giovedì 30 aprile 2020

La pandemia ed i decreti di Conte - Articolo di Gustavo Zagrebelsky


La convinta e diffusa adesione alla prima versione del “Io resto a casa”, ricordiamo tutti le canzoni dai balconi e il fiorire dei cartelli “andrà tutto bene”, sembra purtroppo essersi via via ridimensionata anche perché non poco soffocata dal successivo incalzare di norme e codicilli, sempre più pesanti, sempre più confusi, sempre più diversi da Regione a Regione. Quella che, sull’onda della reazione ad un eccezionale evento pandemico, sembrava essere una occasione straordinaria di rinascita di senso civico e di appartenenza comunitaria non pare proprio essere stata confortata dal proliferare dei provvedimenti legislativi affidati alla decretazione d’urgenza. Per non disperdere ulteriormente questa potenzialità, indispensabile per uscire dall’emergenza e per avviare una vera ripresa, è necessario recuperare e valorizzare la partecipazione ed il senso di responsabilità di tutti noi cittadini. Per farlo occorre che  la “norma” non incida negativamente in questo senso. Il seguente articolo di Gustavo Zagrebelsky ci offre proprio una lucidissima lettura del rapporto fra Norme e Responsabilità

La pandemia e i decreti di Conte:
se non basta obbedire
Articolo di Gustavo Zagrebelsky - La Repubblica del 29 APRILE

La nostra responsabilità di fronte al virus: il difetto è la confusione tra due concetti, uno giuridico e l'altro etico

Bisogna leggerli per rendersi conto di qualcosa di meraviglioso e, al tempo stesso, di patologico nel rapporto tra governo e cittadini. Parlo dei Dpcm - i decreti del presidente del Consiglio dei ministri, acronimo del nostro tempo, misterioso e minaccioso - sul contenimento della diffusione dell'infezione virale. Sono testi meravigliosi nel senso etimologico della parola: stupefacenti. Mi riferisco all'idea di base: che le abitudini, le attività e le esigenze materiali e spirituali delle persone siano materia inerte, modellabile come cera fin nei più piccoli dettagli. Modellabile attraverso atti d'autorità che aprono e chiudono, concedono e vietano, impongono e consigliano, disapprovano, esortano e raccomandano. L'essere umano non come persona naturalis capace di autodeterminazione, ma come persona legalis forgiata dalla legge: l'ideale del giuridicismo estremo. Nelle 70 pagine dell'ultimo Dpcm con i suoi allegati c'è il disciplinamento di buona parte delle nostre giornate, in casa propria, per strada, nei luoghi di lavoro e di ricreazione, nelle scuole, nei negozi, nei ristoranti e nelle mense, nei parchi pubblici e nel modo di sedere e di salire e scendere dai mezzi di trasporto, eccetera. Leggiamo di divieti di spostamento, di obblighi di distanziamento, di modalità di comportamento super-dettagliate perfino sul modo di starnutire, soffiarsi il naso, collocare le mascherine tra il mento e il naso medesimo. Le situazioni personali e personalissime, come la deambulazione e l'esercizio fisico, le occasioni di socialità come nei ritrovi amicali nelle case, nei servizi funebri, nelle cerimonie religiose e nei raduni in luoghi pubblici o aperti al pubblico sono oggetto di minutissima descrizione e regolamentazione. Le attività industriali, commerciali e professionali sono distinte in categorie dettagliatissime, dagli estetisti e parrucchieri ai lavoratori negli iper-mercati e nelle fabbriche. Leggiamo ammirati questa enciclopedia. Gli storici che, nel quarto millennio, si chiederanno come si viveva nel nostro inizio del terzo, troveranno in questo documento una summa che esaudirà e quasi esaurirà le loro curiosità. Apprenderanno che c'erano passeggiate solitarie e in coppia, cinematografi, teatri, pub, scuole di ballo, sale giochi scommesse e bingo, discoteche e locali assimilati (?). L'insidia del virus epidemico è invasiva al massimo grado e, dunque, la risposta non può essere grossolana e generica. Questo è ovvio. Tanti, anzi tantissimi, sono i momenti e i luoghi dell'esistenza che offrono occasioni all'infezione. Giusto che si faccia attenzione a tutte le pieghe in cui il contagio può insinuarsi e riprodursi. Solo certi giuristi credono, però, che le abitudini di vita si possano cambiare a colpi di decreti: le abitudini si cambiano con altre abitudini, non soltanto con le leggi. In qualunque società libera, le leggi senza le abitudini soccombono o, comunque, durano poco. Prima o poi, la loro efficacia, senza la collaborazione dei cittadini, perde mordente e rischia di finire come le grida impotenti del tempo di un'altra epidemia, quattrocento anni fa. Già ora si riscontra, nei discorsi e nelle condotte del tempo del coronavirus, un distacco, un'indifferenza e un'insofferenza crescenti. All'allentamento del timore o anche all'abitudine al pericolo corrisponde l'allentamento dei comportamenti. C'è perfino un inizio di teorizzazione in nome della libertà: che m'importa della salute e addirittura della vita se mi si priva della libertà? Nobilissimo è l'argomento. Ignora però, e questo è molto meno nobile, il piccolo particolare che nelle infezioni epidemiche in gioco non c'è solo la propria salute, la propria vita, la propria libertà, ma anche quella degli altri. È la tipica situazione "olista" in cui bene e male del singolo e di tutti si convertono l'uno nell'altro. L'argomento della libertà, come dotazione individuale, non vale. È un prezzo che la libertà individuale paga alla "globalizzazione", la globalizzazione dei rischi. Non c'è oggi una questione di "deriva autoritaria" o di "corsa ai pieni poteri", secondo categorie ricevute dal passato e usate per interpretare il momento presente. Almeno così mi pare. Anzi, mi paiono eccessivi e, talora, anche ridicoli gli alti lai sulla democrazia sospesa, sulla Costituzione violata, sui proclami al Paese di stampo peronista del presidente del Consiglio, eccetera. Mi chiedo quanto ci sia di esagerato e di strumentale in questi "al lupo, al lupo" e quanta incomprensione della natura del problema che abbiamo di fronte a noi. La critica, piuttosto, mi pare debba essere indirizzata altrove: in quella pretesa di trasformarci in persone modellate giuridicamente, di cui si diceva all'inizio, come se la virtù del buon cittadino sia di essere semplicemente un "osservante" che s'inchina a un legislatore onnipossente. In una società libera e di fronte a problemi dove il bene dei singoli e il bene di tutti si implicano strettamente, la legge incontra limiti di efficacia se non può contare sulla partecipazione responsabile di ciascuno e di tutti. E questa è una questione etica. Orbene, i Dpcm da cui siamo partiti mescolano vere e proprie prescrizioni giuridiche, con annessa comminazione di sanzioni, a consigli ed esortazioni che, evidentemente, di giuridico hanno poco o nulla ma riguardano l'assunzione di condotte autonome e responsabili. Bene sarebbe distinguere: una cosa è l'ubbidienza, altra cosa è la responsabilità. Il difetto è la confusione. La prima è cosa giuridica, la seconda è cosa etica. I mezzi per promuovere l'ubbidienza non sono quelli per promuovere la responsabilità. Anche quest'ultima implica doveri, ma sono doveri autonomi che ciascuno impone a se stesso in nome della libertà propria e degli altri, in nome cioè della solidarietà. Mescolare ubbidienza e responsabilità è cosa contraria alla natura dell'una e dell'altra, come mescolare soggezione e adesione, vincolo e libertà. Chiamare all'ubbidienza e sollecitare la responsabilità sono cose profondamente diverse. A ciascuno il suo: al governo le prescrizioni giuridiche (vietare, consentire e imporre), alla società nelle sue tante articolazioni, la promozione dell'etica della responsabilità.

lunedì 27 aprile 2020

Parole sulla pandemia - Articolo di Paolo Pecere


E’ un articolo che ci è sembrato utile per ripercorrere, in un quadro d’insieme, molti dei temi che abbiamo affrontato in queste lunghe settimane di clausura. Non mette di certo la parola fine ad un dibattito che sicuramente proseguirà magari, come ci auguriamo, nelle forme consolidate, ma ancora per un po’ non praticabili, di incontri  pubblici, ma aggiunge altri elementi di riflessione. ovviamente condivisibili o no.

Parole sulla pandemia: Una mappa critica del discorso di intellettuali e filosofi.


Articolo di Paolo Pecere (ricercatore di Storia della Filosofia presso l’Università di Cassino, autore di diversi saggi filosofici e di due romanzi)  - Rivista online La Tascabile

