pensi solo a una poesia come Cuore di Legno, in cui viene descritto un ippocastano che vive nei piccoli spazi di un corso di Torino e conduce una esistenza di impostura, fingendo di vivere come il suo fratello di montagna, ma che in realtà produce frutti non buoni da mangiare. Il vivere in vece di tornerà fortissimo ne I sommersi e salvati (nel capitolo La vergogna), quando Levi metterà sotto la sua spietata lente d’ingrandimento quel sentimento del male di sopravvivere, ovvero di quello che vivono molto sopravvissuti che si sentono liberi ma non redenti. A questo punto anche il nome di battesimo di Faussone Libertino assume una diversa connotazione per il lettore, quasi a segnare l’idea non solo di una libertà falsa o sbagliata, ma proprio diminuita. Ci sono almeno due racconti, dei tanti dell’epopea di Faussone, che descrivono questa sorta di inquietudine, legata a quando le cose vanno male. Il primo è il capitolo introduttivo intitolato Meditato con malizia (che riprende un verso di Eliot) e un altro intitolato Il Ponte, che tra l’altro riprende il tema di una poesia coeva al libro. Ne Il Ponte come altre volte Faussone ha fatto il suo lavoro al meglio e ne è molto orgoglioso e così insieme agli altri lavoratori guarda l’opera della sua fatica.

Ero anche io sul punto, a metà della prima campata, e oltre al fresco ho sentito due altre cose che mi hanno fatto restare lì bloccato come un cane da caccia quanto punta ho sentito il ponte che mi vibrava sotto i piedi, e ho sentito come una musica […]. Mi sono sentito inquieto, […]: forse sarà anche questo un effetto del nostro mestiere, ma le cose che vibrano a noi ci piacciono poco.

C’è inquietudine in queste parole, una sorta di maleficio – il termine malizia, con cui si apre il libro, è ripetuto molte volte e indica proprio il momento in cui l’opera di ribella al montatore –, che anche Faussone non può far a meno di registrare. Noi lettori la percepiamo come un’angoscia che ogni cosa nel mondo prova su di sé e che Levi definisce come vergogna, un sentimento complesso simile all’angoscia primigenia, che pervadeva il cosmo come raccontata nei Sommersi e i salvati. Questo continuo andirivieni di temi coincidenti tra la narrazione del lager e queste storie di lavoro, ci interroga su quanto di Levi ci sia in Faussone. È chiaro che l’interlocutore che non viene mai nominato sia appunto Levi, e nel corso del libro più volte vengono chiariti alcuni aspetti della vita di questo secondo uomo, che senza alcun dubbio ce lo fanno riconoscere come l’autore. Mi sembra però interessante questo gioco di specchi, perché è ovvio che l’autore veda in Faussone qualcosa di suo, lo senta vicino e portatore di qualcosa che lo riguarda. Levi ha sempre amato molto Conrad e nella sua auto-antologia La ricerca delle radici, a proposito di Conrad, parla dell’angoscia di dire “io” e di come da questa angoscia abbia costretto l’autore a creare Marolw che in un certo senso lo esonera da usare la prima persona. Levi è affascinato da questo sdoppiamento: e La chiave a stella è proprio il tentativo di costruire qualcosa di speculare. Non è un caso che ad un certo punto anche Levi racconti a Faussone qualcuna delle sue avventure e in una tiri in ballo Tiresia l’indovino. Tiresia, per dirla con Levi, incappa in qualcosa di più grande di lui e la sua sapienza lo porta essere uomo e donna, a essere cieco ma profeta. È scisso come Levi stesso quando compone questo libro, indeciso se lasciare il vecchio mestiere (il chimico) per il nuovo (lo scrittore).  Levi scrittore ha voluto, quindi costruirsi un alter ego, e ha giocato sul nome proprio come quando esordì nei racconti firmandoli con le pseudonimo di Malabalia. Faussone, Malabalia, la maggior parte delle scelte nominali di Levi sono all’insegna di un area semantica negativa. Se “Faussone” abbiamo detto fa pensare al falso, al finto e all’impostore, “Malabalia” significa cattiva balia, ha in sé l’idea di una madre cattiva, di latte andato a male, che ha nutrito qualcosa che è marcito (si ricordi l’accenno all’ippocastano e ai suoi frutti marci). E quale è la possibile salvezza che Levi oppone a visione di un mondo meditato con malizia? La sua visione e risposta sono molto piemontesi. A questo male lo scrittore oppone l’etica del lavoro ben fatto. Se pensiamo a quando è uscito il romanzo, comprendiamo come la tesi di Levi strida con le sirene e le riflessioni sull’operaismo che andavano di moda in quegli anni.Questa idea, che comunque un lavoro se si fa lo si deve fare bene, torna anche in uno dei racconti più enigmatici di Levi dal titolo Il ritorno di Lorenzo (contenuto nella raccolta Lilit). È un racconto, ambientato nel lager (ecco ritorna quel concetto di formicaio dell’opera leviana di opere che si parlano le une con le altre e in un certo senso si completano). In questa novella il protagonista è un personaggio molto simile a Faussone, Lorenzo infatti “non era sposato, era sempre stato solo; il suo lavoro che aveva nel sangue, lo aveva invaso fino ad ostacolarlo nei rapporti umani.” Eppure questa sua qualità, questa dedizione al lavoro, lo rende umano: “Nell’ambiente violento ed abietto di Auschwitz, un uomo che aiutasse altri uomini per puro altruismo era incomprensibile, estraneo, come un salvatore venuto da cielo”. È chiaro quindi che l’idea di lavoro esposta da Levi nei suoi racconti e ne La chiave a stella sia completamente estranea ai dibattiti del lavoro che erano presenti in quegli anni nel panorama culturale. Il lavoro non solo definisce l’uomo, ma lo salva, è un mestiere (termine molto connotato in piemontese, quasi a indicare una totale sovrapposizione tra la mansione e la persona). Non è forse un caso che Levi parli del mestiere di scrivere, mettendo in paragone le attività di Faussone e le sue attività come scrittore:

