sabato 14 agosto 2021

Il "Saggio" del mese - Agosto 2021

 

Il “Saggio” del mese

     AGOSTO 2021

 ……… un “Saggio” leggero 

adatto quindi al gran caldo di questi giorni ……

L’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, primo e maggiore responsabile sia dell’emergenza climatica che dell’ingiustizia sociale globale, è da tempo aspetto al centro di molte delle riflessioni che proponiamo in questo nostro blog. Il saggio scelto per questo mese di Agosto l’affronta da un punto di vista “tecnico” entrando infatti nel vivo dei modelli economici teorici che, in buona misura, lo hanno sostenuto ed indirizzato nel corso di questi ultimi decenni, evidenziandone le profonde incongruenze e contraddizioni. Questo “supporto tecnico” è stato infatti elemento fondamentale per dare concreto seguito alla globale svolta ideologica neoliberista degli anni Settanta/Ottanta avendo, in base ad una sua presunta “autorevolezza scientifica”, ispirato e guidato le politiche economiche e finanziarie di governi e banche centrali di tutto il mondo. Per quanto il dibattito economico possa comprensibilmente sembrare ostico e ben poco affascinante resta però vero che qualsiasi modello di sviluppo alternativo necessita, per contribuire ad una qualche concreta realizzazione, anche di un diverso e non meno alternativo supporto tecnico-teorico economico. Gli indirizzi teorici mainstream da fronteggiare sono quelli da tempo sostenuti da scuole di pensiero economico molto specialistiche e concentrate presso le più prestigiose università, in gran misura del tutto impermeabili al comune sentire ed il cui dibattito segue inevitabilmente percorsi molto autoreferenziali. E’ comunque importante per noi comuni cittadini essere quantomeno consapevoli del loro ruolo così decisivo sulle nostre vite e minimamente informati sulle linee guida che ispirano i loro modelli. E’ quanto speriamo di offrire con questa sintesi sviluppata estrapolando i passaggi forse meno “tecnici” ma che di più consentono di comprendere l’evoluzione generale di un dibattito tanto accademico quanto determinante per la possibilità di un diverso modello di sviluppo.

Dal risvolto di copertina

Non esistono ricette universali, né politiche sempre e comunque superiori alle altre; gli economisti dovrebbero smettere di vendere questa pericolosa illusione alle opinioni pubbliche e ai responsabili politici. Il mercato rende liberi è l’antidoto perfetto per la tentazione della semplificazione che tanti danni ha fatto e continua a fare nel dibattito pubblico. Il cammino è ancora lungo, come lo stesso Mauro Gallegati ci mostra in questo libro, tuttavia i passi avanti sono stati notevoli proprio nei campi che in questi anni si sono dimostrati più rilevanti, dai modelli dell’instabilità finanziaria e delle crisi alle teorie dell’innovazione e del progresso tecnico, per citare solo i più ovvi. Certo, la teoria non è ancora consolidata, ma ciò non giustifica il persistere di politiche e metodi di analisi la cui credibilità è stata definitivamente rimessa in causa dagli eventi degli ultimi dieci o quindici anni. È importante leggere il libro di Mauro Gallegati oggi e lo sarà ancor di più quando la crisi del nostro tempo sarà alle spalle e si dovrà resistere alla tentazione di un ritorno al business as usual.”

Mauro Gallegati = docente di macroeconomia avanzata presso l’Università delle Marche. Editorialista per Il Sole 24 Ore, Il Manifesto, The Financial Times, autore di diversi saggi fra i quali segnaliamo il recente “Acrescita” (Einaudi) 2016

 

