domenica 27 marzo 2022

Guardare alla guerra russo-ucraina con uno sguardo lungo - articolo/conversazione con Limes

 

Sembra proprio che si stia purtroppo materializzando il rischio che l’invasione russa dell’Ucraina si trasformi in un conflitto di lunga durata. Una prospettiva che accentuerebbe, oltre al drammatico impatto sul popolo ucraino, le tante problematiche legate, direttamente ed indirettamente, a questo tragico evento. La reazione emotiva che ha attraversato, con accentuazioni anche molto diverse, le opinioni pubbliche dell’intero Occidente si sta sempre più accompagnando all’esigenza di andare oltre lo sdegno morale per l’aggressione per meglio capire da una parte le dinamiche che possano spiegare quanto è successo e dall’altra le prospettive che si potranno innescare. Ogni sforzo per raggiungere una pace stabile e sostenibile deve necessariamente fare i conti con questi aspetti. Nel nostro ambito abbiamo offerto, oltre ad alcuni post, un prezioso spunto di riflessione con la conferenza di Gian Giacomo Migone dello scorso 14 Marzo, procediamo in questo impegno con il seguente articolo/conversazione apparso sulla rivista online La Tascabile che offre una competente panoramica ad ampio raggio sui prossimi possibili sviluppi del conflitto e, più in generale, sugli scenari geo-politici globali che ne potrebbero conseguire

Mappe mobili

Una conversazione con Alfonso Desiderio su implicazioni e scenari dell’invasione russa in Ucraina (giornalista professionista ed esperto di geopolitica e relazioni nternazionali. Lavora per Gedi Digital / Limes ed è coordinatore del canale youtube di Limes)

Partirei dalla Ucraina e da come, per identità e cultura, prima della guerra fosse bene o male composta da due, o forse tre zone: occidentale, orientale e meridionale.

Alfonso Desiderio (AD): Ucraina significa terra di confine, nome azzeccatissimo perché  nei secoli è sempre stata contesa tra mondo russo e resto d’Europa. Da quando è indipendente, in ogni elezione presidenziale ucraina si è sempre vista una spaccatura elettorale tra parte sud orientale (filo-russa) e parte centro occidentale (filo-occidentale) con un candidato che voleva l’Ucraina sempre collegata all’Occidente (NATO, UE). E questo aveva una base storica perché da Kiev le zone verso est sono state sotto il controllo russo a lungo, mentre invece le parti occidentali hanno vissuto solo una breve occupazione russa. Anzi, il grande problema di oggi l’ha causato Stalin, perché alla fine della seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica vincitrice non ha soltanto espanso la sua area di influenza fino all’Europa centrale, ma ha voluto espandere i confini della stessa URSS. Oltre poi a prendersi Kaliningrad sul Mar Baltico (che dopo il 1991 è diventata un’exclave della Federazione Russa), nella parte meridionale Stalin ha voluto inserire nella Repubblica Sovietica di Ucraina tutta una regione che faceva parte dell’impero asburgico, il cui punto di riferimento è Leopoli, che fu addirittura la quarta città dell’impero, e dove si era sviluppato un sentimento nazionale ucraino in chiave anti-russa. All’inizio di questa guerra molti analisti, me compreso, pensavano che alla fine Putin sarebbe riuscito a conquistare facilmente la parte orientale. Questa è stata un po’ la sorpresa di questa guerra, perché si è visto che c’è una fiera resistenza anche nella parte orientale, come nella parte meridionale. Mariupol, che non è ancora del tutto controllata dai russi, è fondamentale perché è una città che in sostanza divide la parte delle Repubbliche Federate del Donbass, rese autonome nel 2014 e ora riconosciute da Putin, con la Crimea – anche quella annessa nel 2014 – e la provincia di Kerson nella parte meridionale già conquistata. A Mariupol, che è un caso a sé, c’è il famigerato battaglione Azov, o meglio reggimento, con molte implicazioni politiche, perché è un battaglione che ha usato una simbologia nazista, e viene accusato dal punto di vista ideologico e politico. Ma nelle altre province meridionali la città chiave è Dnipro, dove vedevamo i video delle madri che preparavano molotov per strada. Ora certo, c’è un effetto propaganda, però ecco non è che i russi abbiano avanzato tranquillamente. In questi otto anni dal 2014 anche quella parte di popolazione che consideravamo russofona in realtà si è trasformata e sta combattendo contro i russi. Questa è una novità, perché abbiamo sopravvalutato l’influenza storico-culturale della Russia in queste province. La divisione sembra essere in tre parti: cittadini ucraini che si considerano russi (Donbass e Crimea); la parte che parla russo abitualmente; e ucraini occidentali che sanno entrambe le lingue ma parlano solo ucraino. La novità di queste prime settimane di combattimenti? È diminuita l’influenza politica e culturale russa in questa parte orientale di Ucraina; la resistenza ucraina rappresenta una sconfitta per Putin. Altra sorpresa è che tutti si aspettavano che Putin volesse mettere un governo fantoccio, si pensava che questa cosa sarebbe stata facile, trovare cioè un politico ucraino che proclamasse una Repubblica ucraina indipendente filo-russa. Al momento la sorpresa è che anche nelle parti più legate alla Russia c’è molta resistenza, è uno dei motivi che l’ha spinto a intervenire ora, la paura di perdere il paese. 

​​L’obiettivo minimo adesso per Putin qual è? Prendersi la Nuova Russia, intesa come regione storica, cioè tutta la parte a nord del Mar Nero?

AD: Quello sta diventando l’obiettivo massimo. Sarebbe una conquista importante. Non solo si conquisterebbe tutta la costa del Mar Nero (sbocco mediterraneo che si aggiunge all’espansione russa in Siria, Libia, etc), ma sarebbe un colpo gravissimo per quello che resta dell’Ucraina, che senza sbocco al mare difficilmente riuscirebbe a sopravvivere. Questo paese già era povero prima della guerra, affaticato dalle tensioni degli ultimi anni, senza sbocco sul mare avrebbe delle difficoltà economiche. L’obiettivo sarebbe di creare uno stato talmente debole che un domani si potrebbe convincere a tornare alla Russia, vecchia tattica usata sull’Ucraina intera. Ora, conquistata Mariupol, si tratterebbe di escludere Odessa e annettersi e riconoscere una Repubblica del Donbass allargata fino alla Crimea. L’altra questione per i russi è che la Crimea, anche se storicamente legata alla Russia, dal punto di vista dell’approvvigionamento idrico ed elettrico dipende dall’Ucraina. Dal 2014 ci sono stati problemi per i russi a fornire acqua e corrente elettrica alla Crimea. Questo obiettivo minimo consentirebbe una vera annessione della Crimea alla Russia.

Hai parlato di un sentimento nazionalista ucraino che ha sorpreso gli analisti. Puoi parlarci delle sue origini? Quanto è legato alla figura di Zelensky, e quanto dipende dai rapporti con l’Occidente, o piuttosto da un senso di identità nazionale forte?

AD: All’inizio della guerra non era previsto da nessuno. Tutti pensavano che le minacce fossero un modo per ottenere risultati dal punto di vista politico e diplomatico. E la dimostrazione la si vede in questi giorni. Militari mandati a fare esercitazioni in Bielorussia sono stati avvisati all’ultimo o non avvisati. Lo stesso apparato russo, compresi generali nei vari gradi, alla fine non erano informati o pronti a questa guerra. Quindi sicuramente nella fase iniziale c’era un obiettivo negoziale anche perché dal punto di vista militare è un’operazione illogica. Stiamo parlando di un paese grande quanto la Francia con oltre 40 milioni di abitanti ed è difficile riuscire a controllarlo con duecentomila soldati. L’unica speranza di vittoria era che Putin venisse accolto come liberatore. Puoi vincere una guerra come gli Usa in Iraq, ma poi mantenere il controllo del paese è un’altra questione. Tutto ciò fa pensare che ci sia stata una decisione di avviare l’intervento da parte di Putin. Che lui avesse già da tempo questa intenzione e l’abbia tenuta nascosta, questo non lo sappiamo. Che fosse obiettivo di lungo termine è vero, qui però entriamo nel campo delle ipotesi, un ping pong con gli Usa che hanno fatto di tutto per non impedire l’invasione, perché con lo spostamento dei diplomatici a Leopoli e gli annunci sul non-intervento per l’Ucraina hanno lasciato agli europei il compito di sostenerla. Insomma, Putin ha pensato che fosse il momento giusto. Con l’attacco al Congresso americano e con il ritiro dall’Afghanistan ha intravisto una debolezza americana. Quando fece la guerra in Georgia era il 2008, l’anno della crisi economica che portò al fallimento di Lehman Brother. Forse pensava che Zelensky e il governo ucraino entrassero subito in difficoltà e forse delle persone identificate come alternativa a Zelensky sono venute meno. E quindi è rimasta solo l’opzione militare. L’altra sorpresa è stata Zelensky, ex attore comico che Putin probabilmente non considerava un leader capace di reggere, e che invece si è rivelato in questa fase un grande leader; sa usare i mezzi social per coinvolgere l’opinione pubblica occidentale, i governi europei e la stessa popolazione. Non era scontato. Altro fattore: considerate anche che Biden e gli Usa hanno tenuto un basso profilo. Dal punto di vista mediatico abbiamo assistito al confronto tra un Putin che invade, l’uomo forte, e Zelensky la vittima debole. Sui media è Davide contro Golia. Forse se ci fosse stata una presa di posizione forte da parte Usa dal punto di vista mediatico sarebbe stato un confronto tra Biden e Putin; nell’Europa occidentale questo avrebbe creato manifestazioni di movimenti anti-americani, “Zelensky fantoccio degli Usa”, però in questa situazione mediatica non è – almeno –  sembrato così.