Nel mestiere di scrivere la strumentazione e i segnali di allarme sono rudimentali: non c’è neppure un equivalente affidabile della squadra e del filo a piombo. Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando ormai è troppo tardi, e allora si mette male: anche perché quella pagina è opera tua e solo tua, non hai ne scuse né pretesti, ne rispondi appieno.

In queste poche righe, che suonano come una risposta all’incipit del libro in cui Faussone parla delle storie come se fossero una gru da montare, si intravede un altro tema fondamentale del romanzo e della visione del mondo di Levi, ovvero il concetto etico della responsabilità. Concepire il proprio lavoro come un mestiere porta a sentire su di sé la responsabilità di quello che si crea. Non c’è differenza tra opera di ingegno e opera di ingegneria: per entrambe a rispondere è il singolo. In anni in cui si parlava di masse operaie, in cui si rifletteva su concetti legati alla collettività, Primo Levi consegna al lettore una diversa visione del mondo in cui conta il singolo, l’opera della sua schiena e delle sue braccia. Levi ha visto come si può ridurre un uomo in collettività, e la sua opera narrativa è il tentativo di descrivere non l’uomo, ma un uomo. Un’ultima cosa riguarda il titolo del libro del romanzo, perché solo alla fine di questa disamina, credo che risulti più chiaro e comprensibile. Abbiamo visto che l’intero testo è dominato da una sorta di tensione tra linguaggio letterario e gergo del lavoro. Ovvio che “la chiave a stella” ci porti alla mente il cacciavite che ognuno di noi possiede per i piccoli lavoretti di casa: il titolo indica chiaramente e programmaticamente il tema del libro.

Siamo troppi? - Articolo di Davide Michielin (La Tascabile)


Siamo troppi?

Le conseguenze della crescita della popolazione mondiale, tra cambiamento climatico e politiche di contenimento.



Articolo di Davide Michielin  (biologo di formazione, giornalista free-lance scrive di viaggi e ambiente con particolare occhio di riguardo per le tematiche legate ai fiumi e all'inquinamento)  tratto dalla rivista on-line “La Tascabile”


Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove”. Così, nel capitolo della Genesi dedicato alla creazione, il padreterno si rivolge ad Adamo ed Eva. Oggi gli esemplari di Homo sapiens sono 7,5 miliardi. Un numero impressionante se si tiene conto che appena due secoli fa l’umanità festeggiava il suo primo miliardo. In questo lasso di tempo, il progresso ha aumentato qualità e aspettative di vita, spingendo la nostra specie a intraprendere una crescita vertiginosa dai ritmi sempre più serrati: eravamo 1.6 miliardi nel 1900, 2.5 miliardi nel 1950, 4 miliardi nel 1975, 6 miliardi nel 2000, 7 miliardi nel 2011. Nonostante il tasso di crescita sia oggi quasi dimezzato rispetto all’apice raggiunto nel 1964, è quasi certo che entro il 2100 la popolazione mondiale sarà ben più numerosa dei 9 miliardi di individui storicamente previsti, e potrebbe persino superare gli 11 miliardi. Uno studio apparso su Science nel 2014, condotto dai ricercatori dell’Università di Washington e dagli esperti delle Nazioni Unite, ha calcolato che la probabilità che la popolazione mondiale non si stabilizzi entro questo secolo è superiore al 70%. La ricerca ha costretto le stesse Nazioni Unite a redigere una revisione del consueto rapporto biennale: il problema demografico deve fare ritorno nell’agenda delle organizzazioni mondiali. Allo storico interrogativo sulla sicurezza alimentare, nell’ultimo decennio si sono aggiunti il cambiamento climatico e l’inurbamento della popolazione, due elementi che minacciano di far saltare un banco già traballante. Il progresso non ha migliorato solamente le condizioni igienico sanitarie e le rese agricole ma ha plasmato stili di vita sempre più energivori: le emissioni di CO2 pro capite sono passate da 3,1 tonnellate equivalenti nel 1960 a 5 nel 2013. Tuttavia, la popolazione del pianeta cresce, mangia e consuma a velocità molto diverse. Uno statunitense produce 15 tonnellate equivalenti di CO2 all’anno, un italiano 9 tonnellate equivalenti mentre un abitante dell’Africa sub-sahariana non raggiunge la tonnellata equivalente. Un maggiore numero di automobili, smartphone e climatizzatori comportano una maggiore richiesta energetica che, se dovesse provenire dalla combustione di fonti fossili, porterebbe all’esasperazione gli effetti del cambiamento climatico. Cosa ne sarebbe del pianeta se la transizione alle rinnovabili stentasse a decollare e nel frattempo i restanti sei miliardi di persone adottassero l’insostenibile stile di vita occidentale? Fuori dall’Europa della stagnazione demografica, si è ripreso timidamente a parlare della questione. Il dibattito sul controllo della popolazione ha inizio nel 1798 con la pubblicazione, inizialmente anonima, del Saggio sul principio di popolazione da parte di Thomas Malthus. Cresciuto in una famiglia benestante del Surrey e presto ordinato pastore anglicano, Malthus fu un brillante economista, fondatore della controversa dottrina politica che da lui prende il nome. Osservando le colonie del New England, dove la disponibilità “illimitata” di terra fertile forniva lo scenario ideale per indagare il rapporto tra risorse naturali e demografia, Malthus teorizzò che popolazione umana e disponibilità delle risorse seguano modelli di progressione differenti: geometrica la prima, aritmetica la seconda. Un maggior numero di esseri umani si traduce, proporzionalmente, in una minore disponibilità di risorse per sfamarli. Qualora i mezzi di sussistenza non siano illimitati, scriveva il reverendo, si sarebbero periodicamente verificate carestie con conseguenti guerre ed epidemie. Convinto di aver individuato una legge naturale, Malthus propose che il governo abolisse i sussidi alle classi più povere, invitasse i giovani a ritardare l’età del matrimonio e si sforzasse di diffondere tra gli strati sociali meno abbienti la coscienza del danno che una prole numerosa recava alle famiglie e all’intera comunità. I rapidi progressi del settore agronomico sconfessarono già nel corso del XIX secolo il suo impopolare principio, che tuttavia ebbe un’influenza decisiva sia su Charles Darwin che su Alfred Wallace nella formulazione della teoria dell’evoluzione. Tuttavia, l’idea malthusiana che i ricchi siano minacciati dalle masse di poveri ha proiettato un’ombra cupa che si allunga fino a oggi.
Negli anni Sessanta la Banca Mondiale e le Nazioni Unite incominciarono a concentrarsi sull’esplosione demografica del cosiddetto Terzo Mondo, ritenendola la principale causa del degrado ambientale, del sottosviluppo economico e dell’instabilità politica di questi paesi. Alcune nazioni industrializzate quali Giappone, Svezia e Regno Unito finanziarono progetti per ridurre i tassi di natalità del Terzo Mondo. Non si trattava di filantropia: secondo Betsy Hartmann, autrice del saggio “Reproductive Rights and Wrongs: The Global Politics of Population Control and Contraceptive Choice”, c’era il timore che le “masse di affamati” minacciassero il capitalismo occidentale e l’accesso alle risorse naturali. Nel 1968 suscitò scalpore la pubblicazione di “The Population Bomb” del biologo Paul Ehrlich. In questo saggio, divenuto in breve un bestseller e il manifesto del neomalthusianesimo, Ehrlich sosteneva che fosse già tardi per salvare alcuni Paesi dagli effetti della sovrappopolazione, prospettando un disastro ecologico nel quale avrebbero perso la vita centinaia di milioni di persone. Fortunatamente, l’avvento della cosiddetta “rivoluzione verde” consentì negli anni Sessanta e Settanta un incremento significativo delle produzioni agricole, disinnescando la bomba demografica predetta da Ehrlich. Nonostante Karan Singh, ministro della Salute indiano, avesse dichiarato nel 1974 che “lo sviluppo è il miglior contraccettivo”, il suo governo aveva avviato nel frattempo una subdola politica di controllo delle nascite. A emarginati e mendicanti di Delhi fu offerta un’abitazione purché accettassero di sottoporsi a sterilizzazione. Il programma indiano è durato meno di due anni, ma nel solo 1975 furono sterilizzati quasi otto milioni di cittadini indiani, principalmente maschi. La più celebre politica di contenimento della popolazione, è però quella del figlio unico adottata dal governo cinese tra il 1979 e il 2013. Una misura draconiana che, secondo alcune stime, nei suoi primi 25 anni di attuazione ha prevenuto la nascita di circa 300 milioni di individui: nel solo 1983 furono sterilizzati oltre sedici milioni di donne e quattro milioni di uomini. La controversa ma efficace politica del figlio unico ebbe profonde conseguenze sulla società cinese. Crebbero infatti il numero di aborti e l’abbandono di neonate, creando le basi per l’attuale sbilanciamento nel rapporto tra i sessi all’interno del paese.  Nei primi anni ‘80 cominciarono a farsi strada le prime obiezioni alle politiche di controllo della popolazione, soprattutto negli Stati Uniti. L’amministrazione Reagan sospese il sostegno finanziario ai programmi che prevedessero l’aborto o la sterilizzazione, riscuotendo l’approvazione delle principali confessioni religiose. Nel Paese, il consenso sulla necessità di arginare il tasso di natalità mondiale cominciò a dissolversi, sebbene per ragioni differenti in base allo schieramento politico. Tra i Repubblicani si facevano strada obiezioni morali al controllo della popolazione, i Democratici vedevano queste politiche come una forma di neocolonialismo. La definitiva messa al bando dei modelli top-down nel controllo della popolazione non fu opera né dei democratici né dei repubblicani americani: avvenne sulla spinta delle associazioni per i diritti delle donne. In occasione della prima conferenza internazionale su sviluppo e popolazione, tenutasi a Il Cairo nel 1994, i delegati di 179 paesi ratificarono un programma di azione basato sulla legittimazione della donna. Nella dichiarazione si sosteneva per la prima volta che i bisogni di istruzione e salute, compresa quella riproduttiva, sono strumenti fondamentali per il miglioramento delle condizioni di vita individuali e per uno sviluppo equo e sostenibile. Promuovere la parità di genere, eliminare la violenza contro le donne, consentire loro di avere il controllo delle risorse e partecipare direttamente alle decisioni che riguardano la propria vita – a partire dalla scelta di quanti figli avere e quando – sono oggi ritenuti elementi essenziali per il successo delle politiche di sviluppo. Di esempio sono i nuovi Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite nei quali gli aspetti demografici non sono più calati sulla testa delle persone ma si articolano piuttosto sui processi partecipativi. Troppo, troppo, troppo: le persone, il divario tra ricchi e poveri e pure l’inefficienza nella distribuzione del cibo. Così Ehrlich, oggi direttore del Centro di Biologia della Conservazione dell’Università di Standford, riassumeva nel luglio del 2015 l’attuale spinta demografica in un’intervista rilasciata al Washington Post. Confrontando l’attuale popolazione mondiale con qualsivoglia epoca precedente, è impossibile negare che siamo tanti. Ma quand’è che il tanto diventa troppo? In ambito ecologico, la capacità portante di un ambiente è la capacità delle sue risorse di sostenere un certo numero di individui. Se in ambienti ridotti o isolati è relativamente semplice stimarne la dimensione, il calcolo della capacità portante dei grandi sistemi è estremamente complesso.
Una relazione del 2012 delle Nazioni Unite ha stimato la dimensione massima di popolazione in 65 diversi scenari sostenibili. La dimensione più ricorrente è di otto miliardi di individui, tuttavia l’intervallo varia tra un minimo di due miliardi e uno sconcertante 1024 miliardi. È difficile sbilanciarsi su quale di queste sia la più prossima al valore effettivo. Secondo gli esperti, il fattore determinante sarà il modello che le nostre società sceglieranno di adottare e, in particolare, la quantità di risorse consumate pro capite. Le incognite riguardano principalmente il compartimento agricolo. Al contrario della popolazione umana, la disponibilità di suolo fertile diminuisce a causa del sovrasfruttamento e dei cambiamenti climatici. Secondo i dati della FAO, da qui alla fine del secolo la produzione agricola dovrebbe aumentare almeno del 50% per sfamarci tutti, a partire da una modesta area di terreno fertile, che copre solo l’11% della superficie globale della terra. Eppure, l’agricoltura mondiale perde ogni anno 75 miliardi di tonnellate di suolo fertile, l’equivalente di 10 milioni di ettari, a causa di urbanizzazione, erosione e avanzata del deserto e del mare. Altri 20 milioni di ettari vengono abbandonati perché il terreno è troppo degradato per coltivare, in larga misura per colpa delle tecniche agricole intensive. La perdita di fertilità del suolo porta alla riduzione della produzione agricola: un calo del 50% della materia organica porta a un taglio del 25% dei raccolti. Il fenomeno non è uguale dappertutto, ma procede particolarmente veloce proprio nelle aree che avrebbero più bisogno di ampliare le coltivazioni come la Cina, flagellata dalla desertificazione.
Le conseguenze ambientali dell’esplosione demografica non si esauriscono nel consumo di risorse naturali (acqua, suolo, biodiversità) ma sono correlate alla quantità di emissioni di gas serra liberata in atmosfera. La crescita dei consumatori, l’inurbamento della popolazione rurale e la rapida diffusione nel pianeta di standard di vita ad alta emissione di gas serra sono le principali tendenze
su cui basare le proiezioni sul destino del pianeta.  L’inurbamento è spesso considerato un fenomeno positivo, accompagnato da miglioramenti dell’istruzione, riduzione dei tassi di natalità, dello sfruttamento di risorse naturali. Tuttavia, esso comporta l’adeguamento a standard di vita con alti consumi e il conseguente aumento dell’inquinamento (come osservato nelle megalopoli asiatiche degli ultimi decenni) con ricadute dirette sulla salute dei cittadini. A livello globale, le emissioni domestiche rappresentano oltre il 60% del totale; un ulteriore 14.5% delle emissioni di CO2 proviene dagli allevamenti, i quali riforniscono principalmente le tavole di europei e nordamericani. Nei soli paesi industrializzati, i consumi individuali rappresentano il 32.6% del totale delle emissioni. È stato calcolato che l’abbandono di una dieta basata sul consumo di carne comporterebbe entro il 2050 una riduzione dell’emissione di gas serra tra il 29% e il 70%. Alcuni ricercatori sono perfino arrivati a stimare “il costo” ambientale di ogni figlio: negli Stati Uniti, ogni fiocco appeso alla porta equivale a 9.441 t.e. di CO2, il 5,4% in più rispetto a quanto avrebbe emesso la donna se nella sua vita avesse deciso di non procreare.

Una provocazione, forse.

mercoledì 24 maggio 2017

Sintesi delle conferenza del Prof. Giuseppe Berta - 19 Maggio 2017


Sintesi della conferenza del Prof. Berta del 19 Maggio 2017



La conferenza del Prof. Giuseppe Berta ha chiuso il nostro programma 2016-2017 alla presenza di un pubblico davvero numeroso ed attento, sicuramente attratto dallo spessore intellettuale del relatore e dalla pressante attualità del tema all’ordine del giorno:
Le trasformazioni del tessuto industriale ed economico nel torinese e nella Valle di Susa.
Non fosse bastato il richiamo all’importanza della tematica fatto, nella presentazione della serata e del relatore, dalla nostra Presidente Massima Bercetti l’intervento di saluto del Sindaco Angelo Patrizio ha immediatamente testimoniato il peso sociale della questione. Era egli infatti reduce da una assemblea pubblica, tenutasi appena prima nel pomeriggio, per discutere della drammatica situazione occupazionale della Ditta Savio di Chiusa San Michele che ha annunciato un centinaio di esuberi su un totale di trecento addetti. Traspariva evidente dalla sue parole una sentita e preoccupata amarezza per il forte impatto della vicenda, accentuata dalla constatata impotenza delle risposte istituzionali attivabili in sede locale e dalla consapevolezza di avere di fronte problematiche, legate ai meccanismi riconducibili alla concorrenza universale imposta dalla globalizzazione, che appaiono insuperabili anche da parte di imprese, quale sembra essere la stessa Savio, che hanno accettato e tentato di gestire la sfida del mercato. Ulteriormente stimolato da questa drammatica presentazione il Prof. Berta ha subito chiarito il taglio che intendeva dare alla sua relazione, proprio per tentare di rispondere all’accorato appello di “capire cosa sta succedendo”. Non avrebbe fornito più di tanto dati e statistiche, magari correndo il rischio di “spiazzare” in qualche modo le aspettative del pubblico, per cercare piuttosto di evidenziare i processi più di fondo che stanno determinando il quadro molto problematico che si ha di fronte. A suo avviso infatti il vero problema non consiste soltanto nel dimensionare la questione e, su questa base, di ipotizzare provvisorie vie di uscita, ma piuttosto nella difficoltà a collocare azioni di risposta, le più efficaci e sostenibili possibili, nelle tendenze di fondo che, quindi, diventa indispensabile conoscere ed analizzare. Ci ha in sostanza invitato a puntare la nostra attenzione non solo sul “cosa sta succedendo”, anche in sede locale, ma soprattutto sul più impattante “perché sta succedendo”. Passaggio indispensabile anche per cercare di dare risposte al senso diffuso di “spaesamento” che ha inevitabilmente colpito tutti noi di fronte a fenomeni così sconvolgenti e che hanno inoltre un forte carattere di “indecifrabilità”.

In questa direzione, con queste finalità, ha preso le mosse la sua relazione.
Che non poteva comunque non partire da alcuni dati che danno immediatamente senso e sostanza alla sua analisi. Le due tabelle illustrate, e dalle quali si è sviluppata la conferenza, evidenziano l’evoluzione nel trentennio 1986-2016 dell’incidenza dei quattro macro-settori “Agricoltura-Manifatturiero-Costruzioni-Servizi” sul totale dell’economia piemontese:





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(N.B. = per aiutare tutti noi a meglio comprendere il quadro di riferimento abbiamo ritenuto opportuno integrare i dati forniti dal Prof. Berta con alcuni altri, reperiti nel sito ufficiale della Regione Piemonte, relativi alla evoluzione del PIL e del tasso di disoccupazione regionali
Dinamica del Pil in Piemonte (valore in milioni di euro) Fonte Istat


Tasso di disoccupazione sul totale della popolazione attiva (15 - 64 anni)     Fonte Istat

