martedì 8 giugno 2021

Il "Saggio" del mese - Giugno 2021

 

Il “Saggio” del mese

 GIUGNO 2021

I contributi che da tempo stiamo pubblicando attorno alle tematiche, fra di loro strettamente connesse, della giustizia sociale e della sostenibilità ambientale sono finora consistiti in riflessioni di carattere filosofico, sociale, politico ed istituzionale, ed economico. Quello che pubblichiamo in questo post ci viene invece fornito da una disciplina, l’antropologia, stranamente, ed erroneamente, ancora troppo poco chiamata in causa nell’affrontare le problematiche di un nuovo modello di sviluppo, di una diversa idea di progresso, del giusto ruolo della tecnologia. L’occasione per recuperare almeno in parte questa manchevolezza ci è stata offerta dalla segnalazione, fattaci dalla nostra socia e attiva collaboratrice Carla Toscano, di un testo ormai divenuto un “classico” dell’antropologia contemporanea. Alla segnalazione si è poi aggiunta la graditissima messa a disposizione degli appunti che di questo testo sono stati fatti, per un esame universitario, dalla nipote di Carla, Clara Politi, fresca laureata con “lode” proprio in questa disciplina, alla quale vanno quindi le nostre congratulazioni ed il nostro sentito grazie. Con questo post, costruito proprio sulla traccia di questi appunti, contiamo di recuperare, limitandoci alla sua valenza generale senza entrare quindi nel merito di un complesso terreno specialistico, un punto di vista quanto mai stimolante ed in grado di guardare a queste tematiche da una diversa prospettiva. Il “Saggio” di Giugno 2021 è quindi:


Philippe Descola, (Parigi 1949, antropologo francese, titolare della cattedra che fu di Claude Lévi-Strauss al Collège de France e direttore del dipartimento LAS - Laboratorio di Antropologia Sociale di Parigi fondato dallo stesso Lévi-Strauss)


Con questo suo saggio Descola intende mettere in luce l’esistenza di un errore di fondo che ha, in forme mutevoli ma comuni nella sostanza, caratterizzato l’idea occidentale di Natura e Cultura, fondamento dell’intero campo delle scienze umane e sociali. Come vedremo più in dettaglio questo errore si fonda dalla congiunzione di due idee di base: quella di una “Natura” come ‘regno’ a sé stante, di fatto separato dall’uomo, e quindi possibile oggetto di “osservazione e conoscenza”, e quella di una “Cultura”, di più culture intrecciate, come dimensione a sua volta così separata e distinta da quella della Natura da poter assumere il ruolo di “osservatore e conoscitore”. Su questo peccato originale della tradizione culturale occidentale si è così sviluppata l’erronea presunzione dell’uomo di essere un soggetto privilegiato, in quanto unico vivente dotato di socialità, contrapposto, da “separato”, ad un ambiente ritenuto e trattato come elemento “a parte”. Non è allora certo un caso per Descola che proprio in Occidente siano nate le idee di “scienza” vista come un sapere esatto e verificabile, di “tecnologia” e quindi di “progresso”. L’ indiscussa superiorità tecno-economica della nostra cultura non si è generata dal nulla, ma poggia le sue fondamenta esattamente su questa visione del mondo e della natura, su questa concezione della vita, dell’esistenza, L’obiettivo di Descola è quindi quello di andare oltre questa errata distinzione tra natura e cultura, analizzando nel dettaglio il suo formarsi nello spazio e nel tempo, per metterla poi a confronto con altri ‘modi di identificazione’ fra uomo e ambiente presenti in pensieri diversi da quello occidentale, e provando a fissare un insieme più completo delle relazioni fra “uomo” e “mondo”, fra “uomo” e  tutti gli “altri”, umani e non umani. Il lavoro di Descola non ha soltanto impresso una svolta nel campo degli studi antropologici, ma sviluppa considerazioni in grado di incidere sulla intera cultura della modernità, filosofia teoretica e filosofia della scienza comprese. Mettere in discussione l’esistenza stessa del concetto di “natura” è una svolta non da poco, al punto da richiedere uno sforzo concettuale allo stesso ambientalismo ed alla sua idea di “ecologia”.

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 “Oltre natura e cultura” prende avvio da una esperienza, di studio e “di amicizia”, presso una popolazione della foresta Amazzonica peruviana, gli Achuar