I telegiornali in giro per il mondo che differenze hanno al di fuori della Russia su come stanno raccontando della guerra?

AD: Ovviamente non conosco tutti i media. Molti paesi subiscono l’influenza dell’informazione occidentale, quella che noi vediamo filtra in tanti paesi del mondo ad eccezione di due soggetti principali di questa guerra, Russia e Cina, dove sono controllati. Quanto questi media sono pervasivi? Con i social ci sono tanti modi per informarsi. Escludiamo la Cina per ora, parliamo della Russia. La questione mediatica è questa: in Russia alla fine il settore della popolazione che subisce l’effetto delle sanzioni è un settore limitato, soprattutto urbano, e ha quindi un impatto relativo. Il grosso della popolazione russa, meno legata agli standard occidentali, ha la carta prepagata russa che non subisce sanzioni, guarda la tv russa filo-putiniana eccetera. C’è una Russia profonda che in questo momento non viene intaccata dalle sanzioni, ma ci vuole tempo; non conosce i fatti se non quelli che arrivano dal governo russo. E conoscendo lo spirito russo è facile per Putin dare colpa all’Occidente perché c’è un atavico complesso di inferiorità russo verso l’Occidente. C’è una popolazione che da un lato può essere mobilitata verso occidente, e dall’altro – pur essendo povera e in difficoltà – è pronta a sacrifici per la potenza del proprio paese. L’impatto dei media è relativo, considerando che l’opinione pubblica russa conta relativamente. È importante l’impatto che ha sugli apparati, ministeri, gruppi di potere intorno a Putin. Sono in corso delle purghe che sono da un lato effetto di come sta andando la guerra, ma forse ci sono anche delle crepe all’interno del sistema. Importante qui è stato rendere pubblico quel video del Consiglio di Sicurezza russo in cui Putin mette in difficoltà i suoi collaboratori, segnale che da un lato affermava la forza del leader, dall’altro faceva capire che su questa guerra c’erano state delle divisioni interne alla Russia. Per la Cina c’è un altro discorso. L’impatto dei media relativo, il regime è particolare. Molto importante è quello che deciderà il governo cinese, che è l’unico che può salvare la Russia.

Prima parlavi del momento giusto per attaccare, l’altro giorno nel Mappa Mundi con Orietta Moscatelli parlavate di questo come l’ultimo momento possibile; Moscatelli ipotizzava che la caduta di Mariupol potesse essere sufficiente a innescare una tregua.

AD: Quello è il problema classico delle negoziazioni. Apriamo il quadro, riguardo al momento giusto e quello non giusto. C’è stato un allargamento NATO nel tempo, a danno di quella che era la sfera d’influenza dell’Unione Sovietica e della Russia stessa. Si è passati dal contenimento a un rosicchiamento dei vari pezzi, un allargamento fino alle Repubbliche baltiche nel 2004. C’è stata la Georgia, l’Ucraina, si era arrivati a ipotizzare la caduta di Lukashenko in Bielorussia, l’unico saldo alleato della Russia – anche se non è così semplice il suo rapporto con la Russia, perché a lungo Putin e Lukashenko non hanno avuto ottimi rapporti, Lukashenko aveva voluto rimarcare l’indipendenza della Bielorussia dalla Russia… Detto ciò, con le manifestazioni contro Lukashenko in Bielorussia dal punto di vista di Putin, e russo, c’era il rischio che anche la Bielorussia potesse fare la fine dell’Ucraina. Nella visione russa, Bielorussia e Kazakistan, al di là dell’allargamento della NATO (l’Ucraina non sarebbe mai potuta entrare nella NATO per varie ragioni, assenza di confini chiari, stato di guerra permanente etc), la sensazione da parte di Russia e Putin era di questo continuo rosicchiamento, e ricordiamoci sempre che la Russia è un impero, non uno stato nazione. Limes l’ha scritto in vari volumi. La perdita di pezzi equivale a una frammentazione della Russia stessa.

Con Marco d’Eramo abbiamo parlato di temi simili, quanto è importante la Siberia per esempio: se la Russia si disgrega, magari la Cina si prende la Siberia e non è detto che gli Usa lo vogliano… Ci sono tante nevrosi nel giornalismo italiano, puoi dirci un po’ la tua su questo disagio davanti al fatto che veniamo da un lungo periodo di benevolenza per la Russia, e questo imbarazzo di vedere gli Usa che hanno incalzato, fatto sentire insicuro l’impero russo, e noi non sappiamo più come parlare… Come vedi questo imbarazzo?

AD: Italia e Germania sono due paesi che storicamente, anche facendo parte dell’alleanza atlantica, hanno sempre avuto un rapporto di forte interscambio con la Russia. Il caso energetico è quello più evidente. Italia e Germania dipendono dal gas russo. Fatto economico e politico. Due esempi: Schröder, segretario del partito socialdemocratico tedesco, va a lavorare per Gazprom ed è uno dei personaggi chiave per la realizzazione del gasdotto che collega Germania e Russia saltando la Polonia. L’altro esempio è il nostro circa il rapporto tra Berlusconi e Putin, non a caso noi dipendiamo dal gas russo per più del 40 per cento, e così la Germania. Ci siamo presi delle libertà nel sistema atlantico. Il problema dell’Italia e degli altri paesi europei, seguendo un filone del post-storicismo, è che siamo entrati in una fase in cui si pensava solo ai lati economici e non politico-strategici, abbiamo delegato questi agli Stati Uniti. Ora ci svegliamo. Gli Usa non sono più disposti a difendersi come nella guerra fredda e scopriamo che per l’accordo del gas ci fu grande attenzione da parte di media e popolazione sugli aspetti che ci legavano alla Russia di Putin.

Intervenire nel Mar Nero significa anche interferire nelle rotte dei “mari caldi”. Come si modificheranno le dinamiche dello scacchiere mediterraneo a livello strategico, considerando anche la presenza della Russia in Siria?

AD: Il Mediterraneo è stato considerato a lungo ai margini dello scacchiere strategico internazionale. Gli Americani per anni non hanno più schierato portaerei nel Mediteraneo, e adesso sono tornate: in questo momento sono in corso esercitazioni tra la portaerei francese De Gaulle, la portaerei italiana Cavour, la portaerei americana Truman. Quindi il Mediterraneo dal punto di vista strategico torna importante, e anche a rischio. Si tratta di un problema pratico, perché le navi russe vanno a vedere cosa fanno le navi occidentali durante queste esercitazioni, c’è un confronto: molto spesso c’è un aereo che entra, una nave che si avvicina all’altra… C’è un gioco delle parti che provoca tensione, e un incidente può sempre accadere. Esiste poi un discorso strategico e politico più ampio. Noi la Russia ce l’abbiamo al confine, perché da una parte sostiene Haftar in Libia, dall’altra in Tripolitania abbiamo la Turchia. Il rapporto tra Russia e Turchia è molto particolare, e se dovessero trovare un accordo sulla Libia noi avremmo la Russia vicina alle nostre altre forniture di gas ed energia algerine e nordafricane. Poi c’è la questione migratoria. La Turchia ha usato l’arma migratoria nei confronti dell’Europa, e potrebbe usarla anche contro l’Italia, facilitando gli sbarchi e provocando la reazione dell’opinione pubblica. E poi ci sono i Balcani, che sono già in un equilibrio molto instabile: basti pensare alla Bosnia negli ultimi mesi, e all’importante rapporto storico che la Serbia ha con la Russia – anche se in questa crisi la Serbia all’Onu ha una posizione non proprio filo-russa. Con Romania e Bulgaria che sono sul Mar Nero, e vengono influenzate da questa guerra direttamente, anche i Balcani entrano in fibrillazione: è possibile che nei prossimi mesi esplodano delle crisi. E poi abbiamo una serie di effetti indiretti: noi parliamo giustamente dei danni economici che le sanzioni e provocheranno all’economia italiana ed europea, ma il rialzo dei prezzi avrà effetti devastanti nei paesi dall’Africa e del Medio Oriente, quindi bisogna stare attenti a crisi che potrebbero essere innescate dal rialzo dei prezzi delle materie prime – grano, fertilizzanti, metalli e così via – e che innescherebbero effetti anche politici nei Paesi con economie molto più fragili della nostra, in aree instabili.

