mercoledì 23 gennaio 2019

Sabati dell'arte alla Certosa 1515 - PointZero


Pubblichiamo con piacere la proposta del nostro socio e amico Valter Alovisio


SABATI DELL'ARTE

ALLA CERTOSA 1515
TU NON DICI PAROLE
 Conversazioni in Certosa
Meditazioni poetiche su capolavori d'Arte
Sulle tegole rosse, alla Certosa, leggere appaiono le Muse...
 
 in quest'aria in cui fila il suono dell'estasi del sacro, 
INVITA
 un sabato al  mese,  ad un appuntamento speciale
 con UN CAPOLAVORO DELL'ARTE UNIVERSALE
2   Febbraio 2019 = GIOTTO – La Cappella degli Scrovegni 
9   Marzo 2019 =  MICHELANGELO – La Volta della Sistina 
20 Aprile 2019 = CARAVAGGIO – La Deposizione (e altro) 
4   Maggio 2019 = RAFFAELLO – Stanza della Segnatura 
1   Luglio 2019 =   BEATO ANGELICO – Convento di San Marco 

Programma giornaliero

10.00 - 10.30 - Accoglienza 

10.30 - 12.30 - Seminario in sala conferenza  
 
12.30 - 15.00 - Pranzo in ristorante e relax in Certosa

15.00 - 17.00 - Seminario in sala conferenza

17.00         - Coffee or tea break (volontario e non incluso)

Il costo d'iscrizione, compreso il pranzo nell'accogliente ristorante, è di  25 euro.   
·  Il numero minimo per attivare l'iniziativa è di 10 persone
·  La Sala Conferenze può accogliere max. 35 persone
 
Chi fosse interessato ad iscriversi può contattare =                         
PointZero<info@pointzero.com> (info@pointzero.com)









martedì 15 gennaio 2019

Elites e popolo (Baricco, Mauro, Mazzucato)


Elites e popolo

Si è aperta sulle pagine di La Repubblica una interessante e importante discussione attorno al tema del rapporto tra “elites” e “popolo”, visto come chiave di lettura dell’attuale avanzare del populismo e della collegata crisi dell’idea di Europa così come è stata finora portata avanti. Ha aperto le danze un articolo di Alessandro Baricco, seguito da una prima replica a firma di Ezio Mauro e da una seconda di Mariana Mazzucato. Pubblichiamo questi tre interventi e, laddove altri di pari interesse dovessero seguire, faremo il possibile per recuperarli

