giovedì 6 giugno 2019

Il "Saggio" del mese - Giugno 2019


Il “Saggio” del mese

GIUGNO 2019

Come anticipato nella presentazione della “Parola del mese” anche il “Saggio” di questo mese affronta il tema, sempre più drammaticamente pressante, della crisi ambientale. 


Il richiamo del sottotitolo, “Saggio di ecologia politica” evidenzia da subito quale attenzione presti alla questione ambientale Razmig Keucheyan (professore di sociologia all’Università di Bordeaux, autore di diversi saggi fra i quali spicca un’antologia dei ”Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci). La tesi centrale del suo saggio è presentata con chiarezza già nell’introduzione ………la natura non sfugge ai rapporti di forza sociali.……. (le frasi estratte dal testo sono evidenziate in corsivo blu). RK ritiene infatti che il dramma ambientale abbia fortissime connotazioni politiche, che per affrontarlo sia indispensabile avere piena consapevolezza del suo essere caratterizzato da una precisa connotazione “di classe”, e che le reali possibilità di contenerlo e risolverlo passino pertanto, in ispecie per quanto concerne le sue ricadute, attraverso politiche economiche e sociali globali diverse da quelle fin qui attuate. La sua quindi non è una analisi della cause scientifiche del degrado ambientale e neppure una valutazione delle possibili soluzioni tecniche. La sua attenzione è mirata ad evidenziare le differenze di classe che si intrecciano con il quadro ambientale. Il che comporta una presa di posizione “partigiana” rispetto alle divisioni che attraversano le società e le economie, RK è pertanto consapevole di proporre una visione del problema alternativa a quella in qualche modo prevalente……… questo approccio contrasta radicalmente con una opinione oggi dominante secondo la quale per governare il problema del cambiamento ambientale l’umanità dovrebbe “superare le proprie divisioni”…… Una opinione dominante e  trasversale in quanto sostenuta dall’intero arco politico, tanto da essere assunta come uno dei temi più citati da chi, in moltissimi casi in modo strumentale, sostiene che la divisione fra destra e sinistra sia ormai obsoleta. Esistono peraltro sue versioni più sofisticate e accattivanti basate sull’idealismo sicuramente sincero di molti dei suoi proponenti. Non pochi intellettuali sostengono, ad esempio, che la crisi ecologica consentirebbe di ipotizzare che l’intero genere umano, l’umanità nella sua totalità, superando la divisione in componenti, possa essere protagonista di un cambiamento storico. Se è infatti innegabile che l’homo sapiens non abbia finora mai fatto esperienza di sé stesso come “specie” la lotta al disastro ambientale, secondo questa scuola di pensiero, potrebbe presupporre, per la prima volta, un’azione comune di tutta l’umanità mossa dalla consapevolezza di sé come unica “specie”. A sostegno di questa prospettiva sta l’affermazione che, a differenza di tutte le precedenti “crisi” della storia umana, quella climatica ed ambientale colpirebbe in ugual misura ricchi e poveri, privilegiati ed esclusi, Nord e Sud, Occidente e Oriente, che non esistono nel sempre più possibile disastro ambientale scialuppe di salvataggio per pochi eletti. RK è di opinione decisamente diversa…….la nostra analisi parte da un’ipotesi esattamente opposta. Se il cambiamento climatico è indotto a partire dalla metà del XVIII secolo dallo sviluppo economico e se questo sviluppo si chiama capitalismo è poco probabile che gli antagonismi di classe possano essere superati prima che sia stata trovata adeguata soluzione alla crisi ambientale, che unire la specie umana attorno a obiettivi comuni sia una condizione della soluzione………… E quindi non ha senso, non è realistico, ma al contrario antistorico, chiamare ad una unità di specie, per quanto accattivante, dal punto di vista intellettuale, possa essere questa idea. Occorre, più realisticamente, più giustamente, più efficacemente, intervenire sulle cause ultime del disastro ambientale, sulle ragioni che determinano vistose differenze nelle sue ricadute, proprio perché la loro mancata rimozione inficerebbe l’intero percorso di rientro nei limiti di compatibilità ambientale. Per farlo diventa inevitabile ……la radicalizzazione degli antagonismi, vale a dire la radicalizzazione della critica al capitalismo…… Questa prospettiva ispira l’intero saggio e spiega il suo stesso titolo “La natura è un campo di battaglia”. RK per dare sostanza alla sua opinione analizza tre specifiche caratteristiche del dramma  ambientale che, per quanto in apparenza non rientrino nell’elenco degli effetti ad esso collegabili più citati, rappresentano, a suo avviso, non soltanto un necessario completamento del quadro di insieme, ma aspetti illuminanti, esemplari, per comprendere che di “campo di battaglia” si deve parlare:
1.    razzismo ambientale
2.    finanziarizzazione dei rischi ambientali
3.    militarizzazione
CAPITOLO PRIMO
Razzismo ambientale
Nella memoria collettiva il nome Katryna è ormai fermamente associato ad uno dei cataclismi simbolo delle conseguenze violente del cambiamento climatico. Agosto 2005: un uragano sommerge la città di New Orleans, in alcuni punti l’acqua raggiunge i sette metri di altezza, provocando la morte di 2.000 suoi abitanti, ma ……..chi furono le vittime di Katryna?….. I residenti dei quartieri più segregati dal punto di vista razziale, ossia la popolazione nera, in gran prevalenza povera, costretta ad abitare nelle zone più a rischio essendo già sotto il livello del mare. Si salva al contrario la minoranza bianca in grado di pagarsi le abitazioni molto più care della parte alta della città. Katryna rappresenta un caso emblematico di una situazione molto diffusa relativa ………al rapporto tra le disuguaglianze sociali, e razziali, e le catastrofi naturali…… Negli USA a partire dagli anni Novanta due movimenti, per altro più orientati ai diritti civili che a quelli strettamente ambientali, quello per la “giustizia ambientale” e quello per la “giustizia climatica”, hanno via via evidenziato una situazione che dimostra come le conseguenze dell’inquinamento, dei rischi ambientali e quelle del cambiamento climatico non colpiscano la popolazione americana in modo uguale, omogeneo; tali fenomeni, che compongono il quadro globale del dramma ambientale,  investono, per un insieme di ragioni tutte comunque riconducibili alle disuguaglianze sociali di base, la parte più debole, quella più povera, in buona misura composta dalle minoranze etniche. Quelle, Katryna lo dimostra, costrette a vivere nelle zone più a rischio, quelle che di più subiscono l’insediamento di impianti impattanti di smaltimento, quelle in maggior misura obbligate a convivere con la vicinanza di stabilimenti industriali inquinanti. Questa relazione con l’elemento razziale emerge ovviamente con forza nei paesi come gli USA, il Regno Unito, la Francia, dove per ragioni storiche da tempo convivono più etnie, ma le stesse considerazioni possono valere per tutte le fasce deboli, povere, emarginate, delle popolazioni di tutto il pianeta. Il termine …….razzismo ambientale……. può quindi essere sicuramente  inteso in modo estensivo. Il rapporto tra disuguaglianze sociali e ricadute del disastro ambientale appare però al tempo stesso tanto evidente, inoppugnabile, quanto sottovalutato, fino ad essere considerato una sorta di condizione così scontata da apparire, ironia terminologica, “naturale”. …….l’ambiente passa per essere estraneo ai rapporti di forza sociali……. Lo è stato ed in buona misura ancora lo è per gran parte dello stesso movimento ambientalista La comprensibile, ed in molti casi condivisibile, polemica verso i frequenti esempi di NIMBY (Not In My BackYard – non nel mio cortile) andrebbe, ad esempio, più correlata alla situazione sociale, e all’eventuale già pesante handicap ambientale ad essa collegato. Il “razzismo ambientale”, nell’accezione suggerita da RK, si concretizza in una sua precisa dimensione spaziale, in una sua “spazialità”. …..che sia rurale o urbano lo spazio si struttura secondo linee di frattura sociale (razziale)…… Linee, determinate dalle diverse possibilità di fronteggiare i rischi ambientali e climatici,  che da una parte definiscono il diverso valore di mercato delle zone, delle aree, e dall’altra, di conseguenza, fissano la loro assegnazione “sociale” e, con un passaggio di fatto automatico, la loro penalizzazione ambientale, che non consiste tanto nel non possedere …….particolari risorse ambientali quanto per la maggior incidenza di handicap e rischi ecologici…… Per essere meglio compresa, ampliandone e precisandone le caratteristiche costitutive, questa stretta relazione tra rapporti sociali e ambiente, tra condizione di classe e “natura”, intesa in senso lato non limitandoci quindi alle sole ricadute, rimanda allo stesso concetto di…… “spazio naturale”……, a come esso sia stato progressivamente costruito, a come viene comunemente inteso nelle scienze sociali e nello stesso senso comune odierni. RK evidenzia come il concetto di “spazio naturale”, nelle sue ricadute complessive, appartenga pienamente alla modernità, essendosi formato a partire dalla prima rivoluzione industriale e via via definito, nella sua accezione attuale, in stretta relazione con l’estendersi globale delle logiche di mercato capitalistico e con i fenomeni che le hanno caratterizzate: esplosione demografica, “invasione” antropologica dell’intero pianeta, progresso tecnologico tanto impattante quanto incontrollato, mito del progresso e della crescita, omogeneizzazione consumistica degli stili di vitai. A lungo nella storia l’intera dimensione spaziale umana, con la sola limitatissima eccezione di poche aree fortemente urbanizzate, è stata comunque e sempre considerabile, e considerata, spazio naturale, l’intero svolgersi delle attività umane coincideva, senza separazione alcuna, con la natura. Semmai, non di rado, la natura ……..è stata considerata  come l’opposto della civiltà, come un elemento spesso ostile…..  La consapevolezza, più o meno diffusa, più o meno elaborata nelle sue logiche conseguenze, del processo storico di rottura dell’unità storica fra spazi dell’uomo e spazio naturale si è pienamente affermata solo a partire dal secondo dopoguerra essendo in qualche modo imposta delle crescenti evidenze del drammatico impatto antropologico sulla natura.  Purtroppo, secondo RK, anche questo processo di moderna costruzione del concetto di “spazio naturale” è stato troppo poco finalizzato a far emergere le vere cause ultime, ossia l’evidente peso dei rapporti di forza sociali. Alla fotografia, sempre più drammatica della riduzione e del degrado dello “spazio naturale”, e dei fenomeni ad essi connessi, non si è sovrapposta una correlata adeguata riflessione sui meccanismi economici e sociali che li stavano provocando, fino al punto di incidere negativamente sulla stessa idea complessiva di “spazio naturale”, troppo spesso identificato ad una visione edulcorata di “natura”.  