lunedì 30 novembre 2020

Le eredità di Trump - due articoli di Gian Giacomo Migone

 

Pubblichiamo due articoli che ci ha fatto pervenire Gian Giacomo Migone utili a meglio comprendere la difficile eredità che l’uscita di scena, tutt’altro che pacifica e ancora in grado di regalare altri eclatanti episodi, di Trump lascia all’America ed al mondo intero. Pur non essendo articoli recentissimi fissano alcuni elementi importanti per comprendere gli scenari di politica estera e le pesanti ricadute sulla democrazia e sul suo corretto svolgimento

 

Attenti ai successi di Trump in politica estera

Articolo pubblicato sul “Manifesto” del 16/10/2020

L'attentato in corso alla democrazia statunitense, promosso dalla presidenza di Trump sotto gli occhi del mondo, non deve oscurare i successi, purtroppo destinati ad essere duraturi, della sua politica estera. Ovviamente, quando scrivo "successi", mi colloco esclusivamente dal punto di vista della classe dirigente di quel paese, nella sua configurazione attuale, sia d'élite finanziaria che di "Deep State" (l'espressione con cui i liberals d'Oltreoceano definiscono le strutture più possenti dello Stato). Qualsiasi politica atta a contrastarla deve, tuttavia, conoscerne la pervasività e la forza. Il primo e principale successo della politica estera trumpiana -  che ha anche motivato e permeato la trasferta romana del suo segretario di stato, Pompeo - è quello di avere individuato nella Cina il principale nemico. Contrariamente a quanto è stato scritto, non si tratta soltanto di un espediente elettorale. Anche se definire la pandemia, di cui ora lo stesso Trump è vittima, "the Chinese plague", la peste cinese, rientra nell'armamentario tipico del personaggio, l'individuazione di un nemico su cui rinnovare un bipolarismo globale costituisce un'esigenza duratura del potere statunitense nella sua configurazione non solo attuale. Non è un caso che Joseph Biden, suo avversario politico e persino probabile successore, si sia guardato bene dal contestare questa sua scelta, a cui ha aderito in più occasioni in forma solo lessicalmente più blanda. I temi di cui si nutre sono tutti professati e praticati, con relative pressioni nei confronti dei propri alleati minori: guerra tecnologica e commerciale; diritti umani non intesi come valore coerente e universale, bensì utilizzati come arma di offesa; opposizione ovunque ad investimenti cinesi ritenuti strategici; militarizzazione del confronto in Asia. Per giustificare i costi economici ed umani tuttora imposti dal complesso militare-industriale - che il presidente ed ex comandante militare Eisenhower, nel 1960, definiva una minaccia alla democrazia - occorre un nemico, indispensabile per un paese la cui popolazione, per ragioni storiche e geografiche, altrimenti subisce la tentazione isolazionista. Ne consegue che, dopo la caduta del Muro e il crollo dell'Unione Sovietica, l'elemento costante della politica estera statunitense - appena attenuato dalle presidenza di Obama - è stata la ricerca di un nemico che surrogasse quello venuto meno e che, grazie alla politica estera di Trump, debitamente accompagnata da un incremento della spesa militare, è approdata all'antagonismo verso la Cina. Per una varietà di ragioni. la così detta guerra al terrore, stimolata dall'attacco alle Due Torri, e le conseguenti guerre all'Afghanistan, all'Iraq, alla Libia e in Siria si sono rivelate inadeguate allo scopo anche se, insieme con le iniziative restauratrici di Putin, sono state utili a giustificare l''esistenza della Nato, estendendone la competenza geografica ("Out of area or out of business"). Il secondo obiettivo raggiunto dalla politica estera di Trump è stato quello di ridefinire la politica mediorientale degli Stati Uniti, trasformando il rapporto sempre più stretto con Israele, sotto la guida di Benjamin Netaniahu e quello, fortemente motivato da interessi legati al petrolio e all'esportazione delle armi, con gli stati del Golfo, in una vera e proprio alleanza, con il così detto Patto di Abramo. Vera e propria rottura non solo con la prospettiva di uno stato di Palestina, ma anche con il diritto internazionale, a partire dalle risoluzione 212 del Consiglio di sicurezza dell'ONU che, come noto, non riconosce la sovranità israeliana sui territori occupati. Necessario sbocco di una tale politica è anche la crescente tensione nei confronti dell'Iran, in maniera da consolidare i rapporti tra le componenti sunnite del mondo arabo e gli interessi israeliani in Siria e nel Libano. Malgrado la crescente opposizione ad una tale politica nelle comunità ebraiche americane, ulteriormente consolidata nello stesso partito democratico da Bernie Sanders, Joseph Biden non ha dato alcun segno di volersene discostare, confermando anzi la decisione trumpiana, di alto significato simbolico, di collocare la propria ambasciata a Gerusalemme. Il terzo risultato conseguito dagli Stati Uniti sotto la presidenza di Trump è stato quello di alimentare una crescente rivalità, tendenzialmente ostile, nei confronti dell'Unione Europea, intesa come rappresentante dell'Europa nel suo insieme, con la sempre più netta preferenza a collocare i rapporti con gli alleati europei nel contesto della Nato, in cui prevalgono rapporti di forza di ordine strutturale e militare, o a confinarli a livello bilaterale, ove lo squilibrio è ancora più marcato.  Anche in questo caso non si tratta di una svolta più o meno epocale, bensì del consolidamento chiarificatore, con qualche elemento di ulteriore radicalità, di politiche che hanno un lontano passato. Sin da quando è iniziato il graduale declino del potere relativo degli Stati Uniti nei confronti del resto del mondo, grosso modo risalente alla sconfitta subita nella guerra del Vietnam, il rapporto con gli alleati europei è divenuto meno egemonico - cioè gramscianamente condiviso dai soggetti subalterni - e maggiormente segnato dall'uso dominante del potere, soprattutto di presenza militare. Tale mutamento è accompagnato dal graduale abbandono del disegno di un'Europa partner tra eguali, concepito negli anni cinquanta, fino a nutrire un crescente disagio, se non ostilità, nei confronti di un'Europa più unita, più forte in quanto potenzialmente capace di estendere la propria concorrenzialità dalla sfera economica e commerciale a quella strategica e politica. Esso è stato lucidamente praticato, se non proprio teorizzato, da Henry Kissinger, e nemmeno abbandonato da Clinton e Obama. E' problematico attendersi qualche passo in altra direzione da parte di una presidenza Biden. Più importante sarà la volontà di noi stessi europei di procedere sulla strada dell'integrazione, sottratta alla prospettiva di diventare sempre più terreno di rivalità e di conquista di Washington, Pechino e, in qualche misura, Mosca. Meno netta risulta la continuità tra l'esplicita sfida dell'amministrazione in carica ad ogni forma di legalità ed organizzazione multilaterale, dalle Nazioni Unite all'Organizzazione Mondiale della Sanità, ed un atteggiamento di convivenza, non priva di strumentalità e strappi, che ha caratterizzato la storia di un paese che, da Wilson a Truman, ne è stato il protagonista originario. Joseph Biden avrebbe interesse a tenerne conto. Come occorre non confondere gli aspetti duraturi dei risultati conseguiti dall'Amministrazione Trump con le insofferenze soggettive del presidente. Nei confronti della Nato, esse si sono risolte in un espediente tattico per ottenere maggiori contributi economici o di uomini nelle missioni congiunte da parte degli alleati europei. Anche i conflitti d'interesse personali o il fascino esercitato da personalità e regimi autoritari che hanno segnato rapporti di Trump con Vladimir Putin, non hanno seriamente modificato la politica estera degli Stati Uniti. Restano alcuni risultati che con ogni probabilità segneranno un eventuale presidenza Biden, comunque da considerarsi un male minore rispetto ad una vittoria elettorale o, peggio ancora, giudiziaria di una politica che costituisce una sfida aperta all'eredità democratica degli Stati Uniti.