E ora le élites
 si mettano in gioco

There Is No Alternative” (M. Thatcher). Dunque, riassumendo: è andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola. Non è proprio un’insurrezione, non ancora. È una sequenza implacabile di impuntature, di mosse improvvise, di apparenti deviazioni dal buon senso, se non dalla razionalità. Ossessivamente, la gente continua a mandare – votando o scendendo in strada – un messaggio molto chiaro: vuole che si scriva nella Storia che le élites hanno fallito e se ne devono andare. Come diavolo è potuto succedere? Capiamoci su chi sono queste famose élites. Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri: potrei andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti. I confini della categoria possono essere labili, ma insomma, le élites sono loro, son quegli umani lì. Sono pochi (negli Stati Uniti sono uno su dieci), possiedono una bella fetta del denaro che c’è (negli Stati Uniti hanno otto dollari su dieci, e non sto scherzando), occupano gran parte dei posti di potere. Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente. Osservati da vicino, si rivelano essere, per lo più, umani che studiano molto, impegnati socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti. I soldi che spendono li hanno in parte ereditati, ma in parte li guadagnano ogni giorno, facendosi un mazzo così. Amano il loro Paese, credono nella meritocrazia, nella cultura e in un certo rispetto delle regole. Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale – mi sento di aggiungere – impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono. Dormono dunque sereni, benché spesso con l’ausilio di psicofarmaci. Forti di questo andare per il mondo vivono in un habitat protetto che ha poche interazioni con il resto degli umani: i quartieri in cui vivono, le scuole a cui mandano i figli, gli sport che praticano, i viaggi che fanno, i vestiti che indossano, i ristoranti in cui mangiano: tutto, nella loro vita, delimita una zona protetta all’interno della quale quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi. Da quell’elegante parco naturale, tengono per i coglioni il mondo. Oppure, volendo: lo tengono in piedi. Se non addirittura: lo salvano. Ultimamente ha preso piede la prima versione. Ed è lì che è saltato quel tacito patto di cui parlavamo, e che descriverei così: la gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e le élites si prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere. Tradotto in termini molto pratici descrive una comunità in cui le élites lavorano per un mondo migliore e la gente crede ai medici, rispetta gli insegnanti dei figli, si fida dei numeri dati dagli economisti, sta ad ascoltare i giornalisti e volendo crede ai preti. Che piaccia o no, le democrazie occidentali hanno dato il meglio di sé quando erano comunità del genere: quando quel patto funzionava, era saldo, produceva risultati. Adesso la notizia che ci sta mettendo in difficoltà è: il patto non c’è più. Ha iniziato a traballare una ventina d’anni fa, ora si sta sbriciolando. Lo sta facendo più in fretta dove la gente è più sveglia (o esasperata): l’Italia, ad esempio. La gente qui ha iniziato a non fidarsi neanche più dei medici, o degli insegnanti. Quanto al potere politico, prima lo ha affidato a un super-ricco che odiava le élites (trucco che poi gli americani avrebbero copiato), poi ha provato un’ultima volta con Renzi, scambiandolo per uno che non c’entrava con le élites: alla fine ha decisamente stracciato il patto e se n’è andata direttamente a comandare. Cos’è che li ha fatti così arrabbiare? Una prima risposta è facile: la crisi economica. Intanto le élites non l’avevano prevista. Poi hanno tardato ad ammetterla. Infine, quando tutto ha iniziato a franare, hanno messo al sicuro se stesse e hanno rimbalzato i sacrifici sulla gente. Possiamo dire, ripensando alla crisi del 2007-2009 che sia accaduto veramente questo? Non lo so con certezza, ma è vero che la percezione della gente è stata quella. Dunque, superata l’emergenza, la gente si è presentata a regolare i conti, per così dire. È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di cittadinanza, o il cancellamento delle cartelle di Equitalia, non sono altro che quello. Non sono politica economica o visioni del futuro: sono riscossione crediti. La seconda ragione è più sofisticata e l’ho veramente capita solo quando mi son messo a studiare la rivoluzione digitale e ho scritto The Game. La riassumerei così. Tutti i device digitali che usiamo quotidianamente hanno alcuni tratti genetici comuni che vengono da una certa visione del mondo, quella che avevano i pionieri del Game. Uno di questi tratti è decisamente libertario: polverizzare il potere e distribuirlo a tutti. Tipico esempio: mettere un computer sulla scrivania di tutti gli umani. Potendo, nelle tasche di ogni umano. Fatto. Non va sottovalutata la portata della cosa. Oggi, con uno smartphone in mano, la gente può fare, tra le altre cose, queste quattro mosse: accedere a tutte le informazioni del mondo, comunicare con chiunque, esprimere le proprie opinioni davanti a platee immense, esporre oggetti (foto, racconti, quello che vuole) in cui ha posato la propria idea di bellezza. Bisogna essere chiari: questi quattro gesti, in passato, potevano farli solo le élites. Erano esattamente i gesti che fondavano l’identità delle élites. Nel Seicento, per dire, erano forse qualche centinaio le persone che in Italia potevano farli. Ai tempi di mio nonno, forse qualche migliaio di famiglie. Oggi? Un italiano su due ha un profilo Facebook, fate voi. Così – occorre capire – il Game ha abbattuto delle barriere psicologiche secolari, allenando la gente a sconfinare nel terreno delle élites e togliendo alle élites quei monopoli che la rendevano mitologicamente intoccabile. È chiaro: da lì in poi la situazione prometteva di diventare esplosiva. Non sarebbe forse successo niente se non fosse per un altro tratto del Game, una sua imprecisione fatale. Il Game ha ridistribuito il potere, o almeno le possibilità: ma non ha ridistribuito il denaro. Non c’è nulla, nel Game, che lavori a una ridistribuzione della ricchezza. Del sapere, della possibilità, dei privilegi, sì. Della ricchezza, no. La dissimmetria è evidente. Non poteva che ottenere, alla lunga, una rabbia sociale che è dilagata silenziosamente come un’immensa pozzanghera di benzina. Devo aver già detto che poi la crisi economica ci ha tirato un fiammifero dentro. Acceso. Dopo, quel che è successo lo sappiamo. Ma non sempre lo vogliamo veramente sapere. Riassumo io, per comodità. La gente, senza perdere un certo aplomb, si è recata a prendere il potere; perfino in modo composto, ma con una sicurezza di sé e un’assenza di timore reverenziale che da tempo non si vedeva. Lo ha fatto, per lo più, votando. Cosa? Il contrario di quello che suggerivano le élites. Chi? Chiunque non facesse parte delle élites o fosse odiato dalle élites. Quali idee? Qualsiasi idea che fosse l’opposto di cosa avevano in mente le élites. Semplice, ma efficace. Posso fare un esempio sgradevole che però riassume bene la situazione? L’Europa. Quella dell’unità europea è chiaramente un’idea forgiata dalle élites. Di certo non l’ha chiesta la gente, scendendo in strada e invocandola a gran voce. È un’intuizione di pochi illuminati che si può facilmente spiegare così: spaventata da cosa era riuscita a combinare nel ‘900, e incalzata dalle due grandi potenze americana e sovietica, l’élite europea ha capito che le conveniva piantarla lì con questa lotta selvaggia e secolare, tirare giù le frontiere e formare un’unica forza politica ed economica. Naturalmente non era un piano di facilissima realizzazione. Per secoli l’élite aveva lavorato a costruire il sentimento nazionalista, di cui aveva avuto bisogno per affermarsi, e perfino l’odio per lo straniero, che le era stato utile quando si era trattato di menar le mani: adesso bisognava smontare tutto, e invertire il senso di marcia. Prima le erano serviti milioni di soldati, adesso le servivano milioni di pacifisti. Gente che aveva da poco finito di sgozzarsi l’un l’altro con la baionetta in mano avrebbe dovuto trasformarsi in un unico popolo, con una moneta comune e un’unica bandiera: non proprio un passeggiata. Per questo, con indubbia abilità, l’élite impose un modello di unità europea che potremmo definire ad alta drammaticità: una volta fatta, l’unità doveva diventare irreversibile. Bruciarono le navi alle spalle, per evitare che alla gente (o magari anche alle frange dissidenti delle élites) potesse venire voglia di tornare indietro. Non lo avrebbero fatto perché era tecnicamente impossibile farlo. Se alla gente veniva qualche dubbio, il metodo era la pazienza: su Le Monde Diplomatique (non esattamente un organo di informazione populista) mi è accaduto di leggere, recentemente, una bel riassuntino che mi permetto di copiare e incollare qui: “Nel 1992, i Danesi hanno votato contro il trattato di Maastricht: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2001 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Nizza: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2005 i Francesi e gli Olandesi hanno votato contro il trattato costituzionale europeo (Tce): gliel’hanno poi imposto con il nome di Trattato di Lisbona. Nel 2008 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Lisbona: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 20015, il 61,3% dei Greci ha votato contro il piano di austerità di Bruxelles: gli è stato inflitto lo stesso”. Impressionante litania, bisogna ammetterlo. Dice che un piano B non c’era. There Is No Alternative. Il tratto limpidamente elitario dell’Europa Unita si è rafforzato quando, fatta l’Europa, si è sedimentato il sistema di potere europeo: le istituzioni, gli organi di governo, e perfino le personalità deputate a governare. Difficile immaginare qualcosa che renda meglio l’idea di un’élite magari sapiente ma lontana, irraggiungibile, detentrice di ragioni e numeri incomprensibili, e scarsamente consapevole della vita reale della gente. Non è escluso che nel frattempo facciano anche molte cose a favore della gente: ma certo la loro prima funzione sembra essere quella di ricordare in modo definitivo che il pianoforte c’è chi lo suona e chi lo porta su per le scale, e a suonarlo, qui, è l’élite. Così, nell’istante in cui ne ha avuto basta del patto, la gente si è voltata verso di loro, subito: l’Europa era il simbolo più evidente, era il bersaglio immediatamente visibile all’orizzonte. Aveva un’aura di invincibilità che però, si è scoperto il giorno dopo il referendum sulla Brexit, funzionava solo per le élites: per gli altri cittadini del Game, l’incantesimo si era spezzato. Potremmo dire, alla luce di tutto questo, che la gente è contro l’Europa? No, non potremmo veramente dirlo. Contro questa Europa, piuttosto, contro l’Europa come simbolo del primato delle élites, questo sì. Antieuropeista, oggi, significa più che altro anti-élite. Circola già la formuletta buona: l’Europa dei popoli. Non vuole dire niente ma vuol dire una cosa chiarissima: non è l’unità in sé che vogliamo spezzare, è l’unità voluta e gestita in quel modo dalle élites. L’Europa è solo un esempio. Quel che sto cercando di dire è che soppesare l’opportunità di tutto ciò che la gente oggi sembra volere (che sia il ritorno alla Lira come la gogna della Società Autostrade o la libertà sui vaccini) è una perdita di tempo se non si legge in filigrana l’unica cosa che davvero la gente vuole: liberarsi delle élites. Il punto è quello, ed è lì che si ci si deve chinare e osservare bene, per quanto faccia schifo, o paura, o fatica. Perché è in quel preciso punto che si gioca una battaglia decisiva per il nostro futuro. La prima cosa che accadrà di notare, volendo davvero andare a guardare là dentro, è come si è mossa l’élite una volta che si è trovata sotto attacco. Si è irrigidita nelle proprie certezze allestendo rapidamente una narrazione che mettesse le cose a posto: la gente si era bevuta il cervello, probabilmente manovrata da una nuova generazione di leader privi di responsabilità, disposti a giocare sporco, e furbi nel rivolgersi alla pancia dei cittadini dribblandone l’eventuale intelligenza. Termini vaghi e inesatti come fake news, populismo, se non addirittura fascismo, sono stati ingaggiati per veicolare meglio il messaggio a etichettare sommariamente gli insorti. Sullo sfondo, una certezza: There Is No Alternative, ripetuta come un mantra, coltivata come un’ossessione, inflitta come una profezia e una minaccia. Neanche per un attimo, sembrerebbe, l’élite si è fermata a chiedersi se per caso non avesse sbagliato da qualche parte, e in modo così marchiano da generare, a slavina, quel gran casino. Se l’avesse fatto, non le sarebbe stato poi così difficile registrare almeno tre fenomeni che a me, come a molti, sembrano di un’evidenza solare:

La sua idea di sviluppo e di progresso non riesce a generare giustizia sociale, distribuisce la ricchezza in un modo delirante, distrugge lavoro più di quanto riesca a generarne, lascia il centro del gioco a potenze economiche scarsamente controllabili, continua a essere fondata su un feroce controllo di intere zone deboli del pianeta e mette in serio pericolo la Terra, dimenticandosi che è la casa di tutti, non la discarica di pochi.