Introduzione

La svolta neoliberista, determinata dalla convergenza di precisi indirizzi politici ed ideologici che hanno fortemente inciso sulle politiche economiche globali, ha inoltre ricevuto il contributo determinante di una corrente di pensiero economico, al tempo stesso variegata e concorde, che, al termine di una lunga evoluzione, è divenuta, in coincidenza con tale svolta, la teoria economica “mainstream”, ossia quella dominante. Per comprendere le sue basi teoriche occorre risalire ad alcune scuole di pensiero, collocabili a cavallo fra Ottocento e Novecento che in pieno clima positivista hanno iniziato a proporre una visione dell’economia come “disciplina scientifica”. Vale a dire una scienza, o presunta tale, che basata, alla pari delle vere “scienze dure” quali chimica e fisica, su regole e interazioni stabili, può, una volta individuati i fattori che intervengono nei processi economici, definire modelli economici capaci, miscelando nella giusta misura tali fattori, di realizzare l’ideale di un perfetto “equilibrio economico generale”. In questi modelli i soggetti economici, individuali e collettivi, sono pertanto visti alla stregua di atomi che si muovono, sulla base di leggi deterministiche, lungo traiettorie tali da consentire una previsione esatta dello sviluppo di tutte le interazioni economiche. Tra i primi economisti che puntano ad una siffatta teoria dell’equilibrio generale spiccano i lavori di Leon Walras (1834-1910, economista francese) e di Wilfredo Pareto (1848-1923, economista e sociologo, sicuramente una delle figure più rilevanti nel campo delle scienze sociali del periodo). La loro comune proposta di equilibrio economico si muove ancora lungo le linee dell’economia liberale classica e quindi individua nella concorrenza perfetta, in un mercato lasciato totalmente libero di determinare il livello ottimale dei prezzi, il vero motore dell’equilibrio. Ma al di là della loro reale validità ed applicabilità, che da subito devono misurarsi con tendenze empiriche di tutt’altro segno, queste prime visioni già contengono la caratteristica costitutiva di tutti i modelli economici che, da lì in poi, punteranno a definire tale idea di equilibrio economico generale: la trasposizione in equazioni puramente matematiche di tutte le possibili combinazioni dei fattori economici. Bisogna però attendere mezzo secolo fino ai lavori di Gerard Debreu (1921-2004, economista francese poi naturalizzato statunitense, vincitore del Nobel per l’economia nel 1983) e di Kenneth Arrow (1921-2017, economista statunitense, vincitore del Nobel per l’economia nel 1972) i quali, nel 1954, definiscono congiuntamente un modello, denominato per l’appunto Arrow-Debreu, che individua  “matematicamente” l’insieme dei prezzi che dovrebbero consentire ad ogni agente economico presente sul mercato di massimizzare la propria “utilità/profitto”, senza prevedere alcuna figura centrale che coordini produzione e scambi, lasciati al libero gioco del mercato ed anzi fortemente protetti da ogni interferenza esterna. In questa visione idilliaca del libero gioco del mercato già emerge, fra le altre, una decisiva incongruenza: la variabile “tempo” non compare in alcun modo, l’equilibrio matematicamente ipotizzato si realizza infatti in modo a-temporale, è il risultato dell’incrocio dei fattori esaminato fotografato all’istante zero. Non è una complicazione di poco conto: non considerare la variabile tempo implica, inevitabilmente, negare spazio e ruolo a tutti quei fattori, e soggetti, che intervengono sul mercato in senso temporale quali: banche, moneta e credito, i quali sono di fatti ridotti a pure e semplici merci fra le altre merci, rendendo di fatto tale affascinante esercitazione teorica priva di una reale applicabilità alle dinamiche empiriche del mercato. La lunga pausa intervenuta tra Walras, Pareto e Arrow/Debreu, segnata da sconvolgimenti storici mondiali e dalla crisi strutturale globale del 1929, era stata peraltro ottimamente riempita dall’affermarsi della teoria macroeconomica keynesiana, la quale si era guardata bene dall’inseguire miraggi di equilibrio ideale per puntare, con efficacia, sul ruolo attivo delle politiche statali a sostegno, e correzione, degli scompensi ciclici dell’economia capitalistica. Gli shock petroliferi degli anni Settanta, congiuntamente al variare del vento politico ed ideologico nell’intero Occidente, segnano la fine del sistema keynesiano e riaprono spazio al revival degli studi, come il modello Arrow/Debreu, mirati alla definizione di uno stato ottimale di equilibrio di mercato all’interno del quale entra però pesantemente in gioco, come elemento innovativo stimolato dai limiti concettuali di Arrpw/Bebreu, il fattore dinamico della “crescita”. Si punta quindi ancora e sempre ad un equilibrio, ma ora orientato, con l’assunzione della variabile tempo, ad un idealizzato incessante crescere dell’economia nel suo complesso. Un rilevante contributo teorico in questo senso viene fornito proprio dalla “teoria della crescita” di Robert Solow (1924, economista statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1987) all’interno della quale inizia a rivestire, accanto al fattore tempo, un ruolo più marcato il “progresso tecnologico”. Robert Lucas (1937, economista statunitense, fra i più influenti membri della famosa scuola economica dell’Università di