SEZIONE 1 – L’ILLUSIONE DELLA NATURA

E’ durante questa esperienza che Descola inizia a “interrogarsi sull’evidenza della natura” rafforzando “sul campo” una visione antropologica basata sul concetto di “continuità”, alternativa a quella basata sulla classica distinzione tra “tradizionale” e “moderno”, di fatto alla base della dicotomia fra un “noi”, il dopo migliore, e un “altri”, il prima meno evoluto. Descola è spinto a questo interrogarsi dal constatare che per gli Achuar non esiste alcuna separazione tra uomo e natura, tra la comunità umana e le altre forme viventi, che rientrano a pieno titolo fra “le persone”. La foresta selvaggia è una sorta di orto le cui piante sono curate come bambini da crescere, e gli animali che l’abitano sono prede da rispettare come parenti acquisiti, a formare una parentela diffusa e stretta con la quale si ha una continua “comunicazione”. Per gli Achuar le diverse forme di vita non sono classificate in una gerarchia di gradi di perfezione dell’essere, ma si spiegano solo per il loro differente modo di “comunicare”, a formare una rete complessa di relazioni riconducibile all’essenza dell’ “animismo”, una idea della natura in cui tutte le forme viventi sono spiritualmente accomunate ed in cui l’essenza di ogni entità è decisa proprio dal suo relazionarsi con le altre. L’esatto opposto del naturalismo occidentale moderno che tutte le ordina e le distingue in relazione alla base biologica. La diversa visione degli Achuar, inserendosi nel più ampio contesto dell’animismo, non rappresenta quindi un caso isolato, ed in effetti Descola, allargando progressivamente il suo raggio di osservazione, prende in esame altre etnie prima amazzoniche, poi della regione sub-artica canadese, per poi passare, attraverso lo stretto di Bering, in Siberia per chiudere infine il cerchio in Africa. Quello che emerge, a prescindere dalle caratteristiche ecologiche del luogo, dai regimi politici ed economici, dalle risorse accessibili e dalle tecniche utilizzate per sfruttarle, è che in numerose zone del pianeta, umani e non umani non sono percepiti, come nella visione occidentale, come mondi separati ed incomunicabili; l’ambiente non è oggettivato come una sfera autonoma. Le piante e gli animali, i fiumi e le rocce, i fenomeni metereologici e le stagioni non sono confinati in una nicchia a sé stante definita dalla assenza dell’uomo. La linea netta di separazione tra la società degli umani e le altre forme di vita non umane si rivela essere una visione esclusiva della sola cultura occidentale in base alla quale la natura è davvero identificata come “una nicchia a sé stante compiutamente segnata dalla assenza dell’umano, che si completa con la conseguente divisione dell’ambiente terrestre in “luoghi selvaggi” e “luoghi addomesticati”. Va da sé che anche questa divisione non è rintracciabile in numerose altre società e culture: non compare di certo nei popoli nomadi ed in quelli cacciatori-raccoglitori. Gli stessi Achuar, ed altre etnie che pur vivono stabilmente in spazi organizzati separati dall’ambiente circostante, riducono questa separazione alla sola opposizione tra “piante coltivate dagli uomini” e “piante coltivate dagli spiriti”, e per gli animali tra “quelli abituati agli umani” e quelli che non lo sono, ben lungi quindi dall’essere considerati “selvaggi”. Gli aborigeni australiani, non a caso a loro volta, contestano l’uso da parte del governo del termine “wilderness – natura selvaggia per indicare i territori da loro abitati. Una differenza così marcata come quella occidentale non compare neppure nelle grandi civiltà orientali - cinese, indiana, giapponese - le quali ricorrono a termini che si limitano ad indicare una sorta di soglia, di limite, tra gli spazi domestici e quelli esterni, mai però definiti nel senso occidentale di selvaggi. A differenza però della prima insanabile cesura fra uomo e natura, questa seconda fra “luoghi addomesticati” e luoghi selvaggi” è attraversata da linee più incerte, più problematiche. La stessa etimologia di selvaggio che rimanda alla “silva” romana, la grande foresta europea ormai intaccata fino alla sua quasi totale scomparsa (N.B. = il nostro “Saggio del mese di Settembre 2019 “Storia dei boschi: dalle origini ad oggi” di Hansjork Kuster dedica ampio spazio all’evoluzione della foresta europea), ad alla sua contrapposizione con l’ “ager”, la terra conquistata all’agricoltura, non sempre nella stessa cultura occidentale ha rappresentato una insuperabile linea di separazione fra il buono ed il cattivo, fra il sicuro e l’insicuro, talvolta ritenuti presenti vuoi in una vuoi nell’altra. Nelle ancestrali origini della concezione occidentale di natura restano comunque importanti le tracce di queste due contrapposizioni, la cui sommatoria ha progressivamente determinato una separazione che con la Modernità si è di fatto esplicitata come invalicabile. Ne è vivida testimonianza la “creazione del paesaggio” (N.B. = anche questo aspetto è stato il tema di un nostro “Saggio del mese”, quello di Ottobre 2019 sempre di Hansjork Kuster con titolo “Breve storia del paesaggio”) nella quale emerge chiaramente la finalità, tutta occidentale, di far emergere il ruolo dell’uomo come “artefice” della razionale modificazione del disordine naturale, fino a rappresentare metaforicamente la stessa insanabile separazione tra uomo e natura. A questa definitiva separazione la cultura occidentale è pervenuta lungo un percorso scandito da tre passaggi: il primo gradino è rappresentato dalla concezione greca del Cosmo come unico contenitore di natura ed umano che limitava l’uomo alla sola possibilità di pervenire, attraverso la conoscenza, alle leggi che tutto regolano, a cui è seguito l’avvento del Cristianesimo e della sua fin troppo rigida interpretazione della concezione biblica della Genesi che pone l’uomo, per volere divino, “al di sopra, in posizione trascendente, al resto del creato”. Ma è solo con la rivoluzione scientifica del XVII secolo che si creano le condizioni per il definitivo impossessamento umano della natura vista a quel punto non solo come separata sfera a sé stante, ma ormai come oggetto da sfruttare e adattare alle esigenze umane. Descola si affida a Merleau-Ponty (1908-1961, filosofo francese esponente di primo piano della corrente fenomenologica del Novecento) per chiarire i veri termini del rapporto tra scienza e natura: ... non sono le idee scientifiche che hanno provocato il cambiamento dell’idea di Natura. E’ il cambiamento dell’idea di Natura che ha permesso queste scoperte ….. A cavallo tra il XVI e il XVII, negli anni in cui Cartesio teorizza il dualismo tra “res extensa” la natura, il mondo, e “res cogitans”, l’uomo e la sua razionalità, le scienze occidentali si muovono prima in timido contrasto con la visione delle Sacre Scritture per poi affiancarla e scavalcarla con le dimostrazioni inconfutabili dei verdetti di scienziati e matematici. L’approccio scientifico trascina con sé altre due categorie: la società e la cultura intesa in senso lato. Se solo nel XIX secolo il concetto di “società” assumerà la sua definizione di entità aggiuntiva e superiore a quella del semplice insieme degli individui, il rapporto tra “cultura e natura” conosce una inarrestabile evoluzione a sancire l’ormai totale indipendenza della prima. E’ in questo contesto che la stessa antropologia nasce come disciplina scientifica autonoma concentrando su questo aspetto dirimente molte delle sue attenzioni, in particolare nella specifica branca della “etnologia”, a partire dallo scoglio rappresentato dal capire se di “cultura” o di “culture” si deve parlare. Là dove gli studi etnologici hanno recensito ben 164 diverse accezioni del termine “cultura” il dibattito in ambito antropologico tiene per certi versi ancora ferma la centralità di una nozione di cultura “al singolare”, intesa come “attributo distintivo dell’umanità nel suo complesso”. Peraltro questa definizione da sola non implicherebbe un suo automatico contrapporsi dualistico con la natura, ma una parte significativa della antropologia, quella tedesca e nordamericana in particolare, lo ripresenta attribuendo, in modo per molti aspetti contraddittori, una valenza universale al paradigma della cultura occidentale ed al suo evolversi lungo binari distinti da quelli dell’evoluzione naturale. Descola, se da una parte riconosce che questo dualismo ha comportato per la stessa antropologia alcuni vantaggi metodologici, sollecita, al fine di meglio comprendere come altre culture si siano evolute su basi differenti, ad uscire dallo stretto paradigma della cultura occidentale. Lo scopo di questo suo saggio è quindi proprio quello di smontare il dualismo uomo-natura uscendo dalla prigione della cultura occidentale grazie ad una prospettiva meno rigida e più aperta al confronto con le altre culture, evitando al tempo stesso di cadere in una sorta di relativismo assoluto. Per farlo ritiene necessario tentare di capire, dal punto di osservazione antropologico, attraverso quali percorsi e su quali basi queste altre “culture” si siano formate. Un primo indispensabile passo consiste nel sottoporre a critica i modi analitici con cui l’antropologia ha finora studiato le forme dell’esperienza umana.

SEZIONE 2 – STRUTTURE DELL’ESPERIENZA

Per meglio comprendere i diversi modi con cui l’uomo, nell’ambito delle sue differenti culture, ha vissuto e vive il suo “essere nel mondo” è infatti utile analizzarne le articolazioni nelle pratiche concrete di vita, utilizzando due concetti tra di loro all’apparenza contradditori: quello di “struttura”, fortemente definito e rigido, e quello di “esperienza”, al contrario in mutevole evoluzione. Ciò sembra universalmente possibile perché le pratiche ed i comportamenti, vale a dire “l’esperienza”, di una comunità tendono, ovunque e sempre, a manifestarsi con una progressiva regolarità tale da sfociare e costituire, sui tempi lunghi, un insieme di ripetuti automatismi, ossia “le strutture”. Si è di fronte ad uno studio, interpretato con differenti accenti dalle diverse correnti di pensiero antropologico, che deve trovare un suo equilibrio fra il rischio di una eccessiva generalizzazione piuttosto che quello di un esasperato particolarismo. E’ la ricerca che lo stesso Descola porta da tempo avanti sulla traccia del lavoro di Levi-Strauss mirata a far emergere gli “schemi concettuali e pratici” che, in assenza di “regole esplicite”, le “norme” nelle loro varie forme, concorrono a formare una sorta di “esperienza strutturata”. Come “schema” si deve intendere un modo di porsi di fronte a situazioni frequenti, una loro “interpretazione”, composto non solo da aspetti linguistici, ma anche da gesti e attività pratiche, che ripetendosi progressivamente nel tempo, diventano, in un definito contesto specifico, una risposta cognitiva così efficace ed immediata da divenire di fatto automatica, vale a dire degli “schematismi” validi per il singolo individuo piuttosto che per l’intera comunità. Le situazioni dell’essere nel mondo in cui, nella storia dell’umanità, questi schematismi sono progressivamente emersi sono quelle che di più, per la loro rilevanza e ripetitività, hanno concorso a formare il rapporto con il mondo stesso; sono ad esempio quelle dell’organizzazione della caccia o del pascolo, della predisposizione e gestione degli spazi vitali, delle modalità di costruzione delle case e dei villaggi. Si tratta di processi che, ancora oggi ed ovunque, si alimentano e si perfezionano confrontandosi con situazioni inedite che inizialmente richiedono di ricorrere a schemi mentali originali e non schematizzati. Descola ipotizza su queste basi che tutti gli schemi che nelle varie culture hanno orientato l’essere nel mondo siano il frutto combinato di predisposizioni, assurte fino all’essere innate, e di modi pratici di integrarsi in un ambiente dato, che confluiscono in due definite modalità di strutturazione dell’esperienza: “l’identificazione” e “la relazione”. Ambedue, pur muovendosi su piani diversi, concorrono, intrecciandosi continuamente, a formare lo schema base del rapporto fra “l’io” e “l’altro”. Questo rapporto si manifesta su due livelli: quello “dell’interiorità”, la sfera degli affetti, dei significati, della condivisione, e quello “della fisicità”, la sfera delle espressioni, dei gesti, dei comportamenti corporali. A suo avviso ogni uomo si percepisce come un’entità mista di interiorità e di fisicità, e su questo percepirsi articola il suo rapporto con l’altro e con il mondo intero. Si tratta per Descola di un aspetto decisivo per analizzare “l’essere nel mondo” perché se, come si è visto, la distinzione tra natura e cultura non è universale, la dicotomia interiorità-fisicità al contrario lo è. Ed è altrettanto universale il modo di viverla: in nessuna cultura è rintracciabile una concezione dell’uomo basata sulla sola interiorità piuttosto che sulla solo fisicità. In questo quadro unificante la visione occidentale che riduce tale dicotomia all’opposizione tra “corpo” ed “anima” diventa solo una delle sue tante varianti locali, le quali possono essere ricondotte a quattro grandi “formule di combinazione”: animismo – totemismo – naturalismo – analogismo. Nella successiva sezione Descola passa ad esaminarle