A proposito, c’è anche una questione mediorientale poco raccontata ma che in realtà mi sembra fondamentale. La Russia ha un ruolo chiave in Medio Oriente. Per la presenza militare e politica in Siria, come dicevi, perché contiene l’Iran contro Israele, e per le tante connessioni che ha proprio con Israele: il russo, per esempio, è la lingua madre non ufficiale del paese; sono legami profondi, culturali. Per questo Israele sembrava, almeno all’inizio, poter diventare una figura di intermediazione, anche per il fatto che Zelensky è ebreo.

AD: All’inizio sembrava, sì, in questa fase sembra esserlo meno, però forse ha un ruolo sotterraneo. Considerate che i russi in Israele si sentono russi. C’è un legame forte poi di Israele con gli Usa che è scontato. C’è il discorso dei flussi finanziari, i patrimoni degli oligarchi all’estero, metterei anche Cipro che è una delle destinazioni privilegiate delle finanze; ricordiamo che è divisa, la situazione è ambigua. E quindi Israele può avere un ruolo, ma non è ancora chiaro di che tipo, dal punto di vista politico, perché i legami con gli Usa sono fortissimi anche se si dà per scontato il luogo comune per cui Israele sia influenzabile dagli Usa. Non è sempre così. I rapporti di forza tra i due paesi è particolare, non è che Israele segue e basta, è un rapporto complicato e quindi bisogna capire gli interessi in questa fase di Israele, che è appunto interessato all’Iran. Siria: c’è una presenza russa che sostiene Assad, in contrasto forte con la Turchia. Alcuni scontri sono tenuti nascosti. Noi abbiamo visto anche meno di ciò che è stato tra Russia e Turchia. Entriamo nel capitolo della Turchia, allora, paese chiave nei rapporti con la Russia: è un rapporto ambiguo. La Turchia fa gioco tra Stati Uniti, Nato e Russia; quindi da un lato la Russia sarebbe un’antagonista della Turchia (Libia, Mar Nero, controllo degli stretti), hanno un problema nel Caucaso, hanno tantissimi contrasti in atto… Nonostante ciò hanno anche delle collaborazioni: la Turchia ha comprato il sistema missilistico russo S400, gli Usa non hanno dato gli F35 perché temevano che la tecnologia potesse passare ai russi; collaborazione economica, flusso turistico, un rapporto non nitido. È impossibile fare previsioni. Dal punto di vista strategico la Turchia è antagonista della Russia per interessi contrapposti; magari vedremo un avvicinamento tattico ora, in funzione anti-americana, anche se lì Turchia e Russia hanno troppi problemi geopolitici di lungo periodo per un riavvicinamento totale. Ci sono diversi dossier, bisogna capire su quali si può trovare l’accordo. Discorso simile per la Cina, anche lì sono impossibili le previsioni, non è scontato che la Cina sostenga la Russia e viceversa.

Hai tirato fuori la parola “dossier”. La parola dossier aiuta a capire la differenza tra il lavoro che fate a Limes e quello di talk show e telegiornali che la buttano sul sentimentale. È importante ricordarsi che ci sono una serie di faldoni con scritte delle questioni, e bisogna un po’ trattare tra quelle. La domanda che ti vogliono fare è: voi avete tradotto in italiano deep state, stato profondo, traduzione di un termine turco che Trump ha usato per parlare male degli apparati. Voi avete fatto un lavoro per far capire che per stato profondo si intende continuità del rapporto tra collettività e amministrazione e comprensione di quale deve essere la strategia. Con tutti questi personaggi, qual è il rapporto tra i dossier che stanno in mano allo stato profondo e il lavoro dei politici? Qual è equilibrio tra le due cose?

AD: Gli apparati svolgono una funzione fondamentale dal punto di vista culturale storico e politico. Il consigliere del principe ha sempre avuto un ruolo fondamentale. È difficile da soppesare. È più facile negli Usa, che hanno un apparato evidente, che non è però compatto. Entriamo nella logica per cui l’apparato americano è diviso in vari componenti; ma anche proprio all’interno delle singole strutture c’è questo interscambio continuo tra mondo privato e pubblico, questa attività di lobbying che fa sì che la divisione tra privato e pubblico sia molto fragile. Ci sono poi i filoni culturali che vanno di moda nell’apparato americano che in vario modo influenzano. Nell’apparato americano c’è una tradizione anti-russa importante. E qui c’è una novità. A Limes abbiamo fatto una carta sulla Russia nemico preferito degli Usa, tanto che alcuni parlano nei termini di una collaborazione perché la divisione faceva comodo a entrambi: era una guerra fredda, ma anche un’alleanza, per certi versi. E c’è questo filone anti-russo molto forte legato alle comunità, ad esempio, di polacchi negli Stati Uniti. La novità è che sta crescendo il filo-putinismo negli Usa, c’è una crisi interna negli Usa, ecco anche la motivazione di un profilo basso di fronte all’invasione di Putin. Sono spaccati al proprio interno. Anche lì è complicato, perché è sempre complicato il rapporto tra apparato e opinione pubblica americana: c’è un’America che da sempre non sopporta Washington, una ridotta minoranza che sta diventando un concetto più ampio. Gli apparati hanno problemi a mantenere il controllo della popolazione. Negli USA c’è la stampa libera. È facile scambiare informazioni. 

È pensabile immaginare uno scenario della Russia dopo Putin?

AD: Anche nella migliore delle ipotesi per Putin, un passo geopolitico duraturo nel tempo è stato fatto. La Russia resterà a lungo con le sanzioni. Putin nei primi anni della sua presidenza guardava molto a occidente, all’integrazione russa nel sistema occidentale. Poi si è rotta questa strada, e la strategia è cambiata. È stato nel 2007-2008, quando a Monaco Putin fa un discorso importante, dove dice alla NATO: “dove volete arrivare?”; e poi l’applicazione pratica di questa logica è la guerra in Georgia nel 2008. Anche gli ultimi discorsi, spinti dall’immediatezza della situazione attuale, mostrano un odio verso l’Occidente. Un odio che marca uno spostamento della Russia verso oriente, anche nella popolazione; quella più legata all’Occidente è quella più colpita, più debole in futuro. L’effetto nel medio periodo è importante. L’altro grosso effetto dal punto di vista geopolitico è il riarmo tedesco, un elemento fondamentale che avrà un effetto sul futuro dell’Unione Europea, ma ne parliamo un’altra volta.

venerdì 18 marzo 2022

Il "Saggio" del mese - Marzo 2022

 

N.B. = La stesura della sintesi del “Saggio” di questo mese è stata fatta prima dell’inizio della gravissima e drammatica invasione russa dell’Ucraina. Non abbiamo però rinunciato alla sua pubblicazione, soprattutto per la consueta parte introduttiva, nella sua forma originaria. Per due ragioni: la prima è quella, pur nella consapevolezza di tutti noi della rilevanza storica di quanto sta avvenendo, di non rinunciare ad interrogarci sulle tante altre questioni che incidono sulla attuale contemporaneità. La seconda consiste nel ritenere che anche questa spaventosa guerra, ed i percorsi storici che l’hanno determinata, pongano domande importanti proprio sul tema al centro di questo “Saggio”

Il “Saggio” del mese

MARZO 2022

Come anticipato nella “Parola del mese” di questo Marzo 2022 “Immunità (comune)” non mancano di certo elementi che sollecitano una riflessione sulla tenuta della democrazia rappresentativa così come l’abbiamo sin qui conosciuta, fino a darla, incautamente, per scontata, per acquisita. Così non è. Quantomeno a partire dagli anni Ottanta/Novanta le profonde mutazioni del quadro geo-politico globale connesse a quelle dei sistemi economico-sociali hanno prodotto un profondo impatto - su istituzioni, procedure e sistemi, relazioni con società e soggetti economici, partecipazione elettorale, sistema dei partiti e loro rapporto con il corpo elettorale – tale da aver di fatto modificato molti dei capisaldi sui quali poggiava l’idea “classica” di democrazia. La pandemia infine, con il suo carico di impattanti provvedimenti che non poco hanno accentuato questo stato di cose, ha reso ormai manifesta questa situazione. Proveremo in questo spazio a presentare spunti di riflessione capaci, progressivamente, di entrare nel merito delle tante questioni che, in conseguenza di tutto ciò, si sono delineate. Iniziamo con questo Saggio del mese, di recentissima pubblicazione, che in forma di phamplet propone, ripercorrendo alcuni passaggi topici relativi alla specifica situazione italiana, una serie di “provocazioni”. Il suo autore non è certo ascrivibile alla schiera dei critici per partito preso, ma non teme di esprimere, con apprezzabilissima sintesi, opinioni chiare e nette in questo  ripercorre alcuni significativi passaggi delle recente storia politica italiana, utili proprio come prima concreta base dalla quale partire per entrare nel merito delle contraddizioni che ne emergono.