Ne sono testimonianza empirica le precedenti considerazioni di RK sulla spiegazione sociale delle ricadute del disastro ambientale e ne sono interpretazione politica alcune provocanti  riflessioni di Theodor Adorno sullo stretto legame fra idea dello spazio naturale, della natura, e della alienazione umana …………la natura vede aumentare il suo prestigio nei periodi di sconfitta e di normalizzazione politiche quando le passioni investite nella trasformazione rivoluzionaria della società sono andate deluse…… Adorno rifletteva, negli anni Settanta, su come si fosse affermata, all’indomani della fine dell’illusione di cambiamento radicale dei movimenti degli anni sessanta, una sorta di idealizzazione contraddittoria della natura in sé troppo slegata dalla critica alle ragioni vere di spiegazione del disastro ambientale, giudicandola come l’inevitabile conseguenza di una sconfitta politica. A questo versione naturalistica si è peraltro giunti lungo un percorso che ha via via collegato fra di loro concezioni che partivano da lontano, da quella ………estetica del sublime la cui forma moderna è stata fissata da Kant……. a quella  del mito ottocentesco del selvaggio, dell’esotico ed infine a quella, molto più pragmatica e consumistica, della natura come conforto, riparazione turistica allo stress moderno. Fino a realizzare una compiuta costruzione “di classe” del concetto di “spazio naturale”, ossia di una natura che “si affianca”, essendone separata, come complemento a sé stante dello spazio umano, mai posto veramente in discussione nelle sue regole e logiche. Una operazione che ha acquisito fin dai suoi inizi una evidente connotazione “razziale” …….in altre parole nell’epoca moderna razza, classe, genere e natura sono state oggetto di una co-costruzione. L’emergere della wilderness (il mito della natura selvaggia) è inseparabile dalla whiteness (l’idea della superiorità della razza bianca)………  Da una parte si sorvola, non mettendone mai in luce la valenza sociale di classe, sulle conseguenze nefaste della “società dei consumi”, in sostanza accettate e tollerate come prezzo ineliminabile del mito di un falso “benessere”, dall’altra si esalta un’idea di natura pulita, incontaminata, depurata, ma, in quanto tale apprezzata, e “consumata”,  dalla sola cultura “bianca”, distinta dalla oscurità, dall’impurità di chi non sa, o non vuole, amarla. RK cita l’idea di Carolyn Merchant (filosofa americana, teorica dell’ecofemminismo) che ….esiste una storia ambientale della razza, ossia in altre parole che la whiteness e l’esperienza di sé che l’accompagna sono definite in termini ambientali…….  Si spiegano così esperienze emblematiche come la diffusione in tutto il pianeta del modello statunitense, nato già ai primi dell’Ottocento, dei parchi naturali e delle oasi protette, che in non pochi paesi ha talvolta assunto carattere di “scontro” con le popolazioni locali, mai realmente coinvolte in una concezione della natura estranea alle loro culture e che di fatto imponeva una ……..limitazione dell’ecologia a problemi di tutela e di conservazione….. Prevale una sorta di atteggiamento paternalistico basato sull’idea che le popolazioni locali, quelle direttamente interessate, siano incapaci di prendersi direttamente cura delle loro risorse naturali. Da qui l’idea avanzata da alcuni storici che …..l’ecologia e lo stesso concetto moderno di natura trovino una delle loro origini nella stessa colonizzazione e più precisamente nel controllo della natura delle regioni colonizzate…… RK nel completare la sua disanima della sottovalutazione delle origini sociali del dramma ecologico, specie nella sua versione di razzismo ambientale non è meno severo nel giudicare, rispetto a quello dell’ambientalismo “classico, il rapporto con la dimensione sociale dell’ecologia da parte del “movimento operaio”, delle sinistre occidentali”. E’ sempre di fatto prevalsa una difesa ad oltranza dei posti di lavoro, dei diritti sindacali intesi in senso stretto, una visione “produttivistica” del rapporto con la natura in stretta relazione con il mito sovietico del progresso e della crescita. Al momento dell’inevitabile insorgere di conflitti tra danni ambientali e le attività produttive che li creano la posizione di sindacati e partiti di sinistra  è sempre stata, e tuttora lo è al di là di comode dichiarazioni di principio, quella di privilegiare in qualche modo il ruolo delle seconde. In questo quadro si aggiunge poi una storica distinzione tra due dimensioni ……..il lavoro ed il “al di fuori del lavoro”….. che ha di fatto prodotto una netta separazione tra movimenti sindacali, e partiti di sinistra, e l’associazionismo ambientale, aggiungendo quindi a quelli di quest’ultimo altri limiti e contraddizioni non meno pesanti, quasi come se …….il lavoro non fosse collegato alla società civile…….. Si è così determinata una incapacità di coniugare le problematiche di sicurezza sui posti di lavoro con quelle dell’impatto ambientale, quando invece le une sono strettamente collegate alle altre in quanto ambedue prodotto delle logiche capitalistiche. Solo raramente si sono concretizzate efficaci azioni e politiche che di più e meglio coniugassero diritti del e sul lavoro con le ricadute ambientali, che “ibridassero”  ……..all’interno di una idea complessiva di “quadro di vita”…… lotte sindacali ed ambientali.
CAPITOLO SECONDO
Finanziarizzare la natura, l’assicurazione dei rischi climatici
Nel Capitolo Secondo, anche in questo caso partendo da un particolare aspetto della questione, RK prende in considerazione alcuni dei mezzi che il capitalismo utilizza per attenuare, per gestire, i conflitti che nascono dalle disuguaglianze ambientali. Questo aspetto particolare consiste nel fatto che ……..oltre al valore di scambio e di uso le merci hanno anche un valore assicurativo, generano cioè valore in quanto il momento della loro possibile distruzione è previsto……. L’istituto della “assicurazione” ha fin dall’inizio delle moderne attività di commercio e di produzione costituito una risorsa importante sia per il loro svolgimento che per il contributo, decisivo, all’affermarsi della “finanza”. Forme moderne di assicurazione compaiono già con l’apertura delle rotte atlantiche verso le Americhe e conoscono un impulso straordinario con la tratta degli schiavi. …….man mano poi che l’economia cresce a seguito della rivoluzione industriale il valore di ciò che si può perdere e che dunque può essere assicurato aumenta….. Ai giorni nostri gli stessi rischi ambientali e climatici sono rientrati nel novero delle variabili assicurabili, con una crescita esponenziale dell’intreccio fra finanza e natura tale da dare sostanza ad un settore specifico ormai conosciuto come ……..finanza ambientale…… Questa crescita, particolarmente significativa negli ultimi tre decenni, può essere meglio spiegata guardando all’intreccio che si è venuto a creare fra gli effetti della crisi economica che, fra alti e bassi, ormai connota l’economia dopo la fase irripetibile di crescita del secondo dopoguerra e quelli della crisi ecologica che, nello stesso arco di tempo, ha iniziato a manifestarsi in modo sempre più acuto. Questo intreccio ha progressivamente aumentato …..l’instabilità del capitalismo e ha richiesto di conseguenza che il dispositivo di protezione degli investimenti, ossia l’assicurazione e la finanza più in generale, sia rafforzato…… Sono ovviamente molte le ragioni che spiegano la progressiva finanziarizzazione dell’economia mondiale, fra queste RK punta, all’interno di questa sua analisi specifica, la sua attenzione su quelle che meglio aiutano a capire come la natura sia sempre più strettamente connessa alla finanza, fino a divenire una importante fonte di profitto finanziario. Per comprenderlo occorre entrare sinteticamente nel merito dei meccanismi che regolano le attività assicurative. Alla loro base, tradizionalmente, stanno due “principi”: quello tecnicamente definito il ……..principio della mutualizzazione dei rischi…… ossia la necessità per le società assicuratrici di avere un numero di assicurati sufficientemente consistente a coprire, con i premi che vengono pagati, gli eventuali indennizzi., e quello, ancor più importante, chiamato …….inversione del ciclo di produzione……. ossia il pagamento anticipato da parte degli assicurati dei premi prima che l’imprevisto assicurato si avveri indipendentemente dal fatto che questo si verifichi o meno. Le compagnie assicurative devono pertanto avere la capacità di monitorare sia le dimensioni del mercato a cui guardano sia le possibilità statistiche del manifestarsi dei rischi assicurabili. Queste regole di base …….hanno portato i teorici dell’assicurazione a distinguere il rischio dall’incertezza……. essendo il rischio un’ipotesi di evento calcolabile, e dunque più facilmente assicurabile e l’incertezza, al contrario, un orizzonte molto meno definibile e quindi assicurabile con un surplus di cautele. Nel primo caso l’attività assicurativa procede lungo i binari consolidati mentre nel secondo impone un supplemento strutturale: l’attività assicurativa assicura sé stessa, per cautelarsi dall’eccessivo peso di eventi “incerti”,  con un meccanismo assicurativo esattamente identico a quello di base …….l’assicurazione moderna è inseparabile dalla riassicurazione……  che, come da logica, interviene per i sinistri meno misurabili ma soprattutto per quelli più costosi. Nell’ultima parte del secolo scorso prendono però sempre più consistenza eventi che sfondano queste logiche assicurative …………terrorismo, catastrofi naturali, incidenti tecnici di produzione e trasporto……. I quali richiedono, per l’impatto devastante che sempre più comportano, un ulteriore balzo in avanti nella finanziarizzazione delle procedure assicurative.  Le catastrofi naturali sono i fenomeni che di più incidono in questo senso sia per l’alto livello di imprevedibilità sul dove e quando potranno precisamente colpire sia per l’altissima ricaduta come costi. Tecnicamente parlando la letteratura assicurativa opera una precisa distinzione fra ……..catastrofe …….. un evento che comporta danni superiori a 25 milioni di dollari, e ………cataclisma……. un accadimento che supera i 5 miliardi di dollari. Sono però dati del 1997, poiché da allora i costi sono decisamente aumentati queste cifre dovrebbero essere aggiornate. Per meglio comprendere la scala dei valori in gioco si deve considerare che Katryna, il disastro più caro della storia, ha comportato danni globali per 150 miliardi di dollari di cui la metà esatta, 75 miliardi, coperti da assicurazione. Seguono come incidenza, a partire dal 1970, lo tsunami del 2011 in Giappone (Fukushima) con 35 miliardi, l’uragano Andrews del 1992 negli USA con 25 miliardi e gli attentati dell’11 Settembre 2001 delle Torri Gemelle con 24 miliardi. Questa sorta di graduatoria è importante anche perché si rivela una significativa testimonianza delle disuguaglianze ambientali fra paesi ricchi e paesi poveri, e quindi dello stesso paradigma del razzismo ambientale: i disastri che colpiscono i primi vedono sempre una maggiore incidenza dei costi finanziari rispetto ai costi in vite umane, il loro impatto infatti colpisce di norma zone ad alta densità infrastrutturale più che abitativa, questa situazione si rovescia completamente per i paesi poveri, qui il costo in vite umane supera di molto quello dei danni materiali. Le catastrofi con maggior numero di morti, sempre a partire dal 1970, sono infatti: le inondazioni provocate dal ciclone Bhola in Bangladesh ed in India nel 1970 con 300.000 morti ed il terremoto di Haiti del 2010 con 222.000 morti. L’ondata di calore che colpì l’Europa nel 2003 provocando la morte di ben 35.000 persone, la più significativa catastrofe con perdite umane nei paesi ricchi, si attesta solo al dodicesimo posto. Siamo comunque di fronte ad un quadro complessivo che, al di là delle pur opportune distinzioni, certifica che l’umanità è definitivamente entrata, a cavallo del nuovo millennio, in quella che Ulrich Beck (1944-2015 sociologo tedesco) ha definito la “società del rischio”, al punto di individuare proprio nel criterio della …….assicurabilità…… quello decisivo per ……spiegare il passaggio dalla modernità alla post-modernità……. Vero è che Beck, scrivendo queste cose subito dopo Chernobyl nel 1986, era influenzato soprattutto dai rischi tecnologici, ma questa sua provocazione, per quanto intellettualmente stimolante, è stata in gran parte attenuata proprio dall’ulteriore salto di qualità nella finanziarizzazione dei rischi ambientali. Un salto imposto da due caratteristiche dei disastri ambientali: le dimensioni dei danni che ne possono conseguire sono tali che con le soluzioni assicurative tradizionali …….assicuratori e riassicuratori non sono in grado di sostenerle……. e la loro specificità tecnica  è a sua volta tale da non consentire l’individuazione di “responsabilità” specifiche  atte ad essere invocate come attenuanti per limitare i rimborsi, siamo in effetti di fronte ad eventi che ……..non sono imputabili a qualcuno, non sono il prodotto di individuabili intenzionalità, ma sono insite nell’ordine naturale delle cose……. La soluzione “tecnica” per fronteggiare questo quadro, ingestibile con le procedure tradizionali, è stata mutuata da pratiche ormai diffusissime in ogni ambito finanziario, a partire dalla gestione di crediti, mutui e finanziamenti, ed è quella della ……cartolarizzazione…… Uno dei prodotti finanziari più efficaci per la cartolarizzazione dei rischi naturali ……..