sabato 26 dicembre 2020

Riscoprire la "realtà" - Articolo di Mario De Caro

 

Chiudiamo con questo post il 2020 del blog di CircolarMente. Dire che ci lasciamo alle spalle un anno quantomeno anomalo è dire cosa ovvia e persino limitata. In particolare per questo blog - nato con la finalità di affiancare le iniziative pubbliche di Circolarmente, preparando, accompagnando ed approfondendo, le loro varie tematiche - è stato un anno in cui ha dovuto, in qualche modo, supplire alla loro forzata assenza. Ed è’ possibile, purtroppo, che sia così ancora per alcuni mesi, nel corso dei quali vedremo di rimediare in qualche modo a questo “antipatico” stato di cose. In attesa di tornare ad iniziative, relatori e temi che, come sempre, ci aiutino a comprendere, in tutti i suoi aspetti, la realtà che ci circonda al fine di meglio affrontarla, questo post presenta un aspetto che sta “a monte” del nostro rapporto con la realtà. Pubblichiamo infatti un articolo, estrapolato dalla rivista on-line “Il tascabile”, che riteniamo offra una sintetica e chiara panoramica su come scienza e filosofia attualmente affrontino “la realtà”, sul contraddittorio concetto di “libero arbitrio” e sulla difficoltà di meglio comprenderla nell’epoca della “infodemia” (la “Parola del mese” di questo Dicembre 2020). L’immancabile e quanto mai sentito augurio di “Buon Anno nuovo” che il Blog di Circolarmente fa a tutti voi quest’anno vale davvero di più!!!!!!

Riscoprire la realtà

Un’intervista a Mario De Caro

(filosofo italiano, insegna filosofia morale presso l’Università Roma Tre)

Da diversi anni Mario De Caro si occupa di ripensare alcune delle categorie fondamentali della filosofia contemporanea: realismo e naturalismo. Le questioni di fondo di queste ricerche sono: perché dobbiamo difendere l’idea di “realtà” in filosofia e come bisogna intenderla? Qual è il contributo che la filosofia e le scienze possono dare per far progredire la nostra conoscenza della realtà, e in che modo possono collaborare? In che senso la conoscenza scientifica deve restare un punto di riferimento imprescindibile della filosofia, ma al tempo stesso non può esaurire i metodi e i concetti con cui conosciamo la realtà? De Caro ha esaminato questi temi concentrandosi sul problema classico del libero arbitrio e sulla teoria dell’azione, pubblicando diversi volumi tra cui “Il libero arbitrio. Un’introduzione” - Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio” -   “Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione (con Maurizio Ferraris)”. In questa conversazione attraversiamo questi temi, a partire dal suo ultimo libro “Realtà (Bollati Boringhieri, 2020).

Qualche anno fa hai curato, con Maurizio Ferraris, una miscellanea intitolata Bentornata realtà, in cui erano raccolti gli studi di diversi filosofi accomunati dalla difesa dell’idea di realtà in filosofia. Nel tuo ultimo libro difendi l’idea di “una realtà, internamente strutturata già prima che la mente la concettualizzi, che pone vincoli ineludibili alla correttezza dei nostri giudizi sul mondo esterno”. Come si è arrivati a preoccuparci di difendere questo presupposto della conoscenza?

Nelle versioni più serie, le filosofie antirealiste sostengono che la realtà non è qualcosa di già dato, qualcosa di internamente strutturato, indipendentemente dal pensiero: secondo queste filosofie, senza le categorie della mente o del linguaggio la realtà è amorfa, destrutturata. E questa è stata una prospettiva comune alla maggior parte delle concezioni filosofiche che hanno dominato la seconda metà del Novecento. I filosofi realisti in quegli anni erano come i marsupiali: bestie molto rare, viste come un bizzarro retaggio del passato. Nel frattempo, però, l’antirealismo, che originariamente era ispirato da nobili ragioni intellettuali e politiche, ha esaurito la sua forza propulsiva e oggi porta spesso a risultati, teorici e pratici, francamente dannosi, come il diffondersi di forme estreme di relativismo culturale e morale o di atteggiamenti radicalmente antiscientifici. Non c’è dubbio che in filosofia sia l’ora di tornare al realismo, ma il problema è: quale realismo?

Al centro della trattazione di Realtà c’è una dicotomia tra realismo ordinario e realismo scientifico. Come spieghi nel libro, il realismo ordinario “attribuisce realtà esclusivamente alle cose di cui possiamo avere esperienza” mentre il realismo scientifico afferma che “il mondo contiene soltanto le entità e gli eventi” – anche inosservabili – “che le scienze naturali possono descrivere e spiegare”. Tu poni l’origine di questa frattura nel conflitto tra l’aristotelismo e il platonismo matematico di Galilei: il problema dei due realismi può essere fatto risalire quindi alla rivoluzione scientifica, che avrebbe prodotto una rottura ancora non assorbita tra sensi e realtà?

Sì. La rivoluzione scientifica comportò il divorzio definitivo tra scienza e senso comune. I filosofi che da allora seguono la scienza guardano con sospetto alle credenze basate sulla percezione. Viceversa, quelli sospettosi della scienza, continuano a considerare la percezione come la nostra unica chiave d’accesso alla realtà naturale. La discussione tra aristotelici e i platonici del tardo Rinascimento (o almeno due sottogruppi di queste scuole, che allora erano molto variegate) segnò l’inizio di una discussione che continua ancora oggi.

Nel libro esamini pregi e difetti dei due realismi. Entrambi sembrano capaci di cogliere un aspetto difficilmente sopprimibile della nostra esperienza. Il realismo scientifico ha dalla sua il forte sostegno dell’efficacia delle teorie scientifiche. Ma per stabilire una misura comune dei nostri giudizi sulla realtà, deve affrontare quello che chiami “problema della collocazione”, che concerne fenomeni costitutivi della concezione ordinaria del mondo come il libero arbitrio, le proprietà morali, la coscienza, che sembrano appunto non avere posto nel mondo descritto dalla scienza.

Se si assume che le scienze naturali sono le nostre uniche chiavi di accesso genuino al mondo, si pone subito il problema che noti tu: cosa dire delle proprietà della visione ordinaria del mondo che, almeno a prima vista, non hanno a che fare con la visione scientifica del mondo? Così ha posto il problema John Searle (1932, filosofo statunitense): “Come possiamo far quadrare la concezione di noi stessi in quanto agenti dotati di mente, creatori di significati, liberi, razionali e così via, con un universo che consiste interamente di particelle fisiche brute, prive di mente, prive di significato, non libere né razionali?”. Questo è il cosiddetto “Problema della collocazione”. In questo senso, al naturalismo scientifico si aprono due vie: o si mostra che i fenomeni propri della visione ordinaria del mondo sono riducibili a fenomeni scientifici oppure questi fenomeni non vanno considerati come qualcosa di reale e dovrebbero essere trattati come nulla più che illusioni – magari socialmente o epistemicamente utili, ma pur sempre illusioni. Il gran numero di progetti che oggi vanno in queste due direzioni è l’espressione più chiara dell’attuale fortuna di questa concezione. Che poi i tentativi di riduzione dei fenomeni della visione ordinaria generalmente falliscano e quelli di eliminarli dalla nostra ontologia si dimostrino velleitari sono temi che i naturalisti scientifici tendono a ignorare.

La soluzione che proponi alla dicotomia tra i due realismi è il realismo liberalizzato, secondo cui possiamo ammettere che esistano metodi e oggetti diversi da quelli delle scienze naturali, ma dobbiamo costruire la nostra immagine del mondo sempre in accordo con i risultati delle migliori teorie scientifiche del presente. Come procede la “conciliazione” tra scienza e filosofia secondo questa concezione?

Per un naturalista liberalizzato, quando una concezione filosofica stride con una teoria scientifica, si pone un problema che occorre affrontare. Secondo i naturalisti scientifici, in questi casi, è sempre la scienza ad avere l’ultima parola. Il naturalista liberalizzato è meno radicale, da questo punto di vista. Si pensi al ruolo positivo che la filosofia ha giocato nell’evoluzione della scienza: per esempio, nelle discussioni sulla logica matematica, sulla teoria della probabilità o, oggi, nelle discussioni sulle interpretazioni della meccanica quantistica. Un altro aspetto da notare è che non basta che una teoria filosofica sia logicamente coerente con la scienza per essere accettabile. La concezione detta “disegno intelligente” è un ottimo esempio in questo senso. Secondo questa concezione, l’evoluzione biologica è guidata da un’intelligenza superiore. In realtà, però, non c’è affatto bisogno di postulare il ruolo di questa presunta intelligenza superiore perché il processo della selezione naturale scoperto da Darwin, insieme ai meccanismi genetici, può dare ottimamente conto dell’evoluzione delle specie. Pertanto, i fautori del naturalismo liberalizzato non possono che rifiutare la concezione del disegno intelligente, con le sue implicazioni ontologiche.

Un caso esemplare, di cui ti sei occupato a lungo, è il problema del libero arbitrio. Si tratta di un problema filosofico scientifico antico, che di nuovo ha avuto importanti sviluppi in base all’interazione con le scienze della natura, per esempio con il meccanicismo moderno e, nel Ventesimo secolo, con la meccanica quantistica. Prima di tutto ti chiederei di riassumere le principali opzioni in campo

Il determinismo è la tesi che tutti gli eventi sono determinati da eventi passati, secondo le leggi di natura: la meccanica newtoniana e la relatività generale sono teorie deterministiche. La negazione del determinismo è l’indeterminismo: la maggior parte delle interpretazioni della meccanica quantistica hanno questo carattere. Libertarismo e compatibilismo sono le due principali famiglie di teorie che difendono l’esistenza del libero arbitrio. Il libertarismo (difeso, per esempio, da Epicuro, Kant e oggi da John Searle) radica il libero arbitrio nell’indeterminismo; il compatibilismo, invece, sostiene che il libero arbitrio è compatibile con il determinismo – e secondo alcuni fautori di questa concezione, addirittura lo presuppone (Locke, Leibniz, Hume e oggi Daniel Dennett (1942, filosofo e psicologo statunitense). Tuttavia, tutte queste concezioni incontrano gravi difficoltà teoriche ed empiriche. E così molti oggi sostengono che il libero arbitrio non esiste affatto – una posizione che però, secondo me, è ancora meno convincente delle altre.

Un punto molto interessante è l’analisi degli esperimenti neuroscientifici come quelli di Benjamin Libet (1916-2007, psicologo e neurofisiologo statunitense) che proverebbero l’inesistenza del libero arbitrio. In questi esperimenti viene misurata una preparazione cerebrale di movimenti come la pressione di un pulsante che precede largamente la coscienza di prendere la decisione. In che misura questi esperimenti hanno influenzato la discussione filosofica sul libero arbitrio?

Nel più celebre dei suoi esperimenti, Libet chiese al soggetto sperimentale di compiere un semplice movimento come la flessione di un dito; questo movimento doveva essere compiuto spontaneamente, quando il soggetto abbia avvertito l’impulso a compierlo. Allo stesso tempo, il soggetto doveva controllare, usando uno speciale orologio, il momento esatto in cui avvertiva l’impulso a flettere il dito; nel frattempo, un’apparecchiatura misurava l’attività elettrica del suo cervello. Sulla base di centinaia di ripetizioni dell’esperimento, Libet osservò che i soggetti avvertivano l’impulso a flettere il dito circa 200 millisecondi prima dell’azione. Il dato più interessante, tuttavia, è che 550 millisecondi prima del compimento di quest’azione (e dunque 250 millisecondi prima che il soggetto sia consapevole dell’impulso a flettere il dito) nel cervello dei soggetti si verificava un rilevante incremento dell’attività elettrica (Readiness Potential, ovvero “potenziale di prontezza”) che l’analisi statistica mostrava essere causalmente correlato all’esecuzione dell’azione. Tutto ciò dovrebbe indurci a concludere, secondo Libet, che l’atto di esercitare una volontà in realtà ha una causa inconscia e dunque non può essere definito libero nel senso che la tradizione filosofica ha dato a questo termine. Al soggetto resta però, secondo Libet, una sorta di “libertà di veto”, nel senso che nei 200 millisecondi che separano la consapevolezza dell’impulso a piegare il dito e l’effettivo compimento di quest’azione l’agente può decidere di interrompere la catena causale che porterebbe a tale azione. Molti interpreti, tuttavia, sono stati più radicali di Libet e hanno concluso che i suoi esperimenti dimostrano, o almeno suggeriscono l’infondatezza dell’idea tradizionale del libero agire nel suo complesso.  In realtà varie ragioni dovrebbero portarci a ritenere che gli esperimenti di Libet, per quanto interessanti e certo degni di analisi, non hanno conseguenze tanto ovvie. In primo luogo, bisogna considerare che un imponente filone della filosofia occidentale (Agostino e Tommaso, Locke, Leibniz, Hume, Mill) ha sostenuto che la libertà è perfettamente compatibile con la determinazione e, anzi, secondo molti, addirittura la richiede. L’argomento è, nella sostanza, semplice: ciò che veramente conta nella nostra intuizione della libertà è che il soggetto possa fare quanto vuole fare ed, in questo senso, è irrilevante che la sua volontà possa essere predeterminata.). Contro il compatibilismo sono state mosse rilevanti obiezioni: ciò non significa però che lo si possa placidamente ignorare, come fanno invece quanti sulla base degli esperimenti di Libet concludono immediatamente che la libertà umana non esiste. Un analogo discorso si può fare per la famiglia di concezioni del libero arbitrio che si richiamano a Kant: secondo questo punto di vista, il discorso sulla libertà non va collocato al livello fenomenico ma su un piano puramente razionale, quello noumenico e, a questo livello, la libertà si dimostra condizione di possibilità della responsabilità morale e dell’imperativo categorico, dunque la sua realtà non può in alcun modo essere posta in dubbio. In tempi recenti sono stati sviluppati autorevoli tentativi di riprendere questa concezione in una direzione naturalistica e anche queste proposte non possono essere ignorate da chi voglia sostenere che gli esperimenti di Libet dimostrano l’illusorietà del libero arbitrio.

In ogni caso, diversi studi hanno messo in dubbio che gli esperimenti di Libet (e altri esperimenti simili condotti successivamente) siano in genere pertinenti per la questione del libero arbitrio.

Contro la tesi che gli esperimenti di Libet dimostrino l’illusorietà del libero arbitrio si possono muovere infatti obiezioni più specifiche. Per esempio, si pongono domande di carattere metodologico: è corretto equiparare la valutazione soggettiva delle esperienze coscienti con la misurazione oggettiva degli eventi neurali? E in che senso l’azione di piegare il dito “spontaneamente” può essere considerata il paradigma dell’azione libera? Inoltre, come va interpretato esattamente il cosiddetto “potenziale di prontezza”? Ma le obiezioni più importanti sono altre due. Innanzi tutto, l’esperimento sembra presupporre un’analisi fenomenologica poco accurata dei processi volitivi: l’esperimento di Libet si incentra sul momento in cui nel soggetto insorge la consapevolezza dell’impulso a piegare il proprio dito, in realtà il darsi di tale impulso non è né condizione necessaria né condizione sufficiente di un’azione volontaria. Non è condizione necessaria (e dunque possono esserci azioni volontarie senza l’impulso a compierle) perché spesso quando compiamo volontariamente un’azione non avvertiamo alcun impulso a compierla, si pensi a quando, guidando, sterziamo per curvare o a quando, mangiando portiamo una posata verso la bocca o, ancora, a quando pronunciamo intenzionalmente una frase durante una normale conversazione. D’altra parte, la presenza dell’impulso ad agire non è nemmeno sufficiente per agire volontariamente: spesso, infatti, un tale impulso precede azioni non volontarie, come quando ci viene da starnutire o quando sbadigliamo di fronte a un interlocutore poco brillante. Inoltre, chi interpreta gli esperimenti di Libet come se dimostrassero che le nostre azioni apparentemente volontarie discendono in realtà da cause inconsce dimentica che in realtà prima dell’attivazione del “potenziale di prontezza” si dà un altro momento causalmente molto rilevante ai fini del compimento dell’azione: ovvero il momento in cui il soggetto sperimentale accetta di seguire le indicazioni dello sperimentatore. Può darsi che anche tale momento abbia dei determinanti inconsci, ma nulla nell’esperimento di Libet prova che le cose stiano così; dunque, sino a quando non verranno portate prove in questo senso, i fautori del libero arbitrio saranno autorizzati a sostenere che, nella situazione sperimentale libetiana, una decisione volontaria del soggetto sperimentale inizia la catena causale che lo porta a piegare il dito

Nel libro sostieni che, come ha suggerito Hilary Putnam (1926-2016, filosofo e matematico statunitense), per risolvere la questione del libero arbitrio, bisogna prima di tutto imparare che ci sono tanti sensi diversi di rispondere alla domanda “perché?”. Puoi spiegarci di che si tratta?

In filosofia, si chiama monismo qualsiasi dottrina che tenda alla riduzione della pluralità degli esseri a un unico principio o a un unico processo. Il monismo causale, molto diffuso in ambito anglosassone, implica che tutti i casi di causazione siano riducibili alla causalità fisica (se non direttamente microfisica). Il pluralismo causale, rispolverato da Putnam, si ispira da una parte ad Aristotele e dall’altra al pragmatismo secondo cui “esistono tanti tipi di causa quanti i sono i sensi del termine perché”. Un esempio può aiutare a chiarire questa idea. Immaginiamo che un individuo abbia un infarto. Possiamo chiederci, naturalmente perché ciò sia accaduto. Se però questa domanda è chiara, non è chiaro quale sia la risposta giusta. Le possibili risposte legittime sono molte e per rispondere correttamente di volta in volta bisogna guardare al contesto in cui la domanda viene posta. Se, per esempio, la ragione dell’infarto viene chiesta a un fisiologo, la risposta si baserà sulla ricostruzione dei processi causali che hanno portato all’occlusione di un’arteria dell’infartuato; se a spiegare l’accaduto fosse invece il medico curante del poveretto, la causa dell’infarto potrebbe essere individuata, per esempio, nel fatto che il paziente non è stato diligente nell’assunzione dei farmaci che gli erano stati prescritti; uno studioso di statistica medica potrebbe fare riferimento ai fattori ereditari di rischio nella storia familiare dell’infartuato; un familiare potrebbe invece addossarsi la responsabilità dell’evento per non essere stato abbastanza convincente nello spiegare all’infartuato quali comportamenti avrebbe dovuto evitare; e così via. Tutte queste spiegazioni hanno carattere causale, ma sono molto diverse tra loro. E nessuna è la spiegazione corretta: tutte, prese nel giusto contesto, possono esserlo. Sono dunque i contesti in cui si cerca di spiegare un determinato evento a indicare quale tipo di spiegazione causale può essere, di volta in volta, adeguato allora scopo. In questo modo la nozione di causalità e quella di spiegazione sono intrecciate, ma nessuna delle due ha prevalenza sull’altra.

Vorrei proporti due riflessioni sul significato della questione del realismo nell’attuale contesto sociale e politico. A un certo punto sottolinei un importante collegamento tra esercizio del libero arbitrio e istruzione. Mi sembra un punto in comune con la tradizione razionalistica, rappresentata per esempio da Spinoza e Leibniz, in cui si insiste sul fatto che maggiore conoscenza corrisponde a maggiore libertà. Puoi spiegarci come la pensi e perché si tratta di una questione attuale?

In realtà, noi oggi sappiamo dalle scienze cognitive che siamo molto meno liberi di quanto ci piacerebbe credere. I condizionamenti che subiamo sono molto profondi e spesso prendiamo decisioni per ragioni che ci sono del tutto oscure (anche se non ce ne rendiamo conto). In realtà, però, per allargare questo limitato spazio di libertà qualcosa si può fare: quando abbiamo consapevolezza dei fattori in gioco in una scelta e ponderiamo con attenzione su quale sia la scelta migliore, facendo attenzione ai fattori che potrebbero fuorviarci, la nostra mente cosciente può in effetti giocare un ruolo importante. Solo che per fare ciò c’è bisogno di consapevolezza, capacità di analisi della realtà e abilità di ragionamento: elementi che solo l’istruzione può aiutarci a sviluppare.

Pensi che la questione abbia un nesso con quello delle due culture, scientifica e umanistica, e sull’esigenza di avvicinarle nella formazione scolastica e universitaria?

Oggi molti umanisti continuano a ignorare la scienza o a minimizzarla, errore terribile, ma la bilancia si è spostata: il peso della scienza a livello politico e culturale è diventato preponderante. Solo che oggi è anche la cultura scientifica a ignorare quella umanistica. Altro errore terribile. La cultura è una e una sola e non la si può dividere in una parte buona e in una da buttare, come fosse una banana. Un cittadino consapevole e, per quanto possibile, autonomo deve padroneggiare sia le scienze sia le discipline umanistiche.

A proposito del nesso tra scienza e realtà, sembra che la questione del realismo abbia un rilievo sociale e politico. Di recente si discute molto sul fatto che la rappresentazione del mondo sia condizionata dal meccanismo delle “bolle” sui social network, in cui ciascun individuo tende a trovare una conferma delle proprie concezioni, indipendente dalla rispettiva evidenza su cui queste si possono fondare. D’altra parte proliferano teorie alternative a quelle scientifiche, accusate o sospettate di essere il frutto di interessi di “poteri occulti”, e questo finisce col produrre diffusi e radicali conflitti di opinione che hanno importanti conseguenze politiche. Secondo alcuni osservatori questa situazione favorirebbe una polarizzazione lacerante nella società e metterebbe a repentaglio la democrazia. È una situazione che ricorda quella che un secolo fa ispirò la nascita della “filosofia scientifica” che mirava appunto a difendere uno spazio di ragioni universali e comuni in un’epoca di forti polarizzazioni ideologiche, irrazionalismo filosofico e crisi della democrazia. Pensi che il realismo filosofico possa o debba giocare un ruolo politico nel mondo di oggi?

Assolutamente sì: assumere che molti dei problemi che ci poniamo ogni giorno abbiano soluzioni oggettive e che esistono metodi razionali per trovare queste soluzioni è un elemento fondamentale di ogni decente discussione pubblica. Ci sono, però, difficoltà che non si possono ignorare: in particolare, alcuni aspetti della nostra complessa struttura cognitiva. Nel mondo ipercomunicativo dei social media tutti parlano di tutto, sempre. Il risultato è una cacofonia terribile, in cui il parere degli esperti è equiparato a quello dei neofiti e le discussioni degenerano spesso in risse da angiporto. Aristocraticamente, Umberto Eco scriveva che i social media “danno diritto di parola a legioni di imbecilli” (attirandosi così l’ira dei legionari).  Insomma, chi deve tacere e quando? Chi deve rimanere in silenzio mentre gli altri parlano? La risposta è semplice: dipende dalle situazioni. Per ognuno di noi ci sono casi in cui dovremmo rimanere in silenzio – o, al massimo, dovremmo parlare con grande prudenza, rispettando l’opinione di chi ne sa più di noi. Le cose non vanno però affatto così. E la ragione è che nessuno di noi – nessuno! – sa veramente quale sono i propri limiti conoscitivi. Pochi anni fa due psicologi hanno individuato sperimentalmente una comunissima (anzi universale) distorsione cognitiva: più un individuo è incompetente in un determinato campo, meno se ne rende conto. E ciò spiega perché ci sono milioni di epidemiologi, di commissari tecnici, di esperti di scienze dell’ambiente, di critici d’arte e di politologi. In tutti questi campi chi dovrebbe tacere e ascoltare i veri esperti (o, almeno, dovrebbe interloquire con grande rispetto), spesso straparla, pretendendo che la propria opinione sia considerata tanto rispettabile quanto quella dei veri esperti.

Quindi bisogna semplicemente contenersi e affidarsi agli esperti?

Due osservazioni. Primo, anche gli esperti sono vittime, e anche di frequente, di tale distorsione cognitiva perché si portano dietro la convinzione di essere esperti anche quando dicono la loro su campi di cui non sono padroni. E così l’autorevolezza si tramuta in sicumera (basti pensare all’attualità: agli esperti di anestesia e rianimazione che si autonominano esperti di epidemiologia, e viceversa). Secondo, non è che gli esperti siano infallibili: anche loro sbagliano, e frequentemente. Ma ciò non significa che le loro opinioni, quando concernono i campi di cui sono veramente esperti, non vadano prese in maggiore considerazione di quelle dei non esperti. Risultato: Umberto Eco aveva ragione. Internet dà la parola a legioni di imbecilli, che starnazzano invece di ascoltare chi ne sa di più. Solo che, a seconda dei casi, ognuno di noi può essere il legionario di turno.

mercoledì 9 dicembre 2020

Pandemia, restrizioni e Costituzione - Articolo di Francesco Pallante

 

Una delle conferenze previste nel nostro programma autunnale 2020, purtroppo sospeso per le risapute restrizioni pandemiche, era dedicata a discutere delle problematiche giuridiche legate alla legislazione di emergenza che a partire da Marzo sta intervenendo in misura molto significativa sull’intera nostra dimensione sociale. Fin da subito sono sorte perplessità e critiche, ricordiamo fra le altre quelle di Giorgio Agamben relativamente allo “stato di emergenza” alle quali abbiamo dedicato alcuni nostri post, sulla loro congruità democratica e sul rischio di degenerazioni autoritarie. Il tema aveva poi conosciuto nei mesi estivi una relativa sospensione per poi riesplodere in coincidenza con i nuovi provvedimenti adottati per affrontare la “fase due”, ed ancora in questi giorni è al centro di rinnovate polemiche per le restrizioni previste per il prossimo periodo natalizio. La costante centralità di questo tema rafforza la nostra speranza di recuperare appena possibile la conferenza prevista con modalità attorno alle quali stiamo riflettendo. In attesa di possibili sviluppi, per i quali al momento non siamo però in grado di fornire anticipazioni fondate, pubblichiamo con questo post alcuni contributi utili ad inquadrare la tematiche nell’ambito delle Leggi che la normano ad iniziare, ovviamente, dai dettati costituzionali. Ci soccorre in questo la cortese disponibilità del relatore della prevista conferenza, Francesco Pallante (Professore associato di Diritto Costituzionale presso l’Università di Torino, editorialista per “Il Manifesto” e “Huffington Post” e promotore del sito on-line “Volere la Luna”) che ci ha gentilmente fornito una ricca documentazione. Pubblichiamo il seguente suo articolo dello scorso Marzo che definisce sinteticamente un quadro generale di riferimento che mantiene intatta la sua validità, in calce al quale inseriamo alcuni link per accedere ad suoi articoli ed interventi riferiti a più specifici aspetti della problematica in questione

Coronavirus, interventi normativi, Costituzione.  

         10 domande e risposte

                                              Articolo di Francesco Pallante                                                      sito on-line “volere la luna” – 27 Marzo 2020

Avvertenza preliminare

Con questo testo non intendo discutere il merito dei provvedimenti normativi attraverso cui si sta operando per il contenimento dell’epidemia – anzi, con fiducia nell’azione delle autorità politiche e scientifiche, li assumo come necessari e inevitabili. Più modestamente, intendo interrogarmi sugli strumenti giuridici utilizzati e sulla loro adeguatezza rispetto al dettato costituzionale. Pur nella consapevolezza che gli interrogativi che seguono possono oggi, nel pieno dell’emergenza, risultare oziosi ai più, credo che sia importante, fin d’ora, iniziare a pensare al domani, quando l’emergenza sarà finita e risulterà inevitabile fare i conti, oltre che con le conseguenze umane, familiari, sociali, politiche, ambientali ed economiche di quanto sta accadendo, anche con le sue ricadute giuridiche.

1. Quali diritti costituzionali sono coinvolti?

L’emergenza Coronavirus ha indotto il governo ad assumere una serie di misure normative volte a contenere la diffusione dell’epidemia. Tali misure incidono su diversi diritti costituzionali: quantomeno la libertà di circolazione e di soggiorno (art. 16 Cost.), la libertà di riunione (art. 17 Cost.), la libertà religiosa (art. 19 Cost.), il diritto/dovere all’istruzione (art. 34 Cost.) la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.). L’ulteriormente inasprimento delle misure, sino al divieto di uscire di casa, potrebbe comportare limitazioni addirittura alla libertà personale (art. 13 Cost.).

2. La Costituzione disciplina lo stato di emergenza?

La Costituzione non prevede una disciplina generale delle situazioni di emergenza. È però prevista la possibilità di limitare alcuni diritti costituzionali per ragioni di sanità o di incolumità pubblica. Le limitazioni devono: (a) essere decise con legge (c.d. riserva di legge) e (b) riguardare categorie generali di cittadini (per es. i contagiati dal virus o, più ampiamente, tutta la popolazione). Più in generale, occorre considerare che la dottrina e la giurisprudenza riconoscono un particolare valore al diritto alla salute (l’unico che la Costituzione definisce espressamente fondamentale: art. 32 Cost.) e al connesso diritto alla vita. Mentre tutti gli altri diritti sono reciprocamente bilanciabili, il diritto alla vita è l’unico diritto qualificato come assoluto: dunque, destinato a prevalere sempre sugli altri. La ragione è semplice: la vita è precondizione per il godimento di tutti i diritti, senza la vita non si può godere di nessun diritto. Inoltre, per la Costituzione la salute non è solo un diritto individuale, ma anche un interesse della collettività.

3. Perché è importante che le limitazioni siano decise con legge?

Perché la legge è atto approvato dal Parlamento, l’organo che rappresenta tutti: maggioranza e opposizione. Sia pure indirettamente, la deliberazione parlamentare è garanzia del fatto che tutti siano coinvolti nella decisione che limita la libertà di tutti (sono considerati equiparati gli atti aventi forza di legge adottati dal governo: il decreto-legge, che deve poi essere convertito in legge dal Parlamento, pena la sua decadenza fin dall’inizio; il decreto legislativo, che, per poter essere adottato, deve prima essere previsto da una legge delega del Parlamento). Questo non significa che la legge debba entrare nel dettaglio delle misure da adottare (il Parlamento non avrebbe le competenze necessarie e, anche se le avesse, la procedura di approvazione della legge sarebbe troppo lunga) o che si debba approvare un’apposita legge per ciascuna emergenza. Il Parlamento può limitarsi ad adottare una legge che, in linea generale, stabilisce come comportarsi in situazioni di emergenza e, se decide di adottare una legge apposita per una determinata situazione, stabilire il quadro normativo generale demandando a successivi provvedimenti amministrativi (ordinanze o regolamenti) gli interventi di dettaglio.

4. Esistono leggi generali per le situazioni di emergenza approvate prima dell’epidemia di Coronavirus?

Sì, esistono. Per quanto interessa, si può fare riferimento a due atti legislativi:

– il decreto legislativo n. 1/2018 (Codice della protezione civile), in base al quale (artt. 24 e 25), al verificarsi di un’emergenza nazionale, il Consiglio dei ministri delibera lo stato di emergenza e autorizza il Presidente del Consiglio dei ministri, d’intesa delle Regioni interessate, ad adottare ordinanze in deroga a ogni disposizione vigente, purché (a) sia dichiarato quali sono le disposizioni di legge che s’intende derogare, (b) siano rispettati i principi generali dell’ordinamento e il diritto europeo;

– la legge n. 833/1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale (Ssn), in base alla quale (art. 32): (a) se l’esigenza è nazionale o pluriregionale, il Ministro della Sanità ha il potere di emettere ordinanze in materia di igiene e sanità pubblica; (b) se l’esigenza è regionale o locale, il potere di ordinanza spetta al Presidente di Regione o al Sindaco (ipotesi prevista, altresì, dall’art. 50 del decreto legislativo n. 267/2000).

5. Come sono state assunte le misure limitative dei diritti di fronte all’emergenza Coronavirus?

Si possono distinguere diverse fasi.

A) In un primo momento, nel quadro del decreto legislativo n. 1/2018, il Consiglio dei ministri, sulla scia di analoga dichiarazione dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), ha deliberato lo stato di emergenza sanitaria (delibera del 31 gennaio 2020) per una durata di sei mesi (dunque, sino al 31 luglio 2020). Sulla base di tale dichiarazione il Capo dipartimento della Protezione civile ha potuto adottare una serie di ordinanze per intervenire su profili organizzativi della gestione dell’emergenza (istituzione del Comitato tecnico-scientifico che supporta il governo nelle sue decisioni, acquisto dei materiali necessari, divieto di esportazione dei materiali necessari).

B) Successivamente, le prime misure concrete rivolte alla cittadinanza (per vietare entrata e uscita nei primi comuni-focolaio, per sospendere le attività e chiudere le scuole, per le misure di quarantena) sono state adottate, nel quadro della legge n. 833/1978, con ordinanze del Ministro della Salute (21.2.2020 e 23.2.2020). Un ulteriore atto di questo tipo è stato adottato il 20.3.2020.

C1) Di seguito, il governo ha deciso di adottare il decreto-legge n. 6/2020 (poi convertito, con modifiche, nella legge n. 13/2020) quale atto avente forza di legge con cui far fronte appositamente all’epidemia di Coronavirus. Tale decreto-legge prevede che, su iniziativa del Ministro della Salute, il Presidente del Consiglio dei ministri adotti tramite proprio decreto (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri: dpcm) «ogni misura di contenimento e di gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica» (è altresì richiesto il parere, non vincolante, degli altri Ministri interessati e dei Presidenti delle Regioni interessate o, se lo sono tutte, del Presidente della Conferenza delle Regioni). Il Presidente del Consiglio ha, quindi, fatto ampio uso di dpcm per introdurre misure via via sempre più restrittive (dpcm 23.2.2020, 25.2.2020, 1.3.2020, 4.3.2020, 8.3.2020, 9.3.2020, 11.3.2020, 22.3.2020). Ai prefetti spetta monitorare sul rispetto delle misure adottate, potendo avvalersi sia delle forze dell’ordine, sia delle forze armate.

C2) Nel contempo, alcune regioni hanno adottato, nel quadro della legge n. 833/1978, proprie ordinanze con cui hanno inasprito, talvolta anche anticipandole, le misure governative (Lombardia e Piemonte: in queste regioni è sorto un conflitto tra le più rigide misure regionali e le più blande misure statali) o hanno chiuso il proprio territorio agli spostamenti di popolazione da e verso l’esterno (in contraddizione con l’art. 120 Cost.).

D) Da ultimo, il governo si è riproposto di dare ordine a questo caotico sovrapporsi di misure adottando il decreto-legge n. 19/2020. Tale atto normativo abroga quasi completamente il precedente decreto-legge, al fine di rendere il novero degli strumenti giuridici a disposizione del governo meglio riconducibile al dettato costituzionale (cfr. paragrafo 9).

Insomma: inizialmente sono stati utilizzate entrambe le leggi previste, in generale, per le emergenze (d.lgs. n. 1/2018 e legge n. 833/1978); poi è stato adottato un apposito provvedimento legislativo (il decreto-legge n. 6/2020, convertito nella legge n. 13/2020) che ha però sollevato numerose perplessità circa la sua costituzionalità; infine, con il decreto-legge n. 19/2020 si è cercato di porre rimedio alla situazione.

6. Che natura giuridica hanno i dpcm adottati ai sensi del decreto-legge n. 6/2020 (e quelli che verranno adottati ai sensi del decreto-legge n. 19/2020)?

Non è chiaro se tali dpcm abbiano natura sostanziale di regolamenti o di ordinanze.

Per un verso, si pongono come disposizioni attuative del decreto-legge n. 6/2020: dunque, sarebbero regolamenti. Per altro verso, rinviano alla dichiarazione di stato di emergenza e prevedono la fine della propria vigenza (sono provvisori): dunque, sarebbero ordinanze. L’ordinanza del Ministro della Salute del 20.3.2020 è stata, di fatto, utilizzata per consentire al Presidente del Consiglio di non intervenire con un nuovo dpcm prima della scadenza di quello precedente, lasciando intendere che il governo ritiene sovrapponibili i due atti (sicché, i dpcm sarebbero da considerarsi ordinanze). Qualificare i dpcm in un senso o nell’altro non è irrilevante, dal momento che le ordinanze hanno, di regola, una forza derogatoria della legislazione vigente che i regolamenti non hanno. Occorre, sul punto, registrare una certa “leggerezza” governativa nell’utilizzo ora di dpcm, ora di ordinanze ministeriali.

7. Gli atti sinora adottati ai sensi del decreto-legge n. 6/2020 sono rispettosi del diritto costituzionale?

Si possono individuare tre problemi principali.

A) Il rispetto del necessario equilibrio tra gli organi costituzionali

È tratto costitutivo del costituzionalismo quello per cui gli organi costituzionali non devono accumulare un eccessivo potere, ma risultare in equilibrio tra di loro. Ciò non solo nelle situazioni ordinarie, ma altresì (e, anzi: a maggior ragione) nelle situazioni straordinarie, quando più facile sarebbe approfittare dell’emergenza per stravolgere gli equilibri costituzionali. Naturalmente la necessità di intervenire con urgenza non rende percorribili le strade ordinarie (quale sarebbe stata l’approvazione di una legge avente contenuto normativo quantomeno generale), ma è comunque decisivo che le procedure d’urgenza non si riducano ad attribuire tutto il potere a un solo soggetto: che è poi la ragione principale perché la nostra Costituzione non disciplina lo stato di emergenza. La circostanza che, in virtù del decreto-legge n. 6/2020, il Presidente del Consiglio dei ministri si ritrovi titolare di un potere di ordinanza emergenziale di fatto indefinito (con l’unico vincolo che l’iniziativa sia assunta dal Ministro della Salute) sembra produrre un’eccessiva concentrazione di potere nelle sue mani, tanto più se si considera che tale potere ha origine da un decreto-legge, vale a dire da un atto deciso dal governo di cui lui stesso è alla guida. A ciò si deve aggiungere che il Parlamento si è di fatto “volatilizzato” di fronte al rischio del contagio, riducendo la propria funzione costituzionale alla precipitosa ratifica delle decisioni governative in sede di conversione del decreto-legge. Anche questo elemento – fortemente criticabile, come lo sono tutte le ipotesi di limitazione del libero dibattito parlamentare (riduzione del numero dei parlamentari presenti, accorpamento dei provvedimenti, riduzione dell’attività in commissione, voto telematico senza previa adeguata discussione) – contribuisce a sbilanciare gli equilibri a favore del Presidente del Consiglio dei ministri.

B) Il rispetto della riserva di legge nella limitazione dei diritti

Circoscrivendo il discorso alla libertà di circolazione e di soggiorno (dalla cui limitazione discendono, a cascata, tutte le altre limitazioni: non potendo circolare non ci si riunisce, non si va in chiesa, né a scuola, né a lavorare) va rilevato che l’art. 16 Cost. pone una riserva di legge relativa (Corte cost., sentenza n. 68/1964). Significa che la legge può limitarsi a dettare la normativa di carattere generale, demandando poi ad atti normativi secondari adottati dal potere esecutivo (come i regolamenti o le ordinanze) la specificazione del dettaglio. Il decreto-legge n. 6/2020 definisce alcune ipotesi di limitazione (art. 1, co. 2), ma a titolo esemplificativo, lasciando poi libero il Presidente del Consiglio dei ministri di stabilire ulteriori misure indefinite (come già ricordato, «ogni misura di contenimento e di gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica»: art. 1, co. 1). Di fatto, l’atto legislativo opera un rinvio “in bianco” all’attività normativa secondaria, senza dettare la normativa di carattere generale: la riserva di legge, ancorché relativa, non sembra dunque rispettata.

C) Il rispetto della riserva di legge in materia penale

Una delle conquiste fondamentali dello stato di diritto è che i cittadini non siano puniti per decisione arbitraria del detentore del potere, ma in forza di una previa legge che consenta loro di conoscere, in anticipo e con chiarezza, quali saranno le conseguenze dei loro comportamenti (tale principio si trova espresso, nel nostro ordinamento, dall’art. 25, co. 2, Cost., che prevede una riserva di legge assoluta: tale per cui solo la legge e gli atti aventi forza di legge sono autorizzati a intervenire in materia penale). Le misure restrittive delle libertà contenute nei dpcm adottati per far fronte all’emergenza Coronavirus sono invece assai vaghe, al punto da venire presentate come raccomandazioni anziché come divieti, pur essendo prevista – sia dal decreto-legge n. 6/2020, sia dai dpcm stessi – una sanzione penale in caso di loro inosservanza per violazione dell’art. 650 c.p. (ai sensi del quale «chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a duecentosei euro»). Di fatto, le misure concretamente vincolanti i comportamenti dei cittadini sono dettate dai dpcm, dunque non dalla legge, in violazione della riserva di legge assoluta. In più, è difficile dire esattamente che cosa sia vietato e che cosa sia permesso, il che rende estremamente discrezionale, al limite dell’arbitrio, la comminazione delle sanzioni.

8. Come sarebbe stato preferibile agire?

Ai sensi dell’art. 77 Cost., in caso di straordinarie situazioni di necessità e urgenza la strada maestra è l’utilizzo del decreto-legge. È ragionevole ritenere che le misure maggiormente restrittive dei diritti costituzionali avrebbero dovuto essere adottate non con dpcm, ma con altri successivi decreti-legge. Il maggior equilibrio di questo strumento normativo rispetto al dpcm deriva dal fatto che: (a) è deciso dal governo nella sua collegialità, (b) è emanato (e quindi controllato) dal Presidente della Repubblica e (c) è convertito in legge dal Parlamento. Comporta, dunque, un ben più ampio coinvolgimento di diversi organi costituzionali. In subordine, sarebbe stato preferibile ipotizzare che le misure restrittive venissero adottate non con dpcm, ma con decreto del Presidente della Repubblica (dPR): benché il contenuto dell’atto avrebbe continuato a essere frutto di decisione governativa, sarebbe quantomeno stata necessaria la collaborazione del Capo dello Stato, a cui sarebbe spettato il potere di emanazione (e quindi di controllo).

9. Cosa prevede il decreto-legge n. 19/2020?

Il decreto-legge n. 19/2020 prevede che, su proposta del Ministro della Salute (o dei Presidenti delle Regioni interessate o, se lo sono tutte, del Presidente della Conferenza delle Regioni), il Presidente del Consiglio dei ministri possa adottare tramite proprio decreto (dpcm) una o più tra le misure espressamente elencate nell’art. 1 del medesimo decreto-legge. È altresì richiesto il parere, non vincolante, degli altri Ministri interessati e, salvo abbiano loro formulato la proposta, dei Presidenti delle Regioni interessate o, se lo sono tutte, del Presidente della Conferenza delle Regioni. Quali misure concretamente adottare, e su quali porzioni del territorio nazionale, deve essere stabilito «secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso». Per i profili tecnico-scientifici e le valutazioni di adeguatezza e proporzionalità, va altresì sentito il Comitato tecnico scientifico istituito dal Capo dipartimento della Protezione civile. In casi di estrema necessità e urgenza, nelle more dell’approvazione del dpcm, le misure elencate nell’art. 1 del decreto-legge n. 19/2020 possono essere adottate dal Ministro della Salute con ordinanza emanata ai sensi dell’art. 32 della legge n. 833/1978. L’emanazione del dpcm fa, poi, venir meno l’ordinanza.

Tutti i provvedimenti adottati (dpcm e ordinanze del Ministro della Salute) vanno comunicati alle Camere entro il giorno successivo all’emanazione; il Presidente del Consiglio dei ministri o un Ministro da lui delegato riferiscono ogni 15 giorni al Parlamento sulle misure adottate.

In caso di aggravamento del rischio sanitario sul territorio (o su parte del loro territorio) regionale, nelle more dell’approvazione del dpcm, i Presidenti di Regione possono, con propria ordinanza, introdurre misure ulteriormente restrittive tra quelle elencate nell’art. 1 del decreto-legge n. 19/2020. L’emanazione del dpcm fa, poi, venir meno l’ordinanza regionale. I Sindaci e tutte le altre autorità titolari di poteri di ordinanza non possono, invece, adottare ordinanze in contrasto con quelle adottate dallo Stato. Le misure adottabili ai sensi dell’art. 1 sono le seguenti: limitazione della circolazione; chiusura di spazi pubblici; limitazione o divieto di uscita e ingresso in determinati territori (comunali, provinciali o regionali); quarantena per malati e persone venute in contatto con loro; limitazioni o divieto di riunirsi; limitazione o sospensione di manifestazioni o iniziative pubbliche di qualunque natura; sospensione i cerimonie civili e religiose; limitazione all’ingresso nei luoghi di culto; chiusura dei luoghi di aggregazione (cinema, teatri, centri ricreativi, ecc.); sospensione di riunioni, congressi, convegni; limitazione o sospensione di manifestazioni ed eventi sportivi e chiusura di palestre, piscine, impianti sportivi; limitazione o sospensione delle attività ludiche e motorie all’aperto; limitazione, riduzione, sospensione o soppressione di servizi di trasporto di persone e di merci; sospensione dei servizi educativi per l’infanzia, delle attività didattiche delle scuole di ogni ordine e grado e delle università; sospensione dei viaggi d’istruzione; limitazione o sospensione dei servizi museali e dei luoghi di cultura; limitazione della presenza fisica dei dipendenti negli uffici delle amministrazioni pubbliche, salvi i servizi essenziali; limitazione o sospensione delle procedure concorsuali; limitazione o sospensione delle attività commerciali di vendita al dettaglio, salvo quelle necessarie per assicurare la reperibilità dei generi agricoli, alimentari e di prima necessità; limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti; limitazione o sospensione di altre attività d’impresa o professionali; limitazione allo svolgimento di fiere e mercati; divieti o limitazioni per gli accompagnatori dei pazienti nelle strutture sanitarie; limitazione dell’accesso di parenti e visitatori nelle strutture sanitarie e negli istituti penitenziari. La violazione delle misure prescritte (dai dpcm o dalle ordinanze ministeriali o regionali) è punita con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000, aumentata di un terzo se la violazione è compiuta utilizzando un veicolo. È espressamente esclusa l’applicazione dell’art. 650 c.p. (che era, invece, richiamato dal decreto-legge n. 6/2020). Solo la violazione della quarantena comporta l’arresto da 3 a 18 mesi e il pagamento di una somma da euro 500 a euro 5.000. Le stesse sanzioni amministrative, nella misura minima ridotta alla metà, vanno a sostituire le sanzioni penali comminate per le violazioni dei dpcm e delle ordinanze emanati prima dell’adozione del decreto-legge n. 19/2020. Spetta al Prefetto, avvalendosi delle Forze di polizia e, se necessario, delle Forze armate, far rispettare le misure restrittive e comminare le sanzioni amministrative (salvo quelle previste dalle Regioni con le loro ordinanze provvisorie, che sono comminate dalle Regioni stesse). Infine, il decreto-legge n. 19/2020 fa salvi gli effetti già prodotti dai dpcm adottati in base al decreto-legge n. 6/2020 e dalle ordinanze del Ministro della Salute adottate in base all’art. 32 della legge n. 833/1978 e consente ai dpcm 8.3.2020, 9.3.2020, 11.3.2020 e 22.3.2020 di continuare a produrre nuovi effetti fino alla fine della propria vigenza e a tutti gli altri atti (dpcm e ordinanze), che siano ancora in vigore, di continuare a produrre nuovi effetti per dieci giorni.

10. Il decreto-legge n. 19/2020 è maggiormente rispettoso del dettato costituzionale?

Sì, lo è, anche se non tutte le criticità sono risolte.

A) Il rispetto del necessario equilibrio tra gli organi costituzionali

Questo rimane il punto più debole, dal momento che, di nuovo, con un atto normativo del governo (il decreto-legge), si prevede che le misure limitative della libertà siano disposte tramite un atto del soggetto che guida il governo (il Presidente del Consiglio dei ministri che opera tramite propri decreti: i dpcm). A parziale miglioramento del quadro operano due elementi: (a) la previsione che le misure adottate siano tempestivamente comunicate alla Camere e che il Presidente del Consiglio di ministri, o un ministro da lui delegato, riferiscano sul tema ogni 15 giorni al Parlamento; (b) l’esplicitazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente quali criteri di decisione delle misure da adottare. Ancor meglio sarebbe stato prevedere l’utilizzo di decreti definiti nel contenuto sostanziale dal governo ed emanati formalmente dal Presidente della Repubblica (dPR).

B) Il rispetto della riserva di legge nella limitazione dei diritti

È positivo che il nuovo decreto-legge definisca in generale le misure limitative della libertà che possono, poi, essere disposte nei casi specifici tramite dpcm e ordinanze. In tal modo, la riserva di legge stabilita dalla Costituzione pare rispettata (diversamente da quanto avveniva con il decreto-legge n. 6/2020, che attribuiva ai dpcm il compito di dettare tutte le misure necessarie, senza precisare previamente quali misure potessero essere prese).

C) Il rispetto della riserva di legge in materia penale

È altresì positiva la trasformazione delle sanzioni per il mancato rispetto delle limitazioni da misure penali a misure amministrative e che ciò valga, retroattivamente, anche per le sanzioni già comminate come misure penali. Sarebbe ora importante che le limitazioni venissero definite nella maniera più precisa possibile, in modo da non lasciare eccessivi margini di discrezionalità alle autorità prefettizie chiamate a farle rispettare.

Per chi volesse approfondire alcune tematiche specifiche i seguenti link si collegano ad interventi ed articoli del Professor Pallante: (cliccare sul titolo)

rivolta governatori

zone rosse

stato di emergenza

Piemonte

Covid e democrazia