domenica 9 agosto 2020

Il "Saggio" del mese - Agosto 2020

 

Il “Saggio” del mese

 AGOSTO 2020

 Inizia, con questo primo post, la pubblicazione nel nostro blog della sintesi del saggio “Capitale ed Ideologia” di Thomas Piketty.  Il suo precedente lavoro, “Il Capitale nel XXI secolo”, ormai divenuto un testo “classico” indispensabile riferimento per lo studio delle disuguaglianze che, a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, caratterizzano in modo crescente l’intera umanità, guardava al futuro richiamando la necessità di decise politiche di correzione di tale tendenza per evitare che il XXI secolo diventi il “secolo della disuguaglianza”. Forte del prestigio ottenuto Piketty, con questo suo secondo saggio frutto come il primo di un vasto ed accurato lavoro di raccolta dati, torna ad affrontare il tema delle disuguaglianze con uno sguardo stavolta rivolto al passato per cogliere le eredità della loro evoluzione storica vista in stretta relazione con il “mondo delle idee”, con le “ideologie” alla loro base. Lo scopo principale di questa sintesi è quello di ripercorrere il lavoro di Piketty (P) recuperandone considerazioni e valutazioni e quanto più possibile della consistente raccolta di dati e delle loro rappresentazioni grafiche. Vista la mole del saggio (1.200 pagine circa, 170 grafici/tabelle), la sintesi si articolerà su più post a costruire, con una tempistica decisamente dilatata, un unico “Saggio del mese”. Iniziamo con la sintesi dell’Introduzione, necessaria per conoscere i presupposti metodologici e teorici sui quali Piketty ha costruito questo suo secondo saggio

Introduzione

…….. Ogni società umana deve giustificare le sue disuguaglianze ……. E lo fa, in prevalenza, costruendo narrazioni ideologiche finalizzate a legittimarle. Nella società contemporanea la narrazione ideologica prevalente è quella neoliberista, “imprenditoriale, proprietarista e meritocratica”. Sicuramente un passo in avanti rispetto a quelle statutarie e dispotiche che l’hanno preceduta ma, coniugata com’è alla sua influenza globale e totalizzante, appare in grado di condizionare pesantemente presente e futuro dell’intera umanità. La crescita esponenziale delle disuguaglianze fra aree e paesi, e di quelle interne ad ogni singolo paese, sta peraltro aprendo pericolosi spazi a miopi reazioni populiste, identitarie e nazionalistiche. Non diversamente da quanto, in Occidente, è già tragicamente succeduto subito dopo la Prima Guerra, e con analoghi rischi di una catastrofe mondiale. Occorre quindi costruire urgentemente una reale alternativa globale sapendo che la lotta per l’uguaglianza è stata storicamente la fonte del progresso umano e dello stesso sviluppo economico. E’ quindi necessario costruire una narrazione alternativa fondata innanzitutto su una conoscenza storica e pluridisciplinare delle disuguaglianze globali così come si sono sin qui manifestate. E’ questa la finalità di questo saggio e per meglio coglierla nel seguire la sua lettura P presenta alcuni indispensabili chiarimenti preliminari:

·      Che cos’è una ideologia? = P la intende come un insieme di narrazioni che forniscono un’idea complessiva della società a cui si rivolgono e che quindi coinvolgono i suoi aspetti sociali, economici e politici. Come tale è sempre soggetta al confronto ed al conflitto, che confluiscono in ultima istanza nel regime politico che ne viene determinato, ossia nell’insieme delle regole che definiscono una comunità, le modalità con cui si prendono le decisioni, i collegati diritti politici. Accanto a quello politico l’ideologia determina anche il regime della proprietà, le regole che la normano, ed i rapporti sociali che ne conseguono, in particolare il sistema fiscale e quello dell’istruzione. Questi due regimi sono strettamente connessi ed insieme formano una idea della diseguaglianza connaturata che l’idea generale che una società ha di sé stessa. A cascata l’ideologia determina quindi la forma di tutte le istituzioni sociali, private e pubbliche.

·      I confini e la proprietà = Per completarsi e divenire realtà sociale l’ideologia deve inoltre fissare i confini della comunità di riferimento, sia territoriali che umani, chi ne fa quindi parte e chi ne è escluso, ed i rapporti con le altre comunità. In questo quadro il regime della proprietà stabilisce anche chi e cosa possa essere posseduto, e le conseguenti tipologie di rapporto contrattuale.  La storia ci ha fin qui consegnato tre sostanziali tipologie di regime della proprietà:

ü  quella delle società “tradizionali”  che facevano rientrare nella proprietà cose e persone e che, conseguentemente, vedevano un totale coincidenza tra regime politico e regime delle proprietà

ü  quella delle società “ternarie o trifunzionali”, ossia basata su tre ordini politici, una classe religiosa, una aristocratico-guerriera, ed una plebea dei lavoratori, in un quadro della proprietà appena meno esplicito di quello precedente, nel quale il “signore” disponeva in toto della classe dei lavoratori

ü  quella della “società dei proprietari”, sorta in Europa in violenta contrapposizione con quella precedente, e cresciuta, a partire dalla Rivoluzione industriale, in modo stabile e diffuso nel XIX secolo, che opera una distinzione tra il diritto alla proprietà, esteso teoricamente in modo universale, e il regime politico che perde la sua titolarità proprietaria

P individua nelle forme del “regime della diseguaglianza” la chiave di lettura del processo di evoluzione di queste tre forme storiche del diritto di proprietà

·      Prendere sul serio l’ideologia = Per P la disuguaglianza, prima ancora che economica, è ideologica e politica. Se non sono ovviamente accettabili i discorsi conservatori delle èlite che, da sempre, la presentano come un fenomeno “naturale”, una semplice conseguenza di una divisione di compiti e ruoli innata nell’umanità, appaiono inadeguati anche quelli “di sinistra” che, sulla base di errate forzature meccanicistiche del pensiero marxista, la spiegano come una automatica conseguenza della “struttura economica”, rendendo così ininfluente la “sovrastruttura” ideologica. E’ evidente, al contrario, che, visto nei suoi presupposti strutturali, uno stesso regime economico può essere riferito a più ideologie, non di rado fra di loro addirittura contrapposte. Per togliere spazio a racconti troppo condizionati da schemi di lettura aprioristici è allora necessario uno studio oggettivo, basato sui “fatti”, sui “dati”, delle diverse traiettorie storiche delle disuguaglianze. E’ quanto P intende fare “prendendo sul serio” i presupposti ideologici che le hanno caratterizzate, a partire da quello che vede in ogni ideologia, prima del suo divenire un dogmatismo, cieco e sordo per i dati di fatto, conservatore di status quo ormai realizzato, la proiezione ideale di società con una sua innovativa idea di disuguaglianza. Il progresso storico in fondo è sempre stato determinato dal continuo evolvere e confliggere di idee diverse della disuguaglianza. E non a caso occorre allora avere coscienza che anche gli pur indispensabili “dati”, i “fatti” storici”, sono a loro volta il risultato di una serie di interazioni così complesse da rendere problematica la loro stessa definizione di “oggettivi”.

·      Apprendimento collettivo e scienze sociali = La costruzione di una ideologia, di una visione della società in grado di spiegarne le disuguaglianze, è un percorso lungo ed articolato in cui, accanto al mondo delle idee, delle teorie sociali e politiche, gioca un ruolo centrale un percorso comunitario, fatto di esperienze spesso anche conflittuali, che ha le caratteristiche di un collettivo “processo di apprendimento”. Questo processo non è mai del tutto lineare ed anzi presenta quasi sempre non poche contraddizioni: accanto ad una parte di razionalità non è ad esempio privo di componenti emotive, di rappresentazioni grossolane e interessate, di una memoria collettiva facilmente suggestionabile, del peso casuale di fattori tanto imprevedibili quanto decisivi. Non è facile districarsi in questo insieme di componenti, ed è qui che le scienze sociali possono giocare il loro ruolo, mettendo scientificamente a confronto esperienze e culture diverse, individuando sulla base di riscontri il più possibile oggettivi le dinamiche che di più hanno portato al definirsi di una ideologia e al concretizzarsi di un sistema sociale da essa ispirato