è conosciuto con il nome di cat bond, diminuitivo di catastrophe bond, vale a dire obbligazione catastrofe….. ed è esemplare per comprendere lo stesso meccanismo generale della cartolarizzazione. La società che attiva una assicurazione sui danni, sia privati che pubblici, derivanti da una possibile catastrofe naturale, ed esponendosi conseguentemente per cifre altissime seppure a fronte di interessi altrettanto elevati, vende (cartolarizza) sul mercato finanziario frazioni dell’importo assicurato garantendo al compratore interessi proporzionati a quelli spuntati con l’assicurazione e sicuramente accattivanti perché superiori alla resa media dei prodotti finanziari sul mercato. ………l’obiettivo dei cat bond è quello di ripartire i rischi il più ampiamente possibile nello spazio e nel tempo in modo da renderli finanziariamente impercettibili……… La dimensione mondiale del mercato finanziario ………che negli soli Stati Uniti vale 29.000 miliardi di dollari e globalmente arriva alla stratosferica cifra di  60 trilioni (un miliardo di miliardi) di dollari…….. garantisce da una parte l’attenzione di operatori costituzionalmente votati alla massima diversificazione possibile dei loro portafogli e dall’altra la sostenibilità dei costi eventuali dei rischi assicurati e cartolarizzati. E’ chiaro che in un mare magnum di questa grandezza anche le pur impressionanti cifre dei danni, ad esempio, di Katryna, 150 miliardi di cui 75 assicurati, rappresentano un importo facilmente gestibile La caratteristica dei cat bond che di più colpisce  è però quella di avere come substrato la “natura”, o meglio il dramma ambientale”  che - per quanto sia ovvio che non tutti gli effetti dei cambiamenti climatici possono essere assicurati, non lo sono ad esempio la desertificazione e l’innalzamento dei mari - diventano fonte di vorticose transazioni finanziarie. I cat bond sono stati creati nel 1994 e da allora hanno conosciuto una significativa proliferazione, si tratta ormai di diverse centinaia, arrivando a coprire anche altre forme di rischio ad alto impatto finanziario quali le pandemie sanitarie. L’incrocio fra la loro quantità e gli importi assicurati hanno reso la loro cartolarizzazione una voce significativa nel mercato finanziario nonostante che, per via della caratteristiche dei rischi assicurati, non siano bene classificati dalle agenzie di rating. Aspetto che tuttavia  non è stato di impedimento all’estensione della cartolarizzazione anche ad altri rischi ambientali e climatici ……per esempio quelli delle conseguenze sulla produzione agricola degli sbalzi di temperatura e della piovosità…….. Un fenomeno che, storicamente già adottato nei settori agricoli dei paesi avanzati, si è enormemente diffuso negli ultimi decenni nei paesi più poveri coniugandosi strettamente con il parallelo sviluppo del micro-credito tanto da assumere la definizione di micro-assicurazione ………la micro-assicurazione e sintomatica dell’attuale finanziarizzazione della vita quotidiana ed il moltiplicarsi dei fenomeni legati al cambiamento climatico prospetta un futuro radioso a questo settore…….  Sono quindi diventate fonte di reddito finanziario, rientrando pienamente nelle logiche di profitto che lo guidano, non soltanto i macro rischi ambientali ma anche le “normali” più ridotte ricadute sulle produzioni agricole di base in tutto il mondo. La cartolarizzazione delle assicurazione dei rischi ambientali non è l’unico aspetto che testimonia della trasformazione della natura e della crisi ambientale ………in una merce…….. ad essa, in parte precedendola in ordine temporale, si aggiunge il prospero mercato dei ……..derivati ambientali …….. Si tratta di un’altra forma di strumento finanziario che, allo stesso modo dei cat bond, evidenzia come la “mercificazione” della natura si sia progressivamente concretizzata mediante quel processo di “astrazione”, già lucidamente evidenziato da Marx, ovvero quel processo che, nel mercato capitalistico, rende possibile per qualunque “oggetto” il passaggio dal valore d’uso a valore di scambio. Sono tre le fasi attraverso le quali si concretizza il processo di mercificazione: la costruzione di una entità, una unità di misura di una potenziale merce, l’estrazione di questa entità, il suo renderla indipendente dai contesti e quindi valida ovunque e sempre, ed infine la sua calcolabilità, ovvero la possibilità concreta di essere commisurata in uno scambio.  Nel mercato odierno questo processo di mercificazione avviene in buona misura ………attraverso la “modellizzazione” ossia l’applicazione ai nuovi prodotti da inserire nel mercato di modelli matematici sempre più sofisticati per delinearne il valore di scambio…….. La natura e la crisi ambientale non sfuggono a questi modelli e quindi al processo di mercificazione ……..nessun caso illustra meglio questa formazione del valore capitalistico della “merce natura” dei mercati del carbonio o mercati delle quote di emissione……. Il mercato del carbonio, idealmente creato come strumento per il contenimento delle emissioni di gas serra nell’atmosfera, si basa su due meccanismi: un sistema di quote, una quota equivale convenzionalmente ad una tonnellata di carbonio immettibile in atmosfera, attribuite, con una progressione temporale a diminuire, ad ogni attività inquinante, vale a dire “costruzione di una entità” e sua “estrazione” ed un sistema di compensazione, grazie al quale le quote eventualmente avanzate da una attività possono essere vendute a quella che al contrario le sta superando. Ovvero se una industria, od un intero paese, sfonda il totale delle sue quote può comprane, appunto a compensazione, da un’altra industria, da un altro paese, più virtuoso che ne ha in eccedenza. Perfetta testimonianza della  calcolabilità”.  Si è così creato il “mercato delle quote” che altro non è che il mercato nel quale la natura, e buona parte dei processi che determinano il suo degrado, sono diventati a tutti gli effetti “merce”. Al punto che essa viene commerciata anche con  ……..l’intervento di intermediari finanziari che non hanno direttamente bisogno di ridurre le loro emissioni ma che acquistano e rivendono quote sul mercato secondario….. esattamente come farebbero con qualsiasi altra merce. RK evidenzia infine un aspetto fondamentale di sostegno dell’intera impalcatura che ha reso la natura, ed il dramma ambientale, una merce, e più precisamente un prodotto finanziario: il ruolo dello Stato. L’assicurazione e la micro-assicurazione dei rischi climatici, la sua cartolarizzazione, il mercato dei derivati ambientali, necessitano di un quadro normativo di forme di sostegno e di incentivo, di un sistema di garanzie di ultima istanza, in sostanza di un co-protagonista, di un cliente che operi su grandi numeri. Tutti questi requisiti possono essere assicurati unicamente dallo Stato, dal “pubblico”. Il quale è di fatto obbligato a svolgere questo ruolo di sostegno e di incentivo, e a vestire i panni del grande cliente, per la semplice ragione che i rischi ambientali e climatici sono ormai così drammaticamente pressanti e pesanti da rischiare seriamente di far saltare del tutto il già delicato equilibrio dei bilanci pubblici di tutto il mondo.  …….a causa della crisi fiscale gli Stati sono sempre meno in grado di fronteggiare in prima persona le catastrofi climatiche, ovvero la loro assicurazione, con mezzi convenzionali vale a dire principalmente con la tassazione…… In sostanza la crisi dei bilanci pubblici, la crisi ambientale, e la finanziarizzazione sono tre fenomeni tra di loro legati in modo indissolubile. Questo intreccio è la base fondamentale sulla quale poggia la capacità del capitalismo di trarre profitti dal dramma ambientale provocato dalla sua stessa avidità. Karl Polanyi (1886-1964 sociologo economista e filosofo ungherese) ha definito “merci fittizie” quei pre-requisiti, quelle condizioni preliminari indispensabili per la produzione; tali sono ad esempio il lavoro, la terra, la moneta, le risorse naturali.  …….man mano che il capitalismo si sviluppa indebolisce, fino a distruggerle, queste stesse merci fittizie…… Lo Stato moderno può e deve essere il regolatore del loro uso, e soprattutto deve essere l’interfaccia tra il capitale e la natura. Ma di certo non nel modo in cui lo è stato, quando lo è stato, finora. ……E’ per questo che il problema centrale di ogni movimento ecologista degno di questo nome dovrebbe essere lo Stato…….
CAPITOLO TERZO
Le guerre verdi o la militarizzazione dell’ecologia
Lo stretto rapporto tra “argent”, l’economia, e la “guerre”, la guerra, non è certo una novità, Ma cosa succede quando in questo rapporto irrompe la natura ed il suo degrado? Che ruolo gioca in tutto questo il braccio armato dello Stato? E’ quanto viene affrontato nel terzo capitolo…….
L’intreccio fra apparati e logiche militari ed il crescente dramma ambientale si dipana lungo due direttrici fondamentali: l’adattamento dello stesso apparato militare ai nuovi scenari ambientali e la modifica delle proprie strategie per fronteggiarli in tutte le sue possibili ricadute. Nel 2010, sotto la presidenza Obama, un documento del National Security Strategy affermava con chiarezza che ……per il suo impatto sull’ambiente e sulle popolazioni il cambiamento climatico dovrà necessariamente essere introdotto nel calcolo strategico dell’esercito statunitense……. Un cambio di paradigma radicale rispetto al precedente analogo documento redatto nel 2002, presidenza Bush, che conteneva quello, tristemente famoso, della “guerra preventiva”, a riprova di due sensibilità completamente diverse, ma che completa un lungo processo di riaggiustamento delle strategie militari iniziato già a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. E’ una caratteristica costitutiva delle strategie militari quella di avere orizzonti lunghi di riferimento, dovuta innanzitutto alla altrettanto lunga tempistica di riadattamento delle proprie strutture. A differenza della politica sempre più concentrata, non fosse altro che per ragioni di consenso elettorale, su scenari a breve se non brevissimo periodo, di norma le strategie militari ragionano su tempi calcolabili di alcuni decenni. Un arco temporale che, stando alle attuali gravi tendenze, sarà sicuramente quello entro il quale di dispiegherà la forza d’urto del dramma ambientale. Le forze armate americane non sono le sole a muoversi con una crescente attenzione a questi cambiamenti ambientali e climatici, tutti gli eserciti delle grandi nazioni si stanno rimodulando in questo senso. Ma, iniziando dal primo dei due aspetti evidenziati da RK, quello in cui gli apparati militari sono essi stessi  “vittime” dell’impatto ambientale, è negli USA che sono stati redatti e resi pubblici i documenti militari che meglio testimoniano questo cambio di paradigma,. E’ possibile infatti leggervi che . …….. il cambiamento climatico condizionerà la missione delle forze armate in vari modi….modificherà l’ambiente operativo…….avrà impatto sulle strutture e gli equipaggiamenti……..renderà più praticabili per le azioni militari nuove aree, la regione artica ad esempio, mentre altre al contrario diverranno molto più difficilmente utilizzabili …..complicherà la disponibilità di combustibili e riserve di acqua……. Queste previsioni dimostrano quanto seriamente i militari tengano in conto le conseguenze del cambiamento climatico, e come, in linea con la loro attitudine a ragionare su tempi lunghi, si stiano conseguentemente riadattando ad iniziare dalle loro localizzazioni, i loro equipaggiamenti, e l’intera loro strutturazione. Ma, ovviamente, l’attenzione di RK  si concentra soprattutto sul secondo aspetto: quello che vede diventare decisivo il ruolo dell’esercito nel gestire, in piena sintonia con le logiche “capitalistiche” di governo del dramma ambientale, i futuri scenari, tanto da rendere legittima, a suo avviso, la nozione di ………“militarizzazione ambientale” …………. Ad iniziare da una prima “missione” già svolta in più occasioni con indiscutibile efficienza, quella che sempre più vedrà ………le forze armate esercitare la funzione di “specialisti del caos”……….. Ossia quella di mettere in campo le loro capacità organizzative e la forza dei loro apparati in occasione di catastrofi naturali sia per gestire la