Luciano Canfora, filologo classico, storico, saggista e accademico italiano

 

1 – Attinenze cospicue

Non sono mancati nella recente storia italiana passaggi che, nella loro incidenza concreta, hanno di fatto costruito un percorso riformatore mai formalmente enunciato. Una situazione che, non meno di quella per molti versi ben più brutale, della crisi greca del 2015, chiama in causa, come loro primo decisivo protagonista, la stessa UE, la sua idea di democrazia, di rapporto fra Stati membri e istituzioni centrali, e la coerenza ad essa delle politiche concrete che ne sono conseguite

2 – Una anomalia italiana

Ed infatti …… da oltre trent’anni l’Italia vede attuarsi periodicamente soluzioni “irregolari” delle crisi politiche ….. Al di là del giudizio di merito, e delle situazioni contingenti che possano aver contribuito a promuoverle, non sembra infatti sostenibile che “le modalità istituzionali” con le quali l’incarico governativo conferito in successione a Ciampi, Lamberto Dini, Monti e Draghi, sia stato attuato conformemente ai dettami della vigente Costituzione Italiana …… come se i Presidenti della Repubblica chiamati in causa in queste vicende, rispondessero alla Costituzione francese o persino allo Statuto Albertino ….. Nessuno dei tre incaricati di formare un nuovo Governo era parlamentare: non lo erano Ciampi  e Lamberto Dini, ma Governatori della Banca d’Italia, non lo era Monti, prima che Napolitano lo nominasse in fretta e furia Senatore a vita, ed ancor meno lo è Draghi, del tutto privo di cariche istituzionali al momento della nomina. ….. questa anomalia tutta italiana, quasi un retaggio di pratiche “ancien régime” ….. non poco accentua il discredito del Parlamento e dei partiti che lo compongono. Certo in tutti questi casi proprio la debolezza del sistema politico e partitico è stata la principale causa del suo manifestarsi, ma nulla cambia nella necessaria valutazione della tenuta democratica. Il presidente dell’Istituto De Gasperi (Domenica Cella), certo non uno scatenato estremista, ha osato far notare, e quindi  immediatamente e quasi unanimemente messo a tacere, che  ….. un governo del Presidente (della Repubblica) esorbita dal nostro ordinamento costituzionale ….  Il quale non esclude il conferimento dell’incarico ad un “non parlamentare”, purchè indicato al ruolo da una maggioranza parlamentare pre-costituita (l’ultimo esempio è quello di Giuseppe Conte), ma non prevede il percorso contrario con un Primo Ministro incaricato dal Presidente dall’andarsi a cercare tale maggioranza

3 – Programma “rei pubblicae constituendae”

Con il governo “Mattarella/Draghi”, ancor più dei casi precedenti, siamo quindi di fronte a mutazioni significative della nostra “Costituzione materiale”? Un significativo contributo per rispondere a questa domanda viene da alcuni passaggi del discorso, molto limato e soppesato, di presentazione del nuovo governo tenuto dallo stesso Primo Ministro il 17 Febbraio 2021. Un governo che, coerentemente con l’ampio mandato ricevuto dal Presidente, mirava ad avviare, in piena sintonia con la UE, importanti riforme e una ferma gestione della pandemia. A proposito della quale esplicita che ….. ci impegniamo ad informare i cittadini di ogni cambiamento delle regole ….. Segue, per evidenziare la volontà riformatrice, un significativo richiamo a Cavour riprendendo una sua frase, va da sé scelta non a caso ……. le riforme, compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità la rafforzano …… Questa volontà riformatrice sarà l’orizzonte di un governo definito semplicemente come  …… il governo del paese che non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca e che, interprete dello spirito repubblicano, nasce raccogliendo l’indicazione del Capo delle Stato … Respingendo subito dopo l'idea che tale governo sia stato reso necessario dal …… fallimento della politica …. Mascherando però a fatica il disagio di dire la verità sul commissariamento che di fatto veniva fatto dell’intero Parlamento (difficile non cogliere lo stesso disagio di una politica fallimentare quando, un anno dopo, il Parlamento incapace di trovare sintesi sostenibili sul nome del nuovo Capo dello Stato, rinomina, gioco forza, il Presidente uscente Mattarella). Questa constatazione, inaggirabile, dei limiti del quadro politico viene immediatamente legata alla UE precisando, con una formulazione non poco sibillina, che …… gli Stati Nazionali rimangono il riferimento ma, nelle aree definite dalla loro debolezza, cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa ….. Difficile non leggere fra le righe la considerazione che solo un esecutivo guidato da un personaggio considerato, dal Capo dello Stato e della stessa UE, "adatto all'incarico" poteva concordare tale cessione di sovranità

4 - Mi notano di più se non ci sono?

Non è assolutamente in discussione – anche in questa disamina che mira a far emergere, nel concreto operare istituzionale, le reali dinamiche di fondo dell’evoluzione dell’attuale democrazia -  l’autorevolezza e la competenza del nuovo Primo Ministro, da subito capace di imprimere un passo da tempo sconosciuto con i precedenti governi. Ma non si può non rilevare che quell’impegno “ad informare”, così solennemente assunto, non ha avuto un gran seguito, anzi. L’uomo al comando lavora, eccome, ma il rapporto con l’opinione pubblica, inevitabilmente mediato dai media, non sembra essere mai stato una sua priorità

5 – Stile e governo

Un distacco ed un silenzio che si interrompono con l’uso strumentale delle sport come potente veicolo di idee e consenso, viste le tante, inaspettate, vittorie italiane. La valanga di esaltazioni e celebrazioni (quasi una gara ad ostacoli fra le alte cariche a chi arrivava per primo) permetteva di far passare quasi in sordina, ancora una volta rinnegando quella promessa di chiarezza informativa, alcuni passaggi rilevanti del percorso riformatore. Spicca ad esempio il cruciale avvio della riforma del processo penale varata in un silenzio pressochè totale. Nessuno ha avuto così modo di ascoltare, e capire, gli argomenti addotti per spiegare tale scelta che ….. non era assolutamente fra le riforme richieste dalla stessa UE che spingeva per quella della giustizia civile ….. Un momento alto di “servitù spontanea”? Un'altra riprova del clima semiclandestino che ha avvolto la relazione diretta fra esecutivo e cittadini è fornita dalla comparsa in scena, in svariati momenti e passaggi importanti, di una non meglio definita “cabina di regia”. Un organismo, magari non ufficiale, ma composto da personaggi con altissime competenze? No, è semplicemente un incontro fra i leader dei partiti al governo, o dei loro portavoce, per essere preventivamente informati di quanto il governo sta per decidere.

6 -  Il superpartito. Declino dei partiti

Qualche domanda dovrebbe ben porla alla coscienza democratica italiana il frequente ripetersi di passaggi in cui, a fronte di oggettive situazioni problematiche, peraltro ormai endemiche per il nostro paese, ci si affida ad un “salvatore” di collaudate capacità per uscire dalle secche degli evidenti limiti del sistema politico-partitica. Suona a monito il precedente, dal successivo drammatico sviluppo, del 19 Novembre 1922 quando il governo Mussolini  ebbe la maggioranza di tutti i partiti, tranne socialisti e comunisti. Ma è ben raro che la storia si ripeta tal quale. La possibile attuale forma del “partito unico” non è più, per nostra fortuna, quella imposta dalla dittatura fascista, ma ha la forma …… della riduzione  delle formazioni politiche, malconce ed impegnate in battibecchi strumentali, al ruolo di comparse …… Non è irrilevante, in questo processo in nuce, il ruolo della “stampa politica”, quasi unanimemente allineata a glorificare il salvatore della patria visto al tempo stesso come logica conseguenza e come “giusta punizione” dell’insignificanza partitica. I commentatori più acuti, ma non meno trasversali, evidenziano alcuni aspetti che meriterebbero, ben al di là del solito evidenziare il discredito verso i partiti, peraltro  ampiamente meritato, un esercizio critico più attento alla tendenze di fondo:


*   il mandato di governo  è di fatto staccato dall’effettiva volontà dei partiti

*   il governo è nominalmente un governo parlamentare ma gli attori parlamentari istituzionali, i partiti, decretano in tal modo la loro irrilevanza

*   la formula …. in Italia il governo si forma in Parlamento …. è così virtualmente svuotata di valore

Sullo sfondo, ad ulteriore giustificazione del dato di fatto, si muove una sorta di mantra invocativo …. l’abbandono delle ideologie ……. Laddove per ideologie si intende, a ben vedere, …… l’intero patrimonio di idee e riferimenti culturali che ciascuna forza politica dovrebbe avere come propria ragione d’essere …... Un richiamo il cui esito scontato non può che essere  il definitivo fallimento della politica facilmente decretato, vista l’impalpabilità dei soggetti partitici in causa, con il loro impallidire in una sorta di unico incolore “superpartito”. Verrebbe così cancellato lo stesso mandato che la nostra Costituzione, all’Articolo 49, affida ai partiti: tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per contribuire con metodo democratico a determinare la politica nazionale. La parola chiave di questo articolo 49 è chiaramente il verbo attivo “determinare”, che coniugato con “metodo democratico”, indica al contrario un …… fecondo contrasto, ideale e pratico …..  fra opinioni politiche differenziate. Il richiamo ai dettati costituzionali non è, in questo caso, un passaggio di poco conto: il processo di svuotamento degli istituti democratici costituzionali, è da tempo portato avanti dalle forze per le quali la Costituzione antifascista …… da solo fastidio …. Mentre le forze, quelle di sinistra in primis, che di più dovrebbero impegnarsi per la sua difesa e concreta totale applicazione non sembrano opporre adeguata “resistenza”, fino a farsi sprovvedute promotrici di sue pericolose modifiche, a partire dall’abnorme dilatazione del ruolo delle Regioni (modifica Articolo 5). Per capire le origini dell’attuale assenteismo elettorale non occorre andare molto lontano

7 - Morti sul lavoro e sinistra di governo

In questo breve, ma di forte impatto nel suo ricordare, peraltro sinteticamente, l’elenco senza fine delle morti sul lavoro Luciano Canfora, coerentemente con quanto evidenziato nel Capitolo precedente sul pericoloso ed inaccettabile “abbandono delle ideologie”, richiama la sinistra italiana, in coerenza con la sua storia anche ideologica, a non ritenere che ……. essere sinistra di governo significhi soltanto occupare dei posti nel governo ……

8 – Il prezzo dell’investitura

Per meglio comprendere il contesto, allargato, entro il quale hanno via via preso corpo questi “slittamenti” dall’ordinario contesto democratico e istituzionale è utile ricordare il clima di sospetta benevolenza manifestata dalla UE verso il neonato governo Draghi e la collegata immediata approvazione del cosiddetto “Recovery Plan”. Sicuramente il devastante impatto sulle economie europee della pandemia ha imposto ai rigoristi europei una posizione, per ora, più conciliante, ma è altrettanto possibile che la cordiale e sollecita approvazione delle generose elargizione dei fondi PNRR sia stata motivata dall’aver verificato che, con il nuovo governo, erano state attuate le richieste garanzie di un quadro politico ed istituzionale “sotto controllo”.

9 – La giornata dell’orgoglio

In questo quadro, all’apparenza tutto “rose e fiori”, sono passate sotto silenzio alcune importanti precisazioni venute da personalità, come Mario Monti, tutt’altro che mal disposte verso il nuovo corso dei rapporti tra Italia ed UE. Quello che per il Primo Ministro italiano era la “giornata dell’orgoglio”, e per Ursula von der Leyen la riprova che “l’Italia è il modello per la ripresa” , in effetti è il giorno dell’approvazione di un piano, il mitico PNRR, che, se ben speso, potrà essere di buon sostegno al rilancio economico italiano, ma certamente non a costo zero. Non solo in termini di modalità finanziarie, dei 209 miliardi concessi dalla UE solo un’ottantina sono a “fondo perduto” tutti gli altri sono normale finanziamento oneroso, ma soprattutto come “impegno” a garantire una stabilità istituzionale di lungo periodo tale da tranquilizzare i vertici UE a partire dalla sempre forte componente dei rigoristi del bilancio statale “in ordine”. Al momento il famigerato Patto di Stabilità, che tanti danni ha provocato al sistema di Welfare europeo, è soltanto rimandato al 2023. Ed è bene tenere presente che, a tutti gli effetti, i ripetuti consistenti scostamenti di bilancio, inevitabilmente messi in atto per fronteggiare gli “effetti collaterali” della pandemia, sono stati tali da aver già “intaccato” il “tesoretto del PNRR”.

10 – Rifondazione

E’ allora lecito domandarsi se la forzatura qui delineata dei normali meccanismi democratici ed istituzionali possa rappresentare un modus operandi tutt’altro che episodico ed eccezionale? Qualunque possa essere, la risposta a questa domanda è sicuramente legata ai futuri equilibri europei. Le tensioni geo-politiche, le incertezze economiche, le profonde divisioni strategiche fra gli Stati membri, l’impegno per una svolta ambientale coniugata ad una maggiore giustizia sociale, sono fattori così dirimenti da rendere inaggirabile una vera e propria “rifondazione” dell’Europa Unita. Con quali tempi e modalità lo si potrà intuire già nel corso del 2022, ma è certo che sarà ancor più centrale e dirimente la questione della tenuta della democrazia e dei meccanismi decisionali, istituzionali e non.

11 – Per la contradizion che nol consente

La cartina di tornasole per capirlo sarà ancora quella della sopravvivenza dello Stato Sociale, della visione dei rapporti sociali ed economici, e dei collegati meccanismi democratici, che ha positivamente contraddistinto l’intera Europa del secondo dopoguerra, Italia in prima fila. Da anni il dibattito politico attorno al deliberato processo del suo svuotamento e ridimensionamento, che già molti danni ha fatto, si inceppa di fronte al bivio dei veri ambiti decisionali. Ogni eventuale tentativo di capire come porre rimedio alle gravi problematiche che già si sono accumulate, in tutti i settori “pubblici”, dalla giustizia alla scuola, dalla sanità al sistema pensionistico, deve fare i conti con un quadro decisionale che inevitabilmente, e per molti versi giustamente, non può più essere quello strettamente nazionale. E’ quindi indispensabile ed urgente che anche l’Italia sia consapevole di questo stato di cose, per trarne le necessarie conseguenze sui percorsi democratici decisionali. Evitando quindi che si consolidino percorsi non esattamente alla luce del sole. Non sarà semplice, perché questa necessaria consapevolezza ancora latita  ……..   né pentère e volere insieme puossi, per la contradizion che nol consente …… (Dante, Inferno-XXVII-119-120)

12 – Governismo al capolinea

Riprendendo alcune fila della riflessione sin qui fatta occorre rilevare che l’attuale italica tendenza al cosiddetto “superpartito” non sembra costituire una premessa positiva. Non si può non constatare che …. in tutte le formazioni politiche, pur nell’apparente aspra dialettica, prevale alla fin fine una concezione “governista”, persino in quelle  che si compiacciono di atteggiamenti anti-sistema ……. E’ un fenomeno che può avere diverse interpretazioni e ancor più diversi giudizi, ma che, per quanto accentuatosi in tempi recenti, non è storicamente una novità, tanto da essere stato descritto e giudicato da due pensatori tra di loro distantissimi: Benedetto Croce e Antonio Gramsci. Il primo, in un articolo del Gennaio 1912, ospitato dall’Unità con titolo “Il partito come giudizio e come pregiudizio”, così scriveva in piena età giolittiana ….. l’esperienza mostra che il partito che governa, o sgoverna, è sempre uno solo e ha il consenso di tutti gli altri che fanno le finte di opporsi …… Ben più articolata è l’analisi gramsciana, in effetti tutta attraversata dalla questione “partito”, che nel valutare nel Quaderno 17 dei “Quaderni dal carcere” le differenze tra “partito unico totalitario” e “partito unico articolato” afferma che nella situazione apparentemente più democratica di un libero parlamentarismo tradizionale …… il parlamentarismo effettivo è quello “nero” ……. Ossia un pluripartitismo “addomesticato” che, nell’ombra dei meccanismi di potere, converge verso un sostanziale unanimismo. Ciò succede, secondo Gramsci, quando vertici ed apparati di partito perdono un solido ancoraggio con la parte della società che dovrebbero rappresentare. In questo senso la stessa vocazione “europeista”, per quanto condivisibile e sostenibile, se slegata da un concreto ancoraggio sociale, perde consistenza ideale e fattuale. Non aiuta di sicuro il  procedere, parallelo a quello dello scadimento politico e culturale dei partiti, di profonde trasformazioni della composizione sociale che, non a caso, hanno inciso in misura maggiore “a sinistra”. Gli strati sociali che guardano ai loro privilegi trovano più facilmente una sintesi attorno alla convinzione, caposaldo del pensiero mainstream neoliberista, che il loro mantenimento e rafforzamento abbia effetti positivi per l’intera società. A sinistra invece la difficoltà di restare collegati ad una idea di “popolo” sempre più frantumata in rivoli, non di rado addirittura contrapposti, ha non poco contribuito a rafforzare una visione “governista”, immaginata come la sola risposta ad un non meglio identificato “interesse generale”. Va da sé che quella di Gramsci non sembra più essere una lettura abituale della sinistra governista.

13 – Il ritorno del suffragio ristretto

C’è allora da stupirsi se gli scenari della partecipazione elettorale vedono sempre più ….. votare gli abitanti delle metropoli, però essenzialmente quelli delle ZTL, delle zone a traffico limitato …… i quali, in percentuali confortanti, non di rado premiano il voto “progressista? Il controcanto è rappresentato da una percentuale sempre più crescente, fino ad essere quella maggioritaria in non poche occasioni, di elettori che non votano ovvero che votano motivati quasi esclusivamente da sentimenti di protesta, di rabbia (Marco Revelli parla di vero e proprio rancore).  Si sta cioè assistendo all’affermazione di una sorta di ……. suffragio ristretto, non più imposto per legge, ma realizzato per selezione naturale mediante auto-esclusione ….. Sembra lecito stabilire un collegamento con la tendenza evidenziata nel precedente Capitolo al “governismo”, inutilmente interrotto dalle bandierine agitate in campagna elettorale per marcare una certa “alterità”. Fino a sostenere che è un giudizio suicida quello che valuta questo stato di cose come una tendenza insita nelle moderne democrazie ….. una forma di assetto politico non resta democratica anche quando il demo se n’è andato …..

14 – Bilancio

….. sul nostro paese si sta giocando una partita di rilevanza internazionale …… nell’ultimo ventennio, per un cumulo di ragioni, l’UE ha avuto una guida tedesca. Ma sempre meno considerata positivamente nell’altra sponda dell’Atlantico, interessata, indipendentemente dal Presidente USA di turno, a rafforzare legami di stretto controllo nella lotta sempre più marcata con la Cina (e con i sogni di grande potenza russa coltivati da Putin). La Brexit si spiega anche in questa ottica di indebolimento della UE a trazione tedesca. Washington non sembra nutrire adeguata fiducia neppure nella Francia, Macron o no al governo. Per quanto fragile e “ballerina nel suo ondeggiare politico” l’Italia sembra stia meritando, dal punto di vista americano, un surplus di attenzioni. Che, non diversamente dalle ottiche UE, deve però fare i conti con un quadro politico troppo volatile, troppo difficile da comporre in maggioranze stabili di lunga durata. Salvo aggirare il problema scavalcando le “normali” procedure democratiche e lavorando a costruire, rafforzando tutte le tendenze già in corso qui delineate, un esecutivo forte messo al riparo dalle italiche turbolenze politiche. Sembra, se così è, che si stiano saldando due interessi convergenti …… la trazione diplomatico-militare statunitense e la subordinazione di quel che resta dello Stato sociale alle politiche monetarie europee ……. Ancora una volta …… la chiave di volta è pur sempre l’intreccio nazionale-internazionale …….

domenica 6 marzo 2022

Altri due articoli sulla guerra in Ucraina

 

Proseguiamo nel presentare articoli che aiutino a meglio comprendere la drammatica situazione della guerra in Ucraina. Iniziamo con uno spiazzante articolo di una giornalista, che da anni segue in prima linea conflitti in varie aree del mondo, che sviluppa considerazioni sicuramente “forti” sia sulla gestione russa dell’intervento militare sia sulla scelta italiana di sostenere l’Ucraina anche con l’invio di armi. Farà poi seguito un secondo articolo contenente utili valutazioni da una parte sulle politiche di Putin e sull'idea di Russia che le sostiene e dall'altra sull'incerto percorso ucraino verso una nuova identità nazionale

Le tigri non sono mai di carta 

se hanno denti atomici

05.03.22 – Articolo di Benedetta Piola Caselli (giornalista specializzata in relazioni internazionali, scrive abitualmente sul giornale Il Riformista e collabora a diversi blog)  – sito on line pressenza international press agency

 

Cerchiamo di essere seri e di capire come stanno andando le cose. Abbiamo avuto l’invasione annunciata (si, annunciata) di uno Stato sovrano da parte di una potenza regionale che detiene l’atomica. Le ragioni di questa invasione sono complesse e non andrebbero semplificate, ma la più ripetuta riguarda la richiesta di adesione dell’Ucraina alla NATO, cosa che porterebbe i missili dell’Alleanza a 3 minuti da Mosca. La disparità di forze fra Russia e Ucraina è evidente, e la guerra avrebbe potuto essere lampo. Non lo è stato, e dunque occorre chiedersi perché, così come occorre chiedersi perché i media hanno raccontato fin qui qualcosa che non c’era. Infatti, l’escalation di violenza è stata – ed è – progressiva ma graduale. Ce lo dicono gli stessi militari, fra cui il Generale Mini che è uno che di guerra se ne intende: i russi non hanno usato l’aviazione per bombardare, non hanno interrotto né elettricità, né comunicazioni, né riscaldamento; hanno colpito – o tentato di colpire – installazioni militari cercando di risparmiare i civili. La strategia della violenza progressiva non è niente affatto usuale e, per rendersene conto, basta pensare ad un qualsiasi intervento americano. L’obiettivo in guerra è vincere in fretta con il minor numero di vittime proprie, ed il modo per farlo è combattere dal cielo con i droni o l’aviazione. Se lo scopo era occupare l’Ucraina, bastava un solo bombardamento aereo su Kiev per chiudere la questione. Inoltre, specialmente ora che si chiede a gran voce che Putin sia processato da un Tribunale Internazionale per crimini di guerra o addirittura contro l’umanità, dovrebbe essere sottolineato che la Russia non ha voluto colpire i civili e che sta permettendo i corridoi umanitari per farli allontanare dalle città. Che sia per calcolo o per buon cuore, giuridicamente è irrilevante. Su questo punto occorre fare un attimo di attenzione. Cosa sappiamo delle vittime civili? Secondo i dati dell’Onu, che in 9 giorni di guerra sono state 113 – la cifra non può essere confermata né per eccesso né per difetto – ma parrebbe da valutare per difetto data la mancanza di immagini di cui pure, in genere, i media amano fare ampio uso. E, per quanto sia orribile da dire, sono comunque pochissime: un solo bombardamento aereo normalmente ne fa il triplo. Quindi – stante che c’è una guerra e la guerra causa distruzione e morte – fin qui la Russia sembra aver agito nel modo meno violento possibile. Eppure l’informazione mainstream ci dice altro: il cittadino medio capisce che in ballo c’è un’operazione totalmente ingiustificata, imprevista, condotta da un pazzo sanguinario al pari di Hitler. Fare un’analisi critica delle informazioni e verificare i dati non significa essere filo-Putin o giustificare un’aggressione e, al contrario, serve per valutare correttamente gli effetti di una determinata scelta. Per esempio: solo ammettendo onestamente che la Russia ha operato a basso impatto, scegliendo un conflitto a violenza progressiva, si può capire il perché di questa scelta. L’argomento secondo cui, in caso di blitz aereo, temeva una reazione internazionale armata non tiene: l’Ucraina non è nella Nato e nessuno sarebbe intervenuto. E’ più facile pensare che Putin non voglia isolarsi internazionalmente, e voglia lasciare aperta la porta alle trattative. Ma questo vuol dire anche che, se la porta del dialogo internazionale venisse chiusa comunque, e lui fosse messo all’angolo, verrà meno l’unico vero deterrente all’uso della violenza estrema. Ma c’è un’altra questione rilevante come fenomeno di psicologia sociale. Perché i media hanno drammatizzato con notizie false o esagerate un attacco che nel suo inizio era comparativamente contenuto? Non può essere negato che “pioggia di fuoco su Kiev” del Tg2 (con le immagini di un videogioco), le immagini dell’aviazione russa in formazione del Tg1,2,3 (immagini di una esercitazione del 2014) , la corrispondente in assetto da guerra che parla concitata da un parcheggio in cui la gente fa la spesa su La7, eccetera (quante ne volete mettere?), hanno lasciato nell’osservatore l’idea che Putin sia un pazzo scatenato che, fin dal primo giorno, sta radendo al suolo un paese di 40.000.000 di abitanti. Ma non è vero. Senza voler togliere nulla al dramma dei profughi (e chi non scapperebbe sapendo di essere in pericolo?) e al fatto che l’escalation potrebbe portare ad uno scenario critico, al momento questa cosa non è successa. Perché allora ce la raccontano in modo erroneo?E perché viene esaltato con toni quasi agiografici Zelensky, uno dei leader più controversi dell’ ultimo decennio, improvvisamente dipinto come l’eroe della libertà?C’è un disegno o è solo per vendere di più? Il modo in cui l’ informazione è veicolata ha molti effetti. Il primo, il più banale, è educare o instupidire la popolazione.Nel nostro caso la instupisce. Noi viviamo in un paese in cui, per tradizione, è continua la polarizzazione buono/cattivo, vero/falso, amico/nemico con buona pace di ogni coscienza critica: è il fenomeno del conformativismo italiano, vera base del successo del fascismo, ampiamente trattata da Noberto Bobbio. Iper-eccitare l’opinione pubblica significa stimolare questi schemi con passioni irriflesse, annientando il poco di senso critico che viene faticosamente costruito nelle more degli show mediatici. Oggi, ad esempio, sulla base di una corale solidarietà all’Ucraina (buoni), siamo alla caccia a tutto ciò che è russo (cattivi), e così abbiamo gli atleti bloccati, gli analisti scomparsi dai programmi d’approfondimento, Dostoevskji cacciato dalle università eccetera: questi episodi non sono marginali, perché sono espressione proprio di questo fenomeno, gravissimo, di infantilismo intellettuale e morale. C’è di peggio. La dicotomia buono/cattivo amico/nemico è talmente potente da giustificare azioni totalmente incostituzionali. Ne è esempio la decisione di armare l’Ucraina, pur se armare un paese è un atto di guerra indiretto, e l’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali ex art. 11 Costituzione. Qualcuno, credendosi furbo, ha provato ad argomentare che la guerra di difesa è legittima e che l’Ucraina è paese attaccato. No: la guerra di difesa è legittima quando è l’Italia ad essere attaccata, e su questo presupposto trovano copertura le alleanze militari difensive a cui l’Italia appartiene, come la Nato. Ma armare un paese attaccato che non faccia parte dell’alleanza è esattamente intervenire in una controversia internazionale, contro il dettato costituzionale: in ogni disputa c’è una vittima ed un aggressore, anche se ciascuno ritiene di agire nel giusto. E c’è ancora di peggio. Il fondo lo si tocca con il mancato calcolo di opportunità. Perché, è evidente, delle due l’una: o i politici, spinti dall’opinione pubblica sovraeccitata, fanno scelte di una stupidità infinita, o i politici – per ragioni altre – hanno già fatto scelte che vengono poi coperte dall’opinione pubblica sovraeccitata. Nell’uno e nell’altro caso la responsabilità dei media è gravissima. Volendo credere al primo, il discorso di Draghi che, in soldoni, dice : “siamo in emergenza, quindi prima si agisce e poi si riflette”, lascia basiti. Uno: perché questo conflitto era stato annunciato, rectius: la stessa invasione era stata annunciata, con data e ora precisa, e quindi il tempo per riflettere c’era, e due: perché, se le misure adottate per reagire sono controproducenti, l’escalation del conflitto è certa e ne faremo le spese tutti. Armare l’Ucraina (a parte l’essere incostituzionale) è intelligente? Attenua il conflitto o lo alimenta? Le sanzioni economiche sono una furbata? Attenuano il conflitto o lo alimentano? Demonizzare l’avversario lo isola o compatta il fronte interno? Quale è veramente il punto debole di Putin? What else? Già Hans Morgenthau ricordava che il nemico non si mette all’angolo, perché lì è costretto a gesti estremi. Ora: un conflitto non solo previsto, ma anche a intensità crescente, permette e dà il tempo di trovare soluzioni negoziate – anche con il naso storto, anche dovendo sacrificare qualche principio morale. Non volerlo fare ed alimentarlo è da folli. In primo luogo, perché il popolo ucraino, per quanto eroico e pronto al sacrificio, non ha realisticamente alcuna possibilità di vincere, quindi non si capisce a che serve spingerlo ad ingaggiarsi in una guerra lunga e dolorosa. In secondo, per la salvaguardia di noi stessi che gesti estremi non ne vogliamo: come ci insegnavano i padri, le tigri non sono mai di carta se hanno denti atomici. E questa riflessione, che ha improntato la politica internazionale degli ultimi settantasei anni, non dovrebbe essere dimenticata nel settantasettesimo.

Russia e Ucraina post-sovietiche:

il perché di un conflitto

04-03-22 - Articolo di Marco Puleri (docente presso i dipartimenti di Scienze Politiche e Sociali e di Beni Culturali dell'Università di Bologna) – sito on-line Doppio Zero