SEZIONE 3 – LE DISPOSIZIONI DELL’ESSERE

Animismo: abbiamo già visto con gli Achuar che l’essenza dell’animismo consiste nell’attribuire ai non umani la stessa “interiorità” umana, facendoli cosi rientrare a pieno titolo nel contesto culturale umano e stabilendo con essi relazioni di comunicazione. La diversità fra umano e non umano si manifesta di conseguenza nella sola differenza fisica, è il solo “corpo” che stabilisce la loro diversa ontologia. Se la “cultura” li accomuna la “natura” li differenzia nella “forma”.  La quale, manifestandosi in una comunanza di “interiorità”, fissa allora non solo i tratti corporali ma attribuisce ad ogni vivente il suo specifico spazio naturale, determinando  così l’intero complesso delle relazioni fra umano e non umano e dando senso all’intera gamma delle pratiche esistenziali, dei riti di mascheramento e metamorfosi, delle prescrizioni alimentari. Totemismo: la visione totemica, in termini molto generali, rappresenta una fusione ancora più marcata fra l’umano ed il non umano. Collocandosi in un vero e proprio sistema cosmologico il totemismo sostiene una loro comune origine primordiale che sfocia in una ampia gamma di differenziazioni, così marcata e vincolante da imporre su queste coincidenze d’origine la costruzione dell’intera realtà sociale. Il sistema totemico di classificazione delle coincidenze è molto complesso e gli studi antropologici presentano al riguardo valutazioni diverse e spesso contrastanti. L’ibridazione fra umano e non umano può basarsi sulla condivisione di una stessa sostanza (ad es. carne, sangue, pelle), sulla identità di essenza, piuttosto che sul possesso di comuni caratteristiche fisiche (ad es. rotondo-piatto), comportamentali (ad es. lento/veloce) e persino umorali (ad es. sangue caldo-freddo). Ai fini del nostro specifico approccio ciò che conta è rilevare che il totemismo presuppone su queste basi una così definita coincidenza costituzionale tra umano e non umano, sia di interiorità che di fisicità, da rendere, ancor più dell’animismo, del tutto impossibile la loro distinzione. Analogismo: Mentre l’animismo mantiene come si è detto una separazione tra “interiorità” e “fisicità” ed il totemismo introduce una loro doppia continuità, l’analogismo propone una visione diversa del frazionamento di tutti gli esistenti in una molteplicità di forme, di essenza, fra di loro distinte da deboli differenze. Recupera in questo modo una visione olistica del vivente per quanto mosso da un continuo processo di mutamento di identità. E’ una visione dell’essere nel mondo in parte presente persino nella cultura occidentale, ed in particolare nella concezione teologica medioevale della “grande catena dell’essere”, nella quale le relazioni tra viventi sono articolate in un gioco fra “continuo” e “discontinuo”, ed è rintracciabile in parte della visione filosofica di natura di Spinoza. Ma è soprattutto alla base delle concezioni della natura e dell’uomo, proprie di etnie del Centro America e dell’Africa, che vedono in ogni esistente una pluralità di essenze che in qualche modo travalicano la distinzione tra “interiorità” e “fisicità”. Uomini ed animali sono distinti, ma inseriti in un processo di mutazione continua che contempla la trasmigrazione dell’anima, la reincarnazione, la metempsicosi. Naturalismo: all’animismo, ed ancor più a totemismo e analogismo, si oppone come controparte inconciliabile il naturalismo che ne capovolge l’assunto di base: là dove l’animismo vede unità di interiorità e diversità di fisicità, il naturalismo sostiene la comune appartenenza di umano e non umano ad un solo ordine naturale, da qui il termine naturalismo, che sancisce le loro specifiche fisicità, ed al contempo fissa una netta ed insuperabile discontinuità della loro interiorità. L’innegabile constatazione di una diversa coscienza, di una differente soggettività, diventa il presupposto per affermare l’esistenza di una irriducibile contrapposizione ontologica di carattere “culturale”. E una convinzione senza appello tale da invertire il rapporto con quegli stessi assunti teologici, visti in precedenza, che pongono l’uomo al vertice della creazione divina: diventa infatti lecito ritenere che non questi hanno formato la presunzione umana ma, al contrario, la convinzione umana di una superiorità “naturale”, derivante dalle sue predisposizione interne, può spiegare questi stessi assunti. Il dibattito sulla sostenibilità di questa presunzione ha attraversato l’intera storia della cultura occidentale, non tanto attorno all’evidente salto qualitativo che caratterizza l’interiorità umana, quanto sulla possibilità di una capacità cognitiva nel mondo animale e vegetale, la cui sussistenza è sempre più sostenuta, con evidenze sempre più inoppugnabili, dalla etologia contemporanea. Ma a ben vedere anche questo crescente riconoscimento non sembra essere in grado, da solo, di spostare più di tanto i termini della questione: concedere a forme animali o vegetali il possesso di capacità di comunicazione e di elaborazione intelligente di strategie comportamentali può persino essere un rafforzamento dell’idea dell’appartenenza ad una comune “naturalità” universale. Se nella visione naturalista classica l’interiorità umana era dote esclusiva in quanto determinata dal possesso dell’ “anima”, in quella propria della Modernità occidentale essa poggia invece sulla diversa “coscienza di sé” e sulla collegata “soggettività”, fonte delle convinzioni morali alla base della vita comunitaria umana. Da questo punto di vista piante ed animali restano confinati ad una interiorità di rango inferiore perché costituzionalmente incapace di sistemi relazionali complessi. Non mancano anche su questi temi scuole di pensiero più o meno timidamente alternativo, ma il “naturalismo” occidentale mantiene intatta questa sua costituente visione di fondo. Descola completa in questa sezione la disamina delle quattro “formule di combinazione” evidenziando le loro varie possibilità di incrocio così come  si sono manifestate nel corso dell’evoluzione storica. Un passaggio utile a sistematizzare le loro visioni dell’ “essere nel mondo” per passare a comprendere la loro influenza sui diversi modi di organizzazione sociale e dell’intera sfera esistenziale