sempre più complessa e gigantesca macchina dei soccorsi che, allo stesso tempo, per “pacificare” da turbolenze le aree colpite. Due eventi che testimoniano questa tendenza sono le esperienze post cataclisma dello tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano e ancora una volta dell’uragano Katryna nel 2005. La disperazione delle popolazioni colpite dalle catastrofi, aggravata dal loro essere, come si è visto nel primo capitolo, già vittime di “razzismo ambientale” e dalle oggettive difficoltà delle operazioni di soccorso, può infatti facilmente sfociare in proteste, saccheggi, e fare da detonare per più ampi movimenti di lotta del tutto ingestibili da parte dei soli apparati di polizia e di soccorso tradizionale. Ma non c’è dubbio alcuno che il compito principale degli eserciti resterà quello, da sempre a loro affidato, di prepararsi al meglio per i possibili conflitti che potranno avere origine proprio da nuove tensioni innescate dai cambiamenti ambientale e climatico. In questo fondamentale aspetto una espressione che è facile ritrovare in documenti sulle future strategie militari è quella, riferita al disastro ambientale, di ……….moltiplicatore di minacce…….. Non necessariamente quindi si tratterà di gestire minacce di nuovo tipo ma più facilmente ……..si aggraveranno alcune problematiche da sempre presenti nell’economia capitalistica…….. a partire da quella del controllo delle risorse. La “moltiplicazione delle minacce” riguarderà quindi innanzitutto …….l’acqua…… Sarà così in Africa, …..si calcola che già nel 2020 tra 75 e 250 milioni di africani avranno grossi problemi di accesso all’acqua potabile…… Sarà così in una ampia regione nevralgica nel cuore dell’Asia interessata dallo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya e dalle mire cinesi, e indiane, di assorbire la maggior quantità possibile di “oro blu”, a danno degli Stati confinanti. E’ già cosi in Palestina: il conflitto israeliano–palestinese, che ha ovviamente molteplici spiegazioni, ha una matrice significativa nella scarse risorse idriche con: da una parte il crescente fabbisogno israeliano dall’altra la collocazione di due falde acquifere, sulle tre da cui questo fabbisogno dipende, nel territorio palestinese della Cisgiordania. Ed è da tempo così per il petrolio, che, per quanto si possa dire sul superamento dalla sua centralità, resterà ancora nei prossimi cruciali decenni la fonte energetica primaria. Lo è  per gli stessi eserciti se si pensa che, ad esempio …..l’80% del petrolio consumato dallo Stato americano è utilizzato dalle forze armate…… L’elenco delle aree già interessate pesantemente dalle tensioni per il controllo dei pozzi petroliferi è tanto lungo quanto di dominio pubblico. In questo preoccupante quadro che testimonia il crescente ruolo dei militari nei conflitti legati alla questione ambientale merita attenzione una considerazione centrale presente in tutti i documenti strategici di tutti gli eserciti ………….il cambiamento climatico rischia di indebolire soprattutto gli Stati già deboli e strategicamente sensibili…… quelli che in gergo sono definiti “failed States”, gli Stati falliti. Questo aspetto segna una svolta radicale rispetto alla gran parte dei conflitti armati di una certa rilevanza del secolo scorso che hanno quasi sempre visto come protagonisti, in prima persona, gli Stati forti. Questi Stati non hanno certo smesso di rivaleggiare su più fronti e di combattersi sul piano delle corsa degli armamenti, ma lo scontro armato vero e proprio si è sempre più svolto per interposta persona, delegandolo, non a caso, proprio agli Stati falliti e facendolo quindi avvenire in aree strategiche per il controllo delle risorse naturali. Su queste stesse aree insiste, ancora una volta non a caso, un secondo decisivo fattore: il loro ospitare attive centrali di terrorismo. Ed è ormai acclarato che …….la preoccupazione dei militari per il cambiamento climatico è strettamente legata al paradigma strategico dominante del dopo guerra fredda: la lotta contro il terrorismo…… E d’altronde, aprendo una finestra sulla concezione odierna di “guerra” RK evidenzia come, non soltanto per la comparsa del terrorismo, l’idea stessa di conflitto armato sia radicalmente mutata. La fine della guerra fredda e la caduta del Muro di Berlino hanno segnato in effetti una svolta  per gli scenari di guerra dando luogo, da una parte, a quello che Noam Chomsky (1923, linguista, teorico della comunicazione, attivista politico e saggista statunitense) ha definito “nuovo umanitarismo militare”, ossia la presunta esportazione della democrazia mediante imposizione militare, dall’altra  rafforzando tendenze che erano già manifestate in modo importante nei conflitti novecenteschi, soprattutto nella Seconda Guerra. Quelle che hanno fatto cadere definitivamente le distinzioni fra combattenti e non combattenti, fra civili e militari, fra fronte e retrovie, fino all’annullamento della dimensione spazio-temporale della guerra, che non si apre più in un dato momento ed in un certo luogo, ma che investe, in forme più o meno evidenti, in forma continua l’intero pianeta. Alcuni studiosi della “teoria della guerra” …….ritengono addirittura che oggi la distinzione tra guerra e pace  sia obsoleta e che abbia lasciato posto a “condizioni di violenza” permanenti……Ed in effetti i conflitti convenzionali, dal secondo dopoguerra in qua, sono limitati (India vs Pakistan, Iran vs Iraq, Stati Arabi vs Israele sono alcuni esempi) ……..la maggior parte dei conflitti sono a bassa intensità nel senso che non coinvolgono gli Stati in quanto tali…….. ma praticamente molto diffusi e molto frequenti Se Von Clausewitz (1780-1931, generale e teorico della guerra prussiano) poteva sostenere che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” la scomparsi dei suoi protagonisti classici induce a ritenere che, diminuendo la sua componente in qualche modo “razionale” (la logica politica e la teoria classica della guerra, essa…….tende ad aumentare la sua parte di irrazionalità……. Ma come si legano queste specifiche tendenze militari con l’intreccio militarizzazione-questione ambientale, con le “guerre verdi”? La relazione è molto stretta e queste nuove modalità di conflitto armato sono strettamente legate alla dimensione ambientale …….la scarsità di risorse e più in generale il degrado degli ecosistemi contribuiscono al sorgere di guerre proprio di questo tipo…… Se è da sempre vero che la causa di una guerra non è mai univoca ma è la sommatoria di più fattori scatenanti è altrettanto vero che molti degli attuali conflitti e la totalità di quelli futuri sono, e saranno, sempre più legati a quella che sempre più si configura come una autentica ………guerra per l’esistenza, per la sopravvivenza…….. Ed in condizioni così estreme l’irrazionalità del modo di guerreggiare è destinata ad aumentare ulteriormente. Anche per l’incidenza di un altro decisivo fattore: a partire dal secondo dopoguerra il maggior freno all’innescarsi di conflitti armati su larga scala è consistito nella cosiddetta “deterrenza nucleare”, ovvero in una potenza devastatrice degli arsenali atomici talmente elevata da rendere di fatto non auspicabile e non attivabile una guerra nucleare. Si è trattato in sostanza dell’uso razionale di una potenziale potenza distruttrice del tutto irrazionale. La logica delle guerre legate al cambiamento climatico ed al degrado ambientale è del tutto diversa: si è qui in presenza di un’alta probabilità, per non dire di una certezza, dell’innescarsi di conflitti non frenati da alcun deterrente, non gestiti sulla base di approcci razionali. Una guerra nucleare presupponeva inoltre una precisa intenzionalità e ciò creava comunque margini per attivare valutazioni, anticipazioni e negoziazioni. La natura ed il cambiamento ambientale non sono invece sostenuti da alcuna intenzionalità, la natura, il dramma ambientale, e le loro ricadute, non sono configurabili come nemici convenzionali dotati di un piano, di interessi identificabili e di portavoce legittimi……. la storia naturale e la storia umana si trovano sempre più intrecciate al punto di diventare inscindibili questo tuttavia non le rende più intellegibili……. E ciò di fatto, se nulla verrà seriamente messo in atto per fronteggiare davvero il disastro ambientale, annulla ogni possibilità di anticipazioni e negoziazioni, ogni margine per una razionalità preventiva. Anche questa decisiva caratteristica delle possibili “guerre verdi” spiega la crescente militarizzazione dell’ambiente e la scelta del capitale di delegare al braccio armato la gestione di buona parte delle tensioni che sicuramente ne deriveranno. Hans Jonas (1903-1993, filosofo statunitense di origini tedesche) sosteneva che sarà sempre più possibile che la stessa umanità accetti una sospensione della libertà come prezzo necessario per la salvezza fisica …….solo una dittatura benevola è in grado di adottare le misure necessarie  per assicurare la sopravvivenza fisica…… Ed è vero che la cura strategica con la quale le forze armate si stanno preparando, in tutto il pianeta, per essere in grado di gestire la crisi ambientale, e le sue ricadute, sempre più le porrà nella condizione di essere seri candidati al ruolo di “dittatura benevola”.
CONCLUSIONE
Fine del gioco?
Per buona parte del Novecento il pensiero di sinistra di ispirazione marxista si è articolato attorno ad una convinzione erroneamente derivata da alcuni concetti marxiani: quella che il capitalismo sarebbe inevitabilmente caduto per il peso delle sue insanabili contraddizioni economiche. Alla sinistra non restava quindi che farsi trovare pronta per quando ciò sarebbe accaduto. Una illusoria ed errata idea ben presto criticata da chi, come Gramsci, aveva intuito sia la forza del capitalismo di reggere alle proprie contraddizioni sia la conseguente necessità di costruire una reale alternativa senza attendere un esito tutt’altro che scontato. Walter Benjamin (1892-1940, filosofo, critico letterario, saggista tedesco di origini ebraiche) così scriveva negli anni Trenta nel suo libro sui Passages di Parigi …….l’esperienza della nostra generazione?: il fatto che il capitalismo non morirà di morte naturale…….. Venendo ai giorni nostri nulla nella sostanza di questa convinzione sembra essere mutato salvo una variazione di scenario: al posto delle contraddizioni economiche, la mitica caduta tendenziale del saggio di profitto, troviamo la crisi ambientale ed i suoi effetti ingestibili per le logiche capitalistiche al punto da portarle all’autodistruzione. RK afferma con totale convinzione l’esatto contrario, e questo suo saggio mira proprio a denunciare l’assurdità di questa nuova concezione catastrofista. Parafrasando Benjamin si deve affermare con forza che ancora una volta …….il capitalismo non morirà di morte naturale per la semplice ragione che ha i mezzi per adattarsi alla crisi ambientale…….. non solo è capace di adattarsi ………ma anche di trarne vantaggio…… Lo è non tanto per intrinseche doti di autocontrollo ma perché il suo rapporto con la natura non è immediato, ma è ……ammortizzato e strutturato dallo Stato……. Come per la regolazione del mercato così per il rapporto con la natura il capitalismo lasciato a sé stesso sfrutterebbe le risorse naturali fino ad esaurirle in breve e sarebbe incapace di gestire gli effetti catastrofici del degrado ambientale.  Per tutto questo c’è lo Stato …….regolando l’accesso alle risorse e facendosi carico delle conseguenze negative esso opera a favore degli interessi di lungo periodo delle classi dominanti e permette che la natura possa essere costantemente sfruttata…… I tre aspetti della crisi ecologica esaminati nel saggio, razzismo ambientale – finanziarizzazione e assicurazione – militarizzazione, evidenziano esattamente questo ruolo centrale dello Stato nell’organizzare la natura e nel metterla a disposizione del capitale. Quale alternativa allora ad un catastrofismo che è ben lungi dal realizzarsi da sé? La risposta è la stessa di Gramsci e Benjamin per il catastrofismo dei loro tempi: politicizzare la crisi ……….in altre parole demolire il trittico formato dal capitalismo, dalla natura e dallo Stato impedendo che quest’ultimo operi a favore degli interessi del primo……