 

Pur sconfitto ormai Trump ha incrinato le nostre democrazie

Articolo pubblicato sul “Fatto Quotidiano” del 20/11/2020

Per comprendere cosa è in atto negli Stati Uniti (e, di riflesso, da noi), a due settimane dalle elezioni presidenziali, concentriamoci sull'essenziale, occultato dai grandi media, per manipolazione o per semplice ignavia. Nelle principali democrazie occidentali e altrove, poche centinaia di persone posseggono una quota che varia dal 40 al 50% della ricchezza; i poverissimi restano tali con ulteriori danni derivanti dalla pandemia; tutti gli altri, la grande maggioranza dei cittadini elettori, continuano a perdere potere economico ed anche politico, in proporzione ai propri introiti ed averi. Quell'1%, che non è nemmeno tale, deve garantirsi uno status quo che non sia turbato dalla politica attraverso istituzioni, altrimenti dette democrazia, che continuano ad esistere, se non proprio a funzionare, e che potrebbero costituire strumento di emancipazione di maggioranze avverse. Perchè ciò non avvenga, esse devono restare divise ed essere occupate da partiti e persone che, in vario modo, non abbiano volontà o velleità di maggiore eguaglianza popolare, raggiungibile attraverso misure fiscali progressive, ricerca di modelli di sviluppo ecocompatibili, rafforzamento dello stato sociale, riduzione delle spese militari. Tanto per fare alcuni esempi che possono essere tratti dalle encicliche di Papa Francesco, oltre che dal pensiero di economisti quali Thomas Piketty, Joseph Stiglitz, Mariana Mazzucato e persino da politici quali Bernie Sanders e Jeremy Corbyn (purtroppo, almeno per ora, mancano nomi italiani di riferimento). Tale obiettivo, chiamiamolo conservatore, viene perseguito in due modi. Il modello prevalente negli ultimi decenni è stato quello di governi neoliberisti, diversamente sfumati, di centro-destra o di centro-sinistra, con il comune rispetto per l'economia nella sua attuale configurazione, addomesticabili con la forza del denaro, attraverso finanziamenti illeciti o anche legali, meglio se ingenti per coloro che ne usufruiscono - si calcola che la campagna elettorale che si è appena conclusa negli Stati Uniti sia costata oltre $14 miliardi -, irrisori per coloro che tengono i cordoni della borsa. La proprietà dei principali media può fare il resto, elargendo o negando carote in forma di visibilità ai contendenti, mentre apposite lobbies somministrano pressioni settoriali. La candidatura di Joe Biden appartiene a questo primo modello, anche se deve fare i conti con una sinistra agguerrita all'interno del suo partito che ha avuto il merito di convincere il proprio elettorato prevalentemente giovanile a partecipare al voto, in nome del male minore. Effettivamente tale, perchè la ricandidatura di Trump ha costituito e costituisce una minaccia alle istituzioni e alle garanzie democratiche, in una gara all'ultimo voto, a scapito di sondaggi d'opinione che, ancora una volta, si sono rivelati previsioni che non sono riuscite ad autoadempiersi. Non è un caso che la borsa non soltanto statunitense abbia subito festeggiato la vittoria di Sleepy Joe che, come ciliegia sulla torta, dovrà fare i conti con i contropoteri di una Corte Suprema iperconservatrice e, salvo sorprese nelle due elezioni suppletive in Georgia, con un Senato a maggioranza repubblicana, a scanso di concessioni eccessive nei confronti di una sinistra che non si merita di definirsi socialdemocratica. Nello stesso tempo, Donald Trump ha adempiuto e tuttora adempie al suo ruolo di secondo modello politico a disposizione dei poteri vigenti. Come i suoi omologhi europei (Le Pen e Meloni, tanto per citare due nomi), egli ha svolto il compito essenziale di dividere la maggioranza dei cittadini che avrebbero interesse a modificare, se non a sovvertire, quei poteri. Lo ha fatto fomentando ogni possibile guerra tra poveri e meno abbienti, facendo tesoro della ferocia di coloro che, come nella Germania di Weimar, si vedono privati di una condizione piccolo borghese faticosamente acquisita e che, prigionieri della loro (in)cultura, non si accorgono che il loro Gauleiter globale nulla ha fatto per salvaguardare i loro interessi materiali, invece garantiti ai loro (ex)padroni con un ulteriore taglio alle aliquote più alte di tassazione. Non vorrei avere buttato troppa acqua sui fuochi, non tutti fatui, suscitati dalla vittoria elettorale di Joe Biden e di Kamala Harris. Il nostro presidente del consiglio, debitamente redarguito da "La Repubblica" (cfr. Stefano Folli, 4.11), ha fatto precedere le sue felicitazioni al presidente eletto con quelle rivolte "al popolo americano e alle sue istituzioni per l'eccezionale affluenza, di democratica vitalità.". La vera buona notizia consiste, infatti, nella capacità dimostrata di società ed istituzioni statunitensi di sostituire un presidente oggettivamente sovversivo, contenendo tensioni senza precedenti, attraverso uno scontro elettorale autenticamente democratico. Malgrado le manchevolezze del meccanismo elettorale vigente, le accuse di brogli continuano a rivelarsi inconsistenti. Si profila la possibilità di salvare vite umane da una pandemia in crescita globale. La volontà di tornare nell'Organizzazione Mondiale della Sanità, nell'alveo del sistema multilaterale è un segnale importante da parte del presidente eletto. Tuttavia, anche se sconfitti, i Trump e i Le Pen servono a costringere forze alternative progressiste ad accettare il vecchio modello liberista; a votare i candidati che lo servono, come mali minori. Con la capacità residua, nel medio periodo, di continuare a costituire un pericolo per la democrazia, contribuendo alla diffusione di un modello autoritario che in anni recenti ha conquistato grandi paesi quali l'India e il Brasile, mentre si profila l'egemonia mondiale della Cina, ove oligarchia finanziaria e politica coincidono, senza le discrepanze che tuttora offrono spazi di innovazione democratica in tutto l'Occidente e rendono essenziale l'impegno per un'Europa più integrata.In questo contesto non sfugge il senso profondo della dichiarazione di un Pompeo, in rappresentanza di oltre 70 milioni di elettori che non hanno dato alcun segno di deporre le armi. Gli ha risposto Bernie Sanders su Twitter: "No, segretario Pompeo. Non ci sarà una transizione verso un secondo mandato Trump. La gara si è conclusa. Joe Biden sarà il nostro prossimo presidente. Come può predicare rispetto della democrazia e della volontà popolare ad altri governi se lei stesso non ha la decenza di farlo?".

domenica 29 novembre 2020

Ancora sulle elezioni americane - 4° puntata

 

Le elezioni americane e la lenta e complicata fase di transizione presentano ancora non pochi tratti difficili da decifrare per noi osservatori interessati, per le ovvie ricadute che quello che succede negli USA ha da sempre su tutto il resto del mondo. Continueremo quindi nel nostro blog a seguirne l’evoluzione approfondendo il meglio possibile la lettura socio-politica del voto e dei primi passi della nuova amministrazione Biden. Pubblichiamo in questo post il secondo reportage “on the road” di Francesco Costa che con tono scanzonato coglie comunque alcuni aspetti significativi. Il primo, relativo alla lettura del voto, conferma che la sconfitta di Trump non ha assolutamente avuto le caratteristiche della disfatta incautamente prevista da non pochi commentatori. Anzi, i consensi raccolti da Trump sono persino cresciuti rispetto a quelli del 2016 anche in strati sociali, come i latinos, i latino-americani, e persino in parte dell’elettorato afro-americano, ed è rimasto saldo anche il voto della classe operaia bianca. Biden ha sicuramente vinto con uno scarto di voti molto ampio grazie alla insolita altissima percentuale di votanti, ma anche sfruttando, stavolta a vantaggio dei democratici, l’astruso meccanismo di attribuzione dei grandi elettori. Il secondo aspetto, relativo invece alle caratteristiche della nuova amministrazione, lascia intravedere una squadra di governo molto solida come competenze e professionalità ma tutt’altro che innovativa. Nell’articolo compaiono immagini e brevi descrizioni dei personaggi che occuperanno i posti chiave di governo: sono tutti espressione del miglior establishement democratico - si deve ancora parlare di “élite”? – e rendono lecito supporre che le politiche di Biden saranno, perlomeno nella prima fase, improntate ad una grande cautela e moderazione. Non esattamente quello che speravano le componenti più giovani e desiderose di cambi di rotta più radicali. Vedremo. Appena possibile speriamo di pubblicare altri articoli di Gian Giacomo Migone, grande esperto di cose americane e nostro previsto relatore alla conferenza sul tema annullata per le note vicende pandemiche.

Secondo articolo “on the road” di Francesco Costa (giornalista, vicedirettore del giornale on-line “ilpost.it”) attualmente in viaggio negli USA  (articolo segnalato da Massima Bercetti)

Quando vi chiedete se i siti di scommesse siano affidabili nel prevedere il risultato delle elezioni tenete conto che stanno ancora quotando la vittoria di Donald Trump!

Le elezioni presidenziali le ha vinte Joe Biden, ma uno dei risultati più sorprendenti del voto del 3 novembre riguarda Donald Trump. Com'è possibile che dal 2016 al 2020 il consenso di Trump tra le persone di origini latinoamericane sia aumentato? Perché il politico che quattro anni fa aveva lanciato la sua candidatura sostenendo che dal Messico arrivassero solo "criminali" e "stupratori", che ha adottato politiche brutali contro l'immigrazione, è riuscito a migliorare la sua popolarità tra gli statunitensi di origini ispaniche? Non è un fatto da poco: i latinoamericani sono il segmento demografico che cresce di più negli Stati Uniti, e alle elezioni del 2020 per la prima volta nella storia americana ci sono stati più elettori ispanici che afroamericani. A lungo si è pensato che il Partito Democratico fosse destinato ad avvantaggiarsi naturalmente della crescente diversità etnica degli americani, ma il voto di novembre ha messo in discussione questa tesi. Bisogna capire perché. Un terzo dei cittadini americani sta facendo fatica nell’affrontare le spese fondamentali della vita quotidiana, dal cibo all’affitto, ha detto il sondaggio settimanale realizzato dall’ente statistico del governo degli Stati Uniti. Un adulto americano su otto – circa 26 milioni in tutto – la settimana scorsa non ha avuto abbastanza da mangiare. Se si tiene conto solo delle famiglie con bambini, gli adulti americani in questa condizione diventano uno su sei. Perché succede? Si fa presto a dire che c’entra l’epidemia: certo che c’entra l’epidemia. Ma negli altri paesi occidentali, figuriamoci nelle più grandi potenze al mondo, le conseguenze economiche e sociali non sono state devastanti come negli Stati Uniti, perché i governi e i Parlamenti sono intervenuti. Negli Stati Uniti l’intervento c’è stato, ma si è fermato in estate. Lo scorso luglio è scaduto il sussidio straordinario da 600 dollari alla settimana che percepivano le persone disoccupate, e da allora il Congresso non ha più trovato un accordo per introdurre nuovi aiuti. Altri programmi straordinari di welfare scadranno alla fine dell’anno, per esempio la sospensione degli sfratti e i prestiti agevolati per le piccole imprese e le amministrazioni locali. Nel frattempo il numero delle persone morte ogni giorno a causa del coronavirus ha cominciato a sfondare quota duemila, mentre i nuovi contagi quotidiani si stanno avvicinando pericolosamente a 200.000. Non c’è niente che impedisca al governo e al Congresso di agire adesso, ma tutti escludono che ci siano le condizioni politiche per farlo: tutto è rimandato all’insediamento del nuovo Congresso e della nuova amministrazione, a gennaio, quando plausibilmente la situazione sarà ancora peggiore. La buona notizia – dal momento che quest’epoca ha messo in discussione anche le cose scontate – è che la transizione dall’amministrazione Trump all’amministrazione Biden è ufficialmente iniziata. Quando mancavano 56 giorni al giuramento, infatti, dopo l’ennesimo ricorso respinto e mentre gli stati stanno già iniziando a certificare i risultati delle elezioni, Donald Trump ha infine autorizzato la firma della lettera che riconosce in Joe Biden il vincitore delle elezioni presidenziali, e rende possibile iniziare il passaggio di consegne. Fate attenzione, Trump si è premurato di far notare che questa autorizzazione non comporta l’aver accettato la sconfitta. Il presidente uscente continua a sostenere senza alcuna prova che il voto sia stato truccato – mentre il suo distacco da Biden ha superato ormai i sei milioni di voti – e a scrivere su Twitter cose senza senso, e non è detto nemmeno che parteciperà alla cerimonia di insediamento. Sono dettagli, certo, ma come prevedibile Biden dovrà fare i conti con le conseguenze di questo comportamento: i sondaggi indicano che solo una piccolissima parte di chi ha votato per Donald Trump pensa che Joe Biden abbia effettivamente e legittimamente vinto le elezioni. L’inizio della transizione permetterà a Biden e Harris di avere accesso già ora alle informazioni che riceveranno una volta alla Casa Bianca, sulla sicurezza nazionale come sull’andamento dell’epidemia, sui rapporti dell’intelligence come sui piani per la distribuzione dei vaccini da COVID-19: e gli darà i soldi, il personale e gli uffici per mettere insieme un governo che sia pronto a lavorare fin dal primo giorno. È proprio sulla composizione del prossimo governo americano che sono arrivate più notizie nella settimana appena conclusa: vediamole insieme. C’è un tratto comune a tutte le persone di cui Biden ha annunciato la scelta fin qui: sono persone di grandissima esperienza e competenza. Si può pensare qualsiasi cosa dell’agenda politica di Biden e delle persone che ha scelto: troppo moderate, troppo di sinistra, ognuno ha legittimamente le sue idee. Ma sulle credenziali c’è poco da discutere: Biden fin qui ha scelto solo persone di comprovata dimestichezza con quello di cui si occuperanno. Prima di passare ai nomi, una premessa. La settimana scorsa vi ho raccontato di come, al contrario di quanto avvenga in Italia, quando negli Stati Uniti arriva una nuova amministrazione non cambiano solo i ministri e i dirigenti dei ministeri, ma una grandissima parte del personale: le persone che Biden dovrà scegliere e nominare prima dell’insediamento sono 4.000. C’è un’altra differenza fondamentale tra il governo americano e i governi a cui noi siamo abituati a pensare, da italiani ed europei. I governi americani sono l’esercito del presidente: i ministri sono dei soldati, e i loro spazi di autonomia politica sono limitati. Certo, i ministri possono fare il loro lavoro bene o male, e possono avere idee efficaci o inefficaci, ma non pensate a incarichi e figure dotate di un qualche protagonismo politico, che possano litigare tra loro o addirittura mettere in difficoltà il presidente, come accade normalmente nelle democrazie parlamentari. Quanti nomi di ministri di Obama sapreste citare a memoria, a parte il segretario di Stato? E di Trump?  Dove voglio arrivare: le persone che comporranno l’amministrazione Biden avranno compiti importantissimi, e quindi è saggio conoscere chi sono e farsi un’idea delle loro competenze. Ma tenete sempre presente che l’iniziativa politica del governo americano viene dalla presidenza in un modo molto più univoco e cristallino di quanto avvenga in un governo europeo. E tenete conto che per questo motivo l’incarico più importante di ogni amministrazione non è questo o quel ministro, ma il capo dello staff della Casa Bianca. Il capo dello staff è il vero braccio destro del presidente, molto più del vicepresidente; ed è la persona che ha la responsabilità di far diventare concreti gli obiettivi che il presidente decide di perseguire.

Ron Klain sarà il capo dello staff della Casa Bianca di Joe Biden. È un consigliere e collaboratore di Biden da molti anni: è stato il suo capo dello staff quando Biden era vicepresidente, e prima lo era stato anche del vicepresidente Al Gore. Durante l’amministrazione Obama era stato a capo della task force contro la diffusione del virus ebola, e in questi mesi ha più volte descritto la strategia di Biden contro il coronavirus. È considerato un gran secchione e un gran lavoratore. La sua nomina è stata apprezzata dai più moderati e centristi del partito fino ad Alexandria Ocasio-Cortez. Politico lo ha definiti “probabilmente il più preparato capo dello staff di sempre”.

Non è ancora ufficiale, ma Janet Yellen sarà con ogni probabilità il segretario del Tesoro. Parliamo di un pezzo molto grosso: Yellen è stata la prima donna a capo della Federal Reserve e sarà eventualmente la prima donna a guidare il dipartimento del Tesoro. È notoriamente favorevole a politiche economiche espansive ed è un’avversaria dell’austerità durante i momenti di crisi, specialmente quando i tassi di interesse sono così bassi.


Tony Blinken sarà il segretario di Stato. È un funzionario e diplomatico di lungo corso: quando John Kerry era il segretario di Stato, lui ne era il numero due. Blinken è un leale alleato di Biden, quindi non bisogna aspettarsi che vada in giro per il mondo a raccontare cose diverse da quelle che chiede il presidente, cosa che ogni tanto accade con i segretari di Stato. Ha fatto molta autocritica sulla politica dell’amministrazione Obama in Siria ed è notoriamente favorevole ad aumentare il numero di rifugiati accolti ogni anno dagli Stati Uniti, che Trump ha portato da 110.000 a 15.000. Sul piano politico, la direzione che intraprenderà è chiara: e in molti casi comporta ribaltare quello che ha fatto l’amministrazione Trump. Rientrare nell’accordo sul clima di Parigi e nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, provare a salvare l’accordo sul nucleare iraniano, ricostruire i rapporti con l’Unione Europea e con la NATO, ripristinare la linea dura contro la Russia e in generale l’impegno degli Stati Uniti a difesa dei diritti umani. Occhio alla questione iraniana, che sarà sempre più spinosa.

Linda Thomas-Greenfield sarà l’ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite. Nata in una famiglia poverissima, è una diplomatica con 35 anni di carriera ed è stata la persona di riferimento per l’Africa durante l’amministrazione Obama. Si trovava in Ruanda quando nel 1994 iniziò la guerra civile che avrebbe portato al genocidio, e un gruppo di soldati la prese per una donna di etnia tutsi mentre si spostava con un gruppo di persone del posto. Una persona fu uccisa davanti ai suoi occhi, poi le puntarono un mitra in faccia: dovette enfatizzare il suo accento della Louisiana per convincere i militari che non era ruandese ma americana.

Alejandro Mayorkas sarà il segretario alla Sicurezza Nazionale, l’agenzia che tra le altre cose si occupa di immigrazione. Figlio di immigrati cubani, sarà il primo statunitense di origini latine di sempre a occuparsi delle politiche di immigrazione del paese. Anche lui ha molta esperienza amministrativa: durante l’amministrazione Obama fu tra le persone che lavorarono al DACA, il programma che protesse dall’espulsione centinaia di migliaia di persone arrivate irregolarmente negli Stati Uniti quando erano bambine.

Avril Haines sarà la prima donna a capo del servizio nazionale di intelligence. Curriculum stellare, storia pazzesca: ha perso la mamma da ragazzina, suo padre a un certo punto finì senza casa per le difficoltà economiche della famiglia, è andata a Tokyo a studiare judo per un anno, è tornata negli Stati Uniti per studiare fisica mantenendosi lavorando come meccanico, a un certo punto ha provato ad attraversare l’Oceano Atlantico con un vecchio aereo trovandosi costretta a fare un atterraggio d’emergenza, poi ha aperto un bar, infine si è iscritta a Giurisprudenza e ha iniziato poi a occuparsi di diplomazia, diritti umani e sicurezza nazionale. Io sono stanco solo ad averle scritte, tutte queste cose.

Jake Sullivan, che era il più importante consigliere di politica estera di Hillary Clinton e ha lavorato nell'amministrazione Obama con incarichi sempre più importanti e visibili, sarà il consigliere di Joe Biden alla sicurezza nazionale.


John Kerry, la cui carriera diplomatica è gigantesca, si occupò in prima persona di mettere insieme l’accordo sul clima di Parigi quando era segretario di Stato: provateci voi a mettere d’accordo su qualcosa tutti i paesi del mondo. Sarà l’inviato speciale dell’amministrazione Biden per il clima: un incarico che nelle precedenti amministrazioni non esisteva, e che segnala l’importanza del tema dichiarata dalla nuova amministrazione. Kerry in questa veste farà anche parte del Consiglio sulla sicurezza nazionale. Mancano ancora molte nomine importanti. Su tutte il procuratore generale, il capo del ministero della Giustizia, che ha enormi poteri sul sistema carcerario, sulla giustizia penale, sull’immigrazione… e anche su cosa deciderà di fare l’amministrazione Biden con il presidente Trump sul piano giudiziario. Ne parleremo più avanti. Ma un’altra nomina delicata è quella del segretario della Difesa, soprattutto per i rapporti con la corrente più di sinistra del Partito Democratico, mentre il potente deputato Jim Clyburn – fondamentale per la vittoria di Biden alle primarie in South Carolina, e quindi probabilmente per la vittoria di Biden alle primarie punto – sta facendo valere il suo notevole peso politico per cambiare corso al Dipartimento dell’Agricoltura, perché la sua priorità non sia più dare voce all’America rurale ma combattere la fame. Se vi chiedete "dove sono i giovani?!" e "dov'è la sinistra radicale?!", non dimenticatevi che Joe Biden è la persona che ha vinto le primarie del Partito Democratico e le elezioni presidenziali. Ma a parte le battute, non aspettatevi nomi particolarmente famosi, tra le nomine che mancano, e soprattutto a questo punto non aspettatevi di vedere senatori: per quanto non sia impossibile, è difficile che persone come Elizabeth Warren o Bernie Sanders facciano parte dell’amministrazione Biden (ammesso che lo vogliano: sono molto più influenti da senatori che da ministri). Quello che rende improbabile la loro scelta non è tanto Biden, che ha un ottimo rapporto con entrambi, quanto la situazione al Senato. Non dimenticate che ogni nomina governativa dev’essere ratificata dal Senato, dove in attesa dei due ballottaggi in Georgia i Repubblicani hanno 50 seggi contro i 48 dei Democratici. Questo vuol dire che se Warren o Sanders dovessero essere nominati, dovrebbero lasciare i loro seggi: e in attesa delle elezioni del 2022 i loro sostituti saranno scelti dai governatori dei loro stati, che sono entrambi Repubblicani. Inoltre, con una situazione così delicata, Biden avrà probabilmente bisogno di convincere almeno uno o due senatori Repubblicani a ratificare le sue nomine. Non sarà impossibile – ci sono almeno tre moderati, Romney, Collins e Sasse, e altri con cui si può parlare – ma con Warren o Sanders lo sarebbe. Si dice per esempio che questo sia il motivo per cui Biden ha mandato Blinken al Dipartimento di Stato invece di Susan Rice, che è molto detestata dai Repubblicani. Qualche altra notizia in breve, e poi ci salutiamo.  Come ampiamente previsto, Trump ha graziato Mike Flynn, l’ex generale che aveva scelto come consigliere per la sicurezza nazionale e che si era dimesso quando era venuto fuori che aveva mentito all’FBI sui suoi rapporti con la Russia e il suo contratto di “consulenza” con il governo della Turchia. Flynn si era dichiarato colpevole due volte e stava collaborando con le indagini sul caso Russia, prima di cambiare improvvisamente team di avvocati e rinnegare tutto. L’amministrazione Trump aveva fatto cadere le accuse, e ora è stato graziato. Arriveranno altre decisioni del genere. Un po’ perché sono consuete, a fine mandato, per quanto mai così controverse. E un po’ perché Trump ha il diritto e il dovere di continuare a fare il presidente fino al 20 gennaio. Non vi scandalizzate per questo. Una superpotenza come gli Stati Uniti non può stare due mesi con un governo dimezzato, che sia l'uscente o l'entrante: non si può imporre un "bimestre bianco" a chi ha una carica esecutiva. D'altra parte quattro anni fa Barack Obama prima di lasciare la Casa Bianca approvò sanzioni durissime contro la Russia, commutò la pena di centinaia di detenuti, creò nuove aree protette, etc. Siete liberi di pensare che certe cose vi piacciano e altre no, e giudicare come volete le cose fatte da Obama e quelle fatte da Trump: ma l’esercizio di quei poteri è legittimo. E non ci sono leggi che tengano davanti a un presidente intenzionato a giocare con i loro confini. Non è detto che la cerimonia di insediamento si terrà all’aperto e con un vasto pubblico, soprattutto se la situazione dell’epidemia continuerà a essere così critica. Nessuno vuole che il giuramento di Joe Biden diventi un evento superdiffusore. Sarà contento Trump, che sicuramente avrebbe temuto il confronto fra le folle.  Nel concitato clima post-elettorale, a Facebook hanno deciso per qualche giorno di premiare la visibilità delle fonti di informazione autorevoli, penalizzando invece quelle più inaffidabili. In quello che è allo stesso tempo il più deprimente e il più prevedibile degli sviluppi, la partecipazione degli utenti al social network è diminuita.– Questa è una cosa che sta avvenendo un po’ ovunque, non solo negli Stati Uniti. Mentre un pezzo del paese soffre tremendamente, chi continua a percepire uno stipendio sta risparmiando come mai aveva fatto nella sua vita, dovendo o potendo rinunciare a viaggi, pause pranzo, cene, vestiti, acquisti impulsivi, regali, cinema, concerti: in una parola, alla vit... scusate, volevo dire, ai consumi. Queste rinunce sono un problema per l’economia ma i risparmi stanno abbattendo il debito privato degli americani, e potrebbero far ripartire l’economia più velocemente quando saremo finalmente fuori da questa pandemia


mercoledì 25 novembre 2020

Questa agricoltura non è verde

 

Questa agricoltura non è verde

Il cibo, compresa tutta la sua filiera agricoltura in primis compresa, era una delle tematiche al centro di una parte del nostro programma di incontri 2019/2020 rimasto purtroppo incompiuto. Il cibo, in senso lato, è stato anche l’argomento di alcuni “Saggi” del mese presentati proprio in funzione di tale programma. Questa nostra attenzione non è però scemata perché resta viva la convinzione che cibo, e agricoltura, rappresentino, al di là della loro importanza specifica, un decisivo punto di sintesi di molte problematiche fra di loro collegate, a partire da quella ambientale. L’impatto rilevante dell’agricoltura, e degli allevamenti intensivi, sul cambiamento ambientale, ed in particolare su quello climatico, è infatti dato accertato. Ci è quindi sembrato utile, proprio per mantenere attiva l’attenzione su tutto ciò, un interessante articolo, che qui riassumiamo in pillole, a firma di Federica Bianchi apparso sull’ultimo numero dell’Espresso del 22 Novembre scorso. Il problema affrontato è come l’Europa Unita stia delineando la politica agricola comunitaria dei prossimi anni per orientarla alla sostenibilità ambientale e le, purtroppo prevedibili, difficoltà a realizzarla a causa delle forti opposizioni delle grandi lobby del settore:

*   L’Europarlamento ed il Consiglio dell’Unione hanno varato ben tre proposte di PAC (Politica Agricola Comunitaria) per il periodo 2023-2030

*   Attualmente queste tre ipotesi sono oggetto di negoziazione tra i 27 paesi membri e l’Europarlamento

*   Lo stesso vicepresidente della Commissione interessata, Frans Timmermans, si è dichiarato pessimista sul fatto che questa travagliata trattativa porti ad una PAC realmente orientata verso una transizione “green”

*   Il peso finanziario di questa PAC è molto rilevante, ben 390 miliardi di euro a fronte, ad esempio, dei 290 previsti per il Recovery Fund, tanto da farla divenire il più grande programma di sempre di sussidi all’agricoltura

*   L’opposizione ad una PAC fortemente orientata verso una maggiore sostenibilità è guidata, come era ampiamente prevedibile visto l’ammontare degli interessi economici in ballo, dalle grandi multinazionali agricole e chimiche, protagoniste della “agricoltura intensiva” degli ultimi decenni

*   Questa industrializzazione della produzione agricola ha già espulso dal mercato un numero impressionante di piccoli produttori, tra il 2003 ed il 2013, in un solo decennio, i contadini europei sono diminuiti di oltre un quarto e sono scomparse 4,2 milioni di aziende agricole di piccole/medie dimensioni

*   Le nazioni che hanno registrato il maggiore calo sono la Polonia, la Romania e l’Italia (600mila aziende agricole in meno)

*   Il risultato è che il 20% delle aziende agricole europee intasca l’80% degli attuali sussidi PAC, che li eroga proprio in relazione all’estensione del terreno e non alla manodopera coinvolta o alle modalità di coltivazione

*   Le conseguenze di queste coltivazioni ed allevamenti intensivi sull’ambiente sono impressionanti. Fra i tanti due dati per testimoniarlo: producono il 17% delle emissioni di gas serra e, dato tutt’altro che secondario, stanno scomparendo, per colpa dell’inquinamento e della distruzione degli habitat naturali, molti animali “impollinatori” cruciali per il buon esito dell’84% dei raccolti (Dati Agenzia Europea per l’Ambiente)

*   La scelta degli indirizzi della nuova PAC deve essere fatta entro quest’anno per consentire la sua successiva traduzione in provvedimenti operativi, è quindi in questa fase che si decide la sua direzione strategica  

*   Fra le tre ipotesi in ballo quella più orientata al cambiamento green prevede che almeno il 40% del bilancio complessivo della nuova PAC sia destinato a finanziare produzioni agricole più ecosostenibili

*   E’ in corso una battaglia, in cui l’Europarlamento sembra essere quello più ostile al cambiamento, per ridurre tale percentuale fino ad un insignificante ed inutile 20%

*   Al contempo è forte anche l’opposizione al fatto che uno dei criteri base per l’elargizione dei sussidi PAC sia quello di premiare il maggior utilizzo di manodopera per mantenere invece ancora centrale quello dell’estensione della superficie coltivata

*   Le lobby, l’italiana Confagricoltura compresa, si muovono infatti all’insegna dello slogan “piccolo non sempre è bello” e del maggior ricorso alla meccanizzazione tecnologica.  La conseguenza sarebbe una ulteriore crescita delle dimensioni medie delle aziende agricole che, per generare adeguati profitti, inevitabilmente punterebbero sulle coltivazioni intensive, quelle più inquinanti

*   Allo stesso modo quindi sono fortemente contestati gli obiettivi di riduzione dei fertilizzanti, dei pesticidi e degli antibiotici, così come quello di incentivare la superficie destinabile a colture biologiche ad alta diversità

*   Lo schieramento politico che si oppone a questa svolta è decisamente trasversale, lo stesso gruppo socialista ne è purtroppo ampiamente coinvolto, ed è, come ancora troppo spesso succede in questa UE, ispirato da logiche ed interessi nazionalistici

*   La sintesi di questa situazione la fornisce Benoit Biteau, agricoltore francese ed europarlamentare verde, quando afferma che “questa PAC è l’ultima chance per l’agricoltura europea e per i contadini, e purtroppo la stiamo perdendo”

Anche se non siamo contadini ma “solo” cittadini, italiani ed europei, giustamente preoccupati per l’incalzare dei problemi ambientali, non possiamo accettare che su una questione così rilevante manchi una adeguata informazione come se fosse materia per soli esperti e addetti ai lavori. E’ invece un tema che riguarda tutti noi, la nostra salute e quella dell’ambiente, ed è quindi indispensabile che le decisioni siano prese alla luce del sole coinvolgendo di più e meglio l’intera opinione pubblica europea.

lunedì 23 novembre 2020

Biennale Tecnologia - Politecnico Torino, Novembre 2020

 Succedono cose interessanti, talvolta anche molto vicino a noi, di cui poco sappiamo perché non è facile navigare nel mare magnum di iniziative, convegni, festival, congressi che dibattono argomenti e tematiche di vario genere. Eppure è anche da questa confusa e scoordinata dimensione culturale che potrebbero scaturire idee, suggestioni e proposte quanto mai utili a tradursi in provvedimenti concreti se solo la “politica” non fosse così chiusa nella sua dimensione autoreferenziale e più disponibile a “prestare orecchio” al mondo di fuori. Ci siamo imbattuti, del tutto casualmente va da sé, in una di queste esperienze che ci ha colpito, è giusto riconoscerlo, soprattutto perché è stata organizzata dal Politecnico di  Torino, per l’appunto molto vicino a noi. La segnaliamo come testimonianza significativa della sempre più indispensabile necessità di meglio collegare “chi studia e pensa” a chi, come noi, ha in quanto “cittadini attivi” piacere di conoscere, di essere informato, ma soprattutto a chi dovrebbe, anche su queste basi, decidere il meglio possibile le strategie politiche da perseguire e realizzare

POLITECNICO DI TORINO

D.I.A.T.I

 (dipartimento di ingegneria dell’ambiente, del territorio e delle infrastrutture)

dal 12 al 15 novembre 2020

BIENNALE TECNOLOGIA

Dal 12 al 15 novembre 2020 si è tenuta, interamente online, la prima edizione della Biennale Tecnologia, con oltre 20.000 spettatori: il filo conduttore per questa edizione è stato “Mutazioni - Per un futuro sostenibile”. Trattandosi di sostenibilità nelle sue varie declinazioni, il DIATI ha voluto, assieme all’Ateneo e a molti altri Dipartimenti, essere protagonista. 

Fra i tanti incontri ne segnaliamo, per dare idea di un programma molto ben articolato,  alcuni che si collegano ad argomenti o relatori presenti nei nostri programmi:

·         Tra Medioevo e Novecento: pensiero in dialogo con la rivoluzione digitale – relatori: Amos Corbini, Giovanni Leghissa, Luca Peyron

·         Le mutazioni nel consumo del cibo in epoca post-covid: quale sarà il ruolo della tecnologia – a cura della Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo

·         La quadratura del cerchio: come integrare economia circolare e innovazione – relatori Fabio Scaltritti, Guido Saracco

·         Dalle parole ai fatti, per il futuro dell’Italia – Enrico Giovannini (Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile

·         Sorvegliati speciali: l’Intelligenza Artificiale nelle nostre vite – relatori Stefano Quintarelli, Fabio Fossa

·         Scienza e democrazia. Chi è sovrano – Gustavo Zagrebelsky

·         Per un confronto acceso fra saperi locali e globali. L’opportunità delle aree interne – Fabrizio Barca

·         Progresso – Aldo Schiavone

·         Piattaforme tecnologiche: ricchezza, potere, libertà – Giuseppe Berta

Per chi fosse interessato ad accedere al sito che illustra nel dettaglio l’iniziativa e a visionare le registrazioni dei numerosi incontri può farlo cliccando: qui

Segnaliamo infine, ad ulteriore conferma della varietà ed importanza dei temi affrontati,  questo incontro la cui visione è già disponibile in Rete

Il riscaldamento globale. La tecnologia ci salverà?

Telmo Pievani in dialogo con Francesco Laio
modera Luca De Biase

Per chi avesse piacere di seguirlo (ha una durata di circa 60 minuti) può cliccare: qui

giovedì 19 novembre 2020

USA: il declino ed il merito - Articolo di Carlo Bastasin

 

Pubblichiamo il seguente articolo di Carlo Bastasin (accademico, insegna economia alla Luiss School di Roma e alla Brooking Institution di Washington) uscito oggi nella pagina di commenti politici di La Repubblica. Pensiamo infatti che sia un eccellente contributo a meglio capire le dinamiche del voto americano, che Bastasin ben conosce vivendo spesso negli USA, ed al tempo stesso uno spunto di riflessione importante per aggiornare le nostre categorie interpretative. Sono infatti sempre di più le vicende, elettorali e non, in tutto l’Occidente che evidenziano l’insufficienza del rapporto, stabilito troppo spesso in modo automatico, tra le classiche categorie sociali, etniche, economiche, culturali e gli orientamenti elettorali, verso le, altrettanto classiche, destra e sinistra. Nel caso americano repubblicani e democratici. Le fratture che ormai attraversano la società nei paesi cosiddetti “sviluppati” sono tali da aver messo in crisi tale automatismo. Già Marco Revelli nel suo libro “Politica senza politica”, nostro “Saggio” del mese di Marzo 2019, aveva evidenziato, riflettendo sul voto “populista” statunitense ed europeo, l’importanza della divisione che attraversa trasversalmente l’intera stratificazione sociale fra i “premiati” e gli “esclusi” dalla globalizzazione. Dato peraltro condiviso da molti politologi e fatto proprio dallo stesso Carlo Bastasin nel suo recente saggio “Viaggio al termine dell’Occidente”  nel quale sottolinea  inoltre la decisiva incidenza del risvolto più propriamente psicologico, individuale e collettivo, con il quale viene vissuta questa divisione. Se ancora in qualche modo vale l’assunto che quanto succede negli USA spesso anticipa la comparsa e l’incidenza di fenomeni che avranno poi diffusione in tutto l’Occidente, diventa ancora più importante, al di là delle specifiche dinamiche di questa elezione presidenziale, conoscere e valutare, in aggiunta ad altre spiegazioni sicuramente presenti e rilevanti, le dinamiche segnalate da Carlo Bastasin

USA: il declino ed il merito

Articolo di Carlo Bastasin – La Repubblica 19/11/2020

Negli ultimi dodici anni il reddito medio degli elettori americani del partito democratico è aumentato di circa il 15%, quello degli elettori repubblicani è invece diminuito. Non solo i repubblicani sono diventati in media più poveri dei democratici, ma le circoscrizioni in cui prevalgono i loro candidati contano per meno di un terzo del reddito totale degli USA. Da qualche tempo gli elettori repubblicani non sono più la parte ricca del paese che vuole proteggere le ricchezze dalle tentazioni socialiste dei democratici. Interpretare secondo i criteri europei convenzionali di destra e sinistra, di diseguaglianze assolute e relative, la realtà socio-politica americana rischia di portare fuori strada. Anche le letture di moda sulla geo-economia che definiscono il benessere dei cittadini principalmente in base al luogo in cui vivono e lavorano non è sufficiente. La differenza di reddito tra aree “macropolitane” e paesini di campagna è certo evidente. Tuttavia la distribuzione geografica del benessere è una conseguenza di qualcosa di più profondo che sta cambiando in modo silenzioso. Mentre nel 2016 la distinzione tra grandi metropoli e realtà rurali era ben definita, ora il benessere delle grandi città si sta allargando ai sobborghi circostanti .Mentre prima il benessere di accentrava nel centro di singole città, San Francisco, New York, Washington o Boston, in grado di coniugare nuove tecnologie informatiche, il migliore capitale umano, servizi professionali di alto livello, università di eccellenza, ora l’onda si è allargata a servizi e professioni che stanno incorporando le tecnologie informatiche prendendo vantaggi sulla attività tradizionali. Ecco che i sobborghi di Atlanta, Phoenix, Las Vegas e Madison, vedono aumentare il loro reddito e finiscono per votare democratico spostando sorprendentemente la maggioranza del voto in Georgia, Arizona, Nevada e Wisconsin. Perfino le città di Pittsburgh e Philadelphia, una volta emblema della decadenza delle vecchie professioni, stanno lentamente incorporando nuove tecnologie e nuovi lavori a reddito crescente. Non a caso è stata proprio la Pennsylvania a determinare nel modo più significativo la nuova maggioranza per il presidente Biden. Può sembrare che questo sviluppo abbia una sua determinazione storica che i “progressisti” accoglieranno con sollievo: una popolazione in sviluppo, sempre più colta e contraria ai richiami isolazionisti, xenofobi, o razzista del presidente Trump. Ma anche in questo caso – come nella rivisitazione delle identità sociali di destra e sinistra – è necessario procedere con cautela. Il giorno delle elezioni presidenziali si è tenuto anche un referendum in California che ha aperto uno spiraglio inquietante sull’identità politica degli elettori democratici. I cittadini hanno infatti votato contro la legge statale che voleva garantire ai “riders” lo stato di lavoratori dipendenti. Forse a determinare il risultato è stata la propaganda delle piattaforme, come Uber o Lyst, che hanno coperto il 90% delle spese totali di pubblicità elettorale. Tuttavia quello stesso giorno i californiani hanno anche respinto le proposte a favore della “affirmative action” (politiche favorevoli ai meno benestanti) o del controllo degli affitti (nei quali si riflettono le gravi disuguaglianze di reddito dello Stato). Se questa è l’impronta politica degli elettori democratici – ricchi, colti, ma meritocratici – forse bisogna ripensare alcune classificazioni politiche. In Florida un elettorato prevalentemente repubblicano ha invece votato con schiacciante maggioranza l’approvazione del salario minimo senza peraltro che Trump abbia detto una parola in materia. Alla fine la quota di elettorato di Trump è la stessa di John McCain nel 2008 e di Mitt Romney nel 2012 (46-47%), ma è l’elettorato che continua a cambiare. Così come per i democratici sarà difficile tenere insieme l’elettorato dei sobborghi e quello giovane e radicale delle metropoli. La ragione di quello che sta succedendo è che da circa venti anni la società americana sta vivendo un fenomeno diverso dalla sola disuguaglianza e che io chiamo “divergenza secolare”. Per una parte dei cittadini il declino personale sembra inarrestabile e immotivato, suscita sentimenti di rabbia e inganno che il presidente Trump aveva personificato perfettamente. Per l’altra parte, la propria personale ascesa si identifica con qualità proprie, di istruzione e mobilità, ma sembra distaccata dalle sorti degli altri e soprattutto da quelle dei perdenti. Queste componenti non assorbono tutta la realtà dei due partiti, democratico o repubblicano, ma sono proprio le loro frange che danno voce a sentimenti fortemente antagonistici. E’ in questo difficile quadro, destinato a cambiare nel tempo, in ragione degli sviluppi strutturali di tecnologia ed economia, che l’elezione di un presidente come Joe Biden, con una forte vocazione centrista, con una personalità non controversa e con poca presa polemica, rappresenta un attimo di respiro di importanza eccezionale per fare il punto sul rapporti tra capitalismo e democrazia.