L’ epidemia di COVID-19 ha mostrato un’impreparazione dei governi europei, che sono passati in tempi diversi dalla difesa dello stile di vita normale e del sistema produttivo a misure emergenziali simili a quelle adottate in Cina. Filosofi e intellettuali hanno mostrato un simile spiazzamento nel tentativo di elaborare quel che sta accadendo. In molti hanno visto e vedono nell’epidemia il momento della verità – una verità già scritta – prima ancora di capire le effettive caratteristiche e conseguenze della malattia, che tuttora risultano in parte oscure. Esaminerò reazioni di puro allarme, come quella di Giorgio Agamben, e altre che colgono nell’epidemia anche un’occasione positiva, come quelle di Slavoj Žižek, Olga Tokarczuk, Arundhati Roy, Rebecca Solnit. Il compito di orientarsi in questa situazione è arduo, ma in tutte queste reazioni c’è qualcosa di spropositato: ci dicono più del nostro spaesamento precedente all’epidemia che del futuro che vorrebbero anticipare, anche se aiutano a individuare alcuni problemi con cui abbiamo a che fare. Sosterrò che di fronte alla complessità dell’epidemia, mentre ci domandiamo se le cose andranno peggio o meglio di prima, bisogna esaminare con cura le parole che mettiamo in circolo: diffidare delle certezze individuali (anche di intellettuali autorevoli), privilegiare il confronto critico sulle comuni incertezze, collegare diverse informazioni e competenze disciplinari (scientifiche e non solo), confrontare i diversi modelli culturali e politici che guidano la reazione alla pandemia. In particolare, suggerirò l’opportunità di un confronto tra le reazioni diffuse nei paesi occidentali e modelli alternativi come quello cinese, in cui si può leggere qualcosa del nostro futuro.
“Stato di eccezione”, apocalisse e falsi profeti
Mentre leggevo freneticamente dati e articoli per farmi un’idea dell’epidemia, il filosofo Giorgio Agamben ha pubblicato un post intitolato “L’invenzione di un’epidemia” in cui ha sostenuto che “i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazioni dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni”. “Stato di eccezione” – ricordiamo – è una nozione che Agamben riprende da Carl Schmitt e altri filosofi, e a cui ha dedicato molte ricerche (tra cui un libro del 2003) e indica la sospensione temporanea dell’ordine costituzionale vigente effettuata dallo stesso potere che normalmente lo garantisce – una condizione che, per esempio, è espressione della dittatura. Con queste parole, dunque, Agamben alludeva a una sorta di complotto inteso a caricare emotivamente l’allarme su quella che pareva essere invece “una normale influenza”: l’invenzione dell’epidemia avrebbe fatto parte di una strategia di abolizione del diritto. In post successivi Agamben ha difeso le sue posizioni sostenendo che “il nostro prossimo è stato abolito” senza valide ragioni. Rispetto al punto di vista scientifico, che in molti gli hanno rimproverato di aver trascurato, ha presentato i disaccordi tra i medici sulla reale entità del rischio epidemico come conflitti di tipo religioso. Naturalmente non c’è stata nessuna invenzione dell’epidemia: sostenere, come ha fatto Agamben, che una macchinazione occulta di governo e mezzi di informazione abbia trovato in questa epidemia una nuova occasione, dopo il terrorismo, per impedire gli assembramenti e togliere il potere al popolo, ha la stessa credibilità delle tesi dei novax sul fatto che l’epidemia serva a promuovere la vaccinazione di massa e l’arricchimento delle case farmaceutiche. È anche falso che ci sia un diffuso panico, con l’eccezione, forse, di località come Bergamo, dove il continuo passaggio delle ambulanze ha sconvolto i residenti a causa appunto della realtà del contagio e delle vittime. In altre zone la preoccupazione per l’infezione si unisce a quella per la perdita del lavoro e del reddito, e c’è soprattutto un carico emotivo di fatica e irritazione per l’impossibilità di uscire, andare a lavorare, incontrare gli altri, divertirsi, soprattutto quando stare in casa significa affrontare circostanze difficili. Nell’Italia immaginata da Agamben, invece, i cittadini la pensano come i soggetti delle sue teorie: “l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita”. D’altra parte è vero che l’epidemia ha un aspetto politico. Di fronte alla paura della morte i cittadini si affidano alle misure del governo, il che assomiglia a una situazione hobbesiana in cui l’individuo aliena ogni diritto a un sovrano assoluto. Ma a differenza della finzione hobbesiana, esistono in Italia entità intermedie della società civile – associazioni politiche, sociali e culturali, centri di ricerca pubblici e privati, e così via – che elaborano la situazione e in alcuni casi sono state coinvolte nelle decisioni del governo, che da parte sua ha la funzione di garantire la salute pubblica. Semmai si può obiettare che il governo abbia commesso errori e negato responsabilità. Anch’io ho trovato frustrante che il governo, dopo aver imposto il lockdown indiscriminato, a lungo non abbia presentato un piano di monitoraggio e trattamento dei contagi, né spiegato quali strategie sanitarie si proponeva di mettere in atto per rendere possibile l’annunciato ritorno alla circolazione delle persone e la ripresa di servizi e attività produttive e commerciali. Critiche puntuali sono formulate da settimane, sia sul piano regionale sia sul piano nazionale, mediante opportuni confronti con la situazione di altri paesi: si parla di impreparazione, anche di incapacità e responsabilità penali, il che ovviamente è ben diverso dal teorizzare un complotto. Al tempo stesso, si discute del problema giuridico della sospensione dei diritti nella cornice costituzionale di uno stato liberale e democratico, usando più opportunamente l’espressione “stato di emergenza” per designare una situazione che non è senz’altro incompatibile con la legittimità, ma va giustificata. Rispetto a queste discussioni l’intervento di Agamben – uno dei filosofi che godono di maggior credito in Italia, che peraltro si è sempre presentato come un pensatore politico – non offre alcun contributo alla comprensione di quello che accade, ma ci dice piuttosto qualcosa su abitudini intellettuali d’origine novecentesca che sarebbe ora di abbandonare. Come ha scritto  bene Davide Grasso “certa critica teorica, in ambito accademico e “militante”, ha scelto di ritagliare per sé il vezzo esclusivo ed escludente del negativo puro: si limita ad analizzare le dinamiche di potere, chiamandosi fuori dal problema decisivo che esso rappresenta anche per la trasformazione.” Negli ultimi interventi di Agamben trovo, in particolare, un esempio di disinformazione, miopia e narcisismo intellettuale. Disinformazione, perché Agamben ha continuato a non basarsi su un’analisi approfondita dei dati (epidemiologici, giuridici, economici, ecc.) per corroborare le proprie analisi; miopia, perché ha applicato un concetto inadeguato per caratterizzare una situazione obiettiva di emergenza senza entrare nella questione dei provvedimenti di governo che sarebbero stati a suo avviso migliori per affrontarla; narcisismo, perché il concetto di “stato di eccezione” appartiene al repertorio teorico su cui Agamben ha costruito la sua figura di filosofo anti-sistema, per cui il suo intervento sembra mosso piuttosto dalla volontà di confermare i propri discorsi che di capire qualcosa di ignoto, come invece tentano di fare altri studiosi e scienziati – col risultato di convergere con le posizioni più becere degli anarchisti epidemiologici e dei complottisti. Per capire la portata di questo modello negativo nelle attuali circostanze è interessante notare che lo stesso disprezzo della scienza si trovava, in un post di novembre, applicato al tema dell’emergenza climatica. Qui Agamben sosteneva che Greta Thunberg “crede ciecamente in quel che gli scienziati profetizzano e aspetta la fine del mondo nel 2030”, cioè appartiene a un fenomeno religioso, millenaristico, come altri “fedeli” della scienza. Non voglio sostenere un’immagine della scienza come fonte di certezze inconfutabili (quale invece la considera Agamben), né difendere “gli scienziati” dall’indagine critica sulle scienze, che è oggetto del mio lavoro di ricerca da oltre vent’anni. M’interessa al contrario il metodo scientifico in quanto procedura per ridurre (ma non eliminare) l’incertezza in base a evidenze accessibili a tutti. Il punto è che Agamben argomenta le sue tesi con affermazioni altisonanti prive di giustificazione. Per esempio: “la funzione escatologica” dei profeti, “che la chiesa ha lasciato cadere”, è “stata assunta dagli scienziati”. La scienza “si è sostituita alla fede”, è “la religione del nostro tempo”. Greta Thunberg “crede ciecamente”. E d’altra parte, “le proprie scelte e le proprie ragioni […] in ultima analisi non possono essere che politiche”. Il tutto è formulato con un tono auratico, da uno scrittore che si sente autorizzato a “mettere in guardia” i propri lettori dal “dispositivo” dell’escatologia propinato dalla religione scientifica che “rafforza la fede” e “assicura la classe sacerdotale”. Nel pensiero di Agamben ricorre questo procedimento di generalizzare un tema invocando “archeologie” e “dispositivi” (secondo lo stile di Foucault) o etimologie latine e greche (secondo lo stile di Heidegger), senza preoccuparsi abbastanza di esaminare le circostanze storiche e i contesti disciplinari dei problemi che di volta in volta esamina, mentre la “scienza” resta sempre e soltanto un dogmatismo non pensante. Così lo stesso Agamben – e il discorso varrebbe anche per molti suoi modelli, anche sedicenti intellettuali “illuministi” – finisce con l’assumere toni e metodi settari e profetici. Questo per me è un tradimento rispetto al compito della filosofia. I filosofi dovrebbero fare chiarezza sul significato dei nostri discorsi, gettare ponti tra i linguaggi disciplinari e quindi studiarli, avere cura di farsi capire sia dagli specialisti, sia dal pubblico di non specialisti. Quando si arroccano nel proprio linguaggio e nelle proprie cerchie di adepti i filosofi si condannano all’irrilevanza, la stessa che poi ogni tanto viene lamentata di fronte alla tendenziale scomparsa delle discipline umanistiche dalle università di tutto il mondo. Se le parole dei filosofi al tempo della pandemia sono un riciclaggio di ragionamenti già fatti, allora sembra preferibile il silenzio; ma la filosofia avrebbe molto da dire sulle questioni epistemologiche, morali e politiche che si pongono oggi, che non possono ridursi a semplici questioni “tecniche” o a sequenze di dati: i dati vanno letti e interpretati, per decidere come la società deve trattare la vita e la morte dei suoi membri. Eppure, nel “comitato” per la ripresa dopo il lockdown non c’è nessun filosofo. Nel modo logicamente sbagliato di fare filosofia che ho esaminato c’è anche una mancanza di empatia: questioni di principio precedono la considerazione concreta di quella stessa vita individuale che Agamben considera il tema principale del suo pensiero. Per esempio, in “Perché non ho firmato l’appello sullo jus soli” Agamben motivava le proprie riserve su un possibile provvedimento di estensione della cittadinanza scrivendo che la cittadinanza è un istituto di diritti e doveri sotto cui l’individuo ricade suo malgrado dalla nascita, cosa che in linea di principio non gli piace; dopodiché resta il “problema” di chi sia senza patria o migrante (inclusi gli italiani senza cittadinanza). Allo stesso modo, Agamben presenta l’emergenza climatica e quella epidemiologica come occasioni per contestare “le autorità” e “gli scienziati”, invece che come un problema concreto per miliardi di persone. Una stessa difficoltà si trova in molti filosofi che stanno riflettendo sul lockdown come sospensione della normalità, come Peter Singer, per il quale non sarà possibile assistere abbastanza persone bisognose senza riattivare il normale funzionamento del sistema economico, per cui “sì, la gente morirà se riapriamo, ma le conseguenze del non riaprire sono così gravi che forse dobbiamo farlo lo stesso”. In questo caso, oltre a riconoscere la necessità di “riaprire” – un dato di fatto abbastanza ovvio – bisognerebbe almeno discutere i principi morali su cui si basa questa conclusione (in questo caso chiarire che si segue una morale utilitaristica) e magari l’ipotesi di cambiare quel sistema per far fronte a una distribuzione del rischio e dei benefici profondamente diseguale. In effetti l’analogia tra pandemia e mutamento climatico, in quanto eventi naturali che mostrano la fragilità e l’insostenibilità del sistema socio-economico globale, ha portato molti a sostenere che il problema non sarebbe tanto “la sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro”, ma proprio quel normale che è stato interrotto. Del resto anche leader neoliberali come Trump e Bolsonaro, per i quali le vite dei cittadini meno protetti sono sacrificabili al progredire del sistema economico, hanno tentato di negare l’evidenza della pandemia presentandola come una diceria esagerata o una macchinazione per affrettare un ritorno alla normalità. Quindi, a quale normalità vogliamo tornare?  Con straordinario tempismo Slavoj Žižek ha interpretato la pandemia del coronavirus come un “colpo al capitalismo” e una svolta storica. Secondo Žižek, mentre il mercato agonizza e i governi statali prendono le redini dell’economia, starebbe emergendo “un nuovo senso comunitario”, “una sorta di nuovo pensiero comunista”. Žižek mi è sempre sembrato un altro esempio di scarso rigore argomentativo e il suo instant book Pandemic! COVID-19 Shakes the World non fa che rafforzare le mie riserve: trovo puerile che parli delle sorti progressive del mondo attingendo soprattutto all’immaginario pop, come quando paragona il coronavirus alla “tecnica dell’esplosione del cuore con cinque colpi delle dita” di Kill Bill di Tarantino, che ucciderà il “sistema del capitalismo globale” in pochi passi. Non si capisce come si realizzerà questa fine del capitalismo con annessa rinascita di un senso comunitario, e perché non dovremmo aspettarci invece una crescita delle disuguaglianze e una guerra di tutti contro tutti. In tutto ciò, nei passi dedicati alla città cinese di Wuhan, la realtà di milioni di persone soggette all’epidemia e alla reclusione è trasfigurata in un’immagine utopica: ……Le strade abbandonate di una megalopoli – i centri urbani solitamente affollati che sembrano città fantasma, i negozi con le porte aperte e senza clienti, solo un pedone o un’automobile qua e là, danno un’impressione di come potrebbe apparire un mondo non consumistico…….. Le immagini e le webcam delle città deserte sono effettivamente sublimi e stranianti e resteranno nella memoria di questo periodo. Da quest’immagine di sospensione della vita, da questo apparente grado-zero della civiltà, intellettuali impegnati contro l’iniquità del sistema e il suo impatto ecologico hanno trovato il punto di innesto per rilanciare le proprie idee. Un esempio è la scrittrice indiana Arundhati Roy, che in un bell’articolo ha raccontato come l’emergenza abbia messo in luce, soprattutto negli Stati Uniti, l’ingiustizia di un sistema sanitario che esclude i più poveri, e come il governo indiano di Narendra Modi l’abbia affrontata con una retorica populista che nasconde la completa inadeguatezza e iniquità della società indiana. Roy ha concluso: …….. La gente si ammalerà e morirà a casa. Potrebbero non divenire nemmeno statistiche. Possiamo solo sperare che gli studi secondo cui il virus prospera nel clima freddo siano corretti (anche se diversi ricercatori ne hanno dubitato). La gente non ha mai desiderato tanto irrazionalmente una bruciante e punitiva estate indiana……. Nello stesso tempo, Roy riconosce che l’arresto della vita ha un suo aspetto di speranza: l’interruzione della normalità produce l’idea che la crisi pandemica possa essere un passaggio verso un altro mondo: ……… Il coronavirus ha fatto inginocchiare i potenti e fermato il mondo come nessun’altra cosa prima. Le nostre menti continuano a correre avanti e indietro, anelando a un ritorno alla “normalità”, cercando di ricucire il futuro con il passato, rifiutandosi di riconoscere la rottura. Ma la rottura esiste. E nel bel mezzo di questa terribile disperazione, ci offre l’opportunità di ripensare alla macchina dell’Apocalisse che abbiamo costruito per noi stessi. Niente potrebbe essere peggio di un ritorno alla normalità. Storicamente, le pandemie hanno costretto gli umani a rompere con il passato e immaginare il mondo daccapo. Questa non è diversa. È una porta, un passaggio tra un mondo e il successivo. Possiamo scegliere di varcarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro pregiudizio, dell’odio, dell’avarizia, le nostre banche dati e le nostre idee morte, i nostri fiumi morti e i cieli pieni di fumo. O possiamo camminarci con leggerezza, con poco bagaglio, pronti a immaginare un altro mondo, e pronti a lottare per esso……. Molti hanno condiviso questo tipo di approccio, immaginando un mondo futuro più povero ma migliore. La scrittrice polacca Olga Tokarczuk, in un articolo