Chicago, “I Chicago Boys”) aggiunge successivamente un’altra importante variabile: quella delle “aspettative razionali”, vale a dire la tendenza dei soggetti economici ad usare tutte le informazioni disponibili in modo razionalmente efficace, ancorchè ispirato dalla propria utilità contribuendo così a determinare, sempre grazie al libero gioco del mercato, un quadro globale capace di muoversi verso una “crescita equilibrata”. Diventa così centrale in questo quadro la necessità di ottimizzare da una parte l’accesso diffuso alle informazioni e dall’altra un insieme delle “relazioni micro-macro e individuale-aggregato” tale da consentire alle specifiche razionali aspettative di divenire fattore economico globalmente efficace. E’ sulla base di questi passaggi teorici che si è progressivamente pervenuti, nelle ultime decadi del Novecento, al modello teorico che di più e meglio ha sintetizzato la volontà di determinare matematicamente le linee di sviluppo dell’economia, e che quindi di più ha influito sulle politiche economiche globali: il “DSGE”, un acronimo che sintetizza Dynamic Stochastic General Equilibrium, vale a dire (modello) dinamico e stocastico di equilibrio economico generale. Si tratta di un contenitore unico entro il quale sono via via confluiti successivi perfezionamenti che, sulla base dell’analisi dei cicli economici già avvenuti, mira a definire scenari futuri, considerati matematicamente certi, a cui tendere grazie a politiche economiche mirate. Il termine è unico ma in effetti esistono numerose versioni di DSGE, che si differenziano per la gamma di shock, di turbolenze stocastiche (sinonimo di casuale, aleatorio, probabilistico) via via inserite nel modello, nella speranza di completare in via definitiva l’insieme delle variabili capaci di incidere su di esso. Joseph Stiglitz (1943, economista e saggista statunitense, premio Nobel per l’economia nel 2001) ha individuato, fermandosi al 2018, almeno una decina di shock stocastici.  E’ una rincorsa che sempre più appare infinita per la semplice ragione che qualsiasi shock è comunque in grado di cambiare in profondità il quadro economico, generando conseguentemente ogni volta nuove “condizioni iniziali” tali da imporre, in una rincorsa senza fine, mutate “prospettive dinamiche”. Eppure il DSGE, nei suoi continui aggiornamenti, non smette tuttora di arricchirsi di nuove variabili nella eterna speranza di riuscire a “modellizzare” tutte le variabili in campo.  Sulla sfondo ancora e sempre si muove l’assurda negazione delle tante evidenze empiriche che attestano il ruolo decisivo dei fattori sociali, politici, culturali che, assolutamente non traducibili in puro dato matematico, sono in grado di condizionare in modo decisivo ogni idea di sviluppo economico. Si torna cioè, un secolo dopo Walras e Pareto, alla iniziale contraddizione di fondo: il ritenere l’economia una “scienza esatta” negando la sua indiscutibile evidenza di “scienza sociale”. Suonano ancora di perfetto monito le parole di Keynes (John Maynard Keynes, 1883-1946, economista inglese, padre della macro economia) …… non ha senso adattare i metodi ed i ragionamenti della fisica alla modellizzazione dell’economia perché l’economia è una scienza morale, che ha a che vedere con motivazioni, aspettative, incertezze….è come se la caduta al suolo della mela di Newton dipendesse dalle aspettative della mela stessa …… Va detto che il problema non è certo la matematica in sé, ma l’uso che se ne fa. Stiglitz è quanto mai chiaro al riguardo …… la questione non consiste nella formulazione matematica delle variabili economiche ma nelle ipotesi assurde che la ispirano ….  L’assurdità consiste proprio nel considerare agenti e fattori economici, i quali sono mossi da volontà e finalità “soggettive”, alla stregua di elementi della fisica “classica” il cui moto è definito da leggi “oggettive”. L’economia è quindi per definizione una disciplina “riflessiva”, una componente del vivere umano in cui il comportamento, quasi sempre imprevedibile del singolo, influisce in modo determinante su quello collettivo e viceversa. L’insistenza della teoria economica dominante a perseverare nelle sue convinzioni è spiegabile proprio soltanto con l’incapacità, ovvero con la mancanza di obiettività, di rimettere in discussione gli assiomi di partenza restando così immersa in una catena sempre più incontrollabile di presunte “successioni logiche” che tali non possono essere perché illogica è la loro situazione di partenza. Neppure la ormai lunga serie di crisi economiche, fra le quali spicca ovviamente quella del 2007/2008, sembra aver suonato da monito, per la semplice ragione che in questi modelli teorici, in cui tutto e tutti devono essere matematicamente determinati, …… non è neppure contemplata la possibilità di una crisi!!!!….. Eppure se proprio si volesse mantenere un certo parallelo con la fisica le evidenze storiche da tempo suggeriscono che questo potrebbe al limite sussistere con la fisica quantistica ed il suo contorno di imprevedibilità e complessità. E’ tempo quindi di accettare queste evidenze e di costruire non l’algoritmo economico perfetto ma una teoria economica che accetti, e su di essa si basi, la complessità, quella che ormai abbraccia ogni disciplina …… ad eccezione dell’economia, per l’appunto, e della religione la quale però non ha pretese di essere scienza ……