sabato 1 giugno 2019

La Parola del mese - Giugno 2019


La parola del mese
 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni


Giugno 2019


Parola e Saggio del mese di Giugno 2019 sono dedicati al tema, sempre più drammaticamente cruciale, della crisi ambientale. Il Saggio ne presenterà una lettura fortemente politica, mentre la Parola si limita a farci meglio conoscere un termine, entrato solo di recente nel linguaggio prima tecnico-scientifico e poi in quello di suo comune. Lo abbiamo scelto non tanto per una sua particolare rilevanza ma perché può fornire un interessante spunto di riflessione sul ruolo della tecnologia nel processo dei cambiamenti climatici ed ambientali. Da una parte: quanto può aver inciso in senso negativo, così come è stata concretamente utilizzata e applicata, nell’aver in qualche modo contribuito a crearli? Dall’altra:, proprio sulla base dell’esperienza concreta fin qui verificatasi, può essere comunque ancora considerata uno strumento efficace per fronteggiarli? La “Parola del mese” è……..

 

GEOINGEGNERIA



Geoingegneria = Nelle scienze applicate con il termine geoingegneria si designa l'applicazione delle conoscenze relative alle scienze geologiche all'ingegneria (geologia applicata), intesa come lo studio dell'influenza che alcuni fattori geologici possono avere su un'opera di ingegneria. Si tratta di una sovrapposizione di diversi ambiti ingegneristici e geologici: geologia, geologia applicata, ingegneria geotecnica, ingegneria ambientale……………

In effetti quindi con il termine geoigegneria si dovrebbe intendere l’applicazione delle conoscenze geologiche sulle attività ingegneristiche, sia di progettazione che di realizzazione. In realtà il termine si è ormai affermato per indicare l’esatto contrario, ossia per indicare interventi ingegneristici in grado di incidere sull’assetto geologico, inteso in senso lato, ed in particolare quelli finalizzati a limitare se non a correggere gli effetti negativi sull’ambiente delle attività antropiche. Questo utilizzo del termine è utile per riflettere sul ruolo, positivo o negativo, condivisibile o criticabile, della tecnologia in relazione ai cambiamenti climatici ed ambientali- Per farlo presentiamo due articoli che, nel fornirci molti chiarimenti utili a meglio comprendere cosa si debba intendere per geoingegneria, offrono elementi a sostegno di tesi di fatto contrapposte. Iniziamo con un articolo tratto dalla rivista on-line “La Tascabile”……………

Basterà la tecnologia per salvarci dalla crisi climatica? Promesse e illusioni della geoingegneria.