intitolato  “Un nuovo mondo dalla mia finestra””, ha scritto che “anche gli animali sembrano in attesa, chiedendosi che cosa accadrà”, e ha ammesso: …….. Per moltissimo tempo ho sentito che c’era troppo mondo. Troppo, troppo veloce, troppo rumoroso […] Mi preoccupo, naturalmente, se penso alle persone che hanno perso il lavoro. Ma quando ho saputo della imminente quarantena ho sentito una specie di sollievo […] Non è forse il caso di tornare a un normale ritmo di vita? Forse il virus non è la distruzione della norma, ma esattamente il contrario – il mondo frenetico di prima era abnorme…….Credo che in queste reazioni bisogna distinguere un aspetto un po’ salottiero da un’esperienza che è importante capire meglio. Per un verso, non dovremmo farci ipnotizzare dall’impressione estetica di azzeramento della storia – i branchi di coyote a San Francisco, le volpi sotto casa mia a Roma, le molte fabbriche ferme – che cospirano col nostro desiderio di un mondo migliore e meno votato alla distruzione dell’ambiente. Considerare la bellezza naturale come la promessa di un ordine morale futuro andava bene fino al Settecento di Alexander Pope e di Kant, quando il capitalismo globale era ancora poco conosciuto e non si parlava di antropocene: il peso della civiltà umana era considerato ancora trascurabile rispetto all’ordine naturale, ma oggi le cose sono cambiate. Il rischio di riaffidarci a queste impressioni è illuderci di vivere nella scena di un film apocalittico dove i fiorellini spuntano sulle strade deserte e nuovamente paradisiache: la catastrofe semmai deve ancora venire, sarà affollatissima e molto diversa a seconda delle finestre da cui la guardiamo. Gli animali non si stanno riprendendo il mondo, come nei filmati del territorio disabitato di Chernobyl. A dire il vero, l’industria alimentare è tra quelle che hanno subito la minore interruzione in questo periodo. Ma, per altro verso, la sospensione c’è, ed è vero quello che scrive Rebecca Solnit in un altro lungo articolo sul coronavirus e la “speranza”: ………… Cose che si ritenevano inarrestabili si sono fermate, e cose che si ritenevano impossibili – l’estensione di diritti e benefici per i lavori, la liberazione di prigionieri, la distribuzione di trilioni di dollari negli Stati Uniti – sono già avvenute…….. Simili osservazioni sono state fatte da Paul Mason, che ha sottolineato come ciò che era “impensabile” per la maggioranza degli economisti e degli investitori si è realizzato: “pagamenti universali, salvataggi statali e finanziamento dei debiti pubblici da parte delle banche centrali sono stati adottati con una rapidità che ha scioccato anche chi normalmente sosteneva queste misure”. Per Mason questo vuol dire che bisogna senz’altro pensare a un mondo post-capitalistico, mentre economisti come Adam Tooze sono più prudenti e osservano che, per giudicare l’efficacia delle reazioni finanziarie alla recessione “senza precedenti” che sta avendo inizio, bisognerà aspettare il diffondersi dell’impatto economico della pandemia oltre i paesi europei e gli Stati Uniti. Tra chi propende per la tesi che la pandemia distruggerà il sistema si ripropone spesso il paragone tra la pandemia e il mutamento climatico come eventi che mostrano i limiti del sistema capitalistico globale. Questo paragone è interessante e va approfondito. Un evento naturale è riuscito laddove la riflessione e la conversazione tra gli uomini hanno fallito ed ha permesso di diffondere un allarme che gli studi sul cambiamento climatico non sono riusciti a far circolare a dovere. Da questo punto di vista, l’epidemia sembra un esperimento sulle limitate capacità cognitive degli uomini, che – come hanno sostenuto psicologi ed economisti – sembrano incapaci di rinunciare a un beneficio immediato in previsione di danni futuri: la rapidità della pandemia forse riuscirà a suscitare un allarme e un ripensamento maggiore di quelli prodotti dal mutamento climatico con la sua lentezza. Questo fa della pandemia un’effettiva possibilità di ravvedimento, che però lascerà traccia solo se amplificata da movimenti culturali e politici di massa. L’immagine di un altro mondo intravista dalla finestra, quindi, potrebbe lasciare traccia o lasciare il tempo che trova. Il ritorno degli animali per le strade e nelle acque dei porti potrebbe restare un episodio suggestivo, ma anche segnalare che la civiltà umana esiste all’interno di una più ampia storia naturale, di cui fa parte lo stesso virus, e che le nostre società hanno a lungo trascurato. È importante, di nuovo, tenere i piedi per terra e consultare gli specialisti: il crollo dei consumi e del prezzo del petrolio greggio e il temporaneo calo dell’inquinamento urbano, che per alcuni preludono a una svolta economica ed ecologica, potrebbero invece risolversi in una maggiore difficoltà a investire nelle economie verdi e in un peggioramento delle disuguaglianze globali. Il crollo del prezzo del petrolio greggio danneggerà i Paesi poveri fortemente dipendenti dall’esportazione e in generale non aiuterà i governi a investire su nuove forme di energia. Come ha scritto Gionata Picchio sulla “Staffetta quotidiana”, “l’emergenza covid, che inevitabilmente dirotta energie e risorse verso il contenimento della crisi sanitaria, è per molti versi la peggiore delle condizioni possibili per affrontare efficacemente le sfide ambientali di lungo termine. Sei mesi fa il principale ostacolo a un accordo vincolante sul clima era la resistenza dei governi, ma le condizioni per raggiungerlo erano comunque assai migliori di oggi”. L’aria di questo inizio di primavera è dolce e pulita, si sente meglio il canto degli uccelli, ma non c’è, per ora, niente da festeggiare. 
Individuo, comunità e modello cinese
“Ci vorrà del tempo, ma ce la faremo ad uscire dal tunnel, e ne usciremo molto migliori di come ci siamo entrati”. Il pensiero che la pandemia potrebbe produrre un miglioramento, che è molto circolato nei giorni del lockdown, ha un significato ambiguo: può riferirsi alla società, come abbiamo visto, ma anche all’individuo. Il rischio, in questo secondo caso, è che diventi un mantra motivazionale e presenti la pandemia come un esame per ottenere una specie di patente morale. Qualcuno ha proposto paragoni moralistici con la guerra, sostenendo che agli italiani si è chiesto solo di restare a casa e non di fare grandi sacrifici, e non sono mancati i momenti di autocelebrazione degli italiani bravi a rispettare le regole, l’inno di Mameli sparato dai balconi e i tweet nazionalistici dei cantanti pop. Di nuovo, qui c’è il rischio di una perdita di contatto con la realtà. Le misure di limitazione del contagio vanno rispettate ed è auspicabile cogliere l’occasione per ricavarne qualcosa di buono. Ma lo slogan #iorestoacasa resta solo e soltanto deprimente. Chi invita a farne un’occasione edificante nasconde la reale ricaduta individuale dell’emergenza sanitaria. Il rischio è proporre di farsi una ragione del malessere e dell’impoverimento dovuti al forzato isolamento dal mondo cercando di essere felici grazie a un processo interiore, lo stesso rischio che si trova negli insegnamenti di chi propone il buddhismo o la filosofia come semplici mezzi per stare meglio. Stare bene è ovviamente uno scopo fuori discussione, che si può perseguire anche con questi mezzi, ma non bisogna dimenticare che il pensiero filosofico – e anche quello buddhista – ha un potenziale di critica della realtà che viene disinnescato se lo si riduce a una tecnica di autoaiuto rivolta all’individuo isolato dal contesto. È importante in proposito ricordare un’obiezione rivolta più volte alla cultura angloamericana del self-help, secondo cui questa favorirebbe l’acquiescenza dell’individuo a una società competitiva e fondata sulla disuguaglianza, senza metterne in discussione i presupposti. Insomma, il messaggio sarebbe: la realtà è questa, non si cambia, migliorati e impara a essere felice lo stesso. Piuttosto che cercare di aumentare la nostra resilienza – come si dice spesso con una parola che sottolinea la capacità di adattarsi ai colpi – la pandemia è un’occasione per riflettere sul nostro rapporto con la società. Il fatto che l’epidemia abbia avuto origine in Cina, da questo punto di vista, ha portato a ripensare a un paese che per secoli è stato un termine di confronto per l’Europa e al tempo stesso sinonimo di una lontananza che indebolisce la nostra capacità di provare empatia e partecipazione morale. Per un verso, la Cina è stata presentata come il regime totalitario che avrebbe inizialmente tenuto nascosta l’epidemia e che in seguito ha tenuto i cittadini in casa con la minaccia della corte marziale. Per altro verso, si è ammirata la disciplina del popolo cinese rispetto alla presunta indisciplina degli italiani. In realtà le cose sono più complesse e sfumate. Come è stato sottolineato, la Cina non avrebbe avuto interesse a insabbiare a lungo l’epidemia, anche se certamente tiene sotto controllo l’opinione pubblica, e alcuni aspetti della gestione cinese del contagio sono stati effettivamente efficaci. Per l’altro verso, molti cinesi hanno ignorato i divieti di circolare nei giorni del Capodanno non meno degli europei (un’amica mi ha mandato foto di cinesi che, beffandosi del lockdown, si facevano selfie vittoriosi a Shangai dov’erano andati per visitare Disneyland – subito dopo chiusa dal governo). Ma c’è in effetti una questione di modelli culturali. Il confucianesimo, che pone tradizionalmente la società prima dell’individuo, è un modello ancora vivo in Cina, che entra in contrasto con la nostra tendenza a privilegiare la libertà individuale. È l’occasione di un confronto con una cultura che da molti anni si avvicina alla nostra, che va fatto tenendo conto che in Cina un certo primato accordato all’ordine sociale è antico quanto il confucianesimo, anche se coesiste con una altrettanto radicata tendenza alla disobbedienza. Un modo per conoscere meglio la cultura cinese è la narrativa. Nella letteratura cinese è molto frequente l’immagine del sacrificio dell’individuo per la collettività, anche tra romanzieri che non si possono considerare affatto portavoce delle idee del governo. In un articolo recente, la sinologa Melinda Pirazzoli offre una interessante rassegna del tema del corpo e del sacrificio individuale nella letteratura dall’epoca maoista a oggi, che conferma questa idea nella sua dimensione carnale. In particolare, nei romanzi di Yan Lianke si trovano racconti sul sacrificio di un vecchio che si seppellisce per permettere la crescita di una pianta in un’epoca di carestia, o di una madre che si uccide per permettere la guarigione dei figli con un decotto delle proprie ossa (i due racconti sono raccolti nel volume I giorni, i mesi, gli anni). Al tempo stesso, come si evince dai romanzi I quarantuno colpi di Mo Yan (2003) e Il sogno del villaggio dei Ding (2006) dello stesso Yan Lianke, la diffusione di una mentalità sempre più dominata dall’arricchimento nella Cina capitalista è percepita come una degradazione della società tradizionale, che si esprime con la contaminazione del cibo e con diffusione di malattie. Si tratta di scrittori e intellettuali particolarmente attenti alle condizioni della popolazione, il cui contributo, oggi, può giocare un importante ruolo in un dialogo interculturale che è solo all’inizio. In questo senso, è interessante leggere i recenti interventi di Yan Lianke sull’importanza della libertà di opinione per la limitazione dell’epidemia, su quella della memoria storica per il futuro bilancio storico sull’accaduto e il suo giudizio severo sugli scrittori che, dalla loro condizione protetta, vedono nella pandemia un momento liberatorio: “assurdi e ridicoli sono coloro che vedono chiaramente la morte e sentono nitido il rimbombo degli spari, eppure descrivono i colpi e le fucilate come petardi di giubilo, presagio di un trionfo immediato”. Ancora più esplicita è stata un’altra scrittrice, Fang Fang, il cui diario da Wuhan, iniziato il 25 gennaio e pubblicato online, racconta la vita quotidiana, celebra l’impegno di medici, addetti alle pulizie e gente comune, ma accusa il governo di non avere reagito prontamente e di aver favorito il diffondersi del contagio. Il diario ha avuto milioni di visualizzazioni e ha ricevuto aspre critiche per il fatto di dare un’immagine negativa della Cina, portando alla temporanea disattivazione del suo account. Si tratta di una lettura adatta a avviare una condivisione interculturale di quell’esperienza che, poco tempo dopo, abbiamo fatto anche in Italia, il cui senso politico – come accade di solito in Cina, anche a causa della censura – è immerso nella concreta testimonianza individuale. In senso più tecnicamente politico, la Cina si è imposta come termine di paragone per i mezzi di controllo dell’individuo che sta dispiegando come misura per arginare il contagio. La perdita di privacy che dipende dal sottoporsi a questi meccanismi di monitoraggio dei movimenti e delle interazioni sociali, che in Cina preesisteva all’emergenza sanitaria, è diventata per forza di cose un tema di riflessione anche da noi. Si tratta oggi di valutare diversi modelli di condivisione di informazioni personali che mettono in gioco in vario modo diritti individuali, ripresentando quell’idea di un monitoraggio occulto che è stata per decenni un modello politico distopico. Nello stesso tempo, il controllo dei movimenti pone la questione più ampia dei confini. Ricordiamo che, nella prima fase dell’epidemia, i ristoranti cinesi in Italia si sono svuotati e molti cinesi sono stati oggetto di violenze in quanto visti come potenziali untori. In poche settimane, ognuno è apparso straniero ad ognuno, e agli italiani è stato ed è tuttora impedito l’accesso a molti paesi. Non è chiaro quando e a quali condizioni sarà di nuovo possibile quella libera circolazione – almeno per noi europei – che con poche eccezioni ha costituito la norma per decenni e sui cui si fonda l’industria del turismo, che nell’ultimo decennio ha coinvolto circa un miliardo di persone all’anno. Come italiani viviamo oggi un’esperienza per noi eccezionale che, fino a pochi mesi fa, era la norma per una cospicua parte di popolazione mondiale, cioè il divieto di accedere liberamente in un altro paese, finanche di chiedere un visto: lo stesso tipo di divieto che ha spinto moltissimi cittadini africani alla migrazione illegale (ed è probabile che la migrazione per motivi economici divenga un motivo sempre più diffuso tra gli italiani). Ancora una volta, non è possibile fare previsioni: le riflessioni potenzialmente suscitate da questa situazione potrebbero sollecitare una nuova presa di coscienza globale e favorire una cultura di maggiore apertura e equità, ma potrebbero anche lasciare il campo a una maggiore chiusura e alla riduzione dell’idea stessa di solidarietà internazionale. Torna fondamentale restare attenti al contesto mutevole senza chiudersi in una discussione falsamente isolata e astratta. A questo proposito il ritorno negli spazi comuni di convivenza e di incontro tra gli individui, prima di tutto quello della scuola pubblica, sarà molto importante: questi spazi rendono possibile un’esperienza collettiva insostituibile, cioè l’incontro tra persone di diverse classi e culture, che vivendo isolati a casa restano entità remote di una comunità immaginaria.
 Epidemia e parole
Pensare l’epidemia vuol dire consultare fonti e statistiche, ma anche fare attenzione all’uso delle parole. In questi giorni mi è venuto in mente, leggendo il Dioniso dello storico delle religioni Károly Kerényi, che “epidemia” voleva dire originariamente l’“arrivo nel paese” di qualcosa in grado di sopraffare: poteva essere una malattia, ma anche un dio, come Dioniso – dio della vita e della morte – che liberava l’io dai vincoli che lo trattengono nella sua esistenza normale. L’epidemia è stata in effetti un evento che ha posto all’attenzione il potere incontrollabile della vita e della morte biologiche – la vita come zoé – sconvolgendo la vita dell’individuo umano – che i greci avrebbero chiamato piuttosto bíos. “Pandemia”, allora, è un’esperienza che sconvolge la vita di tutti. Ho ripensato anche allo sciamano e portavoce degli indios Yanomami, Davi Kopenawa, che accosta le malattie alle parole che “entrano nei pensieri”, presentando entrambi come fattori “patogeni” con cui i Bianchi si erano impadroniti degli indigeni. Se alle malattie si reagisce con le medicine, alle parole messe in circolo dagli invasori – proseguiva Kopenawa – si reagisce con altre parole. La pandemia che stiamo vivendo è in primo luogo una faccenda sanitaria, in cui è importante conoscere le caratteristiche biologiche del virus e la nostra capacità di reagire. È poi una faccenda sociale e politica, in cui ne va delle capacità e dei protocolli di riorganizzazione della società. Ma è anche un evento accompagnato dalla circolazione di parole – come “eccezione”, “normalità”, “crisi”, “miglioramento”, “ripartenza”, “Cina” – e per affrontarlo è importante fare attenzione al senso di queste parole e agli anticorpi culturali che, inavvertitamente, fanno rilasciare nei nostri pensieri.