Voglio rivolgermi a tutti i cittadini della Federazione Russa: non come presidente dell’Ucraina, ma come cittadino dell’Ucraina… Sappiamo che non vogliamo una guerra: né fredda, né calda, né ibrida”. Alle prime ore della notte del 24 febbraio, in un discorso tenuto in lingua russa, così Volodymyr Zelens’kyj si rivolgeva ai cittadini russi nel tentativo di indurli a una mobilitazione popolare per fermare l’invasione russa nel Paese, che sarebbe comunque iniziata dopo qualche ora per volere della leadership politica russa. All’alba dello stesso giorno, il presidente Vladimir Putin annunciava il lancio di un’operazione speciale per “demilitarizzare” il Paese confinante. Nel corso di questi lunghi otto anni, iniziati con la Rivoluzione di piazza dell’Indipendenza a Kyiv nel novembre del 2013, siamo rimasti nell’incredula attesa che una guerra potesse realmente esplodere nuovamente nel cuore dell’Europa. In questa dimensione di sospensione epistemologica ed esistenziale, abbiamo iniziato a cercare nuovi termini per descrivere quello che stava succedendo, senza trovare una soluzione: abbiamo così imparato a replicare l’utilizzo di categorie storiche per descrivere e talvolta giustificare le diverse posizioni politiche assunte dagli attori coinvolti; abbiamo concordato sul fatto che l’unico modo di guardare al presente fosse tramite il prisma ideologico della ‘guerra fredda’; siamo rimasti scioccati di fronte al riemergere di arcaici nazionalismi che sembravano essere stati ormai sepolti dal volgere dei secoli. Nel suo libro dal titolo emblematico Cosa significa essere post-sovietici? (2018), la critica letteraria russa Madina Tlostanova descriveva in questo modo la nuova condizione esistenziale e politica seguita al crollo dell’URSS: “Non c’è più nessuna teleologia, nessun punto di arrivo… il ricorso all’attesa di un meraviglioso futuro nelle condizioni di privazione e umiliazione odierne è del tutto esausto”. Nel corso degli ultimi trent’anni di storia, si è assistito alla fine della ‘modernità sovietica’ e all’inizio di una ricerca disperata di un nuovo punto d’arrivo. I diversi attori politici e culturali della regione hanno faticosamente ricostruito il loro passato, per pianificare il presente ed immaginare un nuovo futuro. In questo percorso hanno dapprima guardato alle proprie tradizioni locali, sopite e represse in età sovietica, per porre le basi della nuova ‘modernità’ nazionale. Successivamente, si sono rivolti all’Europa e all’Occidente e al modello di modernità globale in chiave liberal-democratica, vivendone in primo luogo i traumi di un distorto processo di modernizzazione, che ha dato in molti casi vita a corruzione, povertà e umiliazione. Lungo questo percorso ha preso vita la ‘transizione’ post-sovietica, un percorso ‘senza futuro’ in cui era paradossalmente solo il linguaggio del passato a poter significare il presente: Ben presto divenne chiaro che le persone post-sovietiche apparentemente mandate in fondo alla fila, in realtà, erano semplicemente escluse dalla storia, perché il recupero non si sarebbe mai concluso con un sorpasso. Ci siamo trovati nel vuoto, in un luogo problematico abitato da persone problematiche. Ed è stata questa situazione di non avere nulla da perdere che ha plasmato il pericoloso risentimento postimperiale di oggi. Le strategie adottate dalle élite politiche e culturali della regione per colmare il vuoto creato dall’assenza di un futuro sono state profondamente diverse tra loro. Il ‘presente’ post-sovietico che ha preso forma nel corso degli ultimi 30 anni di storia ha determinato vettori divergenti di evoluzione storica, la cui direzione ha portato alla formazione di nuove realtà politiche, che hanno riconosciuto vicendevolmente la legittimità della loro presenza sulla scena internazionale. Se lo scenario internazionale ci invita a pensare che ad oggi non esiste nessuna organizzazione internazionale che contenga al suo interno tutti i quindici Paesi sorti dal crollo dell’Unione Sovietica, possiamo già comprendere come un ‘ordine politico’ post-sovietico non abbia mai realmente preso forma. Se guardiamo alla Russia post-sovietica, vediamo un’élite politica che ha costruito la sua stabilità intorno alla negazione dell’umiliazione dei cosiddetti ‘selvaggi anni Novanta’ (‘lichie devjanostye’, in russo) nella coscienza collettiva: è indubbio che la crisi economica, politica e sociale vissuta dalla Russia El’ciniana abbia rappresentato un punto di non ritorno per la retorica putiniana. Vladimir Putin, salito al potere al tempo della seconda guerra cecena (1999-2009), ha costruito la propria carriera politica intorno all’idea di uno ‘stato forte’ (‘velikaja derzava’) che potesse garantire ai propri cittadini una stabilità economica e politica del tutto diversa da quella ereditata dagli anni del suo predecessore. Se è vero che il nuovo contratto sociale che si è affermato negli anni putiniani ha sì portato a una maggiore stabilità politica ed economica per il Paese, di contro ciò è avvenuto tramite la rinuncia a tutta una serie di diritti civili e politici goduti dai cittadini russi negli anni successivi alla perestrojka: per usare una metafora utilizzata dai media russi, nel corso degli anni Duemila ha preso forma quello che viene definito come uno scontro interno ‘tra frigorifero e televisore’, ovvero tra le aspettative di vita reale e concreta dei cittadini russi e l’immagine veicolata dallo Stato della Russia stessa. Volgendo lo sguardo all’Ucraina post-sovietica, guardiamo ad un Paese che per la prima volta nella sua storia legittimava le ambizioni di un movimento nazionale sorto alla metà dell’Ottocento in seno all’Impero Russo, e si trovava di fronte alla possibilità di raggiungere una statalità riconosciuta a livello internazionale. È indubbio il fatto che l’élite politica che si è resa protagonista della ‘transizione’ post-sovietica ucraina non sia stata sempre all’altezza del compito di creare una nuova idea di futuro per il Paese. Non a caso la storia contemporanea dell’Ucraina indipendente, a differenza di quella russa, si muove per ‘cicli rivoluzionari’: dalla rivoluzione sul granito del 1990, alla rivoluzione arancione del 2004 e, infine, alla rivoluzione cosiddetta di Euromaidan nel 2013-14. Ovvero, in luogo della leadership politica del Paese, è stata la società civile a proporre nuove idee di comunità politica che andassero al di là della retorica nazionale del passato sovietico, debitamente rivista nel presente. Queste istanze di cambiamento sono state puntualmente sommerse, per fini elettorali, dalle retoriche divisive adottate dai diversi attori politici intorno all’idea dell’esistenza di ‘Due Ucraine’ distinte e separate. In particolare, sin dagli anni della ‘Rivoluzione Arancione’, che hanno visto il presidente Viktor Jusenko salire al potere, per arrivare all’ultimo presidente ucraino pre-Euromaidan, Viktor Janukovic, il dibattito politico ha iniziato a ruotare intorno alle diverse idee d’Ucraina costruite intorno a miti storici e criteri di appartenenza linguistica ed etnica: secondo questa logica, a un’Ucraina ucrainofona ed ‘europea’, si contrapponeva un’Ucraina russofona e ‘nostalgico-sovietica’. L’eterogeneità e vivacità del presente della società civile ucraina veniva così puntualmente sommersa all’interno del linguaggio del passato. Una condizione post-sovietica, quindi, ma che ci riguarda tutti: non solo i russi e gli ucraini, ma anche la vecchia Europa e l’Occidente. Mentre la fine dei regimi comunisti in Europa centro-orientale segnava la fine di un’epoca, nel corso degli ultimi decenni non si è mai stati in grado (o non si è mai pensato alla necessità) di definire un nuovo futuro per lo spazio geopolitico europeo e globale: mentre l’Unione Europea si allargava ad Est, i nuovi conflitti che avevano già preso vita nella regione post-sovietica (e non solo) restavano insoluti e ‘congelati’, senza che si riuscisse a trovare un dialogo e un metro di valutazione condiviso. Le repubbliche popolari di Donec’k e Luhans’k sono soltanto gli ultimi tasselli sorti nel 2014 in un quadro che sin dagli ultimi anni di vita dell’URSS ha prodotto le cosiddette ‘zone grigie’ d’Europa: la Transnistria, al confine tra Moldova e Ucraina; l’Ossezia del Sud e l’Abcasia in Georgia; il Nagorno-Karabach in Azerbaijan. Conflitti costruiti a livello retorico attraverso il ricorso al linguaggio del passato sovietico, modellati intorno all’implosione del complesso mosaico dell’etno-federalismo sovietico, ma che indiscutibilmente hanno definito un futuro politico complesso per la regione. Un futuro in cui la Federazione Russa si è ritrovata a giocare il ruolo di unico arbitro indiscusso, utilizzando le armi a sua disposizione: le armi di un passato che ai nostri occhi sembrava essere stato seppellito ormai trent’anni fa. Dopo una lunga attesa durata otto anni, la domanda che ricorre è ‘perché oggi siamo di fronte ad una guerra tra russi e ucraini’? Potrebbero esserci tante risposte a questa domanda: perché l’élite politica russa non è riuscita a trovare un nuovo futuro che potesse prendere forme diverse dal ricorso al revanscismo di marca imperiale; dall’altra, perché la società ucraina ha cercato di porre le basi di un futuro tramite il ricorso al confronto democratico e alla creazione di un nuovo modello di comunità post-nazionale, ma nel suo percorso ha incontrato un’élite politica inadeguata che ha strumentalizzato divisioni etniche e culturali interne; perché queste dinamiche sono diventate oggetto di contesa nel contesto internazionale tra progetti di integrazione regionale in opposizione, seguendo le linee di un linguaggio del passato che ruota intorno alle dinamiche di una nuova ‘guerra fredda’. In queste ore di forte preoccupazione per il destino di un Paese che nel corso degli ultimi 30 anni di storia ha vissuto un difficile percorso verso l’affannosa ricerca di un futuro tramite l’affermazione di una vibrante società civile, di una società multiculturale, e in generale di un confronto politico interno vivace e aperto, sembra necessario ribadire con forza e lucidità che la guerra in corso non è una guerra tra russi e ucraini, i cui legami familiari, esperienze di vita, radici culturali comuni restano indiscutibili, ma ruota intorno a due idee diverse di comunità politiche promosse dalle odierne élite dei due Paesi. Da una parte, il futuro promosso dalla leadership russa è costruito intorno alla continuità con il passato, alla negazione della possibilità di creare un nuovo percorso politico e sociale democratico per la regione post-sovietica. Dall’altra, abbiamo un’idea di futuro (ancora imperfetto e in divenire), basata su una discontinuità con il passato sovietico. Un futuro che chiaramente può prendere forma solo in tempi di pace: e qui il ruolo dell’Unione Europea e dell’Occidente è essenziale. Siamo tutti coinvolti nel tentativo di creare una nuova idea di futuro tramite un linguaggio nuovo per un dialogo rinnovato, che rifiuti con decisione il ritorno alle armi, i termini di una nuova ‘guerra fredda’, il lessico dei nazionalismi. La speranza è che questo linguaggio possa nascere dal confronto tra la società civile russa e quella ucraina. Un nuovo linguaggio post-sovietico di rottura da fare nostro, e rendere parte di una nuova idea di relazioni culturali e politiche in Europa.