Capitolo 1

Come la fede nel libero mercato ha trasformato

una disciplina utile in una scienza inutile

Parlare di “economia” significa ormai riferirsi ad un contesto globale in cui interagiscono miliardi di individui che si scambiano miliardi di beni e di servizi a formare una rete di legami così estesa da essere, approssimativamente, indicata da un 1 seguito da ben diciassette zeri. E’ quindi del tutto comprensibile la propensione a codificare e governare un universo di processi economici così vasto e poliforme. Tutte le teorie economiche, a partire sin da quella “classica”, hanno conseguentemente cercato di tradurre questa propensione in strumenti di lettura e interpretazione delle dinamiche economiche per individuare, ovvero ad introdurre, “regole e norme” utili a governarle. Come già anticipato nell’Introduzione la, non casuale, coincidenza fra sviluppo economico e sviluppo scientifico ha, nell’Occidente industrializzato, creato in qualche modo le condizioni per un’assimilazione delle teorie economiche a quelle scientifiche fondata, per similitudine, su dinamiche meccanicistiche assimilabili a quelle della fisica newtoniana classica. A fine Ottocento, nel pieno di una fase di mondializzazione dell’economia e di intenso fervore positivista (il positivismo è stata una corrente di pensiero multidisciplinare di esaltazione del progresso scientifico), questa tendenza ha ricevuto ulteriore impulso sino a soppiantare in buona misura  la teoria economica classica che, come ben dimostrano le opere di Adam Smith, di Ricardo e, su basi critiche, di Marx, aveva al contrario una indubbia valenza di filosofia morale vedendo nell’economia lo strumento per il miglioramento dell’intera società. In luogo di quella che per tutto l’Ottocento aveva saldamente mantenuto il ruolo di …… political economy ……, di “politica economica”, si affermano così scuole di pensiero definibili come …… economics ….. ovvero “scienze economiche” che, a meccanicistico ricalco delle leggi di Newton, al tempo ancora prevalenti, leggono l’economia come …… un sistema soggetto ad una sorta di leggi di natura e quindi non mutabile nelle sue dinamiche di fondo ……. Emerge però fin da subito un evidente limite: queste presunte “leggi economiche” non consentono, per la loro stessa natura, di essere sottoponibili all’onere della falsificabilità, della ……. verificabilità delle ipotesi assunte a loro base …… Operazioni che sono infatti del tutto impossibili per una disciplina umana che, come vedremo, poggia per definizione su una sorta di sabbie mobili. Ma neppure le pur clamorose evidenze della loro inconciliabilità con la concreta storica evoluzione dei processi economici è stata in grado di intaccare questa incrollabile fede scientista. Per utilizzare schemi teorici assimilabili a quelli della fisica, - si badi bene ancora riferendosi all’impianto  della fisica “classica” prima che questa fosse radicalmente mutata dal relativismo di Einstein e dalla rivoluzione quantistica – queste teorie, fin dalle  loro prime versioni,  utilizzano due, non neutrali, correlate assunzioni: il sistema economico è governato da leggi immutabili e, quindi, il comportamento di tutti i soggetti economici può essere ricondotto a quello degli atomi ovvero non governato da strategie  che non coincidano con queste leggi immutabili. La prima e la più importante delle leggi immutabili sancisce che, in una economia di mercato come quella capitalistica, l’equilibrio economico è garantito dalla dinamica dei prezzi lasciati liberi di muoversi nel gioco fra domanda ed offerta. L’intera gamma delle interazioni e delle dinamiche economiche che, come si avrà modo di approfondire, si muovono seguendo percorsi molto più complessi di quelli teoricamente derivabili dalle presunte leggi immutabili, raggiunge per definizione il suo punto di equilibrio nei prezzi finali spuntato sul mercato da prodotti e servizi.  Le “economics” non devono avere allora altro scopo che quello di sgomberare il campo economico da tutto ciò che può essere di impedimento al libero gioco del mercato. Su questa fondamentale asserzione sono così costruibili modelli economici che assecondino, conciliando fra di loro i vari fattori e soggetti, questa naturale tendenza del mercato. In questo modo però non solo si sottovaluta la complessità dei processi economici, ma si creano le condizioni per il compiersi di un errore del tutto inaccettabile in campo realmente scientifico: non si sottopone cioè queste presunti leggi all’onere inaggirabile della confutabilità, ma le si assume aprioristicamente come intoccabili sino al punto di trasformarle in vere e proprie “verità di fede”. Se tutte le vere ipotesi scientifiche sono, proprio in virtù della loro costante confutabilità, delle “verità temporanee”, quelle economiche, alla base di queste scuole di pensiero, si sono di fatto trasformate in veri e propri “assiomi”, semplici opinabili affermazioni evolute in regole ferree ed immutabili. A questo decisivo peccato originale delle teorie economiche progressivamente cresciute (con i percorsi sintetizzati nell’Introduzione) sino a divenire nell’ultima parte del secolo scorso quelle dominanti, quelle “mainstream” (termine inglese che indica una corrente di pensiero divenuta quella più seguita in un determinato campo o disciplina), a questa insanabile, e quindi mai sanata, contraddizione di partenza si è successivamente aggiunta, grazie all’avvento delle tecnologie informatiche e dei “big data(gli enormi archivi dati resi possibili dalle straordinarie capacità tecnologiche di loro raccolta ed accumulo) una non meno pericolosa conseguenza: questa presunta scientificità dei processi economici ha sempre più consentito la loro traduzione in modelli rigorosamente matematici a loro volta analogamente assunti come infallibili ed inconfutabili. Un percorso quindi da sempre ispirato, in tutte le sue varie evoluzioni, da una logica “assiomatica” con l’inevitabile conseguenza di essere in qualche modo autoreferenziale e di avere come prima, se non unica, preoccupazione quella della loro  …… coerenza interna ….. tale da garantire, a costo di astruse forzature modellistiche …….. conclusioni immancabilmente coerenti con le premesse ……. Va da sé che quando gli assiomi assunti come premessa non reggono alla prova empirica della reale evoluzione dei processi economici tutti questi modelli deterministici si dimostrano inapplicabili e quindi inutili. Non sembra tuttavia che la ormai lunga serie di evidenti discordanze fra modello e realtà stia inducendo reali ripensamenti, ancora ai giorni nostri resta infatti immutata nelle teorie economiche mainstream una ingiustificata auto-assoluzione teorica, tale da sconfinare davvero in una vera e propria professione di fede. Al più, come dopo la crisi strutturale del 2007/2008, si reagisce implementando i modelli di altre variabili nel tentativo, vano, di recuperare tutte le interferenze empiriche che hanno mandato in crisi le versioni precedenti. Non a caso quindi ancora si insiste nell’immaginare l’economia come un sistema a sé stante di carattere “lineare”, un sistema cioè che può essere scomposto in più parti tra loro indipendenti ed il cui equilibrio globale è dato dalla somma, per l’appunto lineare, degli effetti autonomi di queste parti. Ed ancora e sempre si afferma il rifiuto aprioristico di una evidenza già perfettamente assunta dalla stessa economia “classica”: se le singole componenti del sistema sviluppano delle interazioni fra di loro, ed è esattamente questo che succede quotidianamente nell’economia reale, l’ipotetico equilibrio non potrà mai essere dato dalla semplice somma delle parti, l’interazione inevitabilmente crea un nuovo stato di cose. Nulla sembra essere mutato anche nel salto di qualità dei modelli economici mainstream ottenuto introducendo, in luogo di equilibrio generale statico, a-temporale, un elemento dinamico verso un nuovo punto di equilibrio. Lo stesso peccato originale continua ad incidere pesantemente. La dinamicità dei modelli mainstream non è certo definibile come “sviluppo”, soprattutto se per s-viluppo, che letteralmente significa “togliere i viluppi, le catene”, si deve intendere, come dato inaggirabile dell’economia come scienza sociale, non solo il miglioramento dei dati economici, ma anche quello della dimensione sociale-relazionale e della natura. La teoria mainstream, la sua concezione scientista dell’economia, la persistente ’assunzione aprioristica di assiomi, la loro elaborazione puramente matematica in modelli conseguenti, non può che ridurre lo sviluppo alla sola “crescita” dei dati economici senza alcuna attenzione per ……come e per chi si cresce e trascurando le relazioni con la natura ed il capitale sociale ….. Non stupisce poi che questa visione “matematica” dell’economia abbia imposto di essere valutata, misurata, da un indicatore, il PIL, che prende unicamente in considerazione il dato matematico di variazione di alcuni, opinabili, indicatori e che sia quindi del tutto incapace di individuare, ad esempio, chi gode realmente gli effetti di una sua eventuale crescita, ovvero chi paga i costi del suo rallentamento, e persino di tradurre in dato economico positivo danni irreversibili provocati all’ambiente naturale. Non deve allora stupire la stretta relazione che si è sempre più consolidata fra la teoria economica dominante e l’ideologia neoliberista del mercato senza vincoli, dell’assenza dello Stato, della cancellazione del welfare, della crescita fine a sé stessa, dell’affidare il traino dell’intera economia alla maggior crescita possibile della quota di ricchezza dei più ricchi. Nell’ultima parte di questo Capitolo Gallegati sottopone a critica feroce alcuni degli assiomi della teoria economica mainstream entrando nel merito di considerazioni tecniche molto specifiche e di non semplice comprensione per i “non addetti ai lavori”. Ci limitiamo quindi a citare, in modo molto sintetico, quelle più accessibili:

·      nonostante la  evidente complessità della loro costruzione i modelli economici, DSGE compreso, ancora ruotano, soprattutto in una visione che consegna sempre al gioco dei prezzi il conseguimento del punto di equilibrio, attorno alle “formule classiche del ciclo economico: M-D-M piuttosto che D-M-D”, con la prima, Merci-Denaro-Merci ad indicare rapporti economici finalizzati allo sviluppo dello scambio di merci con la moneta che funge da loro contatore e facilitatore, e la seconda Denaro-Merci-Denaro dove lo scopo economico principale non è il soddisfacimento del bisogno di merci ma realizzazione di un surplus monetario. Nulla di nuovo quindi sotto il sole nonostante la pretesa di modellizzazione scientifica.

·      la complessità di questi modelli poggia in gran  misura su una variabile, la cosiddetta “funzione aggregata di produzione”, che mette in relazione quantità di lavoro e quantità di capitale, tra di loro combinati dalla tecnologia, e che è utilizzata per definire il valore di un qualsiasi prodotto. Questa variabile non può essere determinata matematicamente con un pur minimo livello di precisione perché la componente del capitale dipende a sua volta dal “saggio di profitto” il quale a sua volta può essere stimato solo se non si conosce il valore del capitale investito. Questo gioco senza via di uscita rende del tutto inaffidabile questa variabile per quanto alla base dei modelli mainstream, e l’assurdo consiste nel fatto che di ciò se ne ha perfetta conoscenza! Al punto di tentare di risolverla, va da sé, con specifiche modifiche tecnico-matematiche. Fra le soluzioni adottate per mitigare questo deficit di attribuzione di valore, spicca la funzione Cobb-Douglas (il nome dei due economisti che l’hanno introdotta), la quale prevede ipotesi teoriche, quali una situazione di concorrenza perfetta e di piena occupazione, non a caso del tutto irrealistiche.

·      tutti i modelli mainstream si muovono in una visione dei processi economici che guarda a due sole componenti: lavoro e capitale dando per scontata la disponibilità di materie prime ed altri beni riproducibili. Ripropongono cioè il mito di una crescita potenzialmente infinita in un mondo che, sempre più tragicamente, si rivela finito. Ma accettarlo significherebbe invalidare l’intera costruzione teorica

·      come si è già più volte evidenziato secondo queste teorie dell’equilibrio generale è il movimento dei prezzi – verso l’alto/basso quando c’è eccesso/carenza di domanda – ad assicurare l’equilibrio. Peccato che l’andamento empirico dei mercati da sempre evidenzi che le curve di domanda hanno forme altamente irregolari essendo influenzate da una serie molto ampia di fattori tale da rendere di fatto inapplicabile la “legge della domanda e dell’offerta”. Di nuovo occhi chiusi per conveniente autodifesa

·      altro assioma smontato dalla realtà è quello del ruolo dello Stato. Gallegati si riferisce, in questo caso specifico, al ruolo, insostituibile, dello Stato nel garantire pari condizioni di accesso alle informazioni utili per operare scelte economiche razionali. Mancando questo supporto viene infatti a cadere l’intera costruzione dei modelli economici basati sulla efficiente allocazione delle risorse grazie, per l’appunto, al condiviso possesso delle informazioni adeguate. In questo caso la chiusura ideologica verso il ruolo dello Stato implica una pesante ricaduta su un altro degli assiomi mainstream

·      uno dei più evidenti, e conosciuti, “incidenti di percorso” delle teorie economiche è rappresentato dalla grande crisi del 2007/2008, un evento da loro giudicato impossibile a verificarsi. Il problema non è però consistito nella sua imprevedibilità, tutte le crisi sono per certi aspetti lo sono se non ad immediato ridosso del loro manifestarsi, ma nel fatto che le teorie mainstream non contemplano le crisi finanziarie. E ciò è dovuto alla loro totale sottovalutazione del ruolo del settore finanziario. Come già evidenziato in precedenza tutti i vari modelli, DSGE compresi, in molte delle elaborazioni non contemplano la variabile tempo ed immaginano, per comodità di modellizzazione, che tutti i processi economici avvengano in un momento dato. Ma cancellare la variabile tempo elimina di fatto un qualsiasi ruolo dei soggetti economici, quali banche e istituti di credito, che giocano su questa variabile. In sostanza, a ben vedere ed in netto contrasto con la loro complessa articolazione, essi di fatto immaginano un’economia …… di baratto mascherata da modello monetario …… ancora basata sul classico schema M-D-M. Una contraddizione clamorosa che già sconvolgeva il rimpianto Luciano Gallino acuto osservatore di un economia, da lui lucidamente definita ….. finanzacapitalismo …..,  tutta finalizzata allo schema D-M-D

Capitolo 2

Perché l’economia ha bisogno della complessità

Quanto esposto nel precedente Capitolo ha reso evidente ed urgente la necessità di contrastare gli evidenti limiti del modello economico mainstream e di fare anche in economia, se ancora si vuol mantenere il loro accostamento, il salto logico che la fisica ha compiuto ormai più di cento anni fa. E’ infatti ormai non più procrastinabile pensare a modelli non più basati su una concezione “riduzionistica”, ossia la costruzione di leggi generali, macro, basata, sulla base di una concezione “lineare” dei processi, sulla semplice sommatoria di singoli elementi, micro. L’evidenza, non più rinnegabile, che anche in economia …… quando c’è interazione tra gli elementi si formano delle strutture complesse che hanno proprietà diverse rispetto a quelle, sommate, dei loro singoli componenti …… non può non comportare precise e importanti conseguenze. Queste proprietà emergono chiaramente nella stessa dinamica del sistema che le raggruppa e sono in grado di definire spontaneamente un equilibrio là dove non lo sono i singoli elementi. Questo implica come prima differenziazione dai modelli mainstream di far rientrare in gioco, con un ruolo decisivo, il fattore tempo, e quindi di prestare maggiore attenzione analitica ai processi, autodeterminati, con i quali la realtà economica riesce comunque a definire un certo grado di equilibrio. Diventa quindi importante ……. investigare strutture e processi attraverso il meccanismo della loro evoluzione ….. Ogni organismo - e l’economia è, con tutte le sue particolarità, un grande organismo vivente composto a sua volta da una miriade di organismi viventi -  tende infatti, adattandosi all’ambiente, a raggiungere un punto, sempre provvisorio, di equilibrio che, restando in stretta relazione con i possibili continui cambiamenti dell’ambiente, è a sua volta in costante evoluzione.  Questo è quanto succede in economia, e questa costante complessità rende velleitario ogni tentativo di traduzione in modelli puramente matematici. Quello che occorre alle teorie economiche è allora la piena accettazione della necessità di essere impostate sulla base di una ….. teoria della complessità ….. che punti ad occuparsi di un sistema, quello economico, ……. popolato da elementi eterogenei, interagenti, che producono proprietà emergenti, non lineari, e che sono caratterizzati dall’auto-organizzazione …… Non ha quindi senso puntare a individuare ipotetiche leggi universali, quando si può parlare solo di “leggi specifiche” e di comportamenti emergenti non deducibili dalla somma dei singoli elementi che li compongono. In un sistema complesso i suoi agenti, a differenza degli atomi, sono in grado di adattarsi e di cambiare in base all’esperienza che hanno accumulato. Intervengono costantemente con forte influenza una notevole quantità di fattori, capaci di modificare l’ambiente economico quali, tanto per citarne alcuni: l’innovazione tecnologica, il sistema delle informazioni e della loro condivisione, il manifestarsi di nuovi bisogni, l’incidenza del contesto ambientale e del mercato delle materie prime. Si è in sostanza di fronte ad una necessità non più rinviabile di modificare il tipo di approccio analitico, che deve individuare nei processi reali di evoluzione i fattori che di volta in volta li stanno determinando abbandonando quindi pretesa di lettura aprioristica basata su assiomi indimostrabili e, inevitabilmente, mai davvero dimostrati. E mantenendo ferma un’altra importante considerazione: in un sistema complesso è davvero problematico  ….. associare una unica causa, per quanto ben definita, all’effetto in esame ….. Ogni possibile punto di equilibrio non può più essere un punto fisso nello spazio e nel tempo, ma, non diversamente dalla meccanica quantistica, lo si può articolare in una distribuzione di probabilità che si manifestano anche quando i suoi elementi costitutivi sono lontani dal loro specifico stato di equilibrio. La sfida non è di poco conto, si tratta infatti di uscire dalla pretesa deterministica dei modelli mainstream per tentare di indirizzare e governare processi economici che non possono essere che di tipo probabilistico, basati su un concetto di costante incertezza. Occorrono conseguentemente strumenti nuovi di lettura ed analisi dei fenomeni in corso, interventi di sostegno ovvero di correzione più mirati a specifici obiettivi di volta in volta variabili. Quello che non deve mutare, ma qui si entra nel campo delle scelte ideologiche di fondo, è il quadro di riferimento finale al quale comunque mirare, che non può non consistere che in un diverso modello di sviluppo capace di andare oltre la sola e pura crescita e di puntare ad una idea di equilibrio che inglobi giustizia sociale e compatibilità ambientale. Una svolta che, per quanto concerne il campo specialistico della definizione tecnica di modelli di analisi e di indirizzo, si sta purtroppo dimostrando operazione non semplice ed immediata. Oltretutto le cattedrali del pensiero mainstream esprimono una forte resistenza al cambiamento e le possibili alternative, anche per questa ragione, non sono al momento in grado di competere con adeguato impatto. Alcuni tentativi stanno tuttavia esprimendo interessanti esperienze. Gallegati cita fra gli altri quello che accomuna centri di ricerca di diversi paesi e di differente storia – Cambridge University, Università Cattolica di Milano, la scuola di dottorato presso l’Università Sant’Anna di Pisa e, per quanto se ne possa sapere, persino ambienti di studi economici cinesi – che si muove attorno all’idea di elaborare modelli alternativi utilizzando il metodo di …… modellistica ad agenti (ABM) …… Si tratta, ironia della sorte, anche in questo caso di una metodologia nata e sviluppata in fisica nucleare, con un contributo importante di Enrico Fermi, e da tempo  adottato in molti campi, dall’informatica alla Intelligenza Artificiale. Senza entrarne più di tanto nel merito si tratta di metodi di calcolo computazionale (individuazione delle risorse minime per la risoluzione di un problema) che, coerentemente con gli sviluppi della fisica subatomica, non mirano a dire dove gli elementi esaminati devono andare ma a intuire dove è possibile che vadano. Vale a dire l’esatto opposto della teoria economica mainstream! Nella versione base, attorno alla quale stanno lavorando i suoi diversi utilizzatori, il modello economico ABM analizza i comportamenti incrociati di famiglie, imprese di consumo, società di capitale, banche ed istituti di credito, il settore statale e la Banca Centrale. Sulla base dei dati reali raccolti le prime proiezioni modellistiche stanno individuando possibili punti di equilibrio molto vicini alle progressioni economiche reali. Si è comunque ancora molto lontani dal definire modelli già sufficientemente strutturati da poter essere una radicale alternativa generale ai modelli mainstream. L’eventuale conforto di strumenti tecnici adeguati non può però che essere di supporto ad una svolta globale che in questa prima fase si gioca innanzitutto sul piano delle scelte di fondo politiche ed ideologiche.