Articolo di Alessio Giacometti  (Sociologo)

Ricordo perfettamente come i miei nonni paterni, entrambi contadini, reagivano alle improvvise grandinate estive che infuriavano sulla campagna. La nonna sfilava da sotto il letto un rametto d’ulivo consacrato che si era procurata in chiesa, la domenica delle palme. Spiluccava le foglie rinsecchite una a una, le affastellava sul lastricato sotto al portico di casa e le incendiava con un fiammifero. Con solennità salmodiava i tridui, che assieme al fumo balsamico liberato dal minuscolo falò avrebbero dovuto acquietare l’ira divina e placare, così, la tempesta. Il nonno invece, aspettava in silenzio che lo scroscio sgonfiasse, dopodiché smurava impavido il crocifisso che tenevamo in cucina e lo legava alla sella della bicicletta con un lungo spago bianco. Me lo vedo ancora, sghembo sulla sua bici arrugginita, spedalare tra i filari con il Cristo di legno sballottato alle sue spalle. Il nonno faceva così per mostrare a Dio i danni che l’imprevedibilità climatica aveva causato al suo raccolto, al suo lavoro, alla sua stirpe. I riti paleocattolici dei mei progenitori appartenevano al lembo terminale di quello stadio mitico della storia durante il quale gli esseri umani attribuivano agli dèi la stabilità e la mutevolezza del clima. Come ebbe a dimostrare James Frazer ne Il ramo d’oro (1915), avveniva a ogni latitudine culturale che alle calamità naturali si tributasse un’origine metafisica: ovunque si credeva che il mondo visibile non fosse altro che la rappresentazione di quello invisibile, regolato dalle potenze insondabili del numinoso. Per migliaia, forse decine di migliaia di anni l’apparato rituale delle religioni è stato l’unico dispositivo utile a propiziarsi quelle forze arcane, a interferire con il regime delle piogge, a piegare la volubilità climatica in favore della vita umana. In una parola, a preservare la systasis, l’armonia fra il divino e il naturale. Rispetto al tempo in cui i miei nonni praticavano il loro sciamanesimo naturale, la comprensione fisica del mondo è diventata molto più profonda e diffusa, la natura si è completamente dissolta nelle mani degli scienziati, e quei riti dimenticati sono stati rimpiazzati dalle più moderne tecniche di geoingegneria che cominciano a essere sperimentate per la manipolazione artificiale del clima. Nonostante di fondo vi sia lo stesso fine – intervenire sull’ordine o sul disordine naturale – e la stessa promessa di salvezza, il passaggio dalla teologia naturale all’ambientalismo scientifico è irreversibile: nessuno più si metterebbe a pregare di fronte a una grandinata anomala, o a un ghiacciaio che si scioglie. Oggi quel ghiacciaio possiamo provare a ricongelarlo.
Il pianeta nuovo
Di geoingegneria si comincia a parlare in termini non più fantascientifici solo nel 2011, dopo la COP17 sul clima che si tenne a Durban, in Sudafrica. Da allora il termine designa la scienza applicata che ingloba tutte le tecniche di manipolazione antropica e consapevole degli equilibri climatici e ambientali. Il libro-guida per gli appassionati avidi di approfondire la dottrina arriva nel 2017: Il pianeta nuovo. Come la tecnologia cambierà il mondo di Oliver Morton (il Saggiatore), filosofo della scienza e caporedattore dell’Economist. Secondo Morton, il presupposto teorico su cui si fonda l’intera disciplina è che un taglio alle emissioni di CO₂, benché necessario e inevitabile, non darà effetti abbastanza immediati e dirimenti da mantenere il riscaldamento globale al di sotto del limite soglia di due gradi entro la fine del secolo, come stabilito dagli accordi di Parigi del 2015. Non c’è abbastanza tempo, in sostanza, per una conversione ambientale “dolce”, per organizzarci collettivamente e abbandonare in blocco l’energia fossile. Servono misure più radicali, proprie di una scienza prometeica che sfidi gli dèi della natura e rimetta in asse il piano inclinato della storia lungo cui sta scivolando l’umanità. In fondo, spiega Morton, “è da secoli che gli esseri umani interferiscono più o meno involontariamente con gli equilibri del pianeta che li ospita: le trasformazioni subite dai mari, dai venti, dai suoli, dai grandi cicli dell’azoto e del carbonio sono molto maggiori di quanto si pensi”. La geoingegneria è solo lo sviluppo prossimo e necessario di un processo che affonda nella storia radici antiche. Il libro di Morton si configura dunque come un breviario al tempo stesso eccitante e spaventevole di molte delle possibili soluzioni alla crisi ambientale che la geoingegneria ha proposto negli ultimi anni: 
·       una flotta di aerei che raggiunge la stratosfera per formare un “velo” di solfati intorno al mondo e riflettere la luce del sole.
·       navi fabbrica-nubi che seminano nuclei di condensazione sopra gli oceani per ispessire e imbiancare le nuvole, rendendole più riflettenti
·       fertilizzanti a base di ferro sparsi nei mari per rinfoltire la presenza di alghe avide di anidride carbonica
·       speciali “lenzuola” plastiche che ricoprono i ghiacciai a rischio di scioglimento e i deserti troppo caldi.
·       tecniche per catturare l’anidride carbonica emessa dagli impianti a energia fossile e immagazzinarla sotto terra.
In particolare, a solleticare la fantasia di Morton è soprattutto l’idea “che così come immettiamo nell’atmosfera i gas serra che riscaldano il pianeta, potremmo immettere nella stratosfera anche le particelle che lo raffreddano”. L’intuizione non nasce dal nulla, ma da uno studio pionieristico condotto da un team di venticinque scienziati coordinati dal fisico dell’Università di Washington Rob Wood, che già nel 2012 proponeva di liberare nell’atmosfera aerosol di acqua marina per favorire la condensazione di nuvole “artificiali” e schermare così il pianeta dall’irraggiamento solare. A distanza di sette anni, il gruppo di ricerca dell’Università di Harvard diretto da Frank Keutsch, Zhen Dai e David Keith è ormai pronto a testare il progetto SCoPEx, il primo esperimento di perturbazione climatica attraverso un’iniezione controllata di aerosol stratosferico, che permetterà di studiare i rischi e le opportunità di un’applicazione su larga scala. “Se tutto andrà secondo i piani”, ha scritto Jeff Tollefson in un lungo articolo di presentazione dell’esperimento apparso su Science, “il team di Harvard porterà per la prima volta la geoingegneria solare fuori dai laboratori”. Gli scienziati hanno già assaporato un’anticipazione dei possibili effetti sul clima nel 1991, quando un’eruzione del Monte Pinatubo nelle Filippine “liberò nella stratosfera circa 20 milioni di tonnellate di diossido di zolfo”, spiega lo stesso Tollerson. La nube generata “raffreddò il pianeta di circa mezzo grado centigrado” per i successivi diciotto mesi, riportando la temperatura media della Terra ai valori precedenti all’introduzione del motore a vapore. Da quando il libro di Morton è stato pubblicato, la geoingegneria ha continuato a mobilitare la comunità scientifica internazionale e a trovare ambiti di applicazione inediti, alimentandosi dell’attenzione e degli investimenti privati di plurimiliardari del calibro di Niklas Zennstrom, Richard Branson e Bill Gates – come nel caso del progetto SCoPEx. Sguinzagliata la creatività immaginifica degli scienziati, sono moltissime le ipotesi geoignegneristiche circolate negli ultimi anni. Alcune rimangono fedeli all’idea di schermare le radiazioni solari, magari con enormi parasoli posizionati sulla superficie terrestre o direttamente lanciati in orbita. Altre guardano invece agli oceani, come la costruzione di metropoli galleggianti o l’introduzione di microrobot natanti che ripuliscano l’acqua da batteri o da altre sostanze inquinanti, già allo studio di un gruppo di scienziati del Max Planck Institute for Intelligent Systems. Nel 2013, l’oggi venticinquenne Boyan Slat ha invece messo a punto The Ocean Cleanup, un sistema galleggiante per la rimozione passiva e su vasta scala dei frammenti di plastica in sospensione negli oceani. Tra le possibili applicazioni della geoingegneria rientrano anche tutte le misure tecnoscientifiche per fronteggiare lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente innalzamento del livello dei mari. Nel settembre del 2018, un gruppo di ricercatori coordinati da Michael Wolovick del Geophysical Fluid Dynamics Laboratory dell’Università di Princeton, ha progettato due diversi piani ingegneristici per frenare l’ice shelf del ghiacciaio di Thwaites, in Antartide, che con una velocità di due chilometri all’anno sta scivolando sul mare di Amundsen. Il primo piano di Wolovick e colleghi prevede di puntellare quasi 120.000 chilometri quadrati del Thwaites con degli enormi pilastri sottomarini, così da sostenere lo scivolamento del ghiacciaio senza però proteggerlo dalle correnti calde sottostanti. La seconda proposta, invece, suggerisce l’impiego di una barriera isolante che scorra sotto la piattaforma di ghiaccio in modo da impedire all’acqua oceanica più calda di eroderla dal fondo.Ancor più radicale è il progetto avanzato nel dicembre del 2016 dal team di Steven Desch dell’Arizona State University, che prevede di ricongelare l’Artide mediante pompe azionate a vento che spruzzino l’acqua marina al di sopra della calotta di ghiaccio. L’acqua vaporizzata dovrebbe congelarsi al contatto con lo strato superficiale del ghiacciaio, e aumentarne così lo spessore di circa un metro nel corso di un intero inverno. “Al momento la sola strategia che abbiamo [per frenare il riscaldamento globale] sembra essere quella di chiedere alle persone di smettere di utilizzare combustibili fossili”, ha dichiarato Desch in un’intervista al Guardian. “È un’ottima idea, ma avremo bisogno di molto di più per impedire la scomparsa del ghiaccio dal Mar Glaciale Artico”. Incredibilmente, per salvare le comunità costiere dall’innalzamento di mari causato dallo scioglimento dei ghiacciai, anche progetti avveniristici pensati con altre finalità sono di recente rientrati nella sfera d’interesse della geoingegneria. È il caso del progetto Atlantropa, l’enorme diga sullo Stretto di Gibilterra che l’architetto tedesco Herman Sörgel progettò nel 1928. Secondo Sörgel, l’opera avrebbe non solo rifornito d’energia idroelettrica l’intero continente europeo, ma avrebbe anche abbassato il livello del Mare Mediterraneo di 200 metri, facendo così emergere nuove lingue di terra per l’agricoltura e per il collegamento diretto tra Europa e Africa. L’idea del progetto, accantonata per quasi un secolo, è stata recuperata in anni recenti per la realizzazione del ben più modesto MOSE, la diga che una volta in azione dovrebbe sigillare la laguna di Venezia e proteggere così la pianura padana dall’innalzamento dell’Adriatico. Come mostrano i progetti di protezione dall’aumento del livello dei mari o di ricongelamento dei ghiacciai, la geoingegneria non mira soltanto a contenere il cambiamento climatico, ma cerca anche di intervenire direttamente sul suo ampio spettro di conseguenze. Tra queste, la meglio documentata e forse in più rapido svolgimento è quella che un team dell’Università di Stanford guidato dal biologo Rodolfo Dirzo ha definito defaunazione dell’Antropocene”. Le attività antropiche, infatti, non stanno soltanto deforestando il pianeta, ma anche defaunandolo al ritmo vertiginoso di più di un terzo delle specie animali portate a estinzione entro la fine del secolo, molte delle quali non ancora classificate dagli scienziati. Cambiamento climatico, degrado degli habitat, agricoltura intensiva e riduzione delle aree verdi compongono il groviglio di concause all’origine di quella che Philip Hoare chiama la “Grande Accelerazione dell’estinzione, la rarefazione della biodiversità animale che sta già cambiando in maniera irreversibile gli ecosistemi naturali di ogni latitudine. Mentre i conservazionisti tendono a concentrarsi principalmente sulla perdita della megafauna, la geoingegneria si è da tempo interessata all’estinzione funzionale di molte specie di insetti: questi sono ancora presenti negli ambienti di riferimento, ma talvolta in numero insufficiente per svolgere i cosiddetti servizi “ecosistemici”. Come ha scritto Brooke Jarvis in un lungo reportage per il New York Times, gli insetti non sono semplicemente degli indispensabili impollinatori, ma sono anche alla base della catena alimentare e sono infaticabili riciclatori degli ecosistemi, poiché concorrono alla decomposizione di escrementi, carcasse e di ogni altra sostanza organica. “Le piccole cose che fanno funzionare il mondo naturale”, direbbe Edward O. Wilson. Negli ultimi anni, ai dati frammentari raccolti dai naturalisti amatoriali si sono aggiunte le evidenze degli scienziati ad attestare l’apocalisse degli insetti: questi stanno estinguendosi a una velocità otto volte maggiore rispetto a mammiferi, rettili e uccelli. “Un intero mondo di insetti [sta] scomparendo”, commenta Brooke Jarvis, “e questa perdita [può] influire sulla vita del pianeta in modi imprevedibili”, con conseguenze drammatiche anche per la vita umana. Basti pensare che il 75% delle colture alimentari del mondo richiede un’impollinazione entomogama, ovvero condotta attraverso il trasporto di polline da parte degli insetti. Ecco che dove non è possibile l’azione del vento a sostituire l’entomofilia, diviene necessario studiare soluzioni alternative. In Baviera si è da poco tenuto un referendum consultivo per salvare le api con la riduzione dei trattamenti chimici in agricoltura, ma al tempo stesso frotte di apicoltori bavaresi si stanno specializzando in servizi di impollinazione a pagamento per gli agricoltori. In Cina, nella valle di Maoxian, il declino del numero di api è stato compensato dall’impiego di impollinatori umani che, armati di cotton fioc, attraversano le coltivazioni di alberi da frutto per propagare il polline di fiore in fiore. In Giappone, invece, l’Istituto nazionale di scienze e tecnologie industriali avanzate di Tsukuba sta lavorando a una soluzione geoingegneristica: sciami di droni grandi come colibrì che, grazie al Gps e all’intelligenza artificiale, in futuro potranno volare autonomamente e sostituire gli insetti impollinatori una volta che saranno definitivamente scomparsi. Torna alla mente Teodora, la città invisibile di Calvino, “cimitero del regno animale” in cui “l’uomo [avrà] finalmente ristabilito l’ordine del mondo da lui stesso sconvolto”. L’ipotesi di rimpiazzare gli animali a rischio di estinzione con robot meccanici non è la sola a essere stata formulata nel fertile alveo della geoigegneria. Il controverso genetista dell’Università di Harvard George Church, ad esempio, lavora da anni a una soluzione opposta e quanto mai dibattuta: riportare in vita le specie estinte. Il discusso movimento da lui fondato conta oggi una comunità di ricercatori da ogni angolo del globo e impegnati nella de-estinzione” di animali oramai scomparsi in tempi remoti o recenti come il piccione migratore, l’uro eurasiatico, lo stambecco dei Pirenei e il banteng di Java. Church, in particolare, è convinto di poter sfruttare congiuntamente le tecnologie del Multiplex Automated Genome Engineering, del CRISPR/Cas9 e degli uteri artificiali per riportare in vita dal genoma antico il mammut lanoso, che popolava la steppa siberiana fino a 12.000 anni fa, ai tempi dell’ultima era glaciale. Stando a quanto sostiene Church, la reintroduzione del mammut nel suo habitat originario non sarebbe un vezzo scientifico, ma aiuterebbe piuttosto a prevenire la cosiddetta bomba degli idrati di metano”, l’improvviso e incontrollato rilascio di gas serra ora intrappolati nei ghiacciai e nel permafrost. La presenza dei mammut dovrebbe infatti limitare la proliferazione boschiva in favore della steppa, che vanta una maggiore capacità di riflettere i raggi solari e di far penetrare il congelamento stagionale più in profondità. Qualcosa di analogo si sta già testando nella Jacuzia russa al Pleistocene Park, una riserva siberiana creata nel 1996 dal geofisico Sergey Zimov per ripopolare la steppa con cavalli, renne e buoi muschiati allo stato brado. In un suo recente articolo ripreso da Internazionale, Philip Ball faceva notare come, a cinquant’anni esatti dall’allunaggio del ‘69, l’entusiasmo per la corsa spaziale sia scemato velocemente, e con esso l’illusione che l’umanità avrebbe presto colonizzato altri pianeti. “Andare nello spazio ci ha fatto capire perché la Terra è così speciale”, scrive Ball. Nello spazio “non abbiamo ancora trovato un ambiente in cui avremmo la minima possibilità di creare un’alternativa a lungo termine del nostro pianeta, e nel sistema solare non c’è sicuramente”. Preso coscienza dell’inospitalità degli altri pianeti a un’eventuale colonizzazione umana, la geoingegneria spaziale ha invertito l’ordine del problema: non è l’umanità a dover abbandonare la Terra, ma è la produzione industriale a dover essere mandata in orbita. L’idea si è diffusa negli ultimi anni per iniziativa di Biran Cox, astrofisico dell’Università di Manchester convinto che per salvare la Terra dovremmo trasformarla in un pianeta esclusivamente “residenziale”. Entro la fine dell’anno, Cox avrà il piacere di vedere i primi esperimenti geoingegneristici per la messa in orbita delle fabbriche “extraterrestri”, ovvero piccoli satelliti comandati dalla Terra per lo studio della produzione meccanica in assenza di gravità. Qualora la migrazione industriale nello spazio si rivelasse impraticabile, potremmo comunque provare con la produzione agricola, come peraltro sta già avvenendo. Il 3 gennaio scorso, la missione cinese Chang’e 4 ha portato sul lato nascosto della Luna semi di cotone, patate, lievito e uova di moscerini, all’interno di una capsula sigillata con atmosfera, temperatura, umidità e quantità di luce controllate. Dodici giorni dopo, i semi di cotone sono germogliati – anche se le gemme sono presto avvizzite – in quello che è il primo esperimento di crescita sulla Luna di organismi biologici per l’alimentazione umana. Tra il 2014 e il 2015, semi di lattuga e di orzo erano già germinati con successo in apposite nicchie illuminate a led a bordo della Stazione spaziale internazionale. Nel 2017, invece, l’International Potato Center di Lima aveva lanciato una serie di esperimenti pioneristici per capire se fosse possibile coltivare patate su Marte, mentre a inizio 2018 un gruppo di ricercatori coordinati dall’agenzia spaziale tedesca è riuscito a coltivare vegetali in Antartide grazie alla serra denominata EDEN ISS, che in futuro si ritiene possa essere impiegata per la creazione di orti marziani o lunari. Anche i miei nonni coltivavano un orto, qui, sulla Terra. I periodi di semina li sceglievano in funzione dei cicli lunari: “mai piantare l’insalata con la luna che cresce”, mi insegnavano, “altrimenti va subito in semenza”. Per loro sarebbe stato inconcepibile un orto coltivato nello spazio, senza terra né letame. In parte lo è anche per me, che sono cresciuto imbevendomi del misticismo reverente con cui loro abitavano il mondo naturale.  L’idea che per salvarci dalla crisi ambientale da noi stessi generata dovremo sparare aerosol nell’atmosfera, ricongelare i ghiacciai, usare droni impollinatori, de-estinguere i mammut e coltivare orti lunari, entusiasma certo i tecnofili, ma lascia molti altri perplessi. Come nota lo stesso Morton ne Il pianeta nuovo, il pensiero ecologista contemporaneo è attraversato proprio dalla frattura irrisolvibile tra gli ambientalisti scientifici che vorrebbero intervenire sul clima per rimetterlo a posto e i teologi naturali che toccherebbero la natura meno possibile, limitandosi alla decrescita, all’agricoltura biologica, al vegetarianismo e alla riforestazione del pianeta. Le contrapposizione tra questi due atteggiamenti fondamentali di fronte alla natura – controllarne la fisica o rispettarne la metafisica – è però sviante, poiché la prospettiva scientifica sui cambiamenti climatici domina oggi clamorosamente quella teologica. I tecnoentusiasti riconoscono così che abbiamo riscaldato il pianeta ma possiamo ora provare a raffreddarlo, che abbiamo scongelato i ghiacciai e tuttavia c’è margine per ricongelarli, che abbiamo consumato la biodiversità ma potremo un giorno riuscire a de-estinguerla: nell’immane tentativo storico di fare ordine, la tecnoscienza ha prodotto un’interminabile scia di disordine, che ora possiamo rimediare soltanto con ulteriore ricorso tecnico. Di fronte al collasso del sistema climatico non c’è nient’altro che possa sostituirla, dunque il suo fallimento non sarebbe una confutazione definitiva, ma la sollecitazione ad auto-perfezionarsi all’infinito. Alimentandosi degli errori che genera, la tecnoscienza è eterna per sua stessa struttura. Non possiamo pensarcene al di fuori, non ci è possibile mettere in dubbio l’idea di sistemare la natura con la stessa razionalità con cui l’abbiamo devastata. Non possiamo più dubitare che come abbiamo sconvolto l’ordine climatico nella tecnica, nella tecnica lo risolveremo. Resta tuttavia ancora da chiarire che senso abbia salvare questa umanità, tracotante e smisurata, che non ama la natura e non la rispetta, che non la prega e non la riverisce. Un’umanità forse troppo intelligente per gli standard naturali, mai dubitosa, sempre pronta a intervenire sulle geometrie del mondo pur di non correggere se stessa.