·      Le fonti utilizzate = Animato da questo spirito P precisa che sono due le categorie di fonti storiche utilizzate: quelle relative all’evoluzione delle disuguaglianze e quelle relative alla trasformazione delle ideologie. Per le prime, in aggiunta al consistente lavoro già alla base del “Capitale nel XXI secolo”, è stata in particolare utilizzata la straordinaria raccolta di dati, presentata nel 2018, fatta dal World Inequality Database (WID), un progetto pluriannuale che ha coinvolto più di cento ricercatori in ottanta paesi di tutto il mondo, e che ha fra l’altro recuperato diversi notevoli lavori precedenti. Esiste inevitabilmente una diversità di valore della documentazione raccolta: in alcuni paesi, quelli più ricchi di archivi storici, è stato possibile risalire a due/tre secoli addietro, in altri la memoria storica è meno estesa temporalmente. Inoltre in alcuni paesi, quelli con regimi politici non definibili democratici, non è stato concesso l’accesso a tutte le fonti necessarie a formare un quadro organico e completo. Complessivamente però il database generale ottenuto è di notevole valore ed ampiezza, tale da sopperire anche al limite, oggettivamente presente nel “Capitale nel XXI secolo”, di uno sguardo troppo limitato all’ “Occidente”. Per quanto concerne le dinamiche ideologiche le fonti utilizzate sono molto diversificate. Accanto a quelle “classiche” quali: documentazioni politiche, istituzionali, di stampa, testi vescovili, saggi teorici, trattati storici, risultati elettorali e loro analisi, ancora una volta, come per il “Capitale nel XXI secolo”, avrà spazio la “letteratura”. In molti romanzi, nelle vicende individuali e collettive raccontate, emerge con limpidezza il racconto dei rapporti di potere, delle relazioni fra i gruppi sociali, delle idee di nazione e delle opinioni degli altri paesi, della costruzione delle identità di ceto e di genere, dei valori etici e religiosi, e quindi di tutte le varie componenti che concorrono a formare una ideologia.

·      Il progresso, il ritorno delle disuguaglianze, la complessità del mondo = Iniziando ad entrare nel vivo della materia P , in coerente ricaduta delle premesse fatte, delinea un primo quadro storico complessivo degli ultimi secoli, quelli della “modernità”, entro il quale dovranno essere collocate le valutazioni più specifiche sulla evoluzione delle disuguaglianze globali. Ed è un quadro, già  preceduto da una  positiva evoluzione, che è indubbiamente caratterizzato da un “progresso generale” esteso e consistente. Lo evidenziano due grafici relativi a due aspetti fondamentali: l’evoluzione della salute (aspettativa di vita in anni) e dell’istruzione (percentuale di alfabetizzati) nel mondo dal 1820 ad oggi, e l’aumento del reddito medio mondiale dal 1700 ad oggi:

Grafico 1

Grafico 2

Come tutti i dati aggregati di ampia scala anche questi contengono al loro interno una grandissima varietà di situazioni, resta tuttavia impressionante la crescita del valore medio: nel mondo negli ultimi duecento anni la speranza di vita alla nascita è passata dai 25 anni nel 1820 ai 72 anni nel 2020 e il tasso di alfabetizzazione dal 12% del 1820 all’85% del 2020. Per la curva del reddito medio, ovviamente calcolata sulla base dei dati disponibili che per alcune parti del mondo, quelle più povere, sono molto aleatori mentre in altre, quelle più ricche, sono decisamente più affidabili, è comunque possibile ricostruire un costante trend a crescere già a partire dal 1700 ed un significativo balzo nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. E’ persino superfluo ricordare che le evidenze storiche raccontano un percorso tutt’altro che lineare, ambedue questi processi di crescita, se frazionati per aree e per specifici momenti, non presenterebbero curve così linearmente progressive. Guerre, carestie, crisi economiche sono, purtroppo, una costante nella storia dell’umanità, ma è altrettanto vero che mai in precedenza, in tutta la storia dell’umanità, si era verificato un progresso così consistente, tale persino da imporre i ben conosciuti gravissimi problemi di sostenibilità, ambientale ed economico/sociale.

·      Il ritorno delle disuguaglianze, primi dati = I dati raccolti, come si avrà modo di vedere nel vivo del saggio, dimostrano che questo progresso, in particolare nella parte del mondo più interessata dalla “modernità”, è stato anche accompagnato, lentamente ma costantemente, e con un significativo incremento nel corso di buona parte del Novecento, da una diminuzione delle disuguaglianze. Dal 1980 questo trend sembra però essersi prima arrestato e poi invertito. Anticipando le successive analisi di dettaglio, P lo evidenzia in questa introduzione utilizzando un grafico che, scomposto per singole aree, quelle in qualche modo più rappresentative della situazione globale, fotografa la quota parte in percentuale della ricchezza prodotta in queste aree appannaggio del “decile superiore”, ossia del dieci per cento più ricco della popolazione:

Grafico 3

  • E’ facilmente rilevabile, a partire per l’appunto dal 1980, la costante crescita della parte di ricchezza in quota al decile superiore: in una prima fase con un dato medio ancora relativamente contenuto, attorno al 30% - 35%, ma poi con un evidente salto, a partire dal 1990, fino ad un quota che varia dal 40% al 55%. Si può inoltre notare che la crescita è stata maggiore negli USA rispetto all’Europa, l’area più stabile, e molto di più in India che in Cina. Si dimostra inoltre che, fatte salve queste significative differenze che costituiranno materia di approfondimento, la crescita della disuguaglianza ha interessato tutte le aree indipendentemente dal loro regime politico. Un altro grafico, sempre relativo alla percentuale di ricchezza posseduta dal decile superiore ma circoscritto al 2018, che in aggiunta a quelle precedenti prende in considerazione altre aree mondiali, consente una seconda importante considerazione 

Grafico 4

  • P anticipa, guardando a questi dati, l’impressione, rafforzata nel corso del saggio, che la crescita della disuguaglianza nelle quattro aree prese in esame in ambedue i grafici sembra poter essere spiegata con l’incidenza di fattori “moderni”, ossia di variazioni determinate da elementi sorti nella contingenza contemporanea. Mentre invece il livello di disuguaglianza, decisamente più alto, delle altre regioni prese in esame, con l’inclusione dell’India, sembra essere spiegabile, in aggiunta a quelli “moderni”, anche per l’incidenza di fattori “storici”, ossia per il protrarsi di condizioni sociali ed economiche storicamente già caratterizzate da alti livelli di disuguaglianza. Questa constatazione è la premessa fondamentale per una delle caratteristiche fondamentali del saggio: la necessità di analizzare la disuguaglianza in tutte le sue storiche manifestazioni con una sguardo quindi non ristretto alla contemporaneità, ma con una “visione a lungo termine”. Vale comunque la pena di considerare, già in questo primissimo approccio dell’Introduzione, il contesto globale contemporaneo in cui si sono manifestati questi fattori “moderni”.
  • Il grafico a forma di elefante: discutere serenamente sulla globalizzazione = Ed è ovviamente la “globalizzazione”, economica e finanziaria, questo contesto contemporaneo. La relazione molto stretta fra disuguaglianze e globalizzazione è dato accettato da tutti, diverso è però il giudizio critico: per alcuni, i sostenitori della “bontà della globalizzazione”, prevale il suo merito di aver comunque contribuito al miglioramento delle condizioni di vita di vaste aree dei paesi più poveri, per altri, i suoi contestatori, essa è invece la causa prima della crescita delle disuguaglianze. Nel proseguo del saggio verranno ovviamente analizzate nel dettaglio le singole specifiche situazioni che, con caratteristiche non poco diversificate, compongono il quadro dei mutamenti della struttura economica globale che vanno sotto il nome di globalizzazione, per intanto P prova a dirimere questo contrasto sulla base di un apposito grafico che riassume la distribuzione della ricchezza globale prodotta nel periodo 1980-2018 fra i diversi centili (popolazione ripartita in base alla ricchezza posseduta con unità di misura cento, dieci centili formano quindi un decile) della popolazione mondiale, vale a dire una sorta di “riassunto” generale della disuguaglianza negli anni della globalizzazione: 

Grafico 5


Se la distribuzione della ricchezza mondiale prodotta nel periodo 1980-2018 fosse stata perfettamente equilibrata  la curva del grafico (chiamato dagli addetti ai lavori “ad elefante”)  sarebbe stata una retta piatta (“la marea che fa salire tutte le barche” citata dai teorici neoliberisti), al contrario la sua forma dimostra che, se sono stati “relativamente” premiati i quaranta/cinquanta centili più poveri, è stato “fortissimamente” premiato il centile superiore, quello già più ricco, e che sono stati di fatto ignorati dalla crescita mondiale i centili dal 50 al 90. Le due affermazioni citate in precedenza risultano quindi, per certi versi, ambedue esatte: da una parte la globalizzazione ha spalmato sulla metà più povera della popolazione mondiale un significativo 12% della ricchezza prodotta nel periodo 1980-2018, ma al tempo stesso ne ha consegnato quasi il trenta per cento all’uno per cento già più ricco. Gli strati sociali più penalizzati nel periodo in esame sono stati indubbiamente i cosiddetti “ceti medi” globali per i quali la pur rilevante quota di ricchezza a loro in capo, pari al 61%, non ha goduto, come dimostrato dalla curva, di un miglioramento delle condizioni di partenza rimaste relativamente stabili attorno ad una percentuale media attorno al 45% (linea delle curva pressoché piatta). Difficile comunque negare l’evidenza della crescita delle disuguaglianze all’interno di un quadro globale di crescita complessiva della ricchezza, ma questi dati, seppure già significativi, non chiudono il dibattito, la domanda resta quella di sapere fino a che punto è ammissibile giustificare la crescita dei redditi al vertice con gli eventuali benefici che, come sostenuto dai teorici neoliberisti, a ricaduta dovrebbero interessare tutto il resto della società.