…… Paradigma dell’economista è non spacciarsi da profeta ……. Federico Caffè (1914-1998, economista e accademico, il più importante economista di scuola keynesiana italiano, considerato il padre ispiratore delle ultime leve di economisti del nostro paese)



domenica 8 agosto 2021

Sospesi nel tempo

 

Occorre riconoscere che al “fattore tempo”, inteso come sua percezione e come dimensione di proiezione esistenziale e sociale, quasi mai viene dedicata l’attenzione che invece meriterebbe. Vissuto come condizione all’apparenza scontata, ineludibile fino al limite dell’ovvietà, di norma non sembra infatti essere meritevole di approfondimenti che vadano oltre una sua scontata accettazione. Eppure, nei percorsi di vita individuali così come in quelli collettivi, il modo, per l’appunto quasi sempre inconsapevole, in cui lo introiettiamo è un fattore decisivo, capace di influenzare non poco idee e scelte. Questo modo altro non è che il risultato di un percorso culturale, consolidato in forme anche molto diversificate nelle singole culture, che ha attraversato, non a caso, “un tempo” lungo secoli, millenni, per installarsi in forme contemporanee nei nostri schemi mentali. L’articolo che qui di seguito proponiamo, pubblicato tempo addietro su La Repubblica, e quindi magari da qualcuno già letto ed apprezzato, offre spunti di riflessione per essere più consapevoli di questi aspetti e per comprendere quanto gli elementi di crisi con i quali “da tempo” dobbiamo misurarci stiano su di essi incidendo

tra storia e filosofia

“Noi, sospesi nel presente senza tempo”

Intervista di Fabio Gambaro (direttore dell'Istituto Italiano di Cultura a Parigi, giornalista culturale, per La Repubblica, L'Espresso, Le Monde e Livres Hebdo) a François Hartog

(storico francese, Direttore di studi nella École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, saggista, tra le sue opere pubblicate in Italia da Sellerio spicca “Regimi di storicità”)

sul suo ultimo saggio che ricostruisce la percezione del divenire nel mondo occidentale …….. Il tempo è per definizione ciò che ci sfugge, tanto che da sempre cerchiamo di afferrarlo in mille modi. La nostra percezione del tempo nasce però da una costruzione sociale, che, per quanto riguarda il mondo occidentale, è figlia della cultura del cristianesimo». Dal suo osservatorio all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, François Hartog studia da molti anni le metamorfosi delle forme storiche del tempo. Autore di numerosi saggi, tra cui il fondamentale “Regimi di storicità” ha da poco pubblicato “Chronos. L’Occident aux prises avec le Temps(non ancora disponibile in Italia)

in cui ricostruisce le diverse “epoche” che hanno caratterizzato la percezione del tempo nel mondo occidentale.