1.    Le élites sono da tempo preda di un torpore profondo, una sorta di ipnosi da cui declinano un pensiero unico, allestendo raffinati teoremi i cui risultato è sempre lo stesso, totemico: There Is No Alternative. Si sarà notato che non reagiscono più a nulla, sono ipnotizzate da se stesse, hanno perso completamente contatto con la vita che fa la gente, spendono più della metà del tempo a contemplarsi e arredare i propri privilegi. Stanno arrestando la storia, e allevando degli eredi incapaci di pensare qualcosa di diverso dalle ossessioni dei padri.

2.    Una sola volta, negli ultimi cinquant’anni, le élites hanno generato un pensiero alternativo: ed è stato quando le son sfuggiti alcuni contro-pensatori, più che altro tecnici, dalla cui eresia è poi nata l’insurrezione digitale. Dal loro torpore, le élites l’hanno registrata in ritardo, bollandola come una deriva commerciale di dubbio gusto e pensando di risolverla così. Era invece una rivoluzione che si proponeva di azzerare proprio loro, le élites novecentesche, e di sostituirle con una nuova élite, una nuova intelligenza, perfino una nuova moralità.

Non ci hanno capito niente, e questo vuol dire che il Game è cresciuto tra le pieghe del loro potere, e a poco a poco le ha delegittimate, consegnandole alla gente quando ormai non avevano la forza per difendersi. Nel tempo in cui questo accadeva, l’unico riflesso brillante delle élites è stato usare il Game per fare soldi: che vendessero le reliquie del Novecento o finanziassero start up, si sono messi a vendere i biglietti per assistere alla propria condanna a morte. Strano modo di cavalcare la Storia. Fai errori del genere e poi, con chi si presenta a staccarti la spina, pensi di cavartela dandogli del fascista? Altrettanto interessante, va detto, è andare a vedere come si è mossa la gente, quando ha deciso di sfasciare il patto e fare da sola. Potenzialmente aveva davanti una sorta di nuovo orizzonte, immenso: ma si è fermata al primo passo, quello della resa dei conti pura e semplice. Rimandati i sogni, sfoga risentimento. Incapace di futuro, recupera il passato. Si è scelta leader che le offrono una vendetta quotidiana e una retromarcia al giorno: è quello che sanno fare. Non riescono a immaginare un granché, si limitano a cercare di correggere l’esistente ereditato dalle élites. Spesso non riescono nemmeno tanto a farlo, per incompetenza, scarsa attitudine al governo, improvvisa scoperta dei propri limiti, obbiettiva tostaggine del nemico e vertiginosa complessità del sistema. Ritrovano coraggio in un sorta di tono di voce che è divenuta il loro vero segno distintivo, un misto di schiettezza, aggressività, urlo da mercato e slogan pubblicitario. La gente lo trova rassicurante e ha finito per assumerlo come un modo di pensare: ci trova una sorta di intelligenza elementare che sostituisce alle raffinatezze e ai sofismi della riflessione delle élites il movimento limpido, diretto, vagamente virile, a suo modo puro, di uomini che finalmente vano diritti alle cose, smantellando vecchi trucchi e ipocrisie. La santificazione di questo modo di pensare – è necessario capire – è l’arma con cui la gente, oggi, sta sferrando l’aggressione più violenta alle élites: è la vera breccia che sta aprendo nelle loro mura difensive. Se passa quel modo di leggere il mondo, le élites sono spacciate. Finita la pacchia. Il punto che a me, come a molti altri, risulta di un’evidenza solare è che una vittoria di questo genere avrebbe un prezzo devastante: non per le élites, chissenefrega, ma per tutti. Perché il mito di un accosto diretto, puro e vergine alle cose, opposto all’andatura decadente, complicata e anche un po’ narcisistica della riflessione colta, è una creatura fantastica che ci abbiamo messi secoli a smascherare: recuperarla sarebbe da dementi. Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è meglio sapere molto delle cose prima di cambiarle, che è meglio conoscere molti uomini per capire se stessi, che è meglio condividere i sentimenti degli altri per gestire i nostri, che è meglio avere molte parole piuttosto che poche perché vince chi ne sa di più. Abbiamo un termine per definire questo modo di difenderci dalla durezza feroce della realtà grazie all’uso paziente e raffinato dell’intelligenza e della memoria: cultura. Sostituirla con l’apparente chiarezza di un pensiero elementare, quasi una sorta di furbizia popolare, equivale a disarmarsi volontariamente e andare al massacro. Voglio essere chiaro: ogni volta che ci facciamo bastare certe parole d’ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita collettiva spesi a non farci fottere dall’apparente semplicità delle cose: non noi élites, sto parlando di tutti quanti. Ci condanniamo a prendere cantonate colossali. Che so, considerare un’importante minaccia al nostro benessere l’ovvio transumare di un numero in fondo contenuto di umani da continenti che abbiamo stritolato e continuiamo a tenere per le palle. Cose così. Enormità. Alla fine, occorre registrare un fenomeno che a me, come a molti altri, sembra di una evidenza solare: la gente si sveglia ogni giorno per andare all’assalto della fortezza delle élites: e più lo fa, e più vince, più si fa del male. Così attraversiamo tempi cupi, e siamo come terra in cui passano eserciti, saccheggiando. Nessuno sembra in grado di vincere, per cui è difficile vedere la fine. Ogni giorno che passa, diminuiscono le scorte: di forza, di bellezza, di rispetto, di umanità, perfino di umorismo. Niente che non abbiamo già vissuto, in passato: ma noi che non immaginavamo questo, è questo che dobbiamo proprio vivere? C’è qualcosa che possiamo fare, per cambiare l’inerzia di questa disfatta? Che io sappia, ammettere che la gente ha ragione. Riprendere contatto con la realtà e accorgersi del casino che abbiamo combinato. Mettersi immediatamente al lavoro per ridistribuire la ricchezza. Tornare a occuparci di giustizia sociale. Staccare la spina alle vecchie élites novecentesche e affidarsi alle intelligenze figlie del Game: farlo con la dovuta eleganza ma con ferocia. Dare un significato nuovo a parole come progresso e sviluppo, quello che hanno è ormai avvelenato. Liberare le intelligenze capaci di portarci fuori dal pensiero unico del There Is No Alternative. Smetterla di dare alla politica tutta l’importanza che le diamo: non passa da lì la nostra felicità. Tornare a fidarci di coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi. Buttare via i numeri con cui misuriamo il mondo (primo fra tutti l’assurdo Pil) e coniare nuovi metri e misure che siano all’altezza delle nostre vite. Riacquistare immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire sull’educazione, sempre. Non smettere di leggere libri, tutti, fino a quando l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto sarà un’immagine che ci fa vomitare. Entrare nel Game, senza paura, affinché ogni nostra inclinazione, anche la più personale o fragile, vada a comporre la rotta che sarà del mondo intero. Usarlo, il Game, come una grande chance di cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare diseguaglianze economiche ancora più grandi. Ritirare su tutti i muri che abbiamo abbattuto troppo presto; abbatterli di nuovo non appena tutti saranno in grado di vivere senza di loro. Lasciare che i più veloci vadano avanti, a creare il futuro, riportandoli però tutte le sere a cenare al tavolo dei più lenti, per ricordarsi del presente. Fare la pace con noi stessi, probabilmente, perché non si può vivere bene nel disprezzo o nel risentimento. Respirare. Spegnere ogni tanto i nostri device. Camminare. Smetterla di sventolare lo spettro del fascismo. Pensare in grande. Pensare. Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio.

