venerdì 10 luglio 2020

Il "Saggio" del mese - Luglio 2020


I temi affrontati nel Saggio di questo mese sono in evidente stretto collegamento con la “parola del mese” e con il libro di Aldo Schiavone “Progresso” che l’ha accompagnata. Temi che la crisi ambientale e sociale da tempo hanno messo al centro dell’attenzione e che in questa fase post covid sempre più richiedono soluzioni adeguate e “CONCRETE”. Per meglio evidenziare questi temi e la loro opportunità di approfondimento ci affidiamo a quanto riportato nel risvolto di copertina del Saggio stesso
(dal risvolto di copertina)
Tra il 1917 e il 1919 Max Weber tenne due confe­renze dal titolo Die geistige Arbeit als Beruf, che po­tremmo tradurre «Il lavoro dello spirito come professione». Formulazione quanto mai pregnante, perché rappresentava l’idea regolativa, il progetto e la speranza che avevano animato il mondo della grande cultura borghese tra Kant e Goethe, tra Ro­manticismo e Schiller, tra Fichte e Hegel, e avreb­bero costituito il filo conduttore dello stesso pensie­ro rivoluzionario successivo, da Feuerbach a Marx. Il «lavoro dello spirito» è il lavoro creativo, auto­nomo, il lavoro umano considerato in tutta la sua attuosa potenza, e volgersi alla sua affermazione si­gnifica liberazione di ogni attività dalla condizio­ne di lavoro comandato, dipendente, e cioè alie­nato. Ma il suo dissolversi nella forma capitalisti­ca di produzione, nell'universale macchinismo, che fagocita quella Scienza che pure è l’autentico mo­tore dello sviluppo, finisce col delegittimare la stes­sa autorità politica, che nella «promessa di libera­zione» trova il proprio fondamento. La «gabbia di acciaio» è destinata dunque a imprigionare anche quel «lavoro dello spirito» che è la prassi politica? Lo spirito del capitalismo finirà col destrutturare completamente lo spazio del Politico, riducendolo alla forma del contratto? O tra Scienza e Politica sono ancora pensabili e possibili relazioni che ci affranchino dal nostro «debito» nei confronti del procedere senza mete né fini del sistema tecnico­ economico? Sono le attuali domande che, un seco­lo fa, nessuno ha posto con la drammatica chiarez­za di Max Weber – e con le quali, oggi, Massimo Cacciari si confronta.
Il “Saggio” del mese
 LUGLIO 2020

 Premessa =Ci sembra opportuno premettere che il saggio di Cacciari, decisamente rivolto a lettori “attrezzati”, non è di facile lettura. Molti concetti chiave filosofici e culturali in genere sono presentati nella loro originaria definizione in greco, in latino, e soprattutto in tedesco, ed inoltre nella trattazione sono molti i richiami, tanto calzanti quanto sintetici, delle idee, tutt’'ltro che semplici, di numerosi filosofi della modernità europea. Per coglierli e valutarli nella loro piena validità ci è parso che sia necessaria a priori una loro non superficiale conoscenza. Non da tutti posseduta. In questa sintesi, che si prefigge la finalità di presentare, anche a chi non possiede tali conoscenze, l’essenza della riflessione di Weber nella lettura di Cacciari si è pertanto preferito non utilizzare tale terminologia e non introdurre tali richiami, mantenendo quindi il più possibile l’attenzione sullo sviluppo complessivo della trattazione

I – Il lavoro dello spirito
Il tema che Max Weber affronta nelle due conferenze del 1917 e 1919, quello del ruolo “lavoro intellettuale”, del “lavoro dello spirito” confluirà nei due successivi distinti, ma collegati, saggi “La scienza come professione” e “La politica come professione”. Cacciari giudica tale lavoro di Weber ancora in grado di dare preziose indicazioni sulle domande citate nel risvolto di copertina. In questo primo Capitolo inquadra il processo storico culturale nel quale, nei cruciali primi decenni del Novecento, si è inserita la riflessione weberiana. Il tema del “lavoro dello spirito” è infatti sempre stato al centro di quell'insieme, vastissimo e profondissimo, di fermenti culturali che, in tutti i suoi campi, ha segnato, all'alba della modernità, e poi per tutto l’Ottocento, il formarsi e l’affermarsi degli elementi della cultura “borghese”. Al