SEZIONE 4 – GLI USI DEL MONDO

Il modo animistico di collegare umani e non umani nella comune interiorità si completa con il distribuirli in “specie” sociali, sempre definite da una comune specifica interiorità, a formare dei “collettivi” fondati sul possesso di proprietà identiche. Tutti gli esistenti, senza distinzione, che confluiscono nella stessa “tribù-specie” condividono così aspetto, habitat, comportamento alimentare e sessuale. Non esiste quindi un mondo della società ed uno della natura, ma un “mondo unico” all’interno del quale gli umani, “organismi-persone” sono in stretta relazione con tutte le altre forme di vita. Non esistono pertanto rigide “categorie sociali”, all’interno della propria specie e collettivo i legami sono definiti come quelli della socialità umana: amicizia, rivalità, matrimonio, adozione, rispetto per gli anziani, e così via. Nel mondo animistico tutte le relazioni, anche quelle tra umani e non-umani, si manifestano come relazioni tra umani, e queste a loro volta si sviluppano in modo coerente con il quadro comune. Nel totemismo intervengono alcune significativa differenze: i collettivi animisti diventano “gruppi totemici”, entità che raggruppano gli umani e non umani che condividono la stessa impronta totemica. Gli attributi specifici di ogni gruppo totemico non sono quindi una estensione di quelli umani, ma sono fissati dalla loro origine cosmica. La quale determina l’esistenza di diversi tipi incrociati di collettivi totemici, consentendo quindi allo stesso umano la possibilità di appartenere a più collettivi, e di realizzare in questo modo variegate relazioni fra differenti gruppi totemici. Il totemismo costruisce in questo modo una sorta di loro fusione sulla base della quale si creano i legami sociali e tutte le stesse articolazioni del mondo. Ancora diversa è la ricaduta sull’organizzazione sociale della visione propria dell’analogismo. La sua concezione olistica delle forme viventi, che come si è visto travalica interiorità e fisicità, implica, con il loro continuo evolversi attraverso mutamenti e metamorfosi, la necessità di una organizzazione delle relazioni per evitare un pericoloso disordine. Questa organizzazione si basa su un ordine classificatorio formato da coppie di contrapposti quali ad esempio: est-ovest, destra-sinistra, maschile-femminile, alto-basso. I collettivi così costituiti includono ovviamente umani e non umani e, sempre al fine di evitare il caos, nessuno, umano e non, può essere un “fuori mondo” può esserne cioè escluso. Come controcanto ogni collettivo, raggruppando di fatto il tutto, è unico, autosufficiente, autonomo. All’estremo opposto e coerentemente con la sua visione del rapporto tra umani e non umani il naturalismo resta quindi l’unica visione del mondo totalmente antropocentrica, basata com’è sul senso morale posseduto dal solo uomo. I collettivi naturalistici sono conseguentemente fondati su “libere associazioni”, con convenzioni altrettanto libere, differenziati dal linguaggio e da una specifica cultura.  La natura, il non umano, non concorre minimamente alla formazione di questi collettivi restando sempre confinata a comune scenario di fondo. I collettivi naturalistici possono semmai, in base a specifiche scelte culturali, essere più o meno “vicini” alla natura, più o meno disposti a concedere ai non umani il diritto ad un trattamento “da umano” di diverse gradazioni. Da queste differenti concezioni degli “usi del mondo” derivano analoghe differenze negli “stili di vita”. Non a caso, ad esempio, nel mondo animista il modo di vivere è costantemente guidato dallo scrupolo di capire se le relazioni avvengono con un umano o con un non umano “umanizzato”, creando così una rete di rapporti in cui tutti viventi sono al tempo stesso predatori e prede. Ed in quello totemico, i cui gruppi come si è visto raggruppano strettamente umani e non umani sulla base della loro impronta totemica, ed in cui quindi si può essere indifferentemente umano e non umano, l’uomo si considera come una forma, fra le tante, della sua essenza totemica. Il suo modo di vivere deve esser allora ispirato dal rispetto della sua sostanza totemica qualunque forma questa assuma ed in qualunque luogo si manifesti. Ciò non significa rinchiudersi in un isolamento dal resto dei gruppi totemici, i quali anzi interagiscono tra di loro per garantire la sopravvivenza dell’insieme totemico. All’opposto si muovono gli umani nella visione dell’analogismo. Se nel totemismo gli stili di vita devono mirare a mantenere coerenti alla loro sostanza totemica le singole forme di vita, nell’analogismo, per il quale “tutto è in tutto”, lo scopo di vita è quello di conservare in una giusta relazione di amalgama tutte le singolarità. Aiuta a muoversi in questa dimensione l’organizzazione delle relazioni propria dell’analogismo e la delimitazione degli spazi che ne consegue. Tutto quello che sta nello spazio che tale organizzazione ha in qualche modo definito è il “mondo”, la sua parte avuta in consegna, tutto il resto è un “fuori mondo” popolato da “fuori soggetti” verso i quali non si hanno obblighi di alcun genere. Anche per quanto concerne gli stili di vita che derivano dalla concezione del soggetto e dell’alterità il naturalismo esprime una visione totalmente schiacciata sulla forma di vita che pone al suo centro: l’uomo in quanto tale. Non esiste nel naturalismo alcun criterio guida che non sia il pieno soddisfacimento delle esigenze umane, le quali dispongono quindi a pieno titolo di tutte le altre forme di vita alle quali, come si è visto, non viene riconosciuta “interiorità”. Non si tratta a ben vedere delle esigenze indistinte dell’intera umanità, ma sempre e comunque di quelle particolari dello specifico gruppo umano a cui si appartiene. Al punto da rendere problematico, oltre all’impossibilità di un reale “rapporto” con il non umano, lo stesso ordine di relazioni tra gli umani. Aver posto la “cultura”, dote in esclusiva dell’umano, come motore del vivere implica inevitabilmente che differenze di cultura, di credenze e di valori, possono così divenire ostacolo per le relazioni fra gli stessi umani fino a sfociare nei tanti conflitti della storia.

SEZIONE 5 – ECOLOGIA DELLE RELAZIONI

All’interno di queste differenti visioni del mondo anche il sistema delle “relazioni”, che Descola ripartisce in due gruppi, assume diverse connotazioni. Nel primo gruppo egli fa rientrare quelle che si stabiliscono in modo reversibile tra soggetti pari, nel secondo quelle univoche tra soggetti non equivalenti. Per quanto concerne il sistema delle relazioni che codificano la circolazione di beni sono universalmente presenti in tutte le culture, seppure con diverse modulazioni e valenza: il “dono”, lo “scambio” e la “predazione”, tutte attribuibili al primo gruppo. A differenza delle società che rientrano nel naturalismo quelle assimilabili alle altre formule di combinazione concepiscono, in linea generale, queste tre forme di circolazione di beni come relazioni che, chiamando in causa sia la fisicità che l’interiorità, si caricano di una valenza etica, valida per l’intero collettivo che le mette in atto. Anche questo aspetto è assente nel naturalismo che si limita a considerare, in talune specifiche culture, la pratica del dono un atto simbolico inserito in un contesto di relazioni comunque molto differenziato nella scala del riconoscimento reciproco. Nel secondo gruppo di relazioni rientrano invece quelle relative al “produrre”, al “proteggere”, al “trasmettere”. Per quanto concerne la “produzione” ci troviamo di fronte ad un’idea che poco e male si collega alle tecniche di sussistenza tipiche delle società che non concepiscono la separazione tra umano e non umano propria di quelle naturalistiche. La caccia e la raccolta, ma non di meno la coltivazione e l’allevamento là dove praticati, non sono infatti considerate mere tecniche di produzione di “oggetti”, ma una vera e propria relazione tra “soggetti”. Non lo è neppure la fabbricazione di manufatti, anch’essi considerati come veri e propri “corpi trasformati”. Non diversa è la concezione della “protezione”, vista come un sistema di interazioni reciproco: come gli umani vegliano sugli animali e sulle piante da cui traggono sussistenza, così i non umani possono essere il tramite attraverso il quale le divinità proteggono gli umani. Un sistema che si alimenta in forma ciclica con una “predazione” di non umani da parte degli umani, i quali però, per garantirsi la protezione divina, devono ripagarli con forme di “dono”. La stessa “trasmissione”, il passaggio di cose da una generazione all’altra, in alcuni casi è regolata da precise norme, ma di rado, a fronte della circolarità continua dell’ “essere nel mondo”, sancisce un vero e proprio debito dei viventi verso i morti piuttosto che un diritto di possesso tramandato. Molti altri modi di relazione meriterebbero di essere analizzati ma lo scopo di Descola non è quello di censirli tutti, ma quello di mettere in rilievo il fatto che nessuno di essi può da solo fissare, in forma stabile, il comportamento etico di un collettivo appartenente all’animismo, al totemismo piuttosto che all’analogismo. Sono tutti modi di “essere nel mondo” che per l’insieme delle caratteristiche hanno conosciuto, e conoscono, là dove si sono resi possibili e necessari, processi evolutivi molto lenti, graduali, rallentati. Le ragioni, le motivazioni che possono produrre cambiamenti sono infatti attutite dalle concezioni della vita, qui molto sinteticamente esaminate, che hanno una loro fissità “ontologica”. In queste culture il progresso tecnico, quando si manifesta, non trasforma i rapporti che gli umani hanno tra di loro e con il mondo, ma, capovolgendo i termini, sono solo le eventuali, sempre quasi impercettibili, modifiche in questi rapporti che lo consentono, rendendo cioè accettabile un modo di fare fin lì giudicato inadatto, “fuori dal mondo”. Sono modi di “essere nel mondo” non ispirati dal “movimento”, ma sempre e solo dalla “stabilità”, dall’equilibrio.

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Commento finale

Riprendendo le nostre specifiche ragioni di attenzione verso questo saggio, indicate nell’introduzione a questa sintesi, ci sembra possibile sostenere che quanto emerge come monito da questo straordinario lavoro di Descola non è certo un irrealizzabile, ed ingenuo, invito ad abbandonare tout court la visione del mondo del nostro naturalismo occidentale per convertirci alle visioni panteistiche delle altre visioni. Ma è sicuramente quello di stimolarci a prendere coscienza che questo nostro modo di vedere il mondo non è meno di queste del tutto “relativo” e che non può quindi vantare alcuna pretesa di maggiore validità universalistica. E di conseguenza che per poter meglio valutare i suoi limiti e le sue contraddizioni, quelle che non a caso ci stanno portando verso il rischio di una irreversibile emergenza ambientale, un passo fondamentale può consistere proprio nel comprendere che esse, essi, altro non sono che l’inevitabile ricaduta del nostro modo di abitare la Terra.  La prevedibile obiezione che queste altre visioni del mondo possono concretamente sussistere in realtà circoscritte e per popolazioni poco numerose, e non certo per il mondo “civilizzato e globalizzato”, è al tempo stesso inoppugnabile e miope. Inoppugnabile perché la nostra visione naturalistica, che conta ormai decine di migliaia di anni di vita, ci consegna ad una situazione reale che non è di certo cancellabile in toto, miope perché non coglie il fatto che la cultura occidentale si è impadronita dell’intero pianeta proprio grazie a questa nostra concezione dell’uomo e del suo posto nel mondo. Come a dire che il  nostro arrogante ed invadente antropocentrismo non può auto-giustificarsi. Riconoscere l’esistenza di altre visioni, conoscere e capire le loro idee di fondo, non significa quindi proporre un irrealistico “copia e incolla”, ma può rappresentare un importante aiuto per meglio individuare, e là dove necessario ancor meglio correggere, i limiti e le incongruenze della nostra cultura. Descola ci aiuta in particolare a comprendere che il modo con il quale l’Occidente moderno rappresenta la natura è uno dei suoi aspetti meno sostenibili. Questo suo saggio è un grande ammonimento contro la presunzione, tradizionalmente occidentale, di essere sempre e comunque dalla parte del vero e del giusto e di essere giunti, grazie alla scienza, a certezze inamovibili e inconfutabili, in grado di produrre solo ricadute positive. La realtà con la quale dobbiamo ormai fare i conti di dice qualcosa di molto diverso. 

martedì 1 giugno 2021

La Parola del mese - Giugno 2021

 

La parola del mese

 A turno si propone una parola

 evocativa di pensieri fra di loro collegabili

 in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

GIUGNO 2021

A questa “parola del mese” siamo pervenuti partendo dalla segnalazione di un articolo, apparso sul Manifesto e pubblicato qui di seguito, che Nives Enrietti, nostra socia e attiva collaboratrice, aveva trovato interessante. Parlandone ci siamo poi resi conto che questa parola, titolo del saggio che l’articolo commentava, si collega strettamente al tema delle disuguaglianze e della giustizia sociale al centro di molte delle nostre recenti riflessioni. Inoltre a tutte due sembrava indicare una tematica così complessa e così pregnante nella sua definizione, ma soprattutto nei concreti modi di realizzarla, da rappresentare un serio banco di prova per “la destra e la sinistra” che, non a caso, attorno ad essa hanno entrambi da sempre evidenziato non pochi limiti e contraddizioni. Convinti quindi che meritasse la “promozione” a parola del mese ci siamo mossi raccogliendo altro materiale utile per pubblicare un dignitoso post. Salvo poi, controllando l’elenco (ormai davvero lungo) delle “parole del mese” renderci conto che l’onore di esserlo le era già stato attribuito parecchio tempo fa, a Gennaio 2015! Andati a controllare abbiamo constatato che al tempo, da blogger novelli, il post si limitava a introdurre la parola con una sua breve canonica descrizione. In qualche modo confortati si è allora deciso di mantenere la scelta così da completare, con questa sua seconda “promozione”, il “troppo poco” pubblicato allora. La “parola” di questo mese, introdotta con la traccia del post del Gennaio 2015, è:

Meritocrazia (2)

Meritocrazia = Concezione secondo la quale ogni riconoscimento (ricchezza, successo negli affari, scuola, lavoro, politica) è commisurato al merito individuale; termine formato dalla somma di merito (diritto alla lode, alla stima, a ricompense, dovute per la qualità, la capacità, le opere concrete di una persona) e crazia (potere, governo, dominio). Nella sua accezione più politica sta ad indicare una forma di governo dove le cariche amministrative, le cariche pubbliche, e qualsiasi ruolo che richieda responsabilità nei confronti degli altri, è affidata secondo criteri di merito, e non di appartenenza lobbistica, familiare (nepotismo e in senso allargato clientelismo) o di casta  economica

Come anticipato il primo contributo al suo approfondimento è l’articolo di Piero Bevilacqua (1944, storico, scrittore e saggista), pubblicato sul Manifesto del 09/04/2021, di commento del saggio “La meritocrazia” di Salvatore Cingari (1966, storico, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Perugia). L’articolo di Bevilacqua è quindi preceduto dalla copertina del saggio in questione e dalla ripresa del suo risvolto di copertina


Il volume ricostruisce la storia del concetto di meritocrazia dal momento in cui fu coniata la parola (la seconda metà de gli anni cinquanta del Novecento) ai giorni nostri, guardando sia alle elaborazioni teoriche della filosofia e del pensiero sociale (da Young a Della Volpe, Hayek, Arendt, Rawls, Bell, Bourdieu, Walzer, Sen, Lasch, Sennet, Giddens) sia al linguaggio politico (da Martelli a Blair e Renzi) e al senso comune diffuso. Il percorso proposto mostra come il termine nasca con un significato negativo, a identificare una prefigurazione distopica, che continuerà a caratterizzare il suo utilizzo nel vecchio continente per alcuni decenni; e come negli Stati Uniti il lemma assuma invece da subito un significato anche positivo, all’interno di un’ideologia tecnocratica proiettata nella nuova civiltà postindustriale. È solo all’inizio del nuovo millennio che con la Terza Via l’ideologia meritocratica diventa parte dei valori della cultura politica progressista europea, sempre più sussunta dalla governance postfordista. La meritocrazia diventa perciò una parola-chiave del neoliberalismo, giustificando le crescenti diseguaglianze dovute ai processi di finanziarizzazione, delocalizzazione e privatizzazione. Anche dopo la crisi del 2008, la meritocrazia resta uno snodo fondamentale della narrazione neopopulista, a documentare il profondo legame fra quest’ultima e il neoliberalismo

Non c’è talento che tenga in una società classista

Chi non concorda sul principio che per accedere a un impiego pubblico tramite un concorso cioè la valutazione di una commissione competente non debba valere il criterio del merito nella scelta dei vincitori? Che si tratti dell’accesso alla carica di direttore generale di un ministero o di semplice impiegato comunale, nessuno troverebbe giusto e accettabile che a essere premiati fossero i meglio raccomandati (da un ministro o dal parroco) o i più simpatici e fisicamente avvenenti. L’ovvio criterio di giustizia, alla base dell’efficienza ordinaria di ogni amministrazione di uno stato di diritto, nasconde la più potente macchina di esclusione sociale su cui si regge la società capitalistica. I candidati che arrivano a sostenere i concorsi costituiscono la punta di un iceberg la cui base sommersa è affollata da una vasta platea di individui che per nascita, ambiente familiare, percorso scolastico, destino sociale non possono neppure aspirare a presentarsi a un concorso. Il classismo delle società contemporanee opera ab ovo feroci selezioni nelle possibilità di successo dei cittadini, che vengono a posteriori nascoste dalla relativa neutralità meritocratica del concorso pubblico. Quest’ultimo passaggio finale di un lungo percorso non fa che sancire l’ingiustizia sociale originaria con cui la società classista ha già escluso la massa degli immeritevoli, cioè dei subalterni, degli emarginati, dei più poveri, di chi non ha potuto studiare. Solo considerando le disparità enormi dei «punti di partenza» che dividono ab inizio i singoli individui, il concetto di meritocrazia appare per quello che è: uno dei più potenti dispositivi di inganno ideologico con cui il potere capitalistico nasconde i fondamenti di emarginazione e ingiustizia su cui si regge. Interviene sul problema (ampiamente discusso in altri paesi) Salvatore Cingari, con La meritocrazia (Ediesse, pp. 221, euro 15), un agile saggio che non solo ricostruisce le origini storiche del termine e il dibattito internazionale anche recente, ma soprattutto illustra con brillante acribia il ruolo di concetto egemonico giocato da questo termine nel processo di devastazione culturale operato dell’ideologia neoliberista negli ultimi vent’anni. Egli non solo ricorda sulla scorta di qualche grande pensatore americano, come John Rawls o ricorrendo agli studi sulla meritocrazia di Michael Young come le «uguaglianze delle opportunità», tanto vantate dalla sociologia americana e dai suoi superficiali cantori europei, siano in realtà opportunità offerte ad alcuni pochi di sopravanzare i molti meno dotati in quanto meno fortunati. Le stesse componenti fondamentali del merito, vale a dire lo sforzo e il talento, sono frutto dell’ambiente familiare e sociale o sono doni della natura e come tali immeritati. Ma la parte più originale del contributo di Cingari si condensa nella disamina di come il criterio di meritocrazia sia diventato, soprattutto in Italia, uno strumento di surrogazione dell’analisi sociale e una forma ingannevole di camuffamento delle gerarchie di classe. L’esaltazione dell’individuo più dotato, più capace, dunque il più utile all’impresa capitalistica e il più efficiente nel far funzionare la macchina pubblica, crea un immaginario valoriale che fa apparire i meno dotati come colpevoli della loro minorità, responsabili delle loro sconfitte, della loro emarginazione. Al tempo stesso questa vera e propria concezione del mondo fa si che tutti i deficit della società, il mal funzionamento dei servizi, il disagio dei ceti poveri, gli scacchi delle imprese o i fallimenti dell’operato pubblico, siano spiegati con criteri moralistici: la mancanza di competenza, di merito, da parte dei gestori della cosa pubblica. Il fallimento del mercato, quindi la perdita di competitività del sistema, nella gara inter-capitalistica, va cercata nella insufficiente applicazione della meritocrazia. E qui l’autore coglie un nesso che val la pena illustrare con le sue parole. Secondo Cingari la meritocrazia diventa l’anello di congiunzione fra ideologia neoliberista e retorica populistica: «l’idea, cioè, che il crescente malessere sociale sia frutto di un mancato rispetto delle regole in una visione della società come gioco competitivo. La questione morale – in una prospettiva che diventa interclassista – a sovrapporsi a quella sociale, imputando alla corruzione, al favoritismo, al privilegio neofeudale di imprese e istituzioni pubbliche o partitico-sindacali, la responsabilità dell’accrescersi delle disuguaglianze, dell’impoverimento del ceto medio, della diminuzione delle opportunità di lavoro». Il discorso sul merito occulta così presso i ceti popolari ogni spiegazione storica e di classe delle disuguaglianze, dell’emarginazione e dello sfruttamento subito, sublimandola sul piano del costume, affondandola nel sopramondo dei sempiterni e immodificabili egoismi umani e così disinnescando ogni volontà di rivolta e conflitto. In aggiunta a quello di Cingari, a testimonianza di quanto la meritocrazia rappresenti un tema vivo e centrale nel dibattito politico, è stato recentemente pubblicato anche qui in Italia il saggio di Michael Sandel (1953, filosofo statunitense, uno dei principali esponenti del comunitarismo, rivolge la sua ricerca alla filosofia morale e politica) “La tirannia del merito”

Il seguente articolo di Francesca Rigotti (1951, filosofa e saggista) apparso sulla rivista on-line DoppioZero commenta nel merito il saggio di Sandel evidenziandone gli aspetti salienti

La tirannia del merito

Nel suo libro All’inferno e ritorno. Per la nostra rinascita sociale ed economica, (Feltrinelli, Milano 2021, che ha in copertina l’immagine stilizzata di un labirinto, et pour cause) Carlo Cottarelli afferma una verità inconfutabile: la tutela del merito è «un fondamentale principio di efficienza economica». La parte seconda dell’opera, quella che narra il ritorno dall’inferno (vogliamo sperare) è infatti dedicata al merito, principio tanto lodato e magnificato quanto spinoso e non scevro di problemi. Lo mostra infatti, con dissimili conclusioni, un altro testo di un altro autore ma della stessa casa editrice: La tirannia del merito (Feltrinelli, Milano 2021), che traduce la versione originale The Tyranny of Merit, di Michael Sandel. Sandel, la star mondiale della filosofia politica, il docente ad Harvard che incanta migliaia e migliaia di studenti nelle sue lezioni nella prestigiosa università statunitense ma anche sul web. Bene. Il testo di Sandel è integralmente dedicato al merito, all’efficienza della scelta effettuata secondo il merito, ma anche ai suoi effetti collaterali non sempre positivi e, nei confronti della giustizia, decisamente pessimi.

Un grado sufficiente di possibilità

Torniamo all’economista e all’efficienza produttiva che richiede il merito per distribuire incarichi e compensi individuali. Per lasciar operare correttamente questo criterio bisogna puntare, afferma Cottarelli, sul dare a tutti le stesse chances o uguaglianza di possibilità o meglio, per essere realisti, «un grado sufficiente di possibilità». Quando si cominciò a parlare di questi temi anni fa si usava l’immagine della corsa a condizioni impari: è ovvio che se si allineano sulla linea di partenza la gazzella e la tartaruga, al traguardo arriverà la gazzella, come Achille del resto, a meno che non ci metta lo zampino Zenone e gli faccia percorrere tutti i punti della linea uno dopo l’altro accordando un piccolo vantaggio alla tartaruga. Ma se la tartaruga venisse adeguatamente allenata? Ce la potrebbe fare? Fornire a tutti il grado sufficiente di possibilità vorrebbe dire equiparare le condizioni di partenza con espedienti tali da annullare i vantaggi di cui godono le gazzelle alla nascita: zampe lunghe e elastiche, allenamento costante per sfuggire ai leoni della savana: talenti ed esercizi che alla tartaruga non sono dati. Commenteremo dunque questo esempio con le parole di John Rawls, grande filosofo politico e teorico del liberalismo egualitario del Novecento, nonché forte critico della meritocrazia: «Nessuno merita il posto che ha nella distribuzione delle doti naturali, più di quanto non merita la sua posizione di partenza nella società. L’affermazione che un uomo merita il carattere superiore che lo mette in grado di fare uno sforzo per sviluppare le sue capacità è altrettanto problematica; il suo carattere infatti dipende in buona parte da una famiglia e da circostanze sociali a lui favorevoli, cose per cui non può pretendere alcun merito» (J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano 1982, p. 89). 

Merito passivo e merito attivo

Davanti a talenti assegnati dal destino o merito passivo, zampe lunghe o alto Q.I., è facile dire che se non c’è responsabilità individuale non c’è merito. Ma anche la posizione che riconosce il merito attivo, quello che ha a che fare con la componente dello sforzo, la posizione cioè che mette in conto le diseguaglianze perché esse riflettono non le doti ma le ambizioni degli individui e le loro scelte responsabili, è indebolito dalla critica di Rawls. E se l’ambizione e la capacità di sforzarsi e di compiere scelte astute non fossero nient’altro che doti naturali, o capacità che si apprendono socialmente in certi contesti educativo-ambientali e non in altri, come sostiene Rawls? Per una scelta pienamente consapevole nei confronti dell’impegno e dello sforzo sono infatti necessarie premesse quali capacità di previsione, fiducia in se stessi, forza di volontà, costanza ecc., qualità in gran parte dipendenti da fattori ereditari, ambiente di nascita, cure parentali ed educative. Insomma Rawls mette a tacere entrambe le componenti del merito, entrambe ingiuste: il talento/ doti naturali, e la capacità di impegnarsi. 

Umiliati e meritevoli

Ma la critica più forte al merito era arrivata vent’anni circa prima di quella di Rawls, e proprio dall’inventore, nel 1958, del termine meritocrazia, il sociologo inglese Michael Young. Ed era stato lo stesso Young a ideare l’equazione del merito universalmente accettata, ovvero:  Q.I. (talento, doti naturali) + sforzo (impegno, applicazione) = merito. Attenzione però, perché nel suo The Rise of Meritocracy Young descrive la società meritocratica come una distopia della peggior specie, mostrando tramite l’espediente dell'ironia, le due facce della medaglia, cioè vantaggi e svantaggi della società meritocratica. Uno degli svantaggi peggiori, dal punto di vista sociale, è la divisione della società in intelligenti e stupidi; in istituzioni di serie A, popolate da persone per lo più arroganti, competitive, aggressive e prive di valori morali, e istituzioni di serie B che raccolgono persone in gran parte demoralizzate, avvilite e umiliate nella loro autostima. Si può ridurre a «invidia» il sentimento che proveranno questi ultimi nel vedersi relegati in simile condizione? Nella società meritocratica inoltre competitività e aggressione trionferebbero a tutto svantaggio di doti come la gentilezza e il coraggio delle persone, la loro immaginazione e sensibilità, simpatia, mitezza e generosità, mentre giovani privi di esperienza, saggezza e maturità, nota Young, potrebbero vantarsi dei loro meriti e spadroneggiare su persone più mature ma meno privilegiate.

La ricetta di Sandel

Le argomentazioni di Young e Rawls vengono riprese in toto nel volume di Sandel e condite con un po’ del Max Weber dell’etica protestante, con la colossale intuizione ivi contenuta della tensione insita, soprattutto nel Calvinismo, tra merito umano e grazia divina; con un pizzico di Pelagio e della sua idea (eresia! eresia!) che l’essere umano possa meritare la salvezza dell’anima senza l’intervento della grazia divina. Infine, con un po’ di critica alla retorica di Obama, il presidente che fuse merito ed eccezionalismo americano facendone il tema centrale delle sue campagne e presidenze: «Ciò che rende l’America così eccezionale, ciò che ci fa così speciali ... è questa idea di base che in questo paese, non importa il tuo aspetto, non importa da dove vieni, non importa qual è il tuo cognome ... se lavori duro e sei pronto ad assumerti responsabilità, puoi farcela, puoi andare avanti» (p. 14). Se le opportunità sono uguali, e qui rientra Cottarelli a rafforzare le parole di Obama, le persone andranno dove talento e sforzo le porteranno e il successo sarà merito loro. Ma se talento e sforzo sono entrambi socialmente e culturalmente condizionati (per riprendere Rawls), e se la retorica del merito umilia e demoralizza la società e la spacca in vincenti convinti che il successo sia merito loro, e in perdenti indotti a pensare di aver meritato l’insuccesso (per riprendere Young) la conclusione di Sandel è drastica: «A condizioni di rampante disuguaglianza e di mobilità bloccata, ripetere il messaggio che siamo responsabili della nostra sorte e meritiamo quel che abbiamo erode la solidarietà e demoralizza i lasciati indietro dalla globalizzazione, etc. » (p. 17).

Merito e sorteggio

Dunque gli argomenti di Sandel, benché presentati nella solita maniera vivace e attraente e ricca di «casi», sono lungi dall’essere inediti. Forse un momento di originalità lo si può individuare nel suo introdurre un elemento di scelta particolare: il caso, il sorteggio. Prendiamo tutte le buste con le domande presentate dagli studenti per iscriversi a facoltà prestigiose o a corsi di laurea a numero chiuso e che soddisfino le condizioni date (cui io aggiungerei il pio desiderio della conoscenza del latino e della cultura classica), propone Sandel, buttiamole giù dalle scale dei templi della cultura universitaria e poi tiriamole su a casaccio, nel numero che corrisponde ai posti a disposizione, e forse riusciremo a eliminare un po’ di ingressi privilegiati...

Il caso, questo sconosciuto

Eh, un bel ritorno al sorteggio, con cui forse otterremmo qualche punto in più per la giustizia e anche per l’efficienza e saremmo tutti più contenti. Del ruolo del caso nella scelta democratica si occupano Nadia Urbinati e Luciano Vandelli in una bella vela einaudiana del 2020: La democrazia del sorteggio, in cui si riscopre un metodo antico che ritrova oggi nuova energia. Nella richiesta del sorteggio si legge sfiducia nei confronti delle competenze; ma anche un rimedio alla crisi di risentimento, rancore e umiliazione che getta gli esclusi dai successi della globalizzazione nelle braccia dei partiti di estrema destra. Se infatti la scelta nasce dal caso non è necessario incolparsi dei propri insuccessi e si sta meglio; o se deriva, come accadeva per es. nell’Ancien Régime, da privilegi invalicabili di sangue, di ceto o di sesso come quelli cui si trova davanti, in Il Rosso e il nero di Stendhal, Julien Sorel, giovane dotato costretto a indossare la tonaca nera dell’ecclesiastico perché non può indossare la divisa rossa dei militari.

Il sorteggio in democrazia

In Italia la proposta di far intervenire il caso nella democrazia integrando le elezioni con il sorteggio è venuta dal Movimento 5 Stelle. Trovo l’idea attraente anche se viene proposta, per come mi posiziono io, da un avversario politico. Ma se c’è una cosa che ho imparato in questa pandemia è che ci si trova a correre il rischio di lodare il peggiore avversario politico, se dice qualcosa di ragionevole che i tuoi amici non dicono, o essere dal tuo peggior nemico lodato, in sintonia con le parole di Andrea Voßkuhle, Presidente della Corte Costituzionale tedesca. Il libro, soprattutto nella parte di Urbinati, dà conto delle ragioni teoriche e delle esperienze storiche del sorteggio, che qui non ripercorreremo. Esso mostra soprattutto come l’introduzione della scelta per sorteggio potrebbe apportare alle società democratiche misure di difesa dell’eguaglianza legale e politica nonché di argine contro la corruzione. Di nuovo un bel modo per coniugare efficienza e giustizia. Interessante, nell’analisi di Urbinati, è l’idea della necessità che chi lo pratica sia convinto che il sorteggio sia neutrale, non influenzato, ed equivalga, ecco il punto, al caso assoluto. Ma non c’è anche una questione di convinzione alla base del «riconoscimento egualitario», che solleva le persone dalla condizione di umiliazione e depressione economica, assegnando loro una dignità che può essere utile per puntare a riscattarsi?

Il suffragio e la sorte

La sorte deve essere davvero centrale se si è pensato di poterle affidare decisioni anche importanti. Soprattutto essa ci deve apparire imparziale, sopra le parti, neutrale e non influenzata da fattori esterni, in una parola, giusta: non è un caso che entrambe le personificazioni, della giustizia e della fortuna, portino una benda sugli occhi. Nella scelta condotta a caso non concorrono né la ragione determinata né la volontà intenzionale; essa avviene per accidente, avrebbe detto Aristotele, e non in vista di un fine, anche perché la sorte, come sappiamo, non ci vede tanto bene. Per noi occidentali moderni che abbiamo attraversato il pensiero platonico, il quale ci attribuisce una razionalità che guida al bene, nonché il pensiero cristiano che ci riconosce una volontà libera che svolge la stessa funzione, per noi che continuiamo a credere fortemente nel peso di questi fattori, volontà, ragione, intenzionalità, merito, è difficile convivere con l'idea greca arcaica di poter essere controllati da forze esterne a noi, di essere attaccati a un filo da cui pendiamo (sorte viene dal latino sérere, annodare, legare insieme). Ci illudiamo invece di essere guidati unicamente da ragione e volontà, intenzione e impegno, come se contenessero più saggezza del destino. I greci antichi procedevano spesso alle elezioni di governanti e magistrati per sorteggio: che avessero ragione loro? Che ci sia nel caso una nuova possibilità di tenere insieme merito, efficienza e giustizia?