Alessandro Baricco, La Repubblica 10 gennaio 2019.



Così l’Uomo Nuovo abbatte
 il sapere delle élites decadute

Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su “Repubblica” di Alessandro Baricco. La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate. La teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili dalla pubblica opinione. Sono esattamente i due punti- cardine del meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini. Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti, il ” pensiero” – e, direi, la postura, il linguaggio, il costume, dunque l’antropologia – della classe politica nazionale è stato percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo sostanzialmente omogenea. E nello stesso tempo, la classe dirigente italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale, piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti, autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa, dentro la quale – affinché nessuno si senta facilmente assolto – sono precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali, professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione dirigente che hanno esercitato, ma più ancora – ognuno per la sua quota – dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto. Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria. Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante, l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi? L’élite, nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini, costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è ” in” e ciò che è ” out”, deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo. In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle conseguenze della crisi. Quella dialettica si è interrotta e si è sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su un’altra coppia: dominanti/dominati. Ecco dove nasce la sensazione della confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società, all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano. Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti. Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite, svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo, con la politica – tutta – fuorigioco. In queste condizioni, può resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione. La posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa. Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato. Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il risentimento, che però per definizione si consuma in privato. Il risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo della sua politica, ma della sua natura.
Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe. Soprattutto, poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo immaginario del ” Punto Zero”, dove non c’è contaminazione col passato e tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia, nociva la cognizione. Se tutto quel sapere – ragiona l’uomo nuovo – non è servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di cui soltanto l’élite conosce l’uso. Il sapere suscita diffidenza perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi viene dal demonio. Il concetto di ” nuovo” diventa vecchio. Bisogna andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante, nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra. Asettico e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la competenza, dando così garanzie a tutti. È il rovesciamento dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La figura politica che nasce da questo impasto è un governante d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo Stato, e tuttavia ” sacrosantus” perché protetto dall’indignazione e dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo, avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco »

Ezio Mauro, La Repubblica 12 gennaio 2019



Chi manovra la collettività 
è la vera élite

Nel suo articolo dell’11 gennaio Alessandro Baricco riassume un dibattito largamente diffuso e trattato in diversi ottimi recenti libri come Strangers in their own land di Arlie Hochschild. Secondo Baricco la crisi che stiamo attraversando e’ innanzitutto una crisi di fiducia delle masse nei confronti delle élite. Mi pare una lettura semplificante. Se non comprendiamo chi sono e come funzionano le élite, rischiamo di consolidarne le posizioni e il potere. Quindi, raccogliendo la sua sfida a “non farci fottere dalla apparente semplicità delle cose”, proviamo a guardare meglio dentro la sua analisi. Baricco afferma che la democrazia funziona quando le élite, pur proteggendo e incrementando i loro privilegi, riescono magnanimamente a dispensare una forma di convivenza accettabile per le masse. Non credo sia così. La democrazia ha creato società meno inique quando gli “esclusi” hanno saputo rappresentarsi e strappare alle élite concessioni che hanno reso meno penosa e più piena la vita di tutti (spesso anche delle élite stesse). Ma qui non c’è niente di deterministico. Ci sono voluti sindacati, movimenti ecologisti, movimenti femministi. Le otto ore di lavoro, condizioni decenti in fabbrica, il sistema sanitario nazionale, il voto alle donne, anche qui si potrebbe andare avanti per pagine… non sono stati graziosamente concessi dalle élite. Anzi, in quasi tutti questi casi, le élite hanno pervicacemente tentato di negare questi diritti.
Sono state conquiste costate carissime ai milioni che hanno saputo organizzarsi, rappresentarsi, creando piattaforme comuni e forme di dibattito, ma anche di lotta. Certo, è vero che queste conquiste si sono consolidate quando una parte delle classi agiate le ha riconosciute come giuste e non più rimandabili. Ma c’è voluto il sangue. E, ancora più importante, dopo aver ottenuto il minimo dei diritti necessari, queste “non élite” hanno anche saputo tenerli in vita e innovarli, riempirli di senso. Prendiamo la scuola per tutti o il sistema sanitario nazionale. Milioni di donne e uomini, che non sono élite e a cui non interessa essere élite, hanno lavorato e continuano a lavorare giorno dopo giorno nelle scuole e negli ospedali, combattendo con mezzi limitati contro le inerzie sfinenti dell’ignoranza e della malattia, contro l’ignavia dei colleghi scansafatiche e le furberie degli amorali, per far sì che quelle istituzioni collettive fossero bene comune e dispensassero il meglio per tutti. Dove sono questi milioni nell’equazione di Baricco? È ristretta la veduta di chi considera solo le élite che incontra ogni giorno, in quel recinto protetto che Baricco pennella così bene, e l’oklos, la massa che sbraita in tv con i gilerini gialli. Guardando così, sembra che tutto stia avvenendo irrevocabilmente, come per influsso astrale. Nel mio libro Il valore di tutto parlo del bisogno di riscoprire il valore collettivo, proprio per lottare contro la logica delle disuguaglianze che hanno creato rabbia nella “gente”. L’odio per le élite, l’averne abbastanza, hanno ragioni profonde, inclusa la sequenza dei trattati comunitari, fatti trangugiare come oche da ingrasso ai cittadini europei. Ma questo odio è stato attizzato, rinfocolato e indirizzato da chi scientemente ha costruito una narrazione semplificatoria, ma articolata, e ha capito prima di tutti che la diffusione planetaria del web avrebbe permesso di registrare ed elaborare miliardi di frammenti, componendoli in tanti ritratti individuali. Così da poter inoculare quella narrazione nei soggetti predisposti, con gli ingredienti giusti e il dosaggio necessario ad indirizzare l’odio e quindi usarlo. Il problema non è che un italiano su due stia su Facebook: ma che cosa c’è dentro Facebook e come lo usa chi lo controlla. E non succede tutto a Cupertino. Il Movimento 5 Stelle, che continuiamo ad analizzare come movimento ultramoderno e populista, è controllato da una piattaforma digitale posseduta in termini pressoché feudali da una famiglia, i Casaleggio, che secondo lo statuto del movimento può farne ciò che vuole. Prendiamo l’Europa. L’omeopatia dell’odio che passa attraverso Facebook eviterà sempre di raccontare come l’Unione Europea sia anche una forza collettiva che ha migliorato le condizioni di lavoro, imposto regole severe contro lo strapotere delle multinazionali, cercato di limitare la devastazione dell’ambiente, investito largamente nella costruzione di una cultura comune, speso miliardi per la ricerca scientifica collaborativa e collettiva laddove nessun soldo privato si arrischierebbe, laddove però si trovano i risultati più inattesi e dirompenti per curare. E, soprattutto, nasconderà che questi progressi ottenuti non sono stati una gentile concessione delle élite, ma sono frutto della pressione continua di cittadini, movimenti, gruppi ecologisti, avvocati dei diritti umani. Solo alla fine di un processo, fatto di lotte, sconfitte e vittorie, queste proposte diventano leggi e regolamenti. Intendiamoci: la Ue ha fatto molti errori – fra cui l’ossessione di ridurre il deficit – non è riuscita a farsi sentire vicina alla vita quotidiana. Chi ha creato gli strumenti di manipolazione collettiva non l’ha fatto per il piacere di veder ballare i burattini. L’ha fatto perché è pagato da persone che hanno interessi economici precisi. Da persone che vedono nell’Unione Europea uno dei pochi ostacoli all’espansione planetaria del capitalismo senza regole. Infangare la Ue rende soldi perché un’istituzione pubblica indebolita e insicura di sé sarà più prona ai desiderata della grande industria, come pare già stia succedendo nell’agricoltura. E di che cosa parliamo quando parliamo di “usare i dati”? I dati possono essere usati per controllare e manipolare, ma possono essere anche adoperati per diffondere il bene comune. Prendiamo l’esempio di Barcellona, dove la sindaca Ada Colau con il progetto Decode sta provando a usare i dati sugli spostamenti dei cittadini generati da app come Citymapper per informare e disegnare un sistema di trasporto pubblico migliore per tutti. O i movimenti che, in molti paesi, vogliono che i dati sulla salute personale vengano usati non per arricchire le case farmaceutiche, ma per migliorare il servizio sanitario. Tutte queste nuove soluzioni arrivano alla Commissione europea e vengono poi discusse dalla DG-Connect, che elabora le politiche in materie di digitale e innovazione. Ma non sono le élite che le hanno proposte. Sono i movimenti, grazie a questa nuova ed evoluta forma di interazione tra élite e cittadini. La soluzione di Baricco è “lasciare il telefono a casa, camminare, e affidarsi alle intelligenze del Game”. No. Bisogna guardare queste nuove forme di relazione, capirle e moltiplicarle. Smettere di usare parole come “gente” e pensarci invece tutti come “cittadini”. Smettere di descrivere l’Unione Europea come un pachiderma sonnacchioso, irrazionale e imperscrutabile, e provare veramente a capire come funziona, denunciare le sue sclerosi e proporre soluzioni diverse. E lottare, con o senza telefonino, per questo.