centro di questi fermenti sta, a partire dall'era dei “Lumi”, il completo affermarsi del “sistema della scienza”, del pensare scientifico, ossia di una forma mentis che liberatasi dai vincoli costrittivi precedenti, da un lato giudica intollerabile non realizzare ciò che ha pensato e che dall'altro vede, da subito e sempre, in ogni stadio raggiunto i presupposti per il suo ulteriore superamento. Questa affermazione del pensare scientifico, e delle collegate riflessioni culturali in genere, ma in ispecie filosofiche, che congiuntamente definiscono il concetto di “borghesia intellettuale”, sta alla base anche della parallela ascesa della “borghesia economica”, dei suoi nuovi modi di produzione, del crescente ruolo dell’  ”Economico”. Questi cambiamenti, inarrestabili e rivoluzionari, non potevano non tradursi in una corrispondente concezione del “lavoro” altrettanto innovativa. Se restava sullo sfondo il lavoro delle masse, il lavoro comandato della produzione reale, in questo crogiolo di idee che guardavano ad un cambiamento radicale dell’intero “umano”, a partire da quello più immediatamente connesso alla forma mentis scientifica, il lavoro intellettuale, il lavoro dello spirito,  apparivano come i soli in grado di rappresentare, creandoli, i nuovi tempi a venire E così come per la scienza, finalmente libera di esprimersi sulla base dei propri paradigmi, questo nuovo lavoro non poteva che essere totalmente libero. Libero di esprimersi, di affermarsi senza vincoli, di liberare energie e possibilità di avanzamento. E così come la scienza si candidava ad essere la matrice del nuovo umano il lavoro dello spirito, in questa fase di liberazione di potenzialità all'apparenza senza limiti, diventava la premessa per la liberazione umana dal lavoro tout court. A ben vedere non sfugge a questa visione lo stesso pensiero critico rivoluzionario marxista, che idealizza sì una nuova società basata su una diversa giustizia sociale con al centro gli stessi lavoratori “comandati”, ma non diversamente resa possibile proprio dalla scienza e quindi dal libero lavoro dello spirito., Ben presto nel corso dell’Ottocento questo iniziale entusiasmo idealistico deve misurarsi con il progressivo consolidamento dell’economia capitalistica, e delle connesse logiche che la ispirano, che, lungi dal coltivare tratti utopici, si concretizza nell'affermarsi completo della ragione economica, della produzione di ricchezza, del dominio di classe onnivoro. E’ il progressivo e inarrestabile affermarsi di una nuova religione, la religione del profitto. Sono queste le logiche, e le pratiche reali, che formano le pareti di quella che Weber, guardando alla concreta evoluzione storica ottocentesca, definisce la “gabbia d’acciaio”, una sorta di prigione in cui sono ingabbiate non solo le masse lavoratrici, ma le stesse idealità iniziali della grande cultura “borghese”. In questo contesto si apre per il lavoro dello spirito una contraddizione insanabile: quell'idea utopica del lavoro reso totalmente libero dallo spirito della scienza se piegata alle finalità del dominio capitalistico, se costretta nella gabbia d’acciaio, perde completamente i suoi tratti costitutivi, le sue potenzialità di liberazione. Se la critica rivoluzionaria dà soluzione a questa contraddizione con la critica al voler fondare il tema della libertà del lavoro sul solo libero sviluppo del modo di pensare “scientifico”, trascurando il decisivo peso “materialistico” delle condizioni storiche, sociali ed economiche, entrano invece in profonda crisi tutte le altre correnti di pensiero incapaci di dare soluzione alla frattura che si è così aperta. Il sistema della scienza, il libero lavoro dello spirito, piegato a queste logiche, appare allo sguardo di Weber, agli albori del Novecento, irreversibilmente sottomesso alle logiche dell’indefinito aumento della produzione e della ricchezza ottenuto anche con una continua innovazione tecnico-organizzativa. In questa contraddizione si mantiene, e si manterrà fino ai nostri giorni, un solo legame “spirituale” tra il sistema della scienza, del lavoro intellettuale, ed