domenica 26 aprile 2020

Coronavirus ed anziani - articolo di Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa


La Fase Due, tanto attesa e sospirata, sembra davvero avvicinarsi. Sono molte le indiscrezioni sulle modalità che la caratterizzeranno, ma su non poche non mancano fin da ora perplessità e critiche. Fra le anticipazioni più controverse molto spazio sta avendo quella che riguarda il mantenimento, sembra per tempi lunghi, di pesanti restrizioni per gli over settanta, la fascia di età che ha già pagato il prezzo più alto e che quindi ancora si configura come quella più fragile ed esposta. Una scelta, se confermata, che presta il fianco persino a dubbi di costituzionalità e che, al di là della specifica valenza epidemiologica, è rivelatrice di concezioni sociali quantomeno molto discutibili. Il seguente articolo di forte critica offre al riguardo importanti elementi di riflessione ……….

Anziani, fragili e liberi

Articolo di Maria Luisa Boccia (docente di Filosofia Politica presso l’Università di Siena, nipote di Petro Ingrao, è stata parlamentare prima per il PCI e poi per Rifondazione Comunista) e di Grazia Zuffa (psicologa, docente universitaria, membro del Comitato per la bioetica, parlamentare prima per il PCI poi per per il PDS) - Il Manifesto – 19 Aprile

Gli/le anziani/e sono sempre più al centro del discorso sulla pandemia. Dal numero elevato di morti solitarie, senza gesti e parole di conforto e accompagnamento, alle file delle bare, alle molte espressioni di ricordo, tra le prime del Presidente Mattarella, tra le più recenti, di Papa Francesco. Si rende omaggio alle generazioni dei “nonni”, formate dalla guerra e dalla ricostruzione. Memoria per il futuro. Questa cura della memoria contrasta però con l’incuria delle vite. Con “la strage dei nonni”, consumata nelle Rsa, con le tante, troppe, morti, neppure ricordate nei numeri, perché sono avvenute nelle case, senza diagnosi. E contrasta con la realistica ammissione che l’età è un requisito negativo, nella decisione su chi attaccare al respiratore. “Già ora siamo costretti a scegliere chi curare.”, scrive Giuseppe Gristina, in una lettera al presidente della Fnomceo, per ribadire le ragioni della SIAARTI (la Società degli anestesisti e rianimatori) nell’adottare “Raccomandazioni di etica clinica”, per l’ammissione o sospensione dei trattamenti intensivi, nella drammatica emergenza della pandemia. Le decisioni sono prese “in pieno accordo con i familiari” precisa Gristina, ed hanno lo scopo di sostenere chi è “in prima linea”, alleggerendo la responsabilità personale, con l’individuazione di criteri obiettivi di “giustizia redistributiva e appropriata allocazione di risorse”. Questione complessa, questa del rapporto tra salute individuale e salute pubblica (fra il diritto di ciascuno a essere curato nel migliore dei modi possibili e la finalità di salute pubblica di assicurare la migliore tutela al maggior numero di persone); fra responsabilità personale e l’individuazione di criteri obiettivi, generali, presunti equi. Ed è vero che non riguarda solo l’emergenza, ma la normalità. Ridotta, se non risolta, la carenza dei posti di terapia intensiva, è passata in secondo piano anche la valutazione, non secondaria, su quale organismo possa fornire criteri bioetici per decisioni così dirimenti. Resta il fatto che la questione è emersa. Chi è anziano ha minori aspettative di vita, sia come guarigione, sia come tempo guadagnato. Nel bilanciamento costi/benefici, la sua vita vale meno della sua morte. Detta così è dura, ma è coerente con il principio di “appropriata allocazione delle risorse”. E aiuta a svelare quanto sia retorica la commemorazione collettiva dei “nostri” nonni. Se stiamo ai fatti, la pandemia ha prima messo a nudo le carenze di una sanità, basata sugli ospedali, gestiti come aziende anche se pubblici, deprivate di attrezzature, a cominciare dalle più semplici ed indispensabili, con personale sanitario insufficiente e sottopagato. Dopo, ha spalancato le porte delle Case di Assistenza per anziani, abbandonate a se stesse, in tutto e per tutto. Senza criteri minimi di sicurezza e neanche di ragionevolezza: se è vero che in alcune Rsa sono stati trasferiti pazienti contagiati dagli ospedali. Al momento non sappiamo se ci sono responsabilità penali. Ma pesano molto di più quelle politiche. E non possono essere accertate, né tantomeno assolte, dalla magistratura. L’intero sistema sociosanitario si è dimostrato inadeguato e distorto. Invece di garantire la cura, in prossimità e costanza, muovendosi cioè verso chi ne ha bisogno, potenziando i servizi nel territorio, si è andati in direzione contraria. Con il risultato di fare dei luoghi di cura e assistenza una sorta di sistema concentrazionario, divenuto il focolaio ideale per il contagio. Preso nelle maglie di questa rete l’anziano/a è diventato/a simbolo della vulnerabilità umana. Quei vulnerabili intesi come “gruppo a parte”, distinti e distanziati dagli “altri”. Come se ognuno/a di noi non fosse diversamente vulnerabile; esposto/a al rischio e portatore, a sua volta, di rischio per altri. L’anziano/a vulnerabile non è solo la vittima predestinata, già uno stigma pesante. E’ anche il pericolo pubblico da scongiurare, perché a maggior rischio degli “altri”, di ammalarsi gravemente e di pesare sull’assistenza ospedaliera. Ed è perciò oggetto di un “programma particolare”, di percorsi specifici nell’ auspicata “riapertura” del paese alla vita. Quando cioè gli/le altri/e torneranno ad animare gli spazi pubblici, dalle strade ai luoghi di lavoro, ancor più bisognerà proteggere gli/ le anziani/e dal contagio. “Mettendoli/e al riparo anche dall’isolamento e dall’afa”. Così Sandra Zampa, sottosegretaria al Ministero della salute, riassume sul Corriere della sera (14 aprile) le linee guida per la fase 2 della terza età. Prima di lei Ursula von der Leyden aveva ipotizzato il prolungarsi dell’obbligo di restare a casa fino a dicembre, forse oltre. La protezione è il fine, l’obbligo normativo è il mezzo. Come se la casa fosse davvero un rifugio, e non un altro potenziale focolaio del contagio. Soprattutto quando gli/le altri/e che vi abitano torneranno a muoversi, affollandosi nelle strade, nei treni e autobus, nelle fabbriche e negli uffici, nelle scuole, nei centri commerciali. C’è una parte consistente di anziani/e che vive solo/a, o in coppia. Ma sono numerosi i nuclei familiari di genitori e figli/, ed anche con nonni/e. Abbiamo forse dimenticato le tante inchieste sui figli e le figlie che vivono in famiglia, dopo i 30 anni? Con genitori anziani, considerato l’innalzarsi dell’età in cui si fanno. La verità è che la casa non sarà più un rifugio per chi è una risorsa economica, da rimettere all’opera nella produzione e nel consumo. I pensionati e le pensionate sono tanti/e, nonostante l’innalzamento dell’età pensionabile. Ci sono anche i lavoratori e le lavoratrici in età avanzata, che sono però sfavoriti/e rispetto ai più giovani. Più vulnerabili, meno produttivi. Dall’ imperativo “non contare gli anni”, vivi come se tu fossi diversamente giovane, siamo precipitati nel pozzo della segregazione. Del resto, non è la prima volta che la vulnerabilità giustifica la sorveglianza e la restrizione di spazi di vita. Da sempre, alla reclusione e alla vigilanza sono stati sottoposti i soggetti fragili; considerati un rischio per l’ordine sociale, presi come segmenti di popolazione a vario titolo “disabili”, sui quali sperimentare i dispositivi del bio-potere, combinando presa in carico e disciplinamento. Sempre in ragione dell’interesse e benessere collettivo. Per la prima volta l’esperimento coinvolge una generazione, senza distinzioni di classe, di sesso, di appartenenza a un territorio. Almeno in apparenza. Dietro lo stesso divieto, la realtà delle disuguaglianze continua a determinare le vite. Ma il nascondimento più profondo è un altro. Quello di fare del potenziale contagiato l’untore, il pericolo per la salute pubblica. Trasgressori e trasgressive saranno additati/e alla riprovazione collettiva: minacciati/e, denunciati/e, multati/e da solerti funzionari di Stato. Succede già. E’ possibile, ed auspicabile, che un programma di protezione, basato sulla reclusione, sollevi dubbi e riserve in termini di opportunità ed efficacia. Ma è grave che la proposta non abbia subito suscitato un coro di rifiuti. Eppure, si tratta di una violazione di libertà costituzionalmente garantite, non giustificata dalla necessità di tutelare la salute pubblica. L’intento dichiarato è infatti quello di tutelare la salute personale, anche contro la volontà dell’anziano/a. In breve, di “violare la libertà di cittadini adulti, capaci di scegliere per sé cosa fare e cosa rischiare”, come denuncia Vladimiro Zagrebelsky (Stampa, 14 aprile). Eppure un’alternativa ci sarebbe: informare correttamente sui rischi, offrire a chi ne ha bisogno sostegni adeguati. Da tempo proprio nella pratica medica si è adottato un orientamento opposto, ed il consenso informato è diventato una condizione preliminare ad ogni trattamento medico. I cittadini/e possono rifiutare le cure, anche quelle salva-vita, e possono indicare in anticipo la loro volontà in merito. E la Corte Costituzionale ha aperto all’ipotesi di poter richiedere il suicidio assistito medicalmente assistito, anche se non è ancora normato. Di colpo è come se spazzassimo via tutto, tornando alla logica vecchia della presa in carico da parte del potere, investito della decisione su vita e morte, salute e sicurezza. Si pretende che lo accettiamo in nome dell’emergenza? No, fermatevi. Questa soglia non va varcata. Non è un appello, E’ una dichiarazione di resistenza. Ci opporremo in tutti i modi che troveremo per farla rispettare.

venerdì 24 aprile 2020

Vaccino coronavirus - Speranze e problematiche. Articolo della rivista "Le Scienze" proposta da Antonietta Fonnesu


Gran parte delle speranze di risolvere in modo più risolutivo la pandemia covid19 è affidata alla scoperta di un vaccino, sicuro ed efficace. Le notizie che circolano al riguardo sono confuse e alternano ottimismo a cautela. Il seguente articolo, proposto da Antonietta Fonnesu, fa un interessante a articolato punto, innanzitutto tecnico, della attuale situazione ed al contempo invita a tenere in grande considerazione anche gli aspetti di gestione politica della distribuzione equa dell’auspicato vaccino

Come far arrivare a tutti
un vaccino contro il coronavirus
Articolo di Roxanne Khamsi Rivista “Le scienze”

Trovare un vaccino contro COVID-19 non basterà a fermare la pandemia se non sarà prodotto e distribuito in modo da garantire una copertura globale, e non solo nei paesi più ricchi. Gli ostacoli da superare riguardano la strategia di produzione, che dipende dal tipo di vaccino prescelto, il finanziamento delle spese - stimate in un minimo di 3 miliardi di dollari - e il varo di accordi internazionali contro gli accaparramenti



Mentre il mondo cerca un modo per mettere fine alla pandemia di coronavirus, è iniziata la gara per trovare e produrre un vaccino. Alcune previsioni ottimistiche suggeriscono che potrebbe esserne disponibile uno tra 12-18 mesi, ma gli esperti già ammoniscono che forse non sarà possibile produrre abbastanza dosi per tutti e che i paesi ricchi potrebbero accaparrarne le scorte. Gli impianti necessari per la produzione dipenderanno da quale tipo di vaccino si dimostrerà più efficace. Alcuni ricercatori sostengono che governi e finanziatori privati dovrebbero sovvenzionare in anticipo i produttori di vaccini perché aumentino la propria capacità di produzione, anche se magari quegli impianti non saranno mai usati. Finanziamenti in questo senso sono stati promessi, ma l’offerta si ferma ben al di sotto dei miliardi di dollari che sono necessari secondo gli esperti di salute pubblica. Sarà anche necessario bilanciare le risorse per il coronavirus con il bisogno di altri vaccini. Gli impianti di produzione in tutto il mondo riescono a sfornare ogni anno centinaia di milioni di dosi di vaccini contro l’influenza e le aziende sono abituate ad aumentare la produzione nei periodi di maggiore richiesta. Ma se miliardi di persone avranno bisogno di un nuovo tipo di vaccino contro il coronavirus e le aziende continuano a produrre la solita gamma di vaccini contro influenza, morbillo, parotite, rosolia e altre malattie, i livelli di produzione possono rivelarsi carenti, dice David Heymann, specialista di malattie infettive alla London School of Hygiene and Tropical Medicine e a capo di un comitato consultivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per le emergenze connesse a malattie, come la pandemia di COVID-19. L’OMS afferma di lavorare anche a un piano per garantire la distribuzione equa dei vaccini, ma non è chiaro come lo si potrebbe imporre nella pratica. “Durante una pandemia, l’ultima cosa che vogliamo è che i vaccini siano accessibili solo ai paesi che li producono e non in modo universale”, sostiene Mariana Mazzucato, un’economista che dirige l’Institute for Innovation and Public Purpose allo University College di Londra. I limiti di approvvigionamento, sia fisici che politici, sono una “grande preoccupazione”, concorda Seth Berkley, che dirige GAVI, the Vaccine Alliance, un’organizzazione pubblico privata senza fini di lucro con sede a Ginevra, il cui obiettivo è di aumentare l’accesso alle vaccinazioni in tutto il mondo. Una delle grandi sfide per produrre grosse quantità di vaccino in poco tempo è il passaggio alla produzione su larga scala, perché le infrastrutture necessarie sono diverse a seconda del tipo di preparazione da produrre. Il vaccino potrebbe essere una versione indebolita o inattivata del coronavirus, oppure una parte di una sua proteina di superficie o ancora una sequenza di RNA o DNA, iniettata nel corpo all’interno di una nanoparticella o di un altro virus, lper esempio quello del morbillo. Potrebbe essere necessario coltivarlo in vasche di cellule, crearlo con una macchina che sintetizza RNA o DNA, o addirittura farlo crescere su piante di tabacco. Se a dimostrarsi più efficaci saranno i vaccini messi a punto a partire da forme inattivate di SARS-CoV-2, dovrebbe essere più facile stimare che cosa serve per produrne tante dosi, perché la tecnologia industriale per questo processo esiste almeno dagli anni cinquanta, afferma Felipe Tapia, che studia ingegneria dei bioprocessi all'Istituto Max Planck di dinamica dei sistemi tecnici complessi di Magdeburgo, in Germania. Ciò detto, la produzione e la purificazione del virus SARS-CoV-2 intero ad alte concentrazioni può richiedere impianti con livello di biosicurezza 3 certificato. Queste strutture sono rare, continua Tapia, e forse è per questo che pochissime aziende stanno portando avanti tentativi con questo approccio. Sono oltre una decina le aziende che esplorano la possibilità di iniettare nel corpo formulazioni di RNA o di DNA che spingerebbero le nostre cellule a produrre una delle proteine usate dal SARS-CoV-2. “Le piattaforme RNA e DNA possono comportare un processo più semplice, per cui è probabile che sia più facile iniziarne una produzione su larga scala”, sostiene Charlie Weller, a capo del programma vaccini di Wellcome, un ente che finanzia la ricerca biomedica a Londra. Però finora nessun vaccino basato su questo approccio è stato approvato per l’uso negli esseri umani, per nessuna malattia. Un’azienda che sta conducendo sperimentazioni su questa linea è Moderna, con sede a Cambridge, in Massachusetts, che a metà marzo ha iniettato a un volontario il primo vaccino sperimentale a RNA contro il coronavirus; un’altra è CureVac, a Tubinga, in Germania, che afferma di avere a disposizione gli impianti necessari per produrre fino a 400 milioni di dosi l’anno del suo vaccino a RNA. Entrambi i tentativi hanno ricevuto fondi dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un fondo di finanziamento con sede a Oslo, lanciato nel 2017 in forma di alleanza globale per finanziare e coordinare i vaccini in caso di epidemie. CEPI ha annunciato sovvenzioni anche per altri sei gruppi di ricerca sui vaccini, tra cui una collaborazione che intende rielaborare un vaccino contro il morbillo in modo che produca all’interno del corpo una proteina immunizzante contro il SARS-CoV-2. Come spiega Marie Paule Kieny, virologa e direttrice della ricerca all’INSERM, l’istituto nazionale francese per la ricerca biomedica, se questo metodo avesse successo forse si potrebbero usare gli impianti di produzione del vaccino contro il morbillo per preparare quello contro COVID-19. E’ però probabile che sarebbe necessario aumentarne la capacità, per evitare di interferire con il loro scopo originario, avverte la virologa. Altri elementi del processo produttivo potrebbero creare colli di bottiglia. I vaccini “a subunità”, composti da una proteina di SARS-CoV-2, o da un frammento chiave di una di queste proteine, spesso hanno bisogno di adiuvanti, molecole aggiunte per aumentare la risposta immunitaria. Questi possono richiedere ingredienti che durante una pandemia possono scarseggiare, per esempio lipidi specifici, afferma Jaap Venema, direttore scientifico di US Pharmacopeia (USP), un ente non governativo di Rockville, nel Maryland, che collabora a determinare gli standard di qualità dei farmaci. Un’altra idea per produrre i vaccini in fretta è quella di usare le piante. In aprile, il grande produttore di sigarette British American Tobacco (BAT) ha annunciato che intende coltivare vaccini (sviluppati dalla sua controllata Kentucky BioProcessing) nelle piante di tabacco a crescita rapida. Venema fa però notare che questi prodotti vaccinali a base vegetale sono sottoposti a vincoli normativi aggiuntivi, per esempio il rispetto delle regole sugli organismi geneticamente modificati, per cui potrebbe rivelarsi molto difficile velocizzare il processo. Una domanda aperta riguarda come assicurare che i governi di tutto il mondo e le aziende investano abbastanza fondi adesso perché i vaccini si possano produrre rapidamente nel 2021. La CEPI afferma che per sviluppare i vaccini candidati e produrne la quantità necessaria per le sperimentazioni sono necessari fondi per almeno due miliardi di dollari a livello globale, dei quali finora i governi nazionali hanno promesso 690 milioni. Quando si sarà individuato un vaccino efficace contro SARS-CoV-2, sarà necessario un altro miliardo di dollari per produrlo e distribuirlo a livello mondiale, aggiunge CEPI. Ma potrebbe rivelarsi necessario stanziare molti altri miliardi di dollari per aiutare le aziende ad aumentare la propria capacità produttiva, anche se questa alla fine potrebbe rimanere inutilizzata, ha osservato all’agenzia di comunicazione STAT l’amministratore delegato di CEPI Richard Hatchett. Anche il filantropo miliardario Bill Gates, codirettore della Bill & Melinda Gates Foundation di Seattle, sostiene che le strutture vanno costruite in anticipo. Gates ha dichiarato alla stampa statunitense che la sua fondazione avrebbe contribuito a finanziare questo approccio  “semplicemente per non perdere tempo” finché non sapremo quale piattaforma sarà la più efficace per il vaccino. Però la Gates Foundation non ha fornito altri dettagli quando è stata contattata per questo articolo. Un’azienda che si è assicurata un grosso investimento è il gigante farmaceutico Johnson & Johnson, che a Marzo ha annunciato una collaborazione con la Biomedical Advanced Research and Development Authority del governo degli Stati Uniti per il valore di un miliardo di dollari, con l’obiettivo di sviluppare un vaccino basato su una versione modificata di un adenovirus. Il progetto include un piano per aumentare rapidamente la capacità produttiva, con l’obiettivo di “offrire una fornitura globale di oltre un miliardo di dosi di vaccino”. (In una prima indicazione di prezzo, Paul Stoffels, direttore scientifico dell’azienda, ha ipotizzato che in teoria il vaccino potrrebbe costare circa 10 dollari o 10 euro a dose.) Ohid Yaqub, ricercatore sulle politiche sanitarie all’Università del Sussex a Brighton, nel Regno Unito, afferma che i governi potrebbero aiutare i produttori di vaccini a prepararsi per il futuro indicando quante dosi intendono acquistare e a chi raccomanderanno la vaccinazione. Un passo ulteriore sarebbe quello di stabilire quelli che si chiamano impegni anticipati di mercato, ossia di impegnarsi all’acquisto di farmaci a un prezzo specifico prima che il  vaccino sia approvato, come è avvenuto per la distribuzione del vaccino antipneumococco ai bambini attraverso GAVI. Berkley e altri sostengono anche che alcuni paesi donatori potrebbero vendere obbligazioni agli investitori per finanziare i vaccini per le popolazioni che non se li possono permettere. Anche questo approccio è già stato impiegato con successo:  l’International Finance Facility for Immunisation (IFFIm) l’ha usato per raccogliere i fondi per i vaccini somministrati da GAVI ai bambini. Però, anche producendo il vaccino in grandi quantità, non sembra ci sia modo di obbligare i paesi a condividerlo. Durante la pandemia di influenza H1N1del 2009, l’Australia fu tra i primi a creare un vaccino, ma non lo esportò subito perché prima voleva assicurarsi di avere le dosi per i suoi cittadini, dice Amesh Adalja del Johns Hopkins Center for Health Security di Baltimora, nel Maryland. “Quasi tutti i paesi hanno in vigore leggi che permettono al governo di obbligare i produttori a vendere internamente, e non prevedo che le cose cambino”, spiega.  CEPI afferma che ancora non c’è un accordo sui principi o sulle regole per un sistema di distribuzione equa che si possa incorporare nei contratti e che sia applicabile e attuabile in maniera uniforme. Non esiste neanche un ente globale responsabile di ordinare e pagare la produzione di vaccini su scala mondiale. “Questa è una sfida che i governi, i leader sanitari mondiali e i legislatori devono affrontare con urgenza e collettivamente mentre continua lo sviluppo del vaccino contro COVID-19”, afferma Mario Christodoulou, direttore delle comunicazioni di CEPI. In passato l’OMS ha cercato di intervenire per far sì che le scorte di vaccino fossero divise equamente, afferma Alexandra Phelan, del Center for Global Health Science and Security della Georgetown University a Washington DC. Dopo l’insorgere dell’epidemia di H5N1 in paesi come la Cina, l’Egitto e l’Indonesia, gli stati membri dell’OMS adottarono una risoluzione chiamata Pandemic Influenza Preparedness (PIP) Framework. Ai sensi dell’accordo PIP, i paesi forniscono campioni di virus a una rete di laboratori coordinati dall’OMS, con l’intesa che in caso di pandemia influenzale l’organizzazione ne terrebbe conto per l’accesso alle scorte OMS di vaccini, strumenti diagnostici e farmaci. Tuttavia l’accordo PIP è pensato per l’influenza e quindi non si applica all’attuale epidemia di coronavirus. Le nazioni potrebbero arrivare a un accordo simile al PIP anche per la pandemia attuale, ma è molto improbabile che una bozza di accordo sia pronta in tempo per l’Assemblea mondiale della sanità in programma a maggio, quando gli stati membri dovrebbero votarla. Inoltre, dato che SARS-CoV-2 è già ampiamente in circolazione, non è chiaro se un accordo di questo genere potrebbe funzionare, perché i produttori di vaccini hanno già accesso ai campioni di virus provenienti dai laboratori privati, afferma Phelan. È possibile che per quando ci sarà un vaccino gran parte del mondo sarà già stato infettato dal nuovo coronavirus. Anche in quel caso, però, molti potranno volere il vaccino per migliorare l’immunità. E pensare ad assicurare una sufficiente capacità di produzione dei vaccini per qualsiasi epidemia futura continua a essere di importanza vitale, sostiene Yaqub. “Il pensiero di come produrre vaccini in modo efficiente, affidabile e sicuro ci sarà sempre – afferma – anche se non riuscissimo a ottenere un vaccino contro il coronavirus o se trovassimo altri modi per affrontarlo.”
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(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su "Scientific American" il 9 aprile 2020 Traduzione di Francesca Bernardis, editing a cura di Le Scienze)