Mariana Mazzucato, La Repubblica 13 gennaio 2019

lunedì 14 gennaio 2019

Dialogo sulla coscienza - Intervista a David Chalmers


Pubblichiamo questo articolo/intervista a David Chalmers, uno dei più importanti neuroscienziati, che affronta un tema strettamente correlato ad altri nostri post, in particolare al recente “Saggio del mese – La mente alterata”, e a diversi contenuti delle recenti nostre conferenze/seminari sui possibili futuri. Condividere o meno il suo ottimismo rientra ovviamente nel novero delle opinioni, ma è sicuramente interessante la panoramica che ci offre sull'attuale livello di conoscenze e studi sul tema della coscienza

Dialogo sulla coscienza

David Chalmers e il “problema difficile della coscienza”, tra neuroscienze e filosofia.

Articolo di Paolo Pecere ("La filosofia della natura in Kant" (2009) - "Dalla parte di Alice. La coscienza e l'immaginario" (2015). Nel 2018 ha pubblicato il romanzo "La vita lontana") dal sito on-line “La Tascabile”

David Chalmers insegna Filosofia e Neuroscienza alla New York University, dove è condirettore del Center for Mind, Brain and Consciousness. In seguito alla pubblicazione di La mente cosciente  (1996) è stato tra i protagonisti della ricerca interdisciplinare sulla coscienza. Ha definito “problema difficile della coscienza” i tentativi di spiegare come l’esperienza soggettiva (sensazioni e sentimenti) emerga dall’attività cerebrale, e ha dato numerosi contributi al tema, considerandolo dal punto di vista delle neuroscienze, dell’intelligenza artificiale e della metafisica. Attualmente sta lavorando a un libro sui concetti di reale e virtuale.

Paolo Pecere: Il problema di spiegare come la coscienza sia prodotta dai processi cerebrali si è posto fin dagli albori della scienza moderna. Trovo che fosse formulato nei termini attuali già da diversi scienziati e filosofi del Diciannovesimo secolo. In quegli anni si cominciarono a immaginare universi popolati di automi identici agli uomini ma privi di sensazioni. Serviva a domandarsi che cosa le sensazioni aggiungessero alla descrizione fisica della natura – era un periodo in cui lo sviluppo delle scienze e l’ascesa del materialismo filosofico portarono a interrogarsi sul significato e sui limiti dell’immagine scientifica del mondo. Questi esperimenti mentali sono stati poi riscoperti, un secolo dopo, dai filosofi analitici. Immaginiamo allora un filosofo-scienziato del Ventiduesimo secolo, che si metta a studiare retrospettivamente il “problema difficile” della coscienza: che cosa troverebbe di nuovo nel dibattito di questi ultimi trent’anni?

David Chalmers: Il problema della coscienza ha una lunghissima storia. In effetti è interessante chiedersi perché non si trovi già tra gli antichi filosofi Greci e Romani. In parte questo dipende dal fatto che ci voleva la diffusione del materialismo, cioè della concezione secondo cui il mondo è fondamentalmente fisico, perché la mente e la coscienza apparissero particolarmente problematiche. Questa concezione cominciò ad affermarsi nel Diciassettesimo secolo: per esempio Descartes contrappose la mente al corpo. Ma forse soltanto dalla metà del Diciannovesimo secolo si cominciò a formulare la concezione secondo cui possiamo spiegare diversi aspetti della mente, come il comportamento, ma non la parte esperienziale, la coscienza. Rispetto alla mia espressione “problema difficile della coscienza”, coniata negli anni Novanta, bisogna dire che scienziati del secolo scorso come Emil du Bois-Reymond e John Tryndall l avevano già riconosciuto la difficoltà del problema. Ma cosa c’è di nuovo? Il cambiamento più profondo ha riguardato la scienza, non la filosofia. All’inizio del Ventesimo secolo la coscienza cominciò a essere considerata una proprietà troppo soggettiva, mentre si assumeva che la scienza dovesse essere oggettiva, perciò la psicologia ha cominciato a essere intesa come una scienza del comportamento (comportamentismo). Anche quando il comportamentismo tramontò, negli anni Cinquanta, restò l’idea che la scienza della mente dovesse essere oggettiva. Soltanto negli anni Novanta neuroscienziati, psicologi e altri scienziati hanno ricominciato a considerare la coscienza come un tema di ricerca. È stata questa la grande novità: persone come Francis Crick e Christof Koch hanno cominciato a pensare che la neuroscienza deve studiare i correlati neurali della coscienza [cioè i processi cerebrali che corrispondono alla coscienza], e gli psicologi hanno cominciato a approfondire la distinzione tra processi coscienti e inconsci.

PP: Come sono andate le cose in filosofia?