Sono facilmente rilevabili il crollo del PIL in coincidenza con la crisi del 2007/2008, seguito da una ripresa debole ed incerta che si accompagna però con una crescita, anch’essa iniziata nel 2008, costante del tasso di disoccupazione)
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Le denominazioni dei quattro macro-settori sono di facile comprensione per agricoltura – costruzioni – manifattura, più difficile è determinare con sufficiente precisione cosa si debba intendere per servizi.
Questa denominazione non può più essere assimilata soltanto a quella del “terziario”, che individua una serie di attività di servizio correlate agli altri tre macro-settori ed alcuni settori “tradizionali” (commercio, turismo, settore pubblico in genere) , ma ingloba ormai una serie di attività e figure professionali molto più vasta e cresciuta di molto con l’avvento delle tecnologie informatiche e di comunicazione via rete, e della stessa crisi del Welfare.
Fatta questa doverosa precisazione emerge chiaramente che a fronte di una relativa stabilità dell’incidenza dell’agricoltura e delle costruzioni nel trentennio preso in considerazione (1986-2016) si è verificato una diminuzione molto significativa del peso della manifattura a fronte della corrispondente crescita dei servizi.
Questo è un dato di grande importanza sul quale riflettere: non è infatti una anomalia “piemontese” ma è perfettamente in linea con una tendenza presente in tutte le economie occidentali, una tendenza “centrale” per tentare di meglio  comprendere quel “perché sta succedendo”.
Il prof. Berta ha infatti evidenziato che, nell’ambito della globalizzazione, lo spostamento (tuttora crescente) di una quota molto significativa della produzione manifatturiera verso altre aree (fenomeno che ha colpito in modo pesante la nostra economia) ha accelerato una trasformazione “strutturale” delle economie del vecchio mondo messa in moto dalle potenzialità operative frutto dell’evoluzione tecnologica, specie informatica, degli ultimi decenni.
In sostanza nei prossimi anni, ed è un orizzonte “a breve”,  si completerà per la parte del mondo che comprende i paesi storicamente più ricchi un processo, dal Prof. Berta giudicato inarrestabile, di passaggio da una economia basata sulla “logica di produzione” ad una fondata sulla “logica del servizio”., ossia una economia nella quale la gran parte delle prestazioni non sarà più quella della produzione-vendita di beni e manufatti ma quella della “fornitura integrata” di servizi anche associati a beni e manufatti.
I  numeri piemontesi 1986-2016, nel loro "piccolo",  sono pertanto solo la punta di un iceberg decisamente più grande che sta ineluttabilmente montando, sono l’anticipo, un piccolo assaggio,  di una nuova e profonda “rivoluzione economica”.
L’esempio più significativo di questa tendenza è fornito proprio dal “prodotto” simbolo dell’economia consumistica novecentesca: l’automobile.
L’industria automobilistica mondiale tutta, ma non a caso anche i giganti del Web, stanno concentrando ricerca ed investimenti sull’evoluzione dell’auto in un “servizio di trasporto”, alla cui base resterà certamente un “prodotto” (ma profondamente modificato: elettrico, connesso, a guida automatica, non più di mono-possesso e quindi realizzato su scale minori di unità prodotte) che fornirà un “servizio integrato” di spostamento e trasporto messo a disposizione di una pluralità di utenti. Non è fantascienza, è la prossima frontiera dell’auto degli anni venti prossimi venturi.

Ma più in generale questa tendenza investe ormai tutte le manifatture “intelligenti”, ossia quelle ad alto contenuto tecnologico, per le quali la vendita del prodotto sempre più stabilmente si accompagna alla fornitura di un servizio costante di assistenza, controllo, implementazione, adattamento. Queste attività di servizio correlate alla produzione, già oggi, valgono mediamente un quarto del volume complessivo di fatturato delle imprese che ne sono protagoniste.

L’intreccio, all’interno della dimensione del settore “servizi”, di attività di diversa natura sta così creando una sorta di “catene”, sempre più articolate e onnicomprensive, che non modificano solo il rapporto fra produttore e consumatore, ma implicano una corsa di continuo adattamento alle innovazioni tecnologiche che, indipendentemente dallo specifico comparto nel quale si realizzano, modificano immediatamente, proprio per questo stretto intreccio, l’intera filiera industriale.

Questo significa, tornando al cuore del problema della ricadute sul mercato del lavoro, una costante modificazione delle figure professionali: il mondo del lavoro, contrariamente a quanto succedeva nella classica produzione di fabbrica del secolo scorso, è investito da continui cambiamenti non esistendo più competenze, e quindi “qualifiche e mestieri”, stabili ed acquisite.

In questo quadro il “posto di lavoro” diventerà sempre più una sorta di conquista continua,  un perenne “aggiornamento”, con esiti facilmente prevedibili in termini di precarietà ed incertezza occupazionale (per meglio comprendere questo trend il Prof. Berta ha consigliato la lettura del saggio di Martin Ford “il futuro senza lavoro” – Edizioni Il Saggiatore – 2017).

Come se tutto ciò già non bastasse occorre poi considerare il crescente impatto sui livelli occupazionali, più direttamente collegati alla “produzione”, della “robotica”, (la cosiddetta “fabbrica 4.0). La logica di realizzazione di profitto mediante la leva inesorabile di “abbattimento” dei costi si sposa facilmente con le potenzialità di crescenti automazioni offerte dalla tecnologia.

Inoltre un posto di rilievo nei processi di trasformazione in atto è ormai stabilmente assunto dalla dimensione del “on-line”, che sta sempre più modificando le attitudini e le abitudini dei consumatori; anche la commercializzazione e la distribuzione di prodotti da una parte sfruttano al meglio la “robotica” e dall’altra rientrano in pieno nella “economia di servizi”.

La conseguenza più significativa, ancora una volta soprattutto come impatto sul mercato del lavoro, è la scomparsa delle figure intermedie, ossia di buona parte di quelle figure professionali che, nello storico comparto ampio dei “servizi” ossia del "terziario", assicuravano una parte importante delle prestazioni.

L’informatica spinta, il Web, hanno consentito l’affermarsi di un fenomeno sempre più impattante di “disintermediazione”. Si fanno acquisti on line, si gestiscono conti bancari, si prenotano viaggi e vacanze, comodamente dal proprio pc, tablet o smartphone, (in casa o come si è detto dall’auto), ma questa apparente “comodità” sta anch’essa inesorabilmente, e con una incidenza sin qui decisamente sottovalutata, cancellando posti di lavoro.

A fronte di questo contesto tendenziale, messe meglio a fuoco alcune delle spiegazioni più di fondo sul “cosa sta succedendo e perché”, quali possono essere le azioni da mettere in campo per non esserne stravolti? Come si colloca in questo quadro la situazione specifica italiana e con essa quella piemontese e torinese? Quali sono gli eventuali punti di forza e quali i ritardi da recuperare?

Il Prof. Berta si è in primo luogo concentrato su alcuni nodi irrisolti che, allo stato attuale, stanno penalizzando l’adattamento del tessuto economico e produttivo, anche locale, al processo verso l’economia di servizi. Questi nodi sono essenzialmente quattro:

     DIGITALIZZAZIONE = è ancora insufficiente e non adeguata la trasformazione tecnologica dei sistemi produttivi

     ASSETTO D’IMPRESA = tuttora sospeso fra i residui della grande impresa e dimensioni aziendali spesso non adeguati al contesto di mercato

     INTERNAZIONALIZZAZIONE = lo sguardo sui mercati da seguire non si apre a sufficienza verso orizzonti più ampi

     QUALITA’ E PRODUTTIVITA’ DEL CAPITALE UMANO = non possiamo contare su un numero adeguato di laureati, non si investe a sufficienza su (ri)qualificazione professionale, non si incentiva abbastanza l’utilizzo delle nuove competenze.

Terminata questa prima parte della conferenza il Prof. Berta ha poi avuto modo di precisare, rispondendo alle numerose domande, alcuni passaggi:

·      La tecnologia e l’innovazione sono ormai un fattore di traino ineliminabile, ma non pochi loro aspetti “pericolosi” giustificano ampiamente la necessità di “codici etici” che possano essere di giusto bilanciamento

·      La finanza rappresenta un mondo a è stante, slegato da qualsivoglia finalità diversa dalla creazione di denaro mediante denaro, e va sicuramente regolamentata; la fiscalità può essere uno strumento fondamentale per incidere su questi squilibri e sull’aumento delle diseguaglianze economiche, in particolare è urgente intervenire sulla massa incredibile di profitti realizzati dai padroni del Web che a tutt’oggi sfuggono ad una equa tassazione

·      La politica è la grande assente in tutti questi processi, lo è per il ruolo che le dovrebbe competere di “governo” di queste dinamiche, lo è perché non riesce ad attuare politiche che le accompagnino intervenendo sulle contraddizioni che si trascinano dietro, lo è, ancora di più, quando vestendo la maschera dei populismi, promette soluzioni semplicistiche che non sono assolutamente praticabili e ancor meno risolutive

·      Il vuoto della politica investe anche il processo di unificazione europeo che ancora sconta il peccato originale di aver introdotto una moneta unica prima di creare una maggiore compenetrazione negli altri aspetti fondamentali dell’economia (legislazione del lavoro, politiche fiscali e del welfare)

·      I costi sociali delle trasformazioni in atto saranno sicuramente altissimi, prima di poter attuare le necessarie modifiche ed adeguamenti, sperando che non tardino ulteriormente, sarà inevitabile fare i conti con gravi problemi occupazionali. Ancora una volta la politica è chiamata a definire politiche di contenimento e gestione che, a suo parere, non possono consistere unicamente in assistenzialismo (reddito di cittadinanza, ad esempio) che rischiano solo di incentivare arrendevolezza se non pratiche clientelari

Infine, riprendendo più sollecitazioni e richieste di chiarimento, Il Prof. Berta ha tentato di fornire un percorso per gestire sul breve periodo quanto si sta delineando. Tutti i processi illustrati richiederanno comunque tempo per realizzarsi pienamente, c’è spazio, se tutti gli attori chiamati ad intervenire faranno la loro parte, per prepararsi agli scenari futuri e per intervenire sui contesti attuali ed intermedi. L’Italia, Piemonte e Torinese compresi, deve avere più consapevolezza dei suoi attuali punti di forza. Così come evidenziato nel suo ultimo saggio “Che fine ha fatto il capitalismo italiano” (da noi sintetizzato e pubblicato come post nel nostro blog di CircolarMente) e così come confermato da altri studi ed inchieste (citiamo in particolare un interessante articolo di Luca Piana apparso sull’ultimo numero dell’Espresso del 21 Maggio dal titolo “Ci restano solo le industrie sbagliate”) l’economia italiana vanta due punti di forza: alcune imprese statali di grandi dimensioni (Enel, Eni, Leonardo) e la rete delle imprese in gran parte di medie dimensioni, ma più innovative come apertura ai mercati ed alle tecnologie, in grado di formare (ovvero di mantenere) quel reticolo di attività omogenee insistenti su territori ben delimitati che formano i cosiddetti “distretti” (del tessile, dell’agro-alimentare, del dolciario, della ceramica, dei componenti auto-motive e dell’automazione, per citarne alcuni).

Da questa realtà bisogna (ri)partire sapendo che la complessità dell’economia dei servizi lascerà inevitabilmente scoperti i suoi estremi, la fascia più alta  di grande qualità e la fascia più bassa delle attività non compenetrabili nelle future strutturazioni.

Dai distretti attuali e da quelli, potenziati, del futuro, così come dall’agricoltura e dall’artigianato di qualità, possono venire insospettate, perché sin qui sottovalutate, potenzialità di tenuta.

In un ultimo passaggio della sua conferenza, rispondendo ad una domanda sul ruolo della Università, il Prof, Berta ha fornito una risposta che sicuramente è stata apprezzata dai soci e dal pubblico di Circolarmente: l’Università non deve solo fornire conoscenze e competenze ma deve dotare i suoi studenti di “coscienza critica”, verso la società ed il mondo circostanti, dote indispensabile per capire dove si sta andando e “cosa e perché sta succedendo”.

In fondo, nel nostro piccolo, è quello che cerca di fare CircolarMente.

lunedì 1 maggio 2017

La parola del mese - Maggio 2017


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni



MAGGIO 2017



Numerose competizioni elettorali in paesi con percorsi storici e caratteristiche tradizionalmente diverse (Brexit, Trump, primo turno presidenziali francesi, Olanda, referendum turco, alcuni Land tedeschi, Polonia, Ungheria, per citarne alcuni) hanno evidenziato alcuni tratti similari sintomatici di comuni diffuse propensioni “umorali” dei corpi elettorali. In particolare sembra che in realtà politiche e sociali così diverse emerga un identico atteggiamento elettorale, più o meno impattante, da parte di una parte consistente di quelli che tradizionalmente erano definiti “strati popolari”, “classi lavoratrici”, oltre ad una evidente frattura del voto generazionale e ad una divisione marcata fra i grandi agglomerati urbani, le loro periferie estreme e la “parte rurale”. Ovviamente questo è un quadro molto complesso che richiede specifiche analisi di dettaglio, ma ha riportato al centro dell’attenzione nel “vocabolario politico” un termine che l’affermarsi universale della democrazia rappresentativa sembrava aver cancellato:


OCLOCRAZIA


Estratto dalla voce in Wikipedia


L'oclocrazia (dal greco antico “oclos” = moltitudine o massa, e “kratía”= potere) si configura come uno stadio di governo deteriore nel quale la guida della polis (in una moderna estensione = dello Stato) è alla mercé di volizioni (volontà umorali) delle masse.

Il termine è formulato per la prima volta nelle “Storie” dello storico greco Polibio, che lo intende come uno stadio di degenerazione della democrazia, nel quale il potere del Popolo, da intendersi originariamente come corpo politico unitario, dotato di un'autocoscienza storica, si tramuta in potere dell'ochlos, ossia di una moltitudine disordinata e senza identità, preda degli intenti dominanti di capi che ne orientano a privati fini le opinioni instillando ed inducendo falsi desideri. La massa pertanto si illude di esercitare liberamente la propria funzione, quando invece è diventata "strumento animato" di una o più personalità.  Il "popolo" (ormai disintegrato) diventa così corrotto, avido, spasmodico nella soddisfazione delle proprie pulsioni più egoistiche, cessando così di essere un popolo libero.

Viene citato poi da J.J.Rousseau ne "Le Contrat Social" che lo usa riferendosi alla degenerazione della democrazia, nel caso di dissoluzione dello Stato (Cap. X, Libro III).

Nell’attuale dibattito culturale sulla crisi della democrazia è ritornato in voga per indicare il rischio del fallimento dell'idea di libertà democratica, costantemente minacciata ed affondata dall'ignoranza della “plebe” e dai suoi ondeggiamenti umorali. Ossia il rischio che la libertà democratica sia destinata a rimanere mera illusione se la deriva “populista” (e “populismo”, parola peraltro odiernamente abusata, andrebbe invece più precisamente inteso proprio come oclocrazia) la trasforma in una mera bandiera propagandistica, agitata all'occorrenza e tesa ad alimentare fini di fatto anti-democratici. In questa accezione si coniuga con il pensiero di Tocquevile in tema di “dittatura della maggioranza” nell’ambito della quale essa opera "quando lo stato è in balìa della voluttà delle masse"



……….estratto dal recente saggio di Marco Revelli “Populismo 2.0”……….

…….“Plebe” si sarebbe tentati di qualificare questo nuovo spesso strato di polvere sociale che si deposita sul fondo della piramide (sociale) come effetto dello sgretolamento dei vecchi “blocchi” che avevano caratterizzato l’epopea industriale. E “oclocrazia”  - governo della plebe, come Polibio chiamò la degenerazione delle democrazia quando smarrito il valore dell’uguaglianza il popolo ambisce a “vendetta” – quello anticipato da questa sorta di disaggregato sociale portatore di tutta la carica di rancore, frustrazione, intolleranza, radicalità che il declassamento (sociale) e la disgregazione comportano……..