Per meglio valutare le opinioni di Oliver Morton, ampiamente citato nell’articolo precedente, pubblichiamo una sua breve intervista……………

“La geoingegneria salverà il mondo”

Intervista al capo redattore de l’Economist (reperibile nel sito on-line “L’inkiesta”) in libreria con “Il pianeta nuovo”, un saggio su come la tecnologia può migliorare l’ambiente…………

Oliver Morton è a Torino, dall’altro capo del telefono, nelle prime ore di una fugace tappa italiana per presentare il suo libro “Il pianeta nuovo. Come la tecnologia trasformerà il mondo” (Il Saggiatore, 2017) dedicato alla geoingegneria. Argomento tanto importante quanto complesso che Morton valuta nel suo essere contemporaneamente caporedattore dell’Economist e divulgatore scientifico con una laurea in storia e filosofia della scienza:


Il 2006 è proprio l’anno del documentario di Al Gore “Una scomoda verità”. Si parlava solo di riscaldamento climatico, in quel periodo…
Se ne parlava male.
In che senso?
Nel senso che c’erano due ideologie. Quella di chi pensava che noi fossimo gli assoluti padroni della natura e quella di chi pensava che dovessimo toccarla il meno possibile. A cui aggiungo due corollari: che i primi ritenevano difficilissimo, quasi impossibile, tornare indietro, ridurre le emissioni, consumare meno energia. I secondi, invece, la ritenevano una cosa estremamente semplice.
Chi aveva ragione?
Nessuno dei due, a mio avviso. Io non credo che l’uomo sia il padrone assoluto della Terra. Ma credo anche che con le tecnologie e il sapere che ha a disposizione non possa e non debba toccarla il meno possibile.
Lei non crede agli accordi di Kyoto, Parigi e Marrakesh per il taglio delle emissioni in atmosfera?
Ci credo, funziona, ma non è un processo abbastanza veloce. Ci sono troppi problemi affinché lo sia.
Ad esempio?
Ad esempio, è un problema immettere le energie rinnovabili nel sistema elettrico.
Perché?
Perché abbiamo bisogno di incentivi, che finiscono per drogare il mercato. Nei mercati energetici normali, il prezzo dipende dal costo marginale della produzione. Ora, con gli incentivi e con gli investimenti a pioggia sulle rinnovabili, il costo marginale è quasi nullo, così come il prezzo. Cosa che comincia a diventare un problema per chi investe sulle rinnovabili, perché rischia di non guadagnarci nulla.
Lei teme che scoppi la bolla delle rinnovabili, in pratica?
E sarebbe un disastro, nel momento in cui bisogna fare la rivoluzione energetica. Credo vada anche rivisto il modo in cui si investe nell’energia, tra le altre cose. E il modo in cui si distribuisce: per permettere un vero sviluppo delle fonti rinnovabili dovremmo cambiare radicalmente tutta la nostra infrastruttura energetica e serve una generazione, per farlo. Non abbiamo così tanto tempo.
Servirebbe un clamoroso investimento pubblico?
Sì, ma è l’evidenza empirica che dimostra come sia molto difficile implementare e far digerire politiche che favoriscano il ricorso alle rinnovabili e l’abbandono dei combustibili fossili. Intendiamoci, sono tutti problemi che si possono superare, ma se vuoi avere una reale possibilità di non far aumentare la temperatura del pianeta di almeno due gradi, il ritmo con cui stiamo tagliando le emissioni oggi, è troppo lento. Serve un sacco di tempo, e noi non ne abbiamo abbastanza. E non ci sono ancora modi per rendere questa strategia più veloce.
È a questo punto che entra in gioco la geoingegneria…
In realtà, il fatto che la geoingegneria non venga presa in seria considerazione è un pezzo del problema. Eppure stiamo già facendo della geo ingegneria climatica.
In che senso?
Stiamo alterando il clima in peggio, immettendo troppa anidride carbonica in atmosfera. Il problema semmai è che lo stiamo facendo inconsapevolmente. La geo ingegneria che ho in mente io, quella che tante piccole ricerche di tanti scienziati in gamba stanno provando a costruire, dimostra invece che l’intervento dell’uomo potrebbe davvero aiutare il pianeta a cambiare in meglio.
Un esempio?
Dopo un eruzione vulcanica, diverse piccole particelle di zolfo vengono rilasciate nella stratosfera, la regione atmosferica compresa tra i 15 e i 60 chilometri dal suolo. Sono particelle che cambiano colore al tramonto, perché riflettono una piccola parte della luce solare. Cosa più importante, raffreddano il pianeta.
Quindi?
L’idea è che così come immettiamo nell’atmosfera i gas serra che riscaldano il pianeta, potremmo immettere nella stratosfera anche le particelle che lo raffreddano, con un pallone aerostatico o con aereo. Tutte le ricerche fatte sinora dimostrano che non sono dannose e possono abbassare sensibilmente la temperature terrestre. Perché non farlo?
Aiuto, queste sono davvero le scie chimiche…
Non sono scie chimiche e non le chiamerò mai così!
Ok, diciamola meglio: assomigliano molto all’oggetto delle teorie cospirazioniste sulle scie chimiche
Le teorie sulle scie chimiche sono curiose perché hanno creato una cospirazione sulle basi di qualcosa che non esiste. E la cosa buffa è che quelle teorie dicono che le scie chimiche stanno peggiorando il clima, mentre tutte le ricerche sulla geoingegneria si fondano sull’idea di migliorarlo.
Come mai secondo lei?
Loro vedono qualcosa di sbagliato in terra - l’inquinamento, l’aumento di alcune patologie - e qualcosa di sbagliato in cielo - quell’aereo ha una scia, questo no - e le mettono assieme. In questo modo hanno inquinato il dibattito, però. E adesso per quel poco che se ne parla, la geoingegneria è vista come una cospirazione globale. Capisce perché mi da fastidio parlare di scie chimiche?
Parliamo d’altro, allora: non è un po’ un azzardo morale., la geoingegneria? Inquiniamo quanto ci pare, tanto poi arriva l’aereo nella stratosfera a pulire tutto…
L’idea della geoingenieria, non è quella di trovare una via alternativa, ma una via complementare per ridurre ulteriormente il rischio. È un complemento, non una sostituzione.
Lei nel libro parla anche dei rischi della geoingegneria…
Non parlo di rischi concreti, ma di rischi potenziali. La scienza che ha enormi ambizioni, che supera i propri confini si misura con l’ignoto. Alcuni l’hanno definita scienza prometeica e io mi sono appropriato di questa definizione: più si punta al sole, più c’è il rischio di scottarsi. Anche perché non parliamo solo di solfati nella stratosfera. Parliamo di navi che fabbrichino nubi più bianche per renderle più riflettenti, di fertilizzanti a base di ferro che rinfoltiscano la flora oceanica di alghe avide di anidride carbonica, di coperte di plastica che ricoprono i ghiacciai che si sciolgono.
Ecco, ad esempio: diffondere solfati nella stratosfera che problemi può provocare?
C’è chi dice sarà dannoso per lo strato dell’ozono, chi dice che aumenterà l’umidità globale. Bisogna studiare, fare ricerca: alcuni guardano solo le ambizioni, altri solo i rischi. Andrebbero visti entrambi, come con si fa - o si dovrebbe fare - con gli Ogm.
C’è pure un problema politico: la stratosfera è di tutti. Chi può decidere cosa diffondervi?
Dobbiamo trovare un modo per creare istituzioni democratiche in grado di prendersi questa responsabilità. Non può essere l’incapacità a costruire un quadro istituzionale la scusa per non occuparsi del futuro del pianeta.