DC: In filosofia della mente c’è stato un processo più graduale, ma anche qui c’è stato dapprima un predominio di altri temi (come i desideri o il collegamento della mente con la capacità computazionale delle macchine), poi, negli anni Novanta, un ritorno alla coscienza. Per esempio il libro di Daniel Dennet "Coscienza, Che cosa è", Laterza 1991, attirò l’attenzione sul tema, e furono sviluppati strumenti analitici più raffinati per affrontarlo. Si cominciarono a concepire diversi esperimenti mentali il cui scopo era mostrare i limiti del paradigma dominante nelle scienze cognitive: per esempio Frank Jackson elaborò il suo “argomento della conoscenza” immaginando una scienziata, Mary, che conosce ogni informazione fisica sul mondo e vive in una stanza priva di luce colorata. Quando Mary esce dalla stanza e per la prima volta percepisce il colore rosso, si può dire che impari qualcosa di nuovo? Se sì, la descrizione fisica del mondo non è sufficiente a rendere conto della coscienza.

PP: Venticinque anni fa tu e Christof Koch avete fatto una scommessa. Lui ha scommesso che entro venticinque anni si sarebbe scoperto che la coscienza è una proprietà intrinseca di un piccolo gruppo di neuroni. Tu scommettesti di no. Come stanno le cose oggi? Quali teorie neuroscientifiche della coscienza ti sembrano più promettenti?

DC: Penso che la scommessa si metta bene per me: al momento non c’è alcuna seria proposta di considerare la coscienza come proprietà intrinseca di un determinato gruppo di neuroni. Gli scienziati tendono a riferirsi a proprietà globali del cervello. Un’idea è che la coscienza corrisponda a uno “spazio di lavoro globale” che attinge informazioni da alcune aree del cervello e le collega con altre. Un’altra idea è la teoria della integrazione dell’informazione (IIT) di Giulio Tononi, secondo cui la coscienza è integrazione dell’informazione nel cervello, misurata da una quantità chiamata Φ: più alta la Φ, migliore la tua integrazione dell’informazione, più alto il tuo grado di coscienza. Sono entrambe idee interessanti, che hanno un certo supporto. Ma nessuna di esse localizza la coscienza come proprietà intrinseca di un piccolo gruppo di neuroni; la considerano come una proprietà globale della rete di neuroni. Lo stesso Christof adesso sostiene la IIT, e sarebbe d’accordo che se questa teoria fosse vera allora la coscienza sarebbe una proprietà estrinseca e relazionale, piuttosto che intrinseca ad alcune cellule, nel qual caso vincerei la scommessa. La teoria di Tononi è molto interessante: non direi che la ritengo senz’altro vera, ma ha una precisa formulazione matematica e va presa sul serio. Al momento però mi sembra più una teoria filosofica che una conseguenza di dati sperimentali.

PP: Si tende a considerare la coscienza come un risultato dell’evoluzione associata alla comparsa della corteccia cerebrale. Che ne pensi delle tesi di quegli scienziati, come Jaap Panksepp e Antonio Damasio, secondo i quali la coscienza ha origine, piuttosto che dalla corteccia cerebrale, da aree inferiori del cervello associate a emozioni e sentimenti primordiali come la sete?

DC: Ci sono idee molto diverse riguardo ai correlati neurali della coscienza, ma credo si debba dire che qualcosa di molto importante avviene nella corteccia: per esempio la percezione cosciente richiede in modo determinante l’attività di un’area della corteccia (la corteccia visuale). Detto questo può darsi che vi siano condizioni della coscienza che sono più basilari, e che essere cosciente richieda qualche contributo dal mesencefalo o dal tronco encefalico, mentre alcuni contenuti della coscienza dipendono dalla corteccia.

PP: Il 2018 è stato anche il cinquantesimo anniversario del libro A Materialist Theory of the Mind (una teoria materialista della mente) di David Armstrong, un libro molto importante che segna l’inizio di un dibattito filosofico ancora in corso. Aderire a una qualche specie di materialismo è stata a lungo la concezione più diffusa tra scienziati e filosofi della mente (tu stesso, qualche anno fa, hai fatto un interessante sondaggio in merito). Hai scritto in diverse occasioni che il materialismo non costituisce una prospettiva accettabile sul problema della coscienza, perché o non fornisce una soluzione o, se lo fa, si trasforma in una teoria differente: puoi spiegarci come la pensi?

DC:
 
Penso che ci sia una lacuna molto seria che qualsiasi teoria materialista della coscienza deve incontrare. Le teorie materialiste sono fondamentalmente meravigliose per spiegare la struttura dei processi fisici, la loro dinamica, e il funzionamento e comportamento di molti sistemi. Quando si tratta di spiegare la mente ci sono molti problemi centrali che si riducono a struttura, dinamica e comportamento, quelli che chiamerei, in opposizione al problema della coscienza, “problemi semplici”: per esempio, spiegare la discriminazione degli oggetti nella percezione, l’integrazione dell’informazione, la reazione agli stimoli, la capacità di rispondere. Per spiegare la coscienza come esperienza soggettiva, tuttavia, ci sono due opzioni. Una è arricchire la tua concezione della materia affermando che questa contiene qualcosa di mentale fin dall’inizio. Se si sceglie di seguire questa via si ha forse un modo di restare materialisti, ma non si tratta certo di un materialismo standard. Se invece mantieni il tuo concetto normale di materia allora hai bisogno di aggiungere qualcosa all’immagine fisica del mondo per ottenere la coscienza, e così vai oltre il materialismo.

PP: Di fatto la coscienza è correlata alla materia, in particolare ai sistemi nervosi. Ma a quali? La ricerca più recente sta approfondendo il problema di quali organismi possono essere considerati coscienti, e se la coscienza si presenta in natura in diversi gradi: pensa al lavoro di Peter Godfre-Smith sui polpi, o alle occasionali speculazioni di Antonio Damasio sulla “proto-coscienza” delle cellule. In effetti alcuni sostengono perfino che le piante, essendo capaci di apprendimento e memoria, potrebbero essere annoverate tra gli esseri coscienti. Dove pensi che possiamo mettere un limite alla presenza della coscienza tra gli esseri naturali?

DC: Non c’è un modo diretto di risolvere la questione, perché non abbiamo un metodo per misurare la coscienza dall’esterno. Sarebbe molto più facile se avessimo il favoloso “coscienzoscopio”, che ti dice se un sistema è cosciente o no. Pertanto dobbiamo affidarci a inferenze indirette basate sul comportamento e su argomenti molto astratti su quali sarebbero le condizioni della coscienza. Detto questo, la tendenza negli ultimi anni è di essere più liberali sulle condizioni della coscienza rispetto al passato. Una volta si richiedeva il linguaggio per poter attribuire la coscienza, e direi che forse questo può essere vero per certe caratteristiche speciali della coscienza, come l’autocoscienza o la coscienza concettuale. Ma se ci riferiamo soltanto all’esperienza soggettiva, il tipo di esperienza che hai quando vedi o provi dolore, è molto implausibile che questa richieda qualcosa di così complicato come il linguaggio. La tendenza oggi è di rifiutare queste condizioni restrittive e considerare coscienti molti esseri privi di linguaggio verbale: non solo i primati, ma certamente tutti i mammiferi sono coscienti, probabilmente tutti gli uccelli. Si discute ancora sui pesci, ma credo che gradualmente ci si sta orientando a includerli tra gli esseri coscienti. Il dibattito più attuale riguarda gli insetti: per esempio se le api, o le formiche, sono coscienti. Sospetto che questa tendenza proseguirà. Ma semplici vermi, piante, cellule, sono coscienti? Non lo so. Credo che quando si arriva alle piante e alle cellule oggi in molti direbbero ancora che non sono coscienti. La cosa interessante è che non c’è un chiaro requisito per essere definiti coscienti che, per esempio, una cellula potrebbe soddisfare. Perciò non abbiamo una chiara prova del fatto che le cellule non siano coscienti. Allo stesso tempo, non abbiamo forti prove del fatto che lo siano. La mia impressione è che non avremo presto un consenso diffuso riguardo alla coscienza di esseri al di fuori del regno animale.

PP: A partire dalla critica del materialismo che hai riassunto prima, negli ultimi decenni c’è stato un consistente ritorno verso ipotesi metafisiche alternative. Tra queste c’è il panpsichismo, cioè la tesi che attribuisce la coscienza alla materia. In passato si è discusso molto del panpsichismo, ed è interessante pensare che oggi la questione possa essere ripresa in base a nuovi dati empirici e nuovi argomenti. D’altra parte, tu stesso hai sostenuto che il panpsichismo può essere formulato in diverse versioni tra cui bisognerebbe scegliere (a seconda che si attribuisca la coscienza a singole parti della materia, o all’intero universo materiale, e così via), e comporta diversi problemi. Pensi che possa essere accettato come soluzione del problema della coscienza?

DC: Penso che sia certamente una delle concezioni che dobbiamo prendere sul serio rispetto al problema della coscienza. Ha alcuni chiari vantaggi: inserisce la coscienza al livello fondamentale, perciò non ha bisogno di farla emergere in qualche strano modo; garantisce la possibilità che la coscienza eserciti un potere causale all’interno dei processi fisici, perché è già presente a livello fisico. Il problema più grande per il panpsichismo è mostrare come le piccole parti di coscienza che si trovano a livello fondamentale si sommino fino a formare il tipo di coscienza che abbiamo noi umani: questo è il problema della combinazione. Se non si risolve torniamo a un dualismo in cui la coscienza umana non è il risultato della fisica e di una coscienza più elementare, e così perdiamo i vantaggi di cui parlavo prima. Molti panpsichisti stanno cercando di risolvere il problema. Credo sia corretto dire che nessuna soluzione finora ha ottenuto molto consenso. Si tratta di un problema che sarà probabilmente difficile da risolvere. Se risolviamo il problema della combinazione allora sì, forse il panpsichismo è la soluzione migliore, altrimenti è solo un’ipotesi tra le tante. Secondo me le opzioni più serie sono una specie di panpsichismo, o forse di dualismo, in cui la coscienza sia una proprietà irriducibile, distinta dalle proprietà della fisica.

PP: Esistono due grandi associazioni dedicate allo studio scientifico della coscienza, con annesse conferenze annuali. Una di queste si è tenuta per la prima volta a Tucson oltre vent’anni fa col titolo “Toward a science of consciousness” (Verso una scienza della coscienza). I contributi solitamente accettati in questa conferenza comprendono, oltre a filosofia e neuroscienza, ardite interpretazioni della meccanica quantistica, filosofia indiana e saggezza dei nativi americani. Ogni tanto, tra chi frequenta la conferenza, viene rilanciato il dubbio  che alcuni di questi contributi sarebbero più che altro “scienza di confine” (fringe science), speculazioni o pezzi di folklore, se non addirittura sfrenate fantasie New Age. Bisogna dire, d’altra parte, che il folklore e la speculazione sono stati presenti nella ricerca scientifica in età moderna, e come abbiamo appena visto in questo campo si discute normalmente di coscienza di cellule, piante e dell’intero universo. Ma ti chiedo: pensi che la possibilità di sottoporre le ipotesi a prove sperimentali, o altri criteri, possano tracciare un limite di ciò che è proponibile in questo campo, oppure pensi che una libertà incondizionata possa essere un beneficio?

DC: Penso sia una questione complicata, che è al centro delle discussioni ormai da decenni. Personalmente sono stato coinvolto nella nascita dei gruppi che citi: sono tra i fondatori dell’“Associazione per lo studio scientifico della coscienza” (ASSC), il gruppo più ristretto dal punto di vista disciplinare (psicologia, neuroscienza e filosofia), e ho partecipato alla prima conferenza di Tucson, dopo la quale sono stato co-organizzatore della conferenza, fino a qualche anno fa. Penso sia un bene per questo campo avere sia un approccio più ristretto, sia uno più ampio. Se avessimo soltanto l’approccio più ristretto, riservato alle idee con un certo livello di rispettabilità scientifica, ci sarebbe il pericolo di perdere ogni genere di idea speculativa che alla lunga potrebbe risultare promettente. Il fatto è che negli studi sulla coscienza non si è ancora costituito un paradigma disciplinare, perciò ci sono buone ragioni per far sbocciare mille fiori. Allo stesso tempo, se lasci sbocciare mille fiori in lungo e in largo, c’è il grave pericolo che questa scienza appaia a molti una cosa non seria e non rigorosa, e questo danneggerebbe lo sviluppo del serio approccio neuroscientifico. Avere il doppio approccio, in modo tale che neuroscienziati e psicologi più “conservatori” vadano a una conferenza, mentre le persone con idee più speculative possono andare all’altra, è salutare. Devo aggiungere che anche la conferenza di Tucson ha sempre privilegiato la scienza, solo che ha anche dato voce a altri approcci – come la spiritualità, la meccanica quantistica, la parapsicologia – che non sarebbero stati ammessi dall’altra società. Alla fine, la conferenza di Tucson stava andando un po’ troppo in questa direzione perché io mi sentissi a mio agio, e ne sono uscito. È stata rinominata “La scienza della coscienza”, ma mi piaceva l’umiltà dell’espressione “Verso…”. Detto questo: dovremmo limitarci a ipotesi sperimentalmente testabili? Naturalmente no. La maggior parte delle idee in filosofia non lo sono, è la natura di tanta filosofia. Significa che non vale niente? No, significa che c’è una differenza tra filosofia e scienza. E resisto all’idea di una ricerca sulla coscienza da cui sia esclusa la filosofia.

PP: Ma c’è una qualche teoria della coscienza sperimentalmente testabile?

DC: Anche all’interno della scienza della coscienza ci sono diversi gradi di testabilità. La teoria dell’integrazione dell’informazione sarebbe testabile, ma è molto difficile effettuare le prove perché è molto difficile misurare l’integrazione dell’informazione. Alla lunga potrebbero esserci degli esperimenti. Al momento io sono coinvolto in un progetto insieme a neuroscienziati e altri ricercatori con l’obiettivo di sottoporre a test sperimentali le maggiori teorie della coscienza (teoria dell’informazione integrata, teoria dello spazio globale di lavoro, eccetera). Alcuni degli autori di queste teorie sono coinvolti nel progetto, e lo scopo comune è gettare luce su quale di queste sia corretta. Non si tratta di esperimenti che potrebbero di volta in volta stabilire come stanno le cose, ma potrebbero fornire prove a sostegno di una teoria o dell’altra. Credo che dobbiamo proseguire su questi binari paralleli e accumulare informazioni, ammettendo che si tratta di un progetto a lungo termine. Abbiamo bisogno di formulare idee speculative, di raffinarle fino a farne filosofia seria, per poi, gradualmente, farne teorie scientifiche. Possiamo sperare di fare progressi nel corso dei prossimi decenni.