Per definire il tempo, il mondo cristiano delle origini ha utilizzato alcuni concetti della cultura greca antica», spiega il quasi settantacinquenne storico francese. «Kronos, il tempo che passa, quello della vita e delle stagioni. Kairos, il momento propizio, l’occasione da cogliere. E Krisis, che, specie in ambito medico, indica il momento critico, decisivo in un senso o nell’altro. Nel mondo cristiano Kairos viene a designare l’incarnazione, che è il momento più importante. Cristo rappresenta il Kairos per eccellenza, l’inizio di un tempo nuovo che continuerà fino alla fine dei tempi, il momento della Krisis, del giudizio finale preceduto dall’Apocalisse. Il tempo cristiano delle origini è tutto inscritto entro questi due limiti, Kairos l’incarnazione e Krisis il giudizio finale. Il tempo che intercorre tra i due, Kronos, per i cristiani in fondo non conta, è una specie di presente senza sostanza caratterizzato dall’attesa della fine dei tempi». 

Questo quadro temporale resisterà nel mondo occidentale dalla fine dell’Impero romano fino al XVIII secolo?

«Sì. In questo schema Kronos è stretto tra Kairos e Krisis. La storia dei secoli seguenti è quella della progressiva affermazione di Kronos. Due nomi incarnano più di altri questo passaggio: da un lato il naturalista Buffon, per il quale l’età della terra è molto più antica di qualsiasi cronologia biblica, dall’altro il filosofo Condorcet, che ha immaginato una progressione temporale illimitata, liberata dal termine ultimo della fine dei tempi. Nasce da qui il tempo moderno, senza più limiti e caratterizzato dalla prospettiva del progresso».

Il futuro diventa allora più importante del presente?

«In effetti, nel XIX secolo il futuro è la categoria dominante, quella che rende intellegibile il passato e condiziona il presente. Tutto si organizza in sua funzione. Di conseguenza, il passato non è più un modello né la storia è la maestra di vita che indica come agire nel presente. Tuttavia, nel corso del XX secolo, l’idea di progresso, e con essa l’idea di futuro, entra a sua volta in crisi. Dopo le due guerre mondiali e la shoah, era difficile credere ancora al continuo progresso dell’umanità. Anche il rapido progresso tecnologico degli ultimi cinquant’anni di fatto è stato percepito come scollegato dal progresso dell’umanità».

Se da un lato oggi gli individui sembrano averne coscienza, dall’altro però continuano a vivere nell’illusione che il progresso tecnologico possa salvarci. In tempi di Covid ci aspettiamo la salvezza dalla scienza…

«Vorremmo soprattutto essere salvati subito, senza attendere. Da qualche decennio, infatti, la nostra relazione con il tempo è dominata dal presente. Dagli anni Ottanta in poi abbiamo iniziato a rimettere in discussione l’idea che il futuro – percepito sempre più come un orizzonte chiuso – potesse essere migliore del passato. E anche la rivoluzione digitale, affermando il dominio dell’immediatezza, ha indicato il presente come il solo tempo possibile».

Eppure la nostalgia del passato e il dovere sono sempre più presenti. Come lo spiega?

«Non c’è contraddizione. Nell’epoca moderna, quando il futuro era ’orizzonte verso cui tendere, la storia aveva un senso e una direzione, al cui interno trovava una collocazione coerente anche il passato. Nel momento in cui il futuro perde forza e il tempo si riduce alla bolla del presente, l’acceso al passato si fa attraverso la memoria. E un modo per sfuggire al presente, ma senza una prospettiva futura. Il passato traumatico, quello della memoria, coesiste poi con il passato idealizzato nei cui confronti si prova nostalgia. Nei due casi si resta fuori dalla storia, che invece, quando convoca il passato, lo fa a partire dalla prospettiva di un futuro verso il quale essa pensa che si debba andare. Le storie nazionali sono figlie di questo modello teleologico».

A causa della pandemia il nostro presente è prigioniero dell’incertezza…

«Da più di un anno viviamo un presente sospeso in cui scompaiono tutti i punti di riferimento abituali. L’incertezza rende impossibili i progetti e la capacità di proiettarsi in avanti. Inoltre, quando pensiamo al futuro, lo percepiamo per lo più come una minaccia alle nostre vite, ad esempio sul piano climatico».

Da questo punto di vista la nozione di antropocene cambia ancora una volta la nostra relazione con il tempo?

«La parola antroprocene indica che la specie umana è diventata una forza geologica capace di modificare in maniera strutturale il sistema terrestre, ad esempio sul piano climatico. Visto che il tempo della Terra si conta in miliardi di anni, con l’antroprocene siamo di fronte a una scala temporale incommensurabile rispetto a quella di Kronos, che di solito conta in secoli o al massimo in migliaia di anni. All’improvviso ci troviamo di fronte a un futuro e a un passato illimitati, dove però il futuro è portatore di grandi minacce. E dato che oggi l’umanità ha già modificato in profondità il clima per i secoli a venire, il futuro, sebbene non ancora qui, è già in parte definito e immodificabile, qualsiasi cosa si faccia. È la prima volta che l’umanità si trova di fronte a una situazione di questo genere».

Ciò significa che il tempo dell’antropocene è di nuovo il tempo di una catastrofe annunciata? «L’antroprocene fa risorgere un limite, come ai tempi della temporalità cristiana. La minaccia climatica introduce la possibilità della fine del nostro mondo, ma non della Terra che può benissimo continuare ad esistere senza di noi. Siamo quindi costretti a fare i conti con un nuovo tempo della fine. Da qui il ritorno in voga degli schemi apocalittici del passato».