martedì 14 aprile 2020

Il "Saggio" del mese - Aprile 2020


La scelta del "Saggio" per questo mese di Aprile è stata fatta prima della scoppio della pandemia da coronavirus. Lo scopo della scelta era, al tempo, legato alla necessità di rivedere le idee guida della politica utili a meglio affrontare l’emergenza climatica ed ambientale, e questo testo offre utili indicazioni per riconsiderare il rapporto dell’uomo in generale, dell’economia e della politica in particolare, con il pianeta Terra, con il “mondo”. Ma soprattutto delinea un quadro organico entro il quale acquistano senso e direzione le indicazioni fornite che, come si avrà modo di vedere, poggiano in buona misura sulla comparsa in scena di un elemento finora assente nel processo storico della civiltà umana. Questo elemento viene denominato da Bruno Latour (sociologo, antropologo e filosofo francese, docente presso l’Istituto di Studi Politici di Parigi), autore del saggio, come “il terrestre” intendendo con esso l’irruzione nelle vicende umane della reazione, climatica ed ambientale, del pianeta Terra alla selvaggia occupazione e sfruttamento da parte dell’uomo. L’acquisita conoscenza della vera origine delle pandemie virali, coronavirus compresa, che consiste nell’aver ampliato a dismisura, proprio con questa occupazione e sfruttamento, le possibilità di entrare in contatto e di diffondere virus e batteri letali, ci autorizza ad inserire nei fenomeni denominati  “il terrestre” anche le pandemie, covid19 in primis
Il “Saggio” del mese
 APRILE 2020


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Tre processi hanno, con altri, dato una precisa direzione alla globalizzazione neo-liberista: l’intreccio tra lo svuotamento, quando non la totale cancellazione, delle “regole” che sin lì avevano normato il gioco tra politica ed economia, primo fenomeno, l’esplosione crescente, delle disuguaglianze economiche e sociali, secondo fenomeno. Ambedue questi aspetti sono stati da molti già riconosciuti ed analizzati. Meno attenzione ha invece avuto il rapporto con il terzo fenomeno: l’avvio della parallela sistematica negazione del cambiamento climatico. Un rapporto che, se riconosciuto e valutato in tutte le sue implicazioni, dimostra che una parte delle élite economiche e politiche ha scientemente deciso non solo di continuare a perseguire le logiche di profitto alla base della globalizzazione, ma persino di abolire l’idea stessa di ….. un mondo comune da condividere ……..  e di attuare una sorta di fuga da quella di …… terra mondo …… Si impone conseguentemente a tutti coloro che si oppongono ai questo stato di cose di avere come obiettivo il …… ritorno alla Terra, al (ri)toccare terra da qualche parte …….
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Un salto in avanti che, paradossalmente, si è reso più comprensibile grazie alla decisione degli USA di Trump di uscire dagli accordi della Cop 21 di Parigi, dichiarando senza mezzi termini, in sintonia con lo slogan di Bush padre lanciato in quella di Rio del 1992: “lo stile di vita americano non è negoziabile”, che USA e resto dell’umanità non abitano la stessa terra. Questa svolta tanto drammatica quanto chiarificatrice è avvenuta nel momento in cui ha preso sempre maggiore consistenza una delle più pesanti conseguenze dei tre processi di cui si è detto: le migrazioni di massa in tutto il pianeta. Proprio la Cop 21, al di là degli obiettivi e degli impegni assunti, ha rappresentato la presa di coscienza da parte di un significativo gruppo di paesi del fatto che l’intera umanità rischiava di migrare verso una Terra tutta da definire e (ri)costruire, e che la ……. globalizzazione rischiava di non avere più un globo …….. Un quadro sempre più vicino che chi condivide il negazionismo trumpiano può solo sperare di ritardarne di qualche inutile anno l’esito finale
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Chi al contrario ancora non si rassegna e in qualche modo intende reagire deve partire proprio dalla constatazione che ……. la nuova universalità politica è sentire che il suolo sta venendo meno ……. che non esistono frontiere per il cambiamento climatico, l’erosione delle terre fertili, l’inquinamento, l’esaurimento delle risorse, la distruzione dell’habitat ambientale. Tutto questo sta determinando, seppure in forme e modi spesso contradditori, l’esigenza di riacquisire protezione, sicurezza, riassicurazione. Una esigenza che da una parte guarda al locale, ossia alla più immediata e naturale dimensione per ….. rimanere attaccati a un suolo ……, ma al tempo stesso realizza che qualunque siano le soluzioni possibili queste non possono non essere che globali.
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Difficile al contempo non scontrarsi con il peso negativo che il termine “globalizzazione” inevitabilmente porta con sé, con il rischio che, come istintiva reazione, prevalga solo una versione miope e chiusa del “locale”. E’ esattamente in questo solco, nella inderogabilità di ridefinire sia il locale che il globale, che sta la sfida che la politica deve raccogliere e risolvere. Le finalità di massima da perseguire sono quella di dare alla sin qui conosciuta globalizzazione univoca degli interessi economici di profitto una contrapposta accezione di plurale, in grado cioè di contenere più esigenze e sensibilità, e quella, strettamente collegata, di sostituire una idea  arcaica di locale non meno univoca con una altrettanto  plurale  perché aperta e attenta alle valenze generali che devono innervare il ritorno ad ogni singolo suolo, alla specifica comunità e cultura storica. Un termine può tenere insieme queste due prospettive contrapponendosi ai rispettivi rischi ……. mondializzazione plurale …….  Un termine capace di far capire che la Terra è al tempo stesso troppo piccola e limitata per la globalizrzazione univoca e troppo grande, dinamica e complessa per essere contenuta in frontiere ristrette e limitate.

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Un primo decisivo passo consiste nel ridefinire la nostra idea di “Terra”, nel ricostruire il rapporto, in ambedue le direzioni, tra essa e l’ “umanità”. Aiuta in questa direzione la crescente drammatica presa di coscienza che …… sotto il suolo della proprietà privata, dell’accaparramento e dello sfruttamento delle terre, un altro suolo, un’altra terra si è messo a rumoreggiare, a tremare, a scomporsi ….. ovvero che la Terra ha smesso di incassare colpi e che ha iniziato a restituirli. Segnali che sono stati perfettamente colti anche dai negazionisti, la cui scelta, precisa e cinica, di negarli è totalmente strumentale al mantenimento degli attuali rapporti di forza e di posizione dominante. Non siamo di fronte ad una ordinaria controversia fra opposte valutazioni scientifiche, il mondo della scienza si è infatti unanimemente espresso in modo chiaro al riguardo. Una prova fra le tante: negli anni Novanta la compagnia petrolifera Exxon Mobil acquisisce, da gruppi di studio da lei stessa attivati, la certezza della direzione del cambiamento climatico; la risposta è però stata quella di attivare massicci investimenti per aumentare il più possibile una estrazione “frenetica” di petrolio, e contemporaneamente di finanziare una campagna, altrettanto frenetica, a sostegno delle tesi negazioniste.
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Dietro questa criminale falsificazione sta però un’idea di suolo, di “Globo”, che ha ispirato da sempre tutta l’azione umana guardando alla Terra come ad un “bene” di suo esclusivo utilizzo. Uno sguardo al tempo stesso spaziale, che altro è la cartografia se non la traduzione della conformazione terrestre in mappe atte ad attuarne la conquista?, e temporale, con una freccia del tempo costantemente rivolta verso l’avvenire incurante di quanto restava alle spalle. La direzione della storia è stata, fin qui, sempre la stessa, ci sono stati ostacoli, ritardi, problemi, ma non si è mai dato un autentico ripensamento. Una sorta di mappa schematica può tradurre questo procedere umano
Bruno Latour inserisce nel testo, in sintonia con il suo “tracciare la rotta” ed al fine di rappresentare in modo schematico quelle sin qui seguite, alcune figure graficamente non riproducibili nello stesso formato in questa sintesi. 

L’intera storia umana si è mossa seguendo una dinamica fra locale e globale guidata da due poli di attrazione: il locale da modernizzare (ATTRATTORE 1) e il globale della modernizzazione (ATTRATTORE 2), quello indubbiamente vincente. Il fronte della modernizzazione si è così costantemente spostato in avanti, verso l’Attrattore 2, ma solo a partire dalla Rivoluzione industriale, grazie al crescente supporto della tecnologia, ciò è avvenuto con una velocità impressionante, e solo a partire da allora assumendo il carattere “univoco” delle logiche di profitto capitalistiche che ha via via egemonizzato l’intero pianeta.  A lungo infatti sia il locale che il globale avevano mantenuto un carattere “plurale”’ all’interno del quale si sono potute manifestare le varie culture e civiltà. Questa trasformazione “univoca”  della modernizzazione non poteva non avere riflessi anche sul “locale” che, costretto a difendersi dallo strapotere della mondializzazione, ha via via a sua volta accentuato un contrapposto carattere altrettanto univoco …… quello che promette tradizione, protezione, identità, presunte certezze all’interno di frontiere nazionali o etniche ….. Una prospettiva di fatto ormai irrealistica ma che, soprattutto nei momenti di crisi economica e sociale, diventa ancora attrattivo per opinioni pubbliche frastornate dalla rapidità e profondità delle crisi economiche e sociali. In questo quadro tendenziale si è di fatto articolato  lo stesso confronto fra sinistra e destra che, restando però……. ambedue collocate lungo lo stesso vettore verso la modernizzazione …….. hanno su singoli specifici, e transitori, aspetti difeso alternativamente posizioni di appoggio al locale piuttosto che al globale. Solo in tempi recenti si è reso evidente, in tutta la sua drammatica rilevanza, quanto sia altrettanto irrealistica ed insostenibile anche questa infinita corsa in avanti verso un orizzonte modernizzato globale univoco. E pur tuttavia essa procede ancora inarrestabile come se una terza forza attrattiva fosse entrata in gioco falsando, piegandola, la freccia del tempo e rendendo obsolete tutte le vecchie definizioni di locale/globale, destra/sinistra, passato/avvenire …….. bisogna mappare tutto di nuovo, e in più farlo con urgenza ……. Bisogna (ri)tracciare la rotta ……. 


Tenendo conto ormai il vecchio ATTRATTORE 1 ha perso il suo carattere LOCALE trasformato in un LOCALE UNIVOCO e l’ATTRATTORE 2 ha completato il suo percorso divenendo la MODERNIZZAZIONE GLOBALE UNIVOCA, e queste due trasformazione sono avvenute sotto la spinta di un nuovo ATTRATTORE 3 che si deve definire per avere contezza del processo
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Paradossalmente un aiuto per arrivare a comprendere e definire questo terzo attrattore viene dalla decisione di Trump (il trumpismo è innovazione politica da prendere molto sul serio) di far uscire gli USA dagli accordi di Parigi. Il velo è caduto e l’arroganza di Trump è solo la veste assunta dal negazionismo assurto a credo politico ……. per la prima volta il negazionismo definisce l’orientamento della vita pubblica di un paese …….. e del paese più ricco e che di più contribuisce, per i volumi di consumo legati all’”american way of life”, al disastro ambientale. L’originalità del trumpismo, l’aspetto cioè che richiede la massima attenzione e che è in evidente sintonia con quanto si è detto del rapporto locale/globale, consiste infatti nell’aver coniugato una “fuga in avanti”, verso il massimo di sfruttamento del Globo, con una correlata “fuga all’indietro”, verso categorie nazionalistiche ed etniche. Certo è che riconoscere questo “aiuto” del trumpismo rivela l’incapacità, l’impotenza, della “politica” in generale, così come si finora mossa verso questo ordine di problemi, di governare l’attuale fase storica, tragicamente non più comprensibile e gestibile con le categorie politiche classiche.
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Che nome dare allora a questo terzo attrattore per meglio comprendere la sua capacità di incidere sul corso della storia? …… chiamiamolo per il momento “il Terrestre” ……. Con la T maiuscola per evidenziare che si tratta al tempo stesso di un concetto e di un attore politico. Non va identificato con la Terra perché a differenza di questa non è più solo lo scenario, lo sfondo, dell’agire umano, il prefisso “geo” di geo-politica. Definisce innanzitutto, nella sua accezione negativa di “attrattore 3” del precedente schema, la scelta consapevole delle logiche di profitto di “accelerare”, vista la loro finitezza, l’utilizzo forsennato del suolo, del Globo. E definisce allo stesso tempo la reazione che la Terra da tempo, ma in modo sempre più evidente e pesante, sta manifestando verso queste azioni degli uomini. Il Terrestre attesta la fine della separazione fra la geo-grafia fisica e la geo-grafia umana, la scomparsa dello “spazio terrestre” come elemento distinto …… il Terrestre non è più la cornice dell’azione umana ma a questa esso prende attivamente parte ……. E’ in sostanza l’atto di nascita della “geo-storia”, di una nuova storia perché non esiste alcun precedente alla situazione attuale. La quale già si innesta su una situazione incredibilmente favorevole per lo sviluppo della civiltà umana che, fatta la tara ai tempi geologici rispetto a quelli umani, ha potuto, nei diecimila anni circa di quello che ormai viene comunemente definito come “antropocene”, contare su una significativa stabilità geologica e climatica. Il Terrestre sancisce, come conseguenza della  mano dell’uomo, la fine di questa favorevole stabilità. Sta in questo scarto la fondamentale novità con la quale deve, perché ancora non l’ha fatto, misurarsi l’azione politica.
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In effetti negli ultimi decenni del secolo scorso una parte, qua e là nel mondo anche significativa, della politica, ossia i movimenti ecologisti, ha posto la questione ambientale al centro della propria attenzione ed azione. Ad essi va riconosciuto il merito di avere, per primi, tentato di invertire la freccia del tempo e del rapporto con la Terra, e quello di aver “politicizzato” oggetti e temi che prima non facevano parte del dibattito politico. Va però allo stesso tempo riconosciuto che dopo cinquant’anni e più di battaglie la loro guerra è ben lungi dall’essere vinta. Incidono ovviamente molti fattori ma è rilevante, ai fini del tracciare una nuova rotta, evidenziare che il loro dichiarato “essere né di destra né di sinistra” è stato mal posto tanto da divenire una delle ragioni del mancato successo. Mal posto perché il loro, per certi versi comprensibile, tentativo di uscire, nello e per lo specifico della lotta ambientale, dall’infruttuosa opposizione destra/sinistra è stato dai più tradotto nella proposta di un non meglio definito “nuovo centro politico” incapace di far emergere con maggiore chiarezza ed organicità l’idea di una nuova direzione in grado di opporsi all’attrattore 3. Troppe battaglie di nicchia, giocate quasi sempre in difesa, spesso di situazioni tanto nobili quanto marginali. E troppa poca chiarezza sulle ragioni che spiegavano, così creando alternative credibili e condivisibili in quanto praticabili, la necessità di andare oltre le consolidate ragioni di divisione fra i due storici poli politici
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Questo evidente limite dell’esperienza ecologista consente però di iniziare a definire i caratteri distintivi del Terrestre, valutandoli proprio in relazione alla infruttuosa, rispetto agli specifici obiettivi ambientali, antica distinzione fra destra e sinistra.