·      Imparare dalla storia, imparare dal XX secolo: Una domanda che a maggior ragione si impone considerando la traiettoria delle disuguaglianze che si era già consolidata nel periodo precedente la globalizzazione. Se, come già evidenziato, scopo del saggio sarà quello di collocare la storia delle disuguaglianze e delle ideologie che le sostengono in una prospettiva di lungo periodo, alcuni dati possono per intanto dare una significativa idea di quanto si è concretamente verificato nelle tre aree economicamente più avanzate in tutto lo scorso secolo:

Grafico 6

In queste tre aree economiche la curva delle disuguaglianze, rappresentata dalla quota di ricchezza detenuta dal decile superiore, parte da valori molto alti (dal 42% al 50%), conosce una significativa diminuzione per buona parte del secolo e, come si è già visto in precedenza, riprende a salire in modo consistente, con la sola Europa che si mantiene ancora al di sotto del valore di inizio Novecento, mentre il Giappone di fatto lo recupera e gli USA addirittura lo superano. Questi processi di contrazione e ripresa delle disuguaglianze sono per P esemplari in quanto consentono, come si avrà modo di analizzare in dettaglio nel saggio, di cogliere le eredità dei sistemi socio-economici che li hanno preceduti, ma anche di alcuni decisivi fattori esterni. Nel caso specifico il peso dei due conflitti mondiali, dei cambiamenti in campo fiscale, sociale e legale, che spiega la forte riduzione intervenuta da inizio secolo fino a buona parte del secondo dopoguerra, ed anche il ruolo di quelli successivi alla base della forte ripresa della disuguaglianza. Dietro a tutti questi fenomeni è poi possibile cogliere, scopo centrale del saggio, la forte presenza di elementi ideologici in grado di spiegare sia le svolte riduttive sia quelle di rilancio delle differenze.

·      La glaciazione ideologica e le nuove disuguaglianze nell’istruzione = In questo senso nel saggio sarà dato ampio spazio all’analisi delle trasformazione nelle istituzione politiche e sociali che hanno un ruolo fondamentale sul livello e sulla struttura delle disuguaglianze. Un significativo esempio, anticipato in questa introduzione, è quello del rapporto tra livelli di reddito delle famiglie e la possibilità di accesso a corsi universitari. P esamina, come caso esemplare, quello statunitense fotografato al 2014:

Grafico 7
 

Difficile sostenere l’esistenza di processi di superamento delle disuguaglianze quando, come nel caso rappresentato nel grafico, l’accesso a percorsi di istruzione di alto livello, possibile viatico per un avanzamento sociale, è fortemente legato (solo il 31% dei figli del decile più povero accede all’Università, e non a quelle più prestigiose, mentre, con una curva a salire costantemente progressiva, lo possono fare il 96% del decile superiore) al reddito delle famiglie. Il fenomeno, denominato da P di “glaciazione ideologica”, di congelamento di gran parte dei fattori che bloccavano ad inizio secolo scorso l’avanzamento sociale, il quale è infatti significativamente cresciuto per gran parte del Novecento, si è di fatto interrotto e capovolto, come si è visto a partire dagli anni Ottanta. Quello dell’accesso ai livelli più titoli di studio è solo uno dei tanti aspetti che, esaminati nel saggio, concorrono concretamente a definire il rapporto disuguaglianza/ideologia.

·      Il ritorno delle élite multiple e le difficoltà di una coalizione egualitaria = Su questo rapporto incide notevolmente anche il dato politico della capacità dei partiti, e delle loro coalizioni, di incidere su di esso grazie ai consensi elettorali ottenuti. E’ evidente che può rappresentare una importante svolta egualitaria la salita al potere di un partito, o di una coalizione, che si pone l’obiettivo di ridurre il livello di disuguaglianza, essendo espressione di una ideologia che si muove in tale direzione, come ad esempio, fatta la dovuta tara ai molti limiti, contraddizioni, incongruenza, errori fisiologici, è stato per le coalizioni europee a vocazione socialdemocratica ed il Partito Democratico statunitense. L’analisi dettagliata dei flussi elettorali europei e statunitensi evidenzierà però la necessità di capire l’incidenza di una svolta che, per entrambi questi due soggetti politici, è avvenuta a partire dagli anni Ottanta: vale a dire il sostanziale passaggio da un elettorato di riferimento poco scolarizzato e molto penalizzato sul piano delle disuguaglianze ad uno con un livello di istruzione e di reddito più alti in un quadro che vedeva allentarsi,  soprattutto in Europa, il legame con determinate ideologie, una composizione di classe meno rigorosamente definita, ed una crescente disaffezione alla partecipazione politica attiva ed allo stesso voto . P definisce questa nuova struttura del conflitto politico come un sistema di “élite multiple” in cui il legame di classe ha perso, per i partiti sia di destra che di sinistra, buona parte delle sue caratteristiche “storiche”.  Gli stessi due fenomeni correlati del populismo e dell’elitismo vanno, a suo avviso, collocati e analizzati in questo contesto, che ha, aspetto tutt’altro che secondario, inciso in modo concreto sulle politiche economiche, fiscali, sociali in genere, che determinano il livello reale di disuguaglianza.

·      La complessa diversità del mondo: l’indispensabile passaggio per il lungo termine e al corretto rapporto tra linguaggio naturale e linguaggio matematico =   Dall’’insieme di queste considerazioni introduttive P ribadisce l’evidenza che lo studio attento delle disuguaglianze, e del loro intreccio con le ideologie che, dopo aver contribuito a crearle, sono state di loro giustificazione, richiede uno sguardo storico di lungo termine. Mai come in questo caso le caratteristiche di una determinata fase dell’evoluzione storica possono essere colte al meglio solo avendo piena nozione di quelle che l’hanno preceduta, condizione sine qua non per essere la base indispensabile per immaginare e costruire percorsi futuri. P ritiene infine necessaria una seconda premessa metodologica legata al tipo di “linguaggio” che utilizzerà nel corso del saggio. Ogni valutazione, ogni considerazione sarà il più possibile presentata con un “linguaggio naturale”, senza ricorrere più di tanto a terminologie tecniche, ma, al tempo stesso, affiancandolo con un “linguaggio matematico” (serie statistiche, grafici, tabelle, etc.) indispensabile per cogliere al meglio la reale consistenza dei fenomeni storici esaminati, i loro ordini di grandezza ed il loro essere base, pressoché unica, per mettere a confronto società e fasi storiche differenti. Senza dimenticare che, se questi stessi dati sono stati al tempo fonte e modalità di articolazione delle varie forme storiche di disuguaglianza, saranno ancora e sempre la base indispensabile per quelle future.

Struttura del libro = Il saggio si divide in quattro parti e diciassette capitoli:

*      Parte prima: I regimi delle disuguaglianze nella storia

Ø Capitolo 1 = le società ternarie o trifunzionali (clero, nobiltà, terzo Stato)

Ø Capitolo 2 = il loro percorso storico nello specifico europeo

Ø Capitolo 3 = il sorgere della “società dei proprietari”

Ø Capitolo 4 = il caso emblematico della Francia del XIX secolo

Ø Capitolo 5 = la transizione nel resto dell’Europa dalle prime alle seconde

*      Parte seconda: Le società schiaviste e coloniali

Ø Capitolo 6 = le società schiaviste

Ø Capitolo 7 = le società post schiaviste coloniali

Ø Capitolo 8 = intreccio fra le società trifunzionali extra europee e quelle coloniali, il caso dell’India

Ø Capitolo 9 = idem, le altre situazioni euro asiatiche

*      Parte terza: La grande trasformazione del XX secolo

Ø Capitolo 10 = la caduta delle società proprietaristiche

Ø Capitolo 11 = le conquiste ed i limiti delle società socialdemocratiche

Ø Capitolo 12 = le società comuniste e post comuniste

Ø Capitolo 13 = l’attuale regime iper-capitalistico

*      Parte quarta: Rivedere le dimensioni del conflitto politico (evoluzione della struttura socioeconomica degli elettorati)

Ø Capitolo 14 = la nascita e la scomparsa di coalizioni egualitarie

Ø Capitolo 15 = la situazione specifica degli USA e del Regno Unito

Ø Capitolo 16 = le altre situazioni nel mondo

Ø Capitolo 17 = gli insegnamenti che se ne possono trarre

*      Parte quinta: Conclusioni




venerdì 7 agosto 2020

Salviamo la Palestina

E' a tutti noi ben noto che buona parte delle tensioni internazionali hanno avuto, e tuttora hanno, origine dalla situazione medio-orientale, all'interno della quale l'irrisolta questione palestinese ha tragicamente giocato per molti decenni un ruolo di primo piano senza mai giungere ad alcuna soluzione. Negli ultimi anni l'attenzione della pubblica opinione si è giustamente concentrata sui tanti, troppi, drammi umanitari che hanno colpito altre aree medio-orientali,  in particolare  Siria ed Iraq, con la conseguenza che di Palestina poco e male si sta parlando. Eppure tutte le sue irrisolte questioni sono rimaste sul tappeto e rischiano di riesplodere in modo pericoloso per la recente scelta del governo israeliano di procedere ad ulteriori consistenti annessioni del territorio palestinese pregiudicando oltretutto in modo pressoché definitivo la possibilità di concretizzare l'auspicata idea della creazione di due Stati. Con riferimento a questo inquietante quadro pubblichiamo la seguente petizione lanciata nel sito Avaaz-Il mondo in azione - una piattaforma internazionale nonprofit che pubblica, diffondendole in Rete, petizioni proposte da comitati che si occupano di Ambiente, Giustizia sociale, e  Diritti umani - per chiedere la sospensione di tali pericolose politiche. Chi fosse interessato ad aderire, o anche solo a visitare il sito Avaaz può farlo cliccando sul seguente link:


Grazie


sabato 1 agosto 2020

La Parola del mese

La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri 

collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

AGOSTO 2020

Ricordiamo tutti bene quella specie di mantra che ha mediaticamente accompagnato buona parte dei mesi duri del lock down: “nulla sarà più come prima”. Nella migliore delle ipotesi esprimeva più una illusoria speranza che una reale convinzione, ma la constatazione della sua pochezza ben poco alleggerisce la tristezza di constatare quanto sia sempre più flebile la possibilità che questa fase pandemica possa rappresentare una reale svolta che lasci alle spalle un’idea di sviluppo sempre più insostenibile, e stili di vita e modi pensare errati e dannosi. Ma è ancora più è triste ritrovare nelle cronache quotidiane il ricomparire, con la stessa sfrontatezza di prima, di inaccettabili atteggiamenti che da troppo tempo segnano e avvelenano la nostra società e le nostre comunità. Non pochi casi - basta citare il mare di spregevoli insulti in Rete che hanno accompagnato la nomina a Cavaliere di Gran Croce di Sami Modiano, lucidissimo e attivissimo novantenne ebreo italiano superstite di Auschwitz, - testimoniano in particolare il persistere di quella che può essere considerata la “madre” di tutte le intolleranze, di tutte le discriminazioni cieche e violente. Stiamo ovviamente parlando di.......

                    ANTISEMITISMO

Antisemitismo (da Wikipedia) = la paura o l'odio irrazionale verso i giudei, cioè gli ebrei. Secondo la Working Definition of Antisemitism ("definizione pratica dell'antisemitismo"), dell'Agenzia europea dei diritti fondamentali «l'antisemitismo è quella certa percezione descrivibile come odio verso gli ebrei. Le manifestazioni retoriche e fisiche dell'antisemitismo sono dirette contro singoli ebrei o non ebrei, e/o contro la loro proprietà, contro le istituzioni comunitarie e contro le strutture religiose ebraiche. Inoltre tali manifestazioni possono anche avere come bersaglio Israele, concepito come una collettività di ebrei. L'antisemitismo accusa frequentemente gli ebrei di cospirare ai danni del resto dell'umanità, ed è spesso utilizzato per incolpare gli ebrei di uno o più problemi politici, sociali ed economici. Trova espressione orale, scritta e impiega stereotipi sinistri e tratti caratteriali negativi

L’antisemitismo è un mostro che raramente, e per brevi periodi, pare sopirsi salvo poi rialzarsi con identica cieca brutalità ferocemente la testa, a maggior ragione quando posizioni di destra che esplicitamente si richiamano a fascismo e nazismo percepiscono un clima politico che sembra sdoganarle. Non è però questione legata solamente alla recente storia novecentesca come molti ritengono, al contrario, con accentuazioni che spesso hanno assunto risvolti tragici, è una ferita che da molti secoli lacera in profondità la cultura e i modi di pensare dell’intero occidente. In molti, storici, sociologi, teologi, psicologi, hanno analizzato le radici dell’odio antiebraico, ed è quindi vastissima e approfondita, ancorché inadeguata a sterilizzarlo, la letteratura sul tema. La scelta di “antisemitismo” come “Parola del mese” nasce dalla lettura di un nuovo saggio che lo analizza da una prospettiva “diversa” che ci è sembrata particolarmente interessante.



Horvilleur Delphine (rabbino femmina francese, caporedattrice della rivista ebraica “Revue de pensée juve”)  offre infatti con questo suo saggio un contributo originale essendo una ricostruzione dell’antisemitismo elaborata per vie “interne” alla cultura ebraica,  una sua lettura dal punto di vista “rabbinico”. Analogamente a quanto fatto da Abraham Yehoshua con il suo saggio del 1996 “Ebreo, israeliano, sionista, concetti da precisare” anche Horvilleur risale la cultura ebraica, leggendola nei suoi testi sacri, per cercare di capire se in queste fonti si nascondano indizi utili a capire un odio cosi antico e tenace. L’antisemitismo non va genericamente confuso con il razzismo, ha da sempre distinte peculiarità: se le altre forme di razzismo esprimono essenzialmente un odio per “chi non ha” le caratteristiche che si presume codifichino una etnia, in particolare il colore della pelle, le usanze, la cultura, la lingua, quello verso l’ebreo è un odio verso “chi ha”, o si presume che abbia, potere, denaro, privilegi, ma anche resistenza, tenacia, capacità di reagire e reggere anche il disumano. Ma è soprattutto l’odio verso “chi ha” una sua “separatezza”, una sua autonomia, gli ebrei sono infatti sempre stati visti, per quanto siano componente attiva ed importante di tutte le società in cui vivono, come una comunità a sé, un mondo “a parte”. Non si capisce ad esempio perché, se non in base a questo particolare pregiudizio identificativo, ancora oggi nel presentare un personaggio del mondo della cultura, dello spettacolo, della politica, dell’economia e della finanza, si ritiene in qualche modo utile precisare il suo essere “ebreo”. Persino in chi convintamente ripugna e condanna l’antisemitismo può esistere, forse proprio per una inconscia esigenza di compensazione, una sorta di sottile “attenzione” in più nel rapportarsi “con l’ebreo”. Un sentimento così particolare, così tenace, così diffuso, non può non avere matrici antiche, antichissime, in gran misura così sotterranee da sfuggire ad una sua ricostruzione solo razionale. Seguire Delphine Horvilleur nella sua riflessione, risalendo con lei nel tempo a molti millenni prima che, in Germania alla fine del 1800, fosse coniato lo stesso termine di “antisemitismo”, può essere un modo prezioso per meglio capire le origini della questione antisemita, e più in generale per meglio comprendere che molte delle problematiche che continuano ad investire le nostre società richiedono, se davvero vogliamo che “nulla sia più come prima” uno sforzo coraggioso di ricostruzione a ritroso delle basi culturali sulle quali esse poggiano. Con questo spirito presentiamo questa sintesi del libro di Delphine Horvilleur