Completiamo il commento al saggio di Sandel con il seguente articolo di Mauro Del Corno (1978, giornalista finanziario, saggista) meno addentro agli aspetti più filosofici e più attento a quelli politici

La finzione del merito

Cosa c’è che non va nella meritocrazia? Da anni siamo talmente immersi in discorsi e racconti sulle meravigliose virtù di questa parola che è difficile persino porsi la domanda. Eppure sarebbe il caso di farlo, come argomenta il libro del docente di filosofia politica di Harvard Micheal Sandel. Qui si annidano infatti alcune delle ragioni che alimentano le simpatie nei confronti di movimenti populisti in tutto il mondo occidentale. Qui le origini dell’elezione di Donald Trump o della BrexitVoti con il “dito medio” ma spesso molto più consapevoli di quanto non raccontano molti commentatori. Circoscritta ad alcuni ambiti la meritocrazia è qualcosa di sano e desiderabile. Non lo è più se viene utilizzata come prima pietra su cui edificare una società. Oppure come foglia di fico per nascondere la totale inazione dei governi in tema di ingiustizia sociale. Quello che invece hanno fatto negli anni le forze cosiddette progressiste, dai labouristi di Tony Blair (e tardivi imitatori italici), ai social democratici tedeschi di Gerhard Shroeder, passando per Barak Obama o Hillary Clinton.  La meritocrazia, ricorda Sandel, nella realtà non esiste. Negli Stati Uniti, gli studenti della Ivy League (il gruppo di università più prestigiose del paese, ndr) provenienti dal 50% più povero della popolazione sono il 4% del totale. Gli alunni che arrivano dall’1% delle famiglie più abbienti sono di più di quelli che provengono dal 50% meno benestante. Spesso chi viene ammesso nelle scuole di élite non è più intelligente o più meritevole. Spesso è solo chi ha avuto alle spalle una famiglia che lo ha sostenuto negli studi, gli ha permesso di frequentare corsi di preparazione ai test di ammissione o di fare sport come la vela o l’equitazione che danno “crediti” e facilitano l’ammissione. In Europa la situazione è meno estrema, almeno in certi paesi, ma la direzione è la stessa e la retorica meritocratica è altrettanto tambureggiante. Negli ultimi decenni la risposta delle forze progressiste alle diseguaglianze crescenti è stata sempre una: più scuola. “Per le forze politiche progressiste ogni problema economico è un problema di insufficiente educazione scolastica, in altri termini un fallimento degli “sconfitti” dalla globalizzazione nel procurarsi giuste competenze e giuste credenziali”, scrive Sandel. Usato in questo modo l’argomento diventa però uno specchietto per le allodole. Un modo per distogliere l’attenzione da altri fattori, più rilevanti, che hanno determinato e determinano l‘incremento delle iniquità, come l’azzeramento delle capacità contrattuali dei lavoratori, dovuto anche alla polverizzazione dei sindacati o come sistemi fiscali che favoriscono le fasce più benestanti della popolazione. La risposta che viene offerta è tutt’al più una via di fuga, non un rimedio. “What you can earn depends on what you can learn”, quello che può guadagnare dipende da quanto tu impari, ripeteva ossessivamente Bill Clinton. E pazienza per chi era ormai fuori tempo massimo o per chi, anche volendo, all’università non ci poteva andare. La stessa litania è stata ripetuta da Barack Obama, Hillary Clinton e altri leader europei progressisti. L’espressione “you deserve”, tu meriti, voi meritate, compare su libri e articoli 4 volte di più rispetto al 1970. Siamo poi davvero convinti che edificare una società sul concetto di meritocrazia sia una buona scelta? Far passare l’idea, molto opinabile, che un individuo ricopra una certa posizione esclusivamente per i suoi meriti o demeriti è pericoloso. Tutto il merito di un successo o il peso di un fallimento viene caricato sul singolo individuo, assolvendo in toto l’organizzazione sociale di cui fa parte. Così, chi sta in vetta diventa arrogante, pensa si meritarsi tutto quello che ha, ed è meno incline ad atteggiamenti solidaristici. Chi sta in basso sviluppa sensi di colpa, per lo più immotivati. Il senso di colpa si evolve facilmente in rancore, peggio in violenza. Il professore Martin Delay dell’università dell’Ontario ha accuratamente documentato come il livello di diseguaglianze di una società ,sia la variabile più strettamente correlata al tasso di omicidi. E invece le elites sul concetto di meritocrazia ci marciano e ci marciano eccome. Un modo per lavarsi le mani, lasciare le cose come stanno e per giustificare i propri privilegi. Sandel definisce anche il concetto di “credenzialismo”: entri in certe cerchie sociali solo se puoi esibire determinate credenziali. Il valore di una laurea ad Oxford o ad Harvard risiede più in questo che nel livello di preparazione e competenze che fornisce. “Il credenzialismo è oggi l’unico pregiudizio socialmente accettato”, scrive Sandel e alimenta l’arroganza intellettuale di chi sta ai vertici. “Probabilmente siamo troppo intelligenti, troppo sottili e raffinati”. Così un esponente dell’Esecutivo di Emmanuel Macron ha risposto a chi gli chiedeva, durante le proteste di piazza francesi, se il governo avesse sbagliato qualcosa. Il fatto che si possa arrivare a risposte di questo tipo la dice lunga di quanto siderale sia ormai la distanza che si è creata tra elites e gran parte dell’ elettorato. “Abbracciamo la globalizzazione e la prosperità che porta e usiamola per attenuare le sofferenze per le classi lavoratrici”, questa è stata la promessa che i partiti progressisti hanno fatto al loro elettorato tradizionale. Ma questa promessa non è mai stata mantenuta e quando le fasce si sentono abbandonate è naturale, e comprensibile, che cedano alle sirene del populismo. Tra l’altro, documenta Sandel, questa superiorità delle capacità di governo delle elites con credenziali è tutta da dimostrare. Le principali doti che dovrebbe avere chi governa sono visione politica e virtù civiche. Non esattamente quello che viene insegnato all’università. Come ricorda l’autore, alcuni dei presidenti statunitensi più apprezzati di sempre, come George Washington, Abramo Lincoln e Harry Truman non avevano frequentato il college. Frank Delano Roosvelt, che pure aveva studiato Harvard, contava nel suo entourage, diversi esponenti privi di “credenziali” universitarie tra cui lo strettissimo consigliere Harry Hopkins, era un assistente sociale. L’esito finale dei ragionamenti di Sandel non è affatto che l’istruzione non sia importante o che la cultura non abbia un valore. Non è neppure che tutti dovrebbero essere uguali impiegati alla pari. Non è una celebrazione dell’uno vale uno. E’ semplicemente un invito a dare al “merito” il giusto significato, il giusto valore e a impiegarlo nei giusti contesti. Senza che diventi la (finta) stella polare delle nostre società come accaduto negli ultimi 40 anni. In precedenza la meritocrazia non era vista come un qualcosa di particolarmente desiderabile. L’assunto era che quello che una persona guadagna dipende in buona misura da fattori fuori dal suo controllo, come il livello di domanda di uno specifico talento e il fatto che i talenti e le capacità di cui una persona è dotata siano rari o molto diffusi. Poi le cose sono cambiate. I risultati, sia economici che sociali, sono tutt’altro che entusiasmanti.

Infine chi fosse interessato ad approfondire le opinioni di Sandel può, utilizzando il sottostante link, visionare una sua recente intervista