PP: Non sembra una situazione tanto diversa da quella di alcuni campi della fisica teorica.

DC: Sì, la teoria delle stringhe, per esempio, è lontana dall’essere sperimentalmente testabile, ma si spera che lo diventi più avanti.

PP: L’ascesa dell’intelligenza artificiale ha costituito una grande novità per la filosofia della mente. Alcune teorie della coscienza ammettono la possibilità che le macchine possano essere coscienti (o che possano diventarlo in futuro). Pensi sia un’ipotesi plausibile?

DC: Non vedo perché le macchine non dovrebbero diventare coscienti. In un certo senso sappiamo già che esistono macchine coscienti, perché, sai, a un certo livello sembra che noi stessi siamo macchine: i nostri cervelli sono macchine complicate, e a quanto pare siamo coscienti. La domanda allora è: solo le macchine biologiche possono essere coscienti, o potrebbero esserlo anche le macchine di silicio? Non ho ancora trovato ragioni convincenti del fatto che ci sia qualcosa di specificamente biologico nella coscienza. Penso che ciò che conti per la coscienza sia il modo in cui le parti di un sistema sono collegate, e non la loro intrinseca natura biologica. Se le cose stanno così, allora potresti in linea di principio sostituire i neuroni del tuo cervello con dei chip di silicio che fanno le stesse cose, e restare cosciente. Forse in futuro la gente avrà veramente dei neuroni artificiali, così come ora si hanno cuori artificiali. In tal caso, verrebbe meno la coscienza? Beh, io credo di no. Questo suggerisce che in linea di principio i sistemi di silicio potrebbero essere coscienti. Fatta questa premessa ci si domanda: entro quali limiti? Ogni sistema di intelligenza artificiale potrebbe essere cosciente? Si devono porre delle condizioni restrittive? Se il panpsichismo è vero, allora esistono già dei sistemi di intelligenza artificiale coscienti, anche semplici circuiti. Se invece la coscienza richiede condizioni più restrittive, allora forse solo alcune forme complesse di intelligenza artificiale sarebbero coscienti. In ogni caso, non vedo ostacoli teorici alla possibilità che le macchine siano coscienti.

PP: Una possibile critica di questa concezione è collegata non tanto alla base materiale della mente, ma al fatto che le macchine coscienti dovrebbero avere un corpo come il nostro, perché la coscienza è collegata all’intero animale e forse – come ha ribadito di recente Siri Hustvedt – è inseparabile dal nostro sviluppo graduale e dal rapporto con altri individui. Ma l’intelligenza artificiale concepisce la coscienza piuttosto come un software, che come tale può girare su diversi supporti. Questo ha dato luogo a congetture che stanno tra la scienza e la fantascienza.  Mark O'Connell ha raccontato il gruppo dei “transumanisti” della Silicon valley, convinti della possibilità di superare i limiti naturali della vita umana trasferendo la coscienza in altri corpi. L’ipotesi di “scaricare” la coscienza, ripresa anche dalla serie tv Black mirror, sviluppa proprio questa immagine della coscienza come software separabile dal suo deperibile hardware. Che ne pensi di queste idee?

DC: È possibile caricare la coscienza dal tuo cervello in un sistema di intelligenza artificiale, o nel cloud, e poi scaricarla di nuovo in un robot? Penso si tratti di una prospettiva interessante: in linea di principio quel che è essenziale alla coscienza è l’elaborazione e l’organizzazione dell’informazione. Dovrebbe essere possibile implementarla in un altro sostrato, spostandola dalla base neurale a quella di silicio. Ci sono molti modi in cui questo potrebbe avvenire. Per me il più diretto sarebbe un caricamento graduale, per cui sostituisci i tuoi neuroni gradualmente, uno per uno, con dei chip di silicone: alla fine forse ci saresti ancora tu. Invece caricare la coscienza nel cloud tutta in una volta e scaricarla in un nuovo sistema porrebbe due problemi filosofici. Primo: il nuovo sistema sarebbe cosciente? Beh, sì, potrebbe esserlo. Secondo: quel sistema sarei ancora io, o sarebbe qualcun altro? Potresti caricarmi dal mio cervello e scaricarmi in un robot mentre il mio cervello esiste ancora: in questo caso sarei tentato di dire che io sono qui, nel mio corpo biologico, mentre nel corpo robotico c’è qualcun altro. Forse è un mio doppio, ma non sono io. Altra questione: se carico la mia coscienza nel cloud, e il mio cervello muore, e poi la scarico nel robot: a quel punto ci sarei io? Ragionando come prima ci sono ragioni di dubitare che sarei io. Questo pone un’obiezione molto pratica all’idea del caricamento come forma di sopravvivenza personale. In Black Mirror succede proprio così: il caricamento è una forma di vita dopo la morte. Ma sarebbe una vita dopo la morte per me? Penso che una volta che queste cose diventeranno praticamente possibili l’analisi filosofica diventerà molto importante, perché avremo a che fare con problemi di identità personale. Non ho opinioni molto nette su quest’ultimo problema. Ma confido nel fatto che il sistema caricato sarebbe cosciente: là ci sarebbe qualcuno, che si tratti di me o no.

PP: Di recente hai lavorato su virtuale e reale, un’opposizione cruciale non soltanto per la filosofia, ma per l’intera cultura contemporanea. La tua tesi è che non ci sia dopotutto una netta opposizione, e che il virtuale sia una specie di realtà. Puoi spiegarci in breve come la pensi?

DC: La tecnologia della realtà virtuale sta diventando sempre più diffusa come mezzo per interagire nel mondo reale. Per anni la gente che gioca ai videogiochi, a World of Warcraft, a Second life, ha interagito con mondi virtuali. Ora sta diventando possibile interagire con questi mondi virtuali mediante cuffie che rendono l’esperienza completamente immersiva e interattiva. Questo pone molte domande filosofiche. Per esempio, come sappiamo che non stiamo già vivendo in una realtà virtuale? (questa è una versione della domanda di Descartes: come sappiamo che la nostra esperienza percettiva non sia l’inganno di un demone malvagio?) Altra domanda: se siamo in una realtà virtuale, questa è una specie di illusione, una finzione, o è reale? Io voglio sostenere con decisione che la realtà virtuale è una specie di realtà vera e propria, e non una realtà di seconda classe. Quando interagisci nel mondo virtuale stai interagendo con reali oggetti virtuali, solo che sono oggetti digitali, fatti fondamentalmente di informazione in un computer. Se tutta la nostra vita vissuta fosse una simulazione, come avviene in film come Matrix, qualcuno dice che la realtà sarebbe un’illusione. Io dico di no. Se viviamo nella matrice tutto ciò che ci circonda è reale; solo che è digitale. È un altro modo di essere reale, non una falsa realtà. Credo che questo ragionamento possa avere la sua importanza non soltanto riguardo a astratte domande filosofiche, ma anche per il nostro modo di pensare agli ambienti virtuali in futuro. Potremmo avere l’opportunità di trascorrere sempre più tempo in questi ambienti, per lavoro, piacere, viaggio, o semplicemente per vivere le nostre vite, e allora si porrebbe la questione: si tratta in qualche modo di una vita di seconda classe? La mia opinione è che in linea di principio nulla impedisce di vivere una vita pienamente sensata in una realtà virtuale.