Se, come si è già evidenziato, la dialettica fra Destra e Sinistra si è svolta con evidenti profonde differenze su molti aspetti costituivi dal punto di vista sociale ed economico, ma sempre ambedue restando sulla rotta del globale da modernizzare, prima, e della modernizzazione globale univoca poi, l’irruzione sulla scena dell’attrattore 3, il Terrestre, l’ha in buona misura svuotata, depotenziata. Come si è detto sta proprio nella insufficiente valorizzazione politica del ruolo del Terrestre il limite principale dei movimenti ecologisti storici, da cui deriva però, di conseguenza, una importante indicazione sulla possibile rotta da seguire. Che consiste nel fatto che se la politica, nella dialettica destra/sinistra, è sempre stata esclusivamente orientata verso “oggetti” umani, il Terrestre impone di ri-orientarla verso il …… territorio ……., concretamente inteso come …… suolo ……. (concetto sul quale Latour tornerà più diffusamente in seguito).  Un radicale spostamento della bussola che consenta di ri-definire una rotta in grado di ……. spostare gli interessi di chi continua a fuggire verso il globale e di coloro che continuano a rifugiarsi nel locale …….. così reclutando, in modo trasversale, soggetti politici che attualmente gravitano sia a destra che a sinistra. E’ evidente che questo confronto è da subito più facile con chi ha come riferimento il “locale”, con loro il collante è fornito dal sentimento di appartenenza ad un territorio, ad un suolo, mentre la divergenza da superare è l’omogeneità etnica, il senso di possesso patrimoniale, la nostalgia fine a sé stessa. Si tratta cioè di far capire che si tratta  …… non  di un ritorno alla terra, ma di un ritorno della Terra ……. Questa stessa considerazione offre peraltro un appiglio importante per relazionarsi anche con chi continua a guardare al globale, per la semplice ragione che il Terrestre dipende certamente dalla terra, dal suolo, ma al tempo stesso è indissolubilmente “mondiale” come lo sono tutte le manifestazioni di reazione della Terra non inquadrandosi in nessuna frontiera, superando ogni identità nazionale. Su queste prime basi, ovviamente da tradurre in passaggi, in tappe, precisamente definite, è possibile iniziare a tracciare una nuova rotta che sappia inserirsi più efficacemente nella classica dialettica destra/sinistra avendo come controparte meglio individuata il ……. Moderno estremo ……. della globalizzazione neo-liberista
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Esistono comunque ragioni di idealità finale che facilitano il dialogo fra sinistra ed ecologismo avendo ……. entrambi l’obiettivo di far cambiare direzione alla storia ……… e avendolo entrambi, fin qui, di fatto fallito,  limitandosi, nella migliore delle ipotesi, a rallentarne il corso. Nella ragione che meglio spiega il rispettivo fallimento sta una seconda preziosa indicazione per tracciare una nuova rotta: questa ragione altra non è che l’assurdo dividersi i campi di azione. Occuparsi, l’uno delle questioni sociali ma in modo restrittivo, miope, e l’altro delle questioni ambientali, ma senza comprendere le differenze sociali nelle loro ricadute, è stato un duplice evidente limite ed errore. Perché l’uno non è stato in grado di fare proprie le sfide ecologiste e perché l’altro non ha saputo vedere nell’ecologia politica una leva anche per la questione sociale? Quali sono le rispettive difficoltà di analisi e proposta che hanno continuato a mantenere una inconsistente opposizione tra conflitti sociali e conflitti ecologici? Come spiegare questa frattura nella comune indignazione collettiva? Conviene partire, per ragioni di più lontana origine storica, dalle fonti del pensiero di sinistra
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La sottovalutazione che la sinistra, il socialismo, ha da sempre avuto della questione ambientale ha radici antiche, che consistono nella stessa idea della divisione della società in “classi”, vale a dire la posizione che queste avevano, hanno, nel “processo di produzione”. Idea legittima e condivisibile ma che non si è mai accompagnata con una messa in discussione della “direzione” del processo di produzione, dell’economia, al punto da convergere, per molti delle sue componenti, verso la stessa modernizzazione univoca. Destra e sinistra in effetti non hanno fatto altro che rivaleggiare per affermarsi come quella più modernizzatrice, più orientata alla crescita, al progresso. Non a caso la sinistra non si è mai preoccupata di ……. spiegare ai popoli in via di modernizzazione in quale mondo il progresso li avrebbe fatti approdare ……. smentendo in questo modo la sua stessa pretesa di visione “materialista” della storia per la semplice ragione che del “mondo” essa aveva, all’estremo opposto, un’idea astratta, idealista. [come chiamare materialista una visione politica che non bada al riscaldamento climatico e che non si preoccupa del rischio di una “sesta estinzione di massa”?] E tutto questo è successo, fino ai nostri giorni, pur avendo sotto gli occhi l’evidenza che il mondo, la Terra, stava cambiando la sua conformazione materiale, stava, per reazione, mutando nel Terrestre. La questione quindi non è tanto quella di capire se le trasformazioni economiche e dei sistemi di produzione hanno più o meno attenuato la divisione in classi, quanto quella di realizzare che …… quella divisione era definita su basi troppo restrittive …….. che non tenevano conto della vera sfera materiale, lasciando molti fuori dal novero delle risorse umane mobilitabili. Da tempo agli evidenti limiti della suddivisione schematica in classi si è cercato di rimediare inglobando valori e culture in aggiunta agli “interessi oggettivi”, operazioni lodevoli ed utili, ma che ancora e sempre si muovono nell’esclusivo campo sociale. Sta in questo limite “genetico” l’incapacità della sinistra di fare sue le tematiche ambientali. [Eppure non sono mancati stimoli interessanti: Timothy Mitchell (politologo inglese contemporaneo) ha ben mostrato che un’economia fondata sul carbone ha permesso a lungo una lotta di classe efficace, messa al contrario in forte crisi dal passaggio al petrolio] Si impone quindi con ogni evidenza l’urgenza, per la sinistra mondiale, di aggiornare la basi che definiscono la lotta di classe orientandole anche verso la geo-logia. Il Ventesimo secolo ha di fatto chiuso l’epoca delle questioni sociali lette solo attraverso la lente dell’economia, il Ventunesimo deve diventare ……. l’epoca della nuova questione geo-sociale …….
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Condividono invece sia la sinistra storica che i movimenti ecologisti una idea di natura non solo non adatta a tracciare una nuova rotta ma spesso foriera di preoccupanti equivoci. Per tentare di definirne una più idonea nel tempo del Terrestre occorre ancora chiedere aiuto alla scienza. Anche alla scienza però, come per la politica, si deve chiedere uno sforzo in più, uno sforzo “epistemologico” diverso, in grado di mutare le modalità con le quali sono stati finora studiati la Terra, il suolo, il Terrestre. Questo sforzo consiste nell’analizzare i fenomeni terrestri non “da lontano”, “dal di fuori”, con lo sguardo che abitualmente si usa per studiare un qualsiasi corpo celeste, ma “da vicino” “dall’interno”, ossia mettendo da subito in stretta relazione le dinamiche che, nell’era del Terrestre, ormai legano in modo indissolubile fenomeni fisici e attività umane. Occorreva cioè da tempo dare maggiore rilevanza all’aspetto che caratterizza la Terra come un unicum: per quanto ci è dato di sapere il nostro pianeta è l’unico che ospita forme viventi che operano attivamente sul suo suolo. L’idea di natura che è fin qui emersa dallo sguardo che la coglie dall’esterno, dal di fuori, è quindi quella di una natura impossibile da politicizzare proprio a causa del …….. limitare l’azione umana in nome delle leggi fisiche indiscutibili di una natura oggettiva …… Con l’inevitabile conseguenza di non vedere granché di ciò che realmente accade alla Terra, al Terrestre, ed in aggiunta di aver, seppure inconsapevolmente, in qualche modo facilitato il gioco della modernizzazione globale oggettivando la Terra, il Terrestre, come ente a sé stante. E’ sempre più tempo invece di ……. conoscere il più freddamente possibile la calda attività di una terra finalmente colta da vicino …….
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Questa idea di natura che la scienza ci ha, per proprie comprensibili ragioni epistemologiche, sin qui consegnato è stata infatti, e non a caso, quella fatta propria dalla politica e, prima ancora, dall’economia che ha, fin dai tempi dei fisiocratici, giudicato la Terra un semplice “fattore di produzione”, una risorsa esterna indifferente all’azione umana. Occorreva invece, ammoniti dalla concreta esperienza storica, recepire il recente ammonimento del biochimico James Lovelock di considerare gli esseri viventi, quelli umani in particolare, come ……. agenti che partecipano pienamente ai processi di genesi e mutamento delle condizioni chimiche e, parzialmente, geologiche del pianeta …….. Se alla scienza è quindi richiesto uno sforzo aggiuntivo rispetto al suo procedere abituale, alla politica si impone invece un cambio di paradigma totale: la natura non è un fattore di produzione esterno, ma un campo vivo di fenomeni che risentono profondamente dell’azione umana. Una concezione della natura che è totalmente innovativa per la sinistra, e solo in parte per i movimenti ecologisti, che però, è bene ripeterlo, non sono stati in grado di valorizzarla portandola alle sue logiche conseguenze,.
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Va peraltro ricordato, restando nell’ambito scientifico, che le discipline coinvolgibili in questo ulteriore sforzo conoscitivo sono quelle meglio preposte a studiare una zona relativamente ristretta del pianeta Terra ossia quella che comprende l’atmosfera ed il “suolo”, ovvero il primo strato della zolla terrestre fino alle rocce madri. In questi pochi chilometri di spessore, in questa …… zona critica …… il Terrestre sta manifestando i suoi effetti. Ed è prevedibile che, proprio per questa ragione, questo sforzo conoscitivo sarà accompagnato da polemiche e controversie feroci, il fronte negazionista conta su sparuti, e controversi, “scienziati” ma dispone di risorse ingentissime.
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Questa insistenza sulla necessità di uno sforzo scientifico ha anche una ragione d’essere politica, esso potrebbe essere di decisivo aiuto per porre fine alla stessa separazione fra lotte sociali e lotte ecologiche perché sancirebbe il passaggio da una analisi della natura in termini di sistemi produttivi a quella in termini di ……. sistemi generativi …… La prima, quella finora dominante, era basata sulla divisione fra attori umani e risorse naturali, la seconda, quella che deve imporsi, supera questa divisione ponendo sullo stesso piano risorse ed umani nella generazione di fenomeni al tempo stesso fisici, economici e sociali. Vale a dire che, nell’ottica di saldare il rapporto fra sociale e ambientale, quello che viene messo in discussione non è …….. la centralità dell’essere umano, anzi, ma le modalità della sua presenza sul pianeta, ossia la forma, la composizione, e la ricaduta distributiva del suo rapporto con la Terra, il Terrestre ……. Passare dal sistema produttivo a quello generativo diventa così il modo migliore per moltiplicare le fonti di rivolta contro ogni tipo di ingiustizia. Un ulteriore passo, tutt’altro che secondario, dovrà poi consistere nel superare la dicotomia umano/natura per iniziare, su queste stesse basi scientifiche, a considerarci ……. terrestri in mezzo a terrestri ……. ossia in mezzo a tutte le forme viventi che entrano in relazione con la Terra. La finalità ultima resta quella del superamento della visione economicistica della Terra: come diceva Karl Polany (1886-1964, economista, sociologo e filosofo ungherese, la sua opera più importante “La grande trasformazione” è una critica radicale del mercato capitalistico) ………… la religione secolare del mercato non è “di questo mondo” ……. I nuovi conflitti, esplosi con l’irruzione del Terrestre, con questo diverso modo di rapportarsi con la Terra, non sostituiscono quelli vecchi, ma li inglobano in una unica visione dell’umano e della natura.
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Difficile tradurre in immediate indicazioni operative quella che al momento è una rotta tracciata solo a grandi linee, che sa di doversi lasciare alle spalle un’idea di “globale”, al momento vincente ma assolutamente non sostenibile, e un’idea di “locale”, incapace di dare davvero le rassicurazioni che si propone di fornire, e che sa di doversi orientare verso un vero radicamento sul “suolo”, l’unico ed autentico “locale” che ingloba una giusta mondializzazione del “globale” ……. il suolo permette di radicarsi, il mondo di distaccarsi ……. ed è il Terrestre, la sua piena accettazione, conoscenza e comprensione, che impone questa doppia rotta, perché esso non è riconducibile entro frontiere, ma al tempo stesso deve tornare ad atterrare sul suolo, su un suolo. Aver fin qui tracciato, su queste basi, una rotta, una meta da raggiungere, ma senza con ciò aver già indicato attraverso quali tappe, impone come primo compito quello di conoscere il meglio possibile i “suoli” sui quali si dovrà procedere. Questa è di certo una prima indicazione operativa che, come si è detto, molto si aspetta dalla scienza, da una nuova scienza della Terra: descrivere, approfondire, conoscere, stilare cioè la lista di cose da portarsi dietro nel viaggio di ri-atterraggio sul Suolo. Nel sistema di produzione questa lista era ed è facile da compilare, nel sistema generativo è molto più complesso perché all’umano è richiesto, per la prima volta lungo il corso della civiltà, di non considerarsi unico, ma solo uno fra i tanti agenti che compongono la Terra. In questo descrivere e conoscere sta anche il guardare al sociale, ma in modo diverso, puntando ad una nuove idea di “classe”, non più basata sul solo ruolo produttivo ma su tutto ciò che può concorrere per l’affermarsi di una dignitosa e giusta esistenza. Un precedente storico vale come prezioso esempio. Nel periodo che va dal Gennaio al Maggio del 1789, poco prima che la Rivoluzione Francese sovvertisse l’idea e la forma di Potere, in una Francia sull’orlo della bancarotta vennero redatti, con il coinvolgimento di tutti i villaggi, le città, le corporazioni e le associazioni, dei …. cahiers de doléances ……  una meticolosa raccolta di tutte le questioni, le ingiustizie che dovevano essere affrontate. Non diversamente oggi, affinché ci sia un nuovo ordine del mondo, è indispensabile che ci ……. sia un mondo reso condivisibile da un simile sforzo di inventario ……. da una nuova geo-grafia mondiale delle lamentale
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Latour chiude questo saggio con una breve nota autobiografica utile per affermare che il “suolo” sul quale egli personalmente intende atterrare è l’Europa.  Quell’Europa Unita piena di problemi e contraddizioni ma che, nelle sue componenti più lucide ed appassionate, ha voluto e saputo andare oltre la forma “Stato-nazione” che a lungo ha rappresentato il vettore ideale della modernizzazione univoca. Peter Slotedijk (filosofo tedesco contemporaneo) ha detto che …… l’Europa Unita è il club delle nazioni che hanno definitivamente rinunciato all’Impero …… A questa Europa Unita, essendo storicamente stata nella sua forma di una pluralità di Stati nazione la prima a spostare il fronte della modernizzazione verso il globale univoco, spetta l’onere altrettanto storico di “richiamare”, con l’esempio concreto, alla diversa mondializzazione del Terrestre tutti i popoli che ha in precedenza colpevolmente colonizzato. Saldando in questo modo un grande debito morale. E nell’Europa Unita. Latour ne è tuttora convinto, ci sono le sensibilità, le intelligenze, le competenze per farlo.