&&&&&&&&&&&&&&&&&

Capitolo primo: l’antisemitismo è una questione di famiglia

A lungo gli ebrei hanno preferito chiamarsi come “il popolo di Israele”, un nome imposto da un angelo divino a Giacobbe, nipote di Abramo il capostipite semitico che per primo invece si definì “ebreo”. Abramo però non nasce nella terra di Israele ma nella città caldea di Ur. E’ lì che lo raggiunge una chiamata divina che gli ordina di partire per la Terra Promessa di Canaan. Nell’antico ebraico la parola “ivrì”, “ebreo”, per la prima volta usata da Abramo nel momento di abbandonare la città nativa di Ur, indica “colui che attraversa, che passa”. L’identità ebraica, fin dal suo primo comparire, rimanda pertanto allo sradicamento dalla terra natia ….. non parla di origine bensì di rottura dall’origine …… un ebreo non viene da una terra che si chiama così, ma è colui che si mette in cammino per andare via dal posto in cui è nato. La Terra Promessa verso cui si dirige è pertanto il desiderio di un posto in cui l’ebreo non è nato. A testimonianza della consapevolezza di questo tratto costitutivo la Torah (il riferimento centrale della religione ebraica costituita dai primi cinque libri, corrispondenti al Pentateuco,  della Tanakh, la Bibbia ebraica coincidente con l’Antico Testamento cristiano), più volte racconta della tendenza ebraica allo spostamento, alla peregrinazione. Più ancora che la Caldea di Abramo sarà infatti successivamente l’Egitto la vera matrice del popolo ebraico. E’ da lì, dopo averlo abitato per moltissimi anni, che la stirpe di Giacobbe si rimette in marcia, agli ordini di Mosè, verso la Terra Promessa ad attestare senza più ombra di dubbio che il suo tratto fondativo è sempre una partenza, e che quindi……. la sua identità poggia su uno sradicamento dal luogo in cui è nato …….. La diaspora ebrea avvenuta dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C da parte dei Romani rafforza definitivamente questo carattere originario: l’ebreo non è mai completamente parte del posto in cui si nasce, in cui magari per tante generazioni è vissuto, egli sa di dover essere sempre pronto ad “una chiamata” verso la Terra Promessa.  La Torah spiega quindi in questi termini la separatezza che contraddistingue la presenza ebraica presso altri popoli, altre terre, quella separatezza che, come meglio vedremo, è spesso alla base del pregiudizio antiebraico. Un altro nome, “giudeo”, è poi usato nella Torah per definire, per estensione, tutti gli ebrei, anche se è in effetti quello di una sola delle dodici tribù, quella di Giuda, ovvero quello di una specifica regione, la Giudea. Ebreo/giudeo prendono comunque tardi piede nel testo della Torah, lo fanno soprattutto in concomitanza con la comparsa in scena di un altro personaggio centrale nella storia di formazione dell’identità ebraica: Ester. Anche in questo caso gli ebrei non stanno dimorando nelle loro terre ma, lì deportati dopo la distruzione del primo Tempio, vivono in relativa armonia e tranquillità in Persia sotto il regno di Assuero, che dopo aver ripudiato la prima moglie indice una sorta di concorso di bellezza per trovarne una nuova.  La vincitrice è Ester, figlia di Mardocheo discendente della tribù di Beniamino, il cui nome in ebraico significa “la nascosta, la misteriosa”, (I nomi che la Torah dà a molti personaggi cardine della storia ebraica non sono casuali, ma già da soli molto raccontano del tratto fondamentale della situazioni in cui agiscono) perché, come tutti i membri della comunità, anch’essa è restia a manifestare apertamente la sua appartenenza. La vittoria di Ester viene però subito contrastata da un consigliere del Re che mette in guardia il sovrano su questa sua nascosta appartenenza usando queste parole ……. c’è un popolo disseminato ma distinto tra tutti i popoli che abitano il tuo regno, hanno leggi diverse e non rispettano le tue. Questo non deve esserti indifferente e lasciarti tranquillo …… Quale perfetto, e profetico, condensato della diffidenza che da allora in poi ha circondato la presenza ebraica presso altri popoli viene offerta dalla stessa Torah! Questo consigliere del Re ha nome Aman, e discende da una stirpe che ha come primo progenitore Amalec, un personaggio biblico fondamentale per ricostruire la storia dell’odio verso gli ebrei. “Della stirpe di Amalec” è, non a caso, il nome con cui nel pensiero rabbinico sono chiamati tutti i peggiori nemici, dai crociati agli inquisitori, dai protagonisti dei progrom fino ai nazisti. Amalec ha però una progenie sorprendente! Egli discende infatti da Esau fratello gemello di Giacobbe, nelle sue vene quindi, non diversamente da Ester, scorre sangue ebreo!  Ma a fronte di ciò quale può essere allora l’origine del suo cieco odio verso i suo stesso popolo? La Torah racconta due vicende che forniscono spiegazioni tra loro differenti. Secondo la prima, raccontata nel libro della Genesi, Amalec sarebbe il frutto di una relazione incestuosa fra Timma ed Elifaz, sorella e fratello perché entrambi figli di Esau. L’origine dell’odio violento di Amalec, e dei suoi discendenti, consisterebbe, secondo questo racconto, nel tentativo di cancellare agli occhi del mondo …….. la violazione del tabù supremo, quello dell’incesto ……….. Ma essendo la “Legge” la fonte che sancisce il tabù, e quindi la condanna della sua violazione, ecco allora che con Alamec ed il suo odio si manifesta la possibile fonte dell’odio allargato verso gli ebrei: nessun altro popolo infatti vive in così totale compenetrazione con la “Legge”, nessun altro popolo la pone al di sopra delle altre leggi di convivenza comunitaria. L’odio verso gli ebrei troverebbe, in questo modo, appiglio in una ulteriore accentuazione del loro carattere di separatezza culturale. Secondo la seconda versione rabbinica, contenuta nel Talmud babilonese (altro testo sacro ebraico, è la raccolta di testi rabbinici di commento ed interpretazione della Torah),  Timma non si sarebbe affatto macchiata di incesto, ma, nata in una famiglia non semitica, piccata per non essere stata accolta in quella di Esaù, ovvero non accettata come convertita, sarebbe divenuta, per vendicare l’affronto, la concubina di Elifaz generando Alamec come figlio illegittimo. In questo caso alla base dell’odio anti ebraico ci sarebbe ……. Il disprezzo dello straniero che non è stato accolto nella famiglia ……  Versione che trova consistenza nel fatto che il nome Alamec significa, non a caso quindi, proprio “colui che è privo di popolo”. In questo caso l’estensione dell’odio negli altri popoli poggerebbe nell’invidia, che sfocia prima in paura e poi in rancore, della compattezza escludente del popolo ebreo. Che valga la prima o la seconda versione l’interpretazione rabbinica comunque induce a ritenere che ……. Amalec, l’odio verso gli ebrei, si risveglia ogni volta che il rancore, che viene da un lontano passato, grida e convince che la memoria da più diritti che doveri …… Vale a dire che questo lontano passato alla base dell’odio verso gli ebrei, in gran parte sconosciuto ma inconsciamente vivo e presente, è comunque avvenuto tutto all’interno della stessa storia ebraica. Ma la lettura rabbinica risale la Torah ancora più indietro, perché l’appartenenza di Alamec alla stirpe di Esau, personaggio biblico ben noto per la sua rinuncia alla primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie, rimanda ad un'altra linea di frattura interna all’ebraismo. Giacobbe ed Esaù, fratelli gemelli, sono, secondo la tradizione biblica, in aperto contrasto fin dal loro dividersi il ventre materno di Rebecca, la quale passando davanti ad una sinagoga sentiva Giacobbe scalciare per l’ansia di entrarvi mentre era Esaù a scalciare davanti ad un altare idolatra. Questo racconto, come tantissimi dell’Antico Testamento, ha una evidente valenza simbolica: la fede ebraica di Giacobbe e l’odio verso di essa di Esaù convivono nello stesso sacco amniotico, si manifestano congiuntamente fin dalla nascita …… come se gli ebrei e i loro nemici non potessero che venire al mondo simultaneamente …….  E come tutti noi ben sappiamo è Giacobbe a vincere, e con lui vince l’astuzia sulla forza bruta di Esaù, così configurando l’archetipo dello scontro tra due modi di rapportarsi con il mondo. Ed ancora una volta sono i nomi stessi a sancirlo: Esaù in ebraico significa “già fatto”, come già fatto, primordiale, era lo stare nel mondo grazie alla forza fisica, Giacobbe significa invece “tallonerà”, egli esce infatti dal ventre di Rebecca agguantando il tallone di Esaù, come a dire che l’intelligenza, l’astuzia, vengono dopo la forza bruta ma solo per sopravanzarla. E se, come si è già detto, è proprio Giacobbe, obbedendo ad un angelo, a cambiare nome per assumere per primo quello di Israele, allora da lì in poi la storia degli ebrei, del loro essere vittime di tragiche esplosioni di violenza fisica, si può spiegare anche  con dall’odio verso chi è ritenuto vincente sulla pura forza perché più astuto, più scaltro, più calcolatore. Tutte caratteristiche che non a caso la vulgata popolare attribuisce “all’ebreo”. In definitiva, ci evidenzia Delphine Horvilleur, l’insieme di questi passi biblici attesta che nella cultura ebraica …….. l’antisemita nasce nell’stante stesso in cui compare l’ebreo, sortito dalla stessa matrice, compreso nello stesso versetto…… L’intera identità ebraica è sempre una faccenda di separazione, l’essere ebreo porta indissolubilmente legato a sé l’essere contro l’ebreo. L’indagine dei rabbini, per quanto risalga verso le origini, attesta sempre la stessa considerazione, l’antisemitismo …… l’odio verso gli ebrei è immancabilmente la manifestazione di un rapporto doloroso con l’origine di un’eredità e di un rancore ancestrale ……. Se questa frattura, che racconta della complessa identità costituiva ebraica, è già tutta interna all’ebraismo occorre allora capire attraverso quali percorsi si sia riversata negli altri popoli.

Capitolo secondo: l’antisemitismo è un conflitto di civiltà

Per molti secoli è all’interno dell’Impero romano che prende corpo l’antisemitismo e di conseguenza la sua interpretazione rabbinica. E’ bene ricordare infatti che il Talmud è stato redatto, assemblando un vasto patrimonio di narrazioni orali,  sotto la dominazione romana dopo la distruzione del Tempio del 70 d.C. e delle successiva diaspora. Privato della propria terra, senza più il luogo per eccellenza di culto, il giudaismo rabbinico diventa il vero punto di riferimento per l’intera comunità ebraica ancorché sparsa per tutto l’impero. Ed è uno scritto rabbinico del sesto secolo d.C. che sintetizza perfettamente il rapporto tra potere romano ed ebrei: l’Imperatore Adriano, lo stesso raccontato con toni diversissimi da Marguerite Yourcenar, così risponde ad un suo consigliere che gli chiede per quale ragione ha fatto impiccare due ebrei, il primo reo di averlo salutato ed il secondo reo di non averlo fatto, “vorresti tu spiegarmi come liberarmi dei miei nemici’”. Ma che cosa può aver fatto divenire gli ebrei, ormai indifesi e in inoffensivo continuo peregrinare in esilio, così tanto nemici da meritare condanne così illogiche? Giustamente Delphine Horvilleur evidenzia che dalla diaspora in poi, per finire al loro drammatico Novecento, la sopravvivenza del popolo di Israele è ……. sempre dipesa dai legami con il potere in carica ……. In questo quadro un altro scritto rabbinico inserito nel Talmud consente di capire quale relazione l’ebraismo ha con l’Impero romano. I Romani in questo scritto sono definiti “figli di Esaù”, rendendo in tal modo, visto quanto sopra, l’Impero il nemico archetipo del popolo ebraico, ossia l’altra parte di un autentico scontro di civiltà. Significa cioè immaginare ….  un confronto fra due tipi di umanità opposti già letteralmente in utero ……. Un altro trattato talmudico, del II secolo, approfondisce questa relazione non solo molto conflittuale ma anche centrale per la genesi dell’antisemitismo. Si tratta del racconto tanto paradossale quanto illuminante di un dialogo tra l’Imperatore Antonino il Pio, padre di Marco Aurelio, e il rabbino Yehudah Ha-Nasi, il principale autore della Mishnah, la legge ebraica orale. Paradossale perché nella prima parte i ruoli sono invertiti: è l’Imperatore che si comporta in modo ossequioso e sottomesso con il rabbi, addirittura con tratti di sottomissione sessuale, e soprattutto perché dimostra di conoscere le fonti bibliche persino meglio di lui. Al punto di dimostrarsi non solo a conoscenza della definizione di “figli di Esaù”, ma persino preoccupato del passo biblico in cui si afferma che “nessuno della casa di Esaù sopravviverà”. Un modo simbolico per avanzare una domanda centrale ….. l’odio per gli ebrei potrebbe essere abbandonato o definisce in eterno il mondo e la cultura che lo esprimono? ……. La risposta del rabbi è precisa: non esiste nessuna fatalità, la condanna dei discendenti di Esaù va intesa come la condanna di “chi agisce come lui”. Parrebbe quindi che se l’antisemitismo, derivando dall’odio atavico di Esaù, è ormai compenetrato nel mondo romano da esso è tuttavia possibile uscirne a patto di “non agire come Esaù”. La seconda parte del racconto entra nel merito di cosa si debba intendere per “agire come Esaù”, e lo fa ribaltando completamente il gioco dei ruoli della prima parte: l’Imperatore torna ad essere pienamente tale ed il rabbi lascia il posto ad un terzo personaggio, Qetyad Bar Shalom, che, nella veste di un consigliere molto vicino all’Imperatore, paragona il suo odio verso gli ebrei “come uno che ha un ulcera inguaribile ad una gamba”. Al che l’Imperatore chiede ai suoi consiglieri: deve costui tagliare l’arto e vivere o tenere l’ulcera e soffrire rischiando la morte? Questa metafora non viene introdotta a caso nel Talmud ……. corrisponde all’immagine che tutti gli antisemiti hanno dell’ebreo: una fonte di contaminazione per l’organismo che l’accoglie e che ne minaccia l’integrità  con la sua stessa presenza …….  Non per nulla una delle offese abitualmente usate è quella di “sporco ebreo”!  e non a caso Hitler definiva gli ebrei “tubercolosi razziale”. Si apre in questo modo la finestra su una delle ragioni alla base di tutto l’antisemitismo: la difesa dell’integrità di una civiltà dal morbo rappresentato da quella ebraica, da una civiltà alternativa che “pretende” con la sua separatezza di mantenersi integra ……. l’antisemita è sempre un integralista dell’integralità ……. Alla domanda dell’Imperatore tutti i consiglieri rispondono di amputare la gamba, solo Qetyad Bar Shalom comprende che la domanda è assurda in sé, che non si può ……tagliare via un taglio….., una ferita che già è entrata nell’organismo, e la sua risposta è allora “per prima cosa non potrai liberartene del tutto”. Certo che il suo nome, Qetyad Bar Shalom, suona assai strano, sembra proprio un nome da ebreo, ma è impensabile che un imperatore che odia gli ebrei abbia un consigliere ebreo. Ancora una volta la spiegazione sta nel nome stesso: Qetyad Bar Shalom significa letteralmente “frattura che viene dalla completezza”. Non importa quindi di che stirpe sia davvero Qetyad Bar Shalom, quel che conta è che egli, con questo nome, personifica la frattura della civiltà ebraica che incide sulla completezza di quella romana ed enuncia, in questo modo, la questione fondamentale al centro dell’odio antiebraico: …… l’ebreo incarna l’impossibilità di una espansione uniforme …… egli viene cioè percepito come colui che, dall’interno, crea una ferita, impedisce al corpo di espandersi, di consolidarsi. Il racconto del Talmud prosegue con la risposta dell’imperatore, una risposta che è profetica sul modo di reagire dell’antisemita: posto di fronte all’evidenza: “hai detto bene, ma chiunque sfidi il sovrano lo gettano nella fornace”. Qetyad Bar Shalom ha cioè reso evidente l’impossibilità di sanare una “ferita” che è ormai connaturata con l’intero organismo, tagliare via una parte non restituirà mai la precedente totale integrità. Per l’Imperatore egli ha quindi ragione, l’ebreo è ormai nell’organismo della civiltà romana, ma proprio perché ha ragione deve essere messo a morte. L’antisemitismo messo a nudo di fronte alla sua irrisoluzione reagisce esattamente da “figlio di Esaù” Essere gettato nella fornace è però una morte rituale, già Abramo venne buttato dal tiranno di Ur in una fornace ma ne uscii vivo grazie ad un miracolo divino e potette poi dar vita all’ebraismo. E una fornace, profeticamente, ricorda altri ben più tragici tragici forni recenti. Il significato di questo racconto, fortemente simbolico, è evidente ……. La possibilità di essere figli di Esaù ma senza agire come Esaù è condizionata dalla capacità di vivere con la frattura, di accettare l’incompletezza, e dalla capacità di rinunciare alla tentazione integralista …… A Qetyad Bar Shalom lungo il tragitto verso il supplizio una donna dice “guai al naviglio che parte senza aver pagato la tassa”, al che egli si strappa il prepuzio dicendo “colui che paga il prezzo può passare”. E’ la inattesa ed improvvisa comparsa sulla scena del “femminile”, da subito legata ad un gesto simbolico di castrazione, si apre così con questo dialogo al termine di un racconto, che ha una valenza simbolica straordinaria, una nuova porta verso un altro percorso di conoscenza dell’antisemitismo, quello stesso che farà dire secoli dopo a Sigmund Freud “il complesso di castrazione è la più profonda radice inconscia dell’antisemitismo ed anche il senso maschile di superiorità nei confronti della donna ha la stessa profonda radice inconscia”. E se l’odio per gli ebrei fosse anche una guerra tra i sessi?

Capitolo terzo: l’antisemitismo è una guerra fra i sessi

Nell’armamentario delle offese antisemite non potevano certo mancare quelle a sfondo sessuale. E come sempre in queste situazioni nel corso del tempo si sono consolidati alcuni stereotipi, in particolare quello che dipinge l’ebreo come poco virile, se non come libidinoso “femminizzato”. Iniziano già con Tacito queste offese, che però ancora si limita a descriverli come inclini alla libidine, ma già nel XII secolo il naturalista cristiano Tommaso di Cantimprè giunge a scrivere che i maschi ebrei hanno le mestruazioni, a giusto risarcimento del sangue fatto versare a Cristo! Se è legittimo sorridere di una fantasia così malata il sorriso presto svanisce di fronte alle ricerche “scientifiche” novecentesche che, coniugando fisiologia e psicologia, “dimostrano” la femminilità dell’ebreo nel corpo e nello spirito. Questa ossessione sessista conosce il suo inevitabile apice con il nazismo raggiungendo livelli patologici, al punto che non pochi studiosi, fra i quali Theodor Adorno, la pongono, uscendo dallo stretto ambito antisemitico, in stretta relazione con una crisi europea di virilità causata dal crescente peso della presenza femminile nella società. Resta comunque inoppugnabile il peso della identità sessuale ebraica nel catalogo delle offese antisemite. Delphine Horvilleur si chiede però, in coerenza con lo scopo del suo saggio, se nelle stesse scritture ebraiche non esistano spunti, ovviamente ispirati da ben altre finalità, che in qualche modo possano indurre a ritenere che ……. ci sia qualcosa di vero nella ricorrente rappresentazione dell’ebreo come una sorta di donna …… Non sono poche infatti le narrazioni del Talmud che, contrapponendo ebrei e romani, mettono a confronto due mascolinità antagoniste. La reazione rabbinica all’insolenza dei romani vincitori, basata in gran misura sull’immagine dell’ebreo debole e poco virile, sarebbe consistita non tanto nel controbattere l’accusa ma nel valorizzare, in contrapposizione a quella romana, una virilità non solo muscolare ma basata anche su sottigliezza, acume, padronanza delle parole, ovvero recuperando ancora una volta, adattandola ai tempi, la distinzione tra il forzuto Esaù ed il femmineo Giacobbe, con il secondo vincitore. Già nel contrasto con l’idea romana di mascolinità assume un peso fondamentale un tratto fortemente distintivo dell’ebraismo: la circoncisione rituale, della quale i romani avevano un autentico orrore assimilandola alla castrazione. Per la cultura rabbinica al contrario la circoncisione sancisce, in un rito di passaggio, la conquista di una vera virilità, come se il taglio del prepuzio “fallicizzasse” il maschio ebreo. Allo stesso tempo però, in assoluta mancanza di contraddizione, non sembra esistere nella cultura religiosa ebraica un particolare imbarazzo alla “femminizzazione” dell’intero popolo ebraico: In molti passaggi della Torah, attribuiti a profeti come Isaia e Osea, la relazione del popolo di Israele con il suo Dio ……. è sempre vista come una relazione coniugale ed il genere prescelto per definire il popolo è sempre il femminile in rapporto ad un Dio maschio ……. Nello stesso Cantico dei Cantici, la più celebre lirica d’amore biblica, la relazione tra la pastorella ed il suo pastore incarna il legame tra Israele e il suo Dio. Non mancano certo nella Torah personaggi virili, quali Sansone e Giosuè, ma sono figure di secondo piano, quelli che più pienamente incarnano, e creano, l’ebraismo non vantano un fisico possente, anzi: Abramo è sterile, Isacco orbo, Giacobbe fragile, zoppo e persino codardo, lo stesso Mosè….è balbuziente!. Questi personaggi condividono inoltre qualcosa dell’universo femminile, un qual certo senso di ……. impotenza sulla quale si fondano, paradossalmente, il loro potere d’azione e la loro legittimità ……….. Per alcuni commentatori lo stesso rito della circoncisione, fermo restando quanto sopra, si configura come una iscrizione simbolica del femminile nel corpo del neonato maschio. E’ facilmente comprensibile che questa diversa idea di una virilità, che non teme di assumere caratteri di femminilità, possa, passando dalla cerchia degli studiosi alla vox populi, aver prestato il fianco a deformazioni caricaturali e a violente offese. Mentre invece il tema dell’identità sessuale è una componente fondamentale dell’ebraismo così come si è venuto configurando dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C. e la successiva diaspora. Da quando cioè il pensiero rabbinico, che costruisce nei secoli successivi il complesso del Talmud, si è dovuto misurare con l’impossibilità del rapporto fisico con la divinità che aveva il suo perno proprio nei riti nel Tempio. La contrazione forzata della presenza del divino, un di meno pesantissimo, è stata ribaltata dal pensiero rabbinico in un punto di forza rifondando l’identità ebraica proprio su quella mancanza, su quella rottura, su un di meno rigenerato però in un di più di consapevolezza della propria irriducibile forza identitaria. Il matrimonio ebraico si celebra con un gesto simbolico che sintetizza perfettamente questo ribaltamento: evocando la rottura di un bicchiere, per rammentare ad ogni focolare domestico in costruzione che ……. la vita ebraica si costruisce sulla consapevolezza di una rottura che però fa da fondamenta …… Lo sforzo rabbinico di ricostruire su queste nuovi basi l’identità ebraica, così ben riuscito da costituire, rappresentando una evidente prova della invidiata e temuta irriducibilità dell’ebraismo, una ulteriore spinta all’odio antiebraico, è stato in qualche modo agevolato dalla stessa identità sessuale, già delineata nella Torah, che sanciva l’originaria rottura della separazione del lato maschile da quello femminile. In fondo tutta la storia dell’ebraismo è un continuo succedersi di rotture e ricostruzioni, di partenze e di ritorni, a formare però una inesauribile e irriducibile unità.

Capitolo quarto: l’antisemitismo è una battaglia elettorale

L’ironico titolo del capitolo non deve trarre in inganno, non si tratta di un acceso confronto nelle urne, ma della questione, centrale per comprendere le radici dell’antisemitismo, della presunta pretesa degli ebrei di essere il “popolo eletto di Dio”.  Lo scontro attorno a questa “elezione” è ben presto uscita dall’ambito di dispute teologiche per divenire un’altra componente dell’odio antiebraico in quanto strettamente collegata alle accuse di arrogante superbia, di separatezza, di irriducibilità all’unità in questo caso religiosa. La tradizione rabbinica appare persino imbarazzata nel replicare ad una accusa per essa così difficile da comprendere per la semplice ragione che “l’elezione” è, nello stesso ambito rabbinico, un argomento oggetto di una esegesi infinita e, come si vedrà, soggetto a più interpretazioni, a fronte di un antisemitismo così certo al riguardo, come se conoscesse meglio degli stessi ebrei la lettura corretta. Lo stesso Freud, nella sua opera “L’uomo Mosè e la religione monoteista”, afferma che questa convinzione elettiva non chiama tanto in causa cosa ne pensino gli ebrei, quanto il perché certi “non ebrei” ne siano così certi. I passaggi biblici chiamati in causa sono in effetti pochi: in uno Dio afferma di intessere con gli ebrei un legame di tipo particolare denominato “alleanza, am segulah in ebraico”, un termine che però più propriamente significa “popolo tesoro”, “popolo rimedio”, “popolo distinto”. Ma quello che dovrebbe” più pienamente giustificare le accuse antisemite è quello in cui, ai piedi del monte Sinai, Dio consegna agli ebrei, tramite Mosè, un “qualcosa” che sembrerebbe avere un carattere di esclusività. Tant’è che, secondo le accuse, gli ebrei lo avrebbero trattenuto solo per sé stessi, eleggendosi così a popolo prediletto. Non altrimenti si spiegherebbe il …... non proselitismo dell’ebraismo che, diversamente dal Cristianesimo e dall’Islam, non si considera vocazione universale ……. Peccato che i primi a stupirsi di questa “consegna in esclusiva” siano proprio gli ebrei, la tradizione rabbinica, che non a caso su questo aspetto raggiunge le sue massime vette di raffinatezza esegetica, si è da sempre posta la domanda: “ma perché proprio a noi?”. Una domanda alla quale ha risposto in molteplici modi indissolubilmente legati ad una seconda domanda “e che cosa abbiamo ricevuto di preciso?”. Le risposte che si sono via via succeduto partono da una versione definibile come “massimalista”: Dio consegna agli ebrei, ancora lungo la strada di ritorno dall’esilio in Egitto ed in pieno deserto, lontano quindi da testimoni indiscreti, l’intera Torah già comprensiva dello stesso Talmud, perché sono “in spirito” presenti alla consegna anche tutte le generazioni di ebrei, anche quelle passate e quelle future.  …… riguardo a Dio tutto quello che è già stato detto e tutto quello che si dirà in futuro è quindi già presente in quell’istante primigenio ……. Altri commentatori rabbinici sostengono invece che ai piedi del Sinai Dio ha consegnato solo le “dieci parole”, ovvero i “dieci comandamenti”, ed è questa la versione confluita nella lettura cristiana.  Altri commentatori, in percorso sempre più minimalista, dicono che non sono state consegnate tutte le “dieci parole”, ma solo le prime due, altri ancora replicano che però solo il primo comandamento è stato distintamente udito, quello che recita “Io sono il Signore, Dio tuo, che ti ho tratto dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù”. Una lettura che ridurrebbe la rivelazione ad una conferma di emancipazione dalla schiavitù. Niente affatto dicono altri! Gli ebrei sotto il Sinai hanno udito una sola parola, la prima del primo comandamento: “Io” che tutto quanto da sola già conterrebbe. A meno che, e qui entrano in scena i rabbini cabalisti, quello che in effetti è stato detto è una lettera, una sola lettera, la prima lettera della prima parola del primo comandamento. Questo unico suono è la lettera “Alef”, una lettera muta, una lettera silente, sotto il Sinai è in effetti regnato un gran silenzio. A meno che, sostengono gli ultimi di questa lunga catena rabbinica, non si debba intendere “Alef” soltanto come la posizione assunta dalla laringe per emettere un suono articolato. Se vale questa ultima lettura rabbinica, la più “minimalista”, ciò che Dio consegnò in esclusiva agli ebrei altro non fu che  …… la possibilità di una voce, la possibilità di dire ……  Ma è qui, in questa “possibilità” di dire che ancora precede qualsiasi linguaggio, qualsiasi logos, che si riuniscono a ben vedere la lettura massimalista e quella minimalista. In quel luogo nel deserto, sotto un monte mai individuato, a tutte le generazioni degli ebrei, venne soltanto consegnata …… la potenzialità del linguaggio e dell’interpretazione, un “ancora-da-dire” …… La Rivelazione semplicemente dice che tutto deve ancora essere detto. Resta però la domanda centrale: perché questo ancora-da-dire è stato consegnato ai soli ebrei?  E sta in questa domanda il cuore dell’ossessione antisemita, mossa, come si è visto, anche dal risentimento provocato dalla sua ritenere pregiudicata l’unità universale, resa irrealizzabile proprio per la presenza “non assimilabile” degli ebrei. Ma se quello che è stato loro detto è un “tutto ancora da dire” quello che è stato consegnato altro non è che un vuoto ancora tutto da riempire, nel quali “tutti” possono e devono muoversi. Questa constatazione, tanto semplice quanto dirompente, annulla ogni accusa di “elezione”, che non si ha là dove si consegna un tutto completato, ma un tutto del tutto ancora in divenire. Il problema allora, come in sostanza diceva Freud, si ribalta. Non c’è una pretesa ebrea di “elezione” divina, ma c’è un problema di chi, Impero romano, Cristianesimo, Islam, Lumi, si è al contrario costruito su testi che tutto dicono e su un …… sogno compiuto di universalità, di un tutto per tutti ……  Diventa allora impossibile accettare, e occorre anzi combattere,  chi non si assimila a questa universalità compiuta non sapendo, o peggio ancora sforzandosi di non sapere,  che ciò che gli è stato consegnato è il monito che “tutto è ancora da dire”, e quindi chi, con la sua origine e la sua storia, rammenta che la Verità non è mai “tutta”, è sempre frammentata oppure è inevitabilmente totalitaria, criminale

Capitolo quinto: l’ecceSion  ebraica

Con il precedente Capitolo quarto si è completato il percorso a ritroso nella Torah e nel Talmud che Delphine Horvilleur ci ha proposto alla ricerca delle radici ebraiche che in qualche modo si siano prestate, nel corso di molti secoli, a creare ed alimentare l’antisemitismo. In quest’ultimo Capitolo quinto non compaiono quindi richiami all’esegesi rabbinica perché ll tema affrontato è strettamente connesso alla storia contemporanea, si tratta infatti dell’attuale Stato di Israele. ……. per alcuni una vera e propria ossessione e sarebbe tanto ingenuo quanto disonesto affermare che tutto ciò non ha nulla a che vedere con il nome ebreo e con ciò che ha scatenato lungo la storia ……. L’opinione di Delphine Horvilleur è chiara al riguardo: le legittime critiche, da lei stessa in molti casi condivise, a specifici aspetti della politica israeliana, in particolare per la drammatica vicenda palestinese, in molti casi e in molti loro sostenitori nascondono forti sentimenti antisemiti …… quali altre politiche nazionalistiche ed espansionistiche mettono infatti costantemente in causa la legittimità della nazione che le adotta? …….  Il percorso storico di nascita di Israele è stato quanto mai complesso e tormentato, lo stesso ovvio collegamento con la Shoah non è stato privo di contraddizioni, ma a fronte di una realtà istituzionale consolidata e quindi legittima, è difficile negare che Israele sia spesso divenuta una cartina di tornasole delle persistenti forme di odio verso gli ebrei. Le quali, non solo, e non a caso, periodicamente riaffiorano nelle loro forme storicamente consolidate, ma hanno anche trovato in Israele un altro bersaglio facilmente individuabile e attaccabile. Fra le varie spiegazioni, esaminate nei capitoli precedenti, che stanno alla base dell’antisemitismo quella che di più interviene nell’ostracismo “a prescindere” di Israele è ancora una volta la colpa dell’ebreo di essere la “parte” che impedisce la definizione di un “tutto” universale. Innescando una originale forma di attacchi di segno opposto: da destra “perché gli ebrei minacciano l’ordine occidentale”, da sinistra “perché gli ebrei rompono il fronte degli oppressi in quanto inglobati nell’ordine occidentale”. Questa relazione distorta del rapporto fra il tutto ed una, presunta, parte investe però, osserva la Horvilleur, lo stesso sionismo (il movimento politico religioso propugnatore della ricostituzione di uno Stato ebraico in Palestina) là dove …… considera Israele come il tutto della risposta alla questione ebraica, come la sua sola soluzione …… Eppure l’ebreo, proprio per il suo attraversare per secoli il mondo in esilio dalla propria terra, ha avuto modo di abitare diversi paesi e lingue, e questo, diversamente da quanto sostenuto dall’antisemitismo, ha fatto coabitare in lui tanto il “noi” quanto il “loro, tanto “il tutto” quanto “la parte”. Già Sartre nel suo saggio “Riflessioni sulla questione ebraica” sottolineava  …… la rilevanza che lo sguardo altrui ha avuto sulla costruzione dell’identità ebraica nella storia ……  Ebbene a chiusura del suo saggio Delphine Horvilleur, mettendo insieme questo potenziale che vive nella cultura ebraica con la protervia cieca dell’antisemitismo, individua un provocatorio modo di “venire a capo definitivamente dell’ebreo” …….. basta che l’antisemita faccia credere all’ebreo che sa esattamente su cosa si fonda la sua ebraicità. In quel momento l’ebreo non ci sarà più ……..