il sistema della produzione: la comune propensione al costante progredire,  Ma se il valore dell’impresa scientifica ancora consiste, allo sguardo di Weber, in un anelito  idealistico di “progresso”, anche se non di rado cieco sulle sue concrete ricadute,  quella capitalistica mira esclusivamente, in una visione tanto vincente quanto onnivora, alla produzione inarrestabile di merci ed alla parallela produzione del loro incessante consumo. In questo contesto non solo restano soffocate le aspirazioni di libertà, ma il lavoro dello spirito, non diversamente dalle masse sempre più “scientificamente” sfruttate, viene incorporato nel nuovo ordine giuridico imposto dalla visione privatistica del capitale. La “filosofia del Diritto” che, maturata in quel primo fermento della modernità europea, guardava a finalità etiche generali valide per l’umanità intera, diventa inconciliabile con il quadro dei reali rapporti sociali concretamente creato dall'affermarsi delle logiche del capitale. Il diritto universale si deve piegare ad una nuova forma giuridica, più connaturata alla concreta sfera dell’economia reale: quella basata sulla forma divinizzata del “contratto”. Che smette così di essere un sistema di regolazione di rapporti privati per divenire l’unico ordine giuridico possibile. Non solo il Diritto viene piegato al dominio dell’ “economico”, ma lo stesso “politico” è costretto a ridimensionare le sue finalità generali che, nate sulle ali dell’entusiasmo per la fine dell’Ancient Règime, sono allo stesso modo costrette nella gabbia d’acciaio. Ed è al culmine di questo percorso, quando a cavallo del Novecento sembra aver preso definitiva forma questo contraddittorio intreccio tra sistema della scienza, pensiero scientifico e filosofico, e il definitivo totalizzante affermarsi del sistema della produzione capitalistica che interviene la critica di Weber. La quale, rinunciando a sterili negazioni e rifiuti della trasformazione avvenuta, punta invece ad intervenire nella sue evidenti contraddizioni con una visione alternativa che si basa proprio sul (ri)chiamare in causa quello “spirito” originariamente rivoluzionario del lavoro intellettuale. In una prima anticipazione di quanto sarà oggetto specifico dei Capitoli successivi Cacciari evidenzia come Weber mantenga, alla base della sua analisi, la convinzione che il lavoro scientifico, per quanto introitato nelle logiche tecnico-economiche, continui, proprio per la congenita propensione della scienza al progredire, la capacità di seguire percorsi creativi che possono mantenere potenzialità di liberazione generale. Weber però, in un primo innovativo passaggio, ritiene che questo immutato ruolo potenziale della “scienza” debba coniugarsi strettamente con la sfera della “politica” la quale deve mirare a (ri)costruire una “Autorità politica” in grado di affiancare il libero lavoro scientifico per realizzare una diversa concezione del “contratto” sociale che miri a riportare sotto controllo le logiche dell’ “economico”. Evitando, al tempo stesso, che lo spazio di critica sia occupato dalle proposte rivoluzionarie a suo avviso del tutto insostenibili. Un percorso che, secondo Weber, può concretizzarsi solo in un regime democratico-parlamentare, che deve avere piena consapevolezza che la contrapposizione al dominio del dispositivo economico può avere una pericolosa ed errata risposta di carattere autoritario, se non dittatoriale. Weber vede bene che la frustrazione che investe l’individuo, e la società intera, nel non veder riconosciuta la propria esigenza di libertà e riconoscimento, tende infatti a scaricarsi in primis proprio sulle istituzioni politiche democratiche, ritenute incapaci di fronteggiare in modo adeguato l’ “economico”, dando così spazio a istanze demagogiche di stampo inevitabilmente autoritario. Allo stesso tempo è lucidamente presente a Weber l’opportunistica illusione dello stesso “economico” che scienza e tecnica, subordinate alla sue logiche, da sole possano risolvere le contraddizioni sistemiche e armonizzare il suo incessante procedere. Nella prospettiva weberiana solo il “politico”, un nuovo “politico”, può dotarsi della potenza necessaria allo scopo, assumendo quindi consapevolmente la funzione di una sorta di “impero”, e cioè di una capacità di comando totale dei processi economici e sociali. Cacciari, sviluppando nell'ultima parte di questo Capitolo questa constatazione, aggiunge del suo che per ambire ad un tale ruolo il “politico” dovrebbe però dimostrarsi consapevole, andando oltre la sfera politica strettamente intesa, della necessità di dotare la propria visione anche di una valenza “para-religiosa” in grado di definire una idealità di trasformazione universale. Sottolineando che questa riflessione non è stata colta da Weber, Cacciari ritiene infatti che l’Economico non può essere sconfitto restando ancorati al solo mondo della produzione e dei dati economici. Il Politico deve avere la capacità di sottoporre a dura critica l’idea dell’ “economico” di una uguaglianza raggiungibile attraverso percorsi puramente economici, per proporne una che, come la stessa idea universale di “libertà”, non può non originarsi che da una visione meta-politica.
II – Disincanti
L’analisi di Weber ha evidenti radici che affondano nella storia e nei principi del pensiero occidentale sia filosofico che scientifico, ed in questo senso appare riduttivo considerare semplicemente “sociologico” il suo lavoro. Per quanto concerne l’idea di “scienza come professione” il suo approccio si basa infatti sul più generale “disincanto” nei confronti della realtà che, maturato sulle ali dell’entusiasmo scientifico del secolo che lo precede, implica la consapevolezza che le cose del mondo, degli uomini, la realtà tutta, possono e devono essere valutate nel loro concreto divenire senza il ricorso a ideali categorie interpretative. In questo avvenuto disincanto il “fare scienza” non è più guidato da finalità etico universali, ma dalla convinzione, alla base della modernità tutta, che la realtà, e tutte le cose che la compongono, siano accessibili alla ragione, che altro limite la scienza non debba avere se non quello del livello già raggiunto nel suo sviluppo. Ma è proprio all'interno di questo ereditato disincanto che Weber introduce una sua originale aggiunta: è la stessa scienza, lo stesso “fare scienza” che, per logica estensione, vanno sottoposti a “disincanto”. La crescente necessità, imposta dallo stesso straordinario sviluppo scientifico, di procedere per sempre più definiti specialismi l’ha ormai espropriata della possibilità di una visione unica ed olistica della realtà, quella che in qualche modo era alla base di tutte le culture precedenti la modernità. Weber, secondo Cacciari, non rinnega con questa affermazione la sua precedente (1904) considerazione sul rapporto tra l’etica protestante ed il “fare scienza” ed il lavoro. I quali, nella sua mantenuta interpretazione, possono ancora trovare importante ispirazione in una matrice etica e religiosa, la quale però deve essere intesa come un richiamo, per l’appunto etico, al “fare il proprio dovere”. Resta però in capo alla scienza, stante la ineliminabile ricaduta sociale dei suoi risultati, una sua dote, questa sì di valenza universale: le sue specializzazioni e professioni riunendosi formano il “complesso delle forme del sapere e del fare”, l’unicum aggregato che dà vita e sostanza al progresso tecnico-scientifico e, conseguentemente, anche a quello sociale. Cacciari evidenzia con enfasi che questo riconoscimento resta però lontano dalla finalità di creare, attraverso scienza e lavoro, un “sistema delle libertà” così come presupposto dalla ottocentesca filosofia idealistica. Per Weber al singolo scienziato non è di certo impedito di possedere personali idealità, religiose o filosofiche, ma la disciplina “scienza”, in quanto mossa da paradigmi puramente razionali, non è titolata a rispondere a queste più generali aspirazioni umane. Questa considerazione va inoltre estesa alle stesse “scienze sociali”, le quali possono muoversi liberamente nell'osservare i fenomeni sociali, nel compararli e nell'ipotizzare spiegazioni, ma, essendo ispirate dagli stessi paradigmi delle scienze “dure”, analogamente non possono possedere i presupposti per emettere giudizi di valore legati a finalità idealistiche ed universali. Sono allora, se negate alla scienza, del tutto impossibili ed impedite le domande sul “valore”, su come si debba agire, su chi potrebbe essere titolato a porle e a cercare le risposte? Certo che no, risponde Weber, esse restano domande insopprimibili per la natura umana, ma occorre avere però la consapevolezza che il semplice porle implica inevitabilmente l’entrata in campo delle valutazioni soggettive, e quindi della possibile “dimensione del conflitto”, che implica a sua volta l’individuazione di “amici e nemici” di ogni possibile risposta. E’ questo il decisivo passaggio che, nella visione weberiana, fa entrare in gioco, con ruolo da protagonista, la dimensione della politica, o meglio ancora, della “politica come professione”. Ed è proprio qui, in questo limite insormontabile per il lavoro intellettuale scientifico che Weber individua il suo punto di connessione con quello intellettuale politico. La dimensione ineliminabile del conflitto sale però di un livello: da quello tra “amici e nemici” delle singole idee si sposta proprio a quello tra queste due distinte categorie del “lavoro dello spirito”. Ed è esattamente questo il conflitto che, per Weber, segna la nuova forma della modernità che si affaccia al Novecento con il carico delle tante contraddizioni ad essa legate a partire dalla “gabbia d’acciaio”. Ed il suo superamento “razionale” è esattamente lo scopo centrale della proposta weberiana. A suo avviso occorre innanzitutto comprendere che la motivazione ultima del “fare scienza”, accertata l’insostenibilità di una idealità filosofico/scientifica, non può quindi poggiare su “valori” oggettivi, una contraddizione in termini, ma solo su “presupposti”, ossia su finalità di ordine logico/scientifico che mirano a raggiungere determinati risultati in un ambito specifico. Weber, per sciogliere la sempre possibile aporia di un presupposto comunque vissuto come valore, introduce nella sua trattazione una più netta distinzione tra “assunzione di un presupposto”, riconducibile ad una mera ipotesi, e “scelta del valore”. Una distinzione che se ha una sua indubbia validità formale, utile per maggiore chiarezza nel procedere, è però storicamente smentita dalla realtà. Lo stesso Weber né è consapevole, ha infatti ben presente che qualsiasi presupposto del “fare scienza” si è storicamente sempre determinato in opposizione ad altri, assumendo di conseguenza una qualche veste di “valore”, non di rado vissuto addirittura come “valore universalmente valido”. Ed inoltre è umanamente comprensibile che lo scienziato, così concentrato sulla sua missione e sul “presupposto” che la guida, possa anche sinceramente ritenere di non essere motivato da obiettivi valoriali, ma questa stessa “passione” che lo anima assurgerà di fatto a caratteristica di “valore”. Weber aggiunge una seconda considerazione più legata al “fare scienza” nell'era del pieno affermarsi della modernità. Nella quale nessuna impresa scientifica può ormai procedere in modo autonomo, la sua efficacia è possibile solo all'interno di un “sistema”. Le singole professioni scientifiche possono infatti svolgersi solo come parti integrate di un'unica organizzazione globale del “fare scienza”, una sorta di unico grande “cervello” che, per le forme assunte e per le crescenti ricadute dei suoi risultati, ha una valenza “sociale” ancora più grande. E’ quindi tutt'altro che eccessivo sostenere che il vero motore, il vero protagonista, del progresso scientifico, è ormai quindi un sorta di unico “cervello sociale”. La congiunzione fra queste due considerazioni porta Weber ad una importante constatazione: nessuna singola scienza, e nemmeno la più stretta cooperazione tra di esse, può, per i limiti congeniti che egli vede nel “fare scienza”, (auto)realizzare l’organizzazione globale in cui muoversi in modo ottimale per lo stesso raggiungimento dei suoi obiettivi. Questa organizzazione non può che essere “politica”, non può che essere competenza della dimensione del “lavoro politico”. Lo scienziato inoltre non è tenuto, nel definire le basi scientifiche dei suoi presupposti, a prendere in considerazione quelle storico/culturali entro le quali si colloca il suo agire e neppure il loro interferire con dimensioni valoriali o politiche. Per attuare un suo agire scientifico non condizionato, per restare concentrato sull'oggetto del suo lavoro egli non potrà non operare una opportuna rimozione di questo ordine di problemi. Spetta quindi alla “politica” sottoporre a “critica” valoriale i presupposti, ed i risultati, del lavoro scientifico, in primo luogo collocandoli e giudicandoli in rapporto al contesto della situazione storica in cui maturano e si concretizzano. Un’indagine critica che, a maggior ragione, non può fare capo alla “scienza” stessa. Semmai le “scienze sociali” e la filosofia possono essere fonte di utili indicazioni di supporto alla “politica”, che resta comunque l’unica titolata a definire i valori ispiratori. Deve però essere altrettanto chiaro che questi valori a loro volta, per logica compensazione, non potranno mai avere consistenza scientifica e pretendere ad un rango di verità oggettiva proprio perché definiti in ambito differente e su differenti basi e procedure. Secondo Cacciari l’idea weberiana di “razionalizzazione” del conflitto fra scienza e politica consiste esattamente in questo decisivo passaggio, grazie al quale la prima non potrà compiutamente esprimersi che all'interno di un “ordine politico”, e di una forma di produzione coerente con esso, e la seconda dovrà farsi consapevolmente carico delle scelte valoriali che li dovranno ispirare, Si completa in questo modo un duplice “disincanto” della modernità: quello della “scienza”, che mai da sola potrà essere fattrice di un “sistema delle libertà”, e quello della “politica”, che a sua volta mai potrà presupporre  inattaccabili basi scientifiche per la scelta dei valori e dei fini per cui essa combatte. Si realizza in questo modo il radicale “disincanto” del progresso scientifico come forza liberatrice di una più generale crescita umana. Non sfugge infine a Weber che la scienza appartiene legittimamente al contesto politico e che quindi essa ha pieno titolo a concorrere alla definizione delle forme dell’organizzazione del “fare scienza”, così come il politico avrà sempre l’obbligo di completare le scelte valoriali con una forma sociale di produzione coerente con i risultati scientifici. Sono questi i presupposti teorici dell’idea weberiana di “lavoro scientifico” e “lavoro politico”, la cui complessiva idea di “lavoro”, così come emerge dalla summa delle sue considerazioni, toglie definitivo spazio alla classica concezione fin lì maturata del lavoro come concretizzazione meccanica di un etico “dovere”. Al nuovo secolo, secondo Weber, spetta il dovere di sciogliere compiutamente il nodo di tutti questi disincanti.
III – Nuovi centauri
Ma quale “Politico” sarà in grado di guidare il progresso tecnico/scientifico sulla base dei “valori” che si affermano in un determinato contesto storico/sociale? La risposta di Weber è netta: in coerenza con il ruolo centrale che la sua visione conferisce alla “razionalizzazione” tale capacità potrà essere solo di quel “politico” che si muove in sintonia con il lavoro intellettuale e scientifico, ovvero con i suoi presupposti razionali. Altro aspetto decisivo della analisi weberiana secondo Cacciari. Sarà cioè un “politico” articolato su un apparato tecnico-burocratico ricco di competenze e professionalità, e guidato da quella idealità del “servizio”, del “sacrificio”, punto fermo dell’idea di Stato liberal-borghese ancora e sempre collegabile all'etica “protestante” di cui si è detto. Un “politico” capace quindi di creare un ceto amministrativo impermeabile, nel suo concreto agire, ai mutamenti governativi ispirati da sentimenti demagogici, ovvero dal modo di intendere l’azione politica opposto a quella ispirata dalla razionalità. Weber è infatti convinto che la modernità dell’epoca sia ormai definitivamente entrata in una fase in cui, ad equilibrare il loro rapporto, lo stesso valore complessivo del “lavoro politico” è determinato da quello del paradigma metodologico del “lavoro scientifico”. Il metodo di lavoro della “politica come professione” non può non essere che quello pienamente razionale proprio della “scienza come professione”. In una sorta di paradosso il paradigma del lavoro tecnico/scientifico, di quel lavoro che quello politico dovrebbe orientare sulla base dei “valori”, la cui scelta pienamente gli compete, diventa il “valore” che deve a sua volta orientare il “lavoro politico”. Il disincantamento totale del mondo, scopo ultimo dell’azione politica, potrà quindi essere raggiunto solo da un “politico” che, razionalizzando tutte le componenti del suo scegliere ed agire, annullerà, “neutralizzerà”, ogni sua pretesa di essere ispirato da un autonomo paradigma “professionale” non razionale. Non esistono per Weber alternative a questo scenario, non esiste una “terza” dimensione culturale che possa fungere da “giudice”. Scienza e politica, sole sulla scena ed essendo “professioni”, devono trovare al loro rispettivo interno il punto di caduta: la scienza accettando che i valori ultimi che la devono ispirare siano di competenza della politica, mentre questa deve a sua volta essere ispirata dal “valore” della razionalità del lavoro scientifico. Il terreno sul quale si può concretizzare questo accordo è uno solo: quello delimitato dal “concetto di responsabilità”, dal dover cioè rispondere delle conseguenze delle proprie azioni. Al “politico” però fa carico, proprio per la centralità del suo ruolo nella determinazione dei “valori”, una responsabilità maggiore, “globale”. Che certo comprende il dovere di rispondere delle conseguenze della propria azione “razionale”, ma soprattutto di quelle ascrivibili alla sua eventuale azione “irrazionale”, quelle cioè riconducibili alla insostenibile pretesa di godere di una sorta di “autonomia” dalla razionalità. Dall'essersi cioè lasciata guidare da quel “demone”, sempre vivo ed attivo, che può spingerla verso irrazionali finalità di natura ideologica. Se è pur vero che un demone analogo può ispirare anche la scienza, nel suo eventuale ritenersi libera da vincoli valoriali, a maggior ragione per entrambi quindi “responsabilità e disincanto” sono imprescindibili doveri che si alimentano vicendevolmente. Ma il demone della politica resta, secondo Weber, quello più potente, perché costituzionalmente connesso all'agire politico che, di questo ne è ampiamente convinto, non può non decidere anche sulla base di “demoniache convinzioni”, di opinioni, che per definizione sfuggono alla razionalità. Alla “politica”, in ispecie nell'epoca delle organizzazioni di massa, compete di conseguenza un di più di sforzo per coniugare al meglio “responsabilità e convinzioni”. E la scienza è chiamata, in un analogo dovere supplementare, a ricordare alla politica, ogni qual volta constati il rischio di un irrazionale prevalere delle convinzioni, il rispetto di tale sforzo. Devono essere questi, secondo Weber, altri tratti irrinunciabili del “lavoro scientifico” e del “lavoro politico” a formare, nel loro congiungersi, quelli del “lavoro intellettuale”, del “lavoro dello spirito”
IV – Doppio sogno
L’idea che muove la visione weberiana è certamente quella di riportare la dimensione dell’ ”economico”, divenuta nel corso dell’Ottocento egemone su tutti gli ambiti sociali e su tutte le forme del pensiero, sotto il controllo del “politico”. Quella cioè di abbattere le pareti della “gabbia d’acciaio” che imprigiona il “cervello sociale”, ed ogni forma creativa di lavoro dello spirito, ormai compiutamente integrati nei rapporti capitalistici di produzione. Un obiettivo che da una parte si pone in netta alternativa alla critica rivoluzionaria, una visione dei rapporti sociali del tutto estranea a Weber che pure vede e condivide le ragioni dell’opporsi allo sfruttamento capitalistico, e che dall'altra, in coerente integrazione, si muove tutto all'interno della “cultura” borghese delle origini della modernità. Con al centro l’irrinunciabilità della forma democratica permeata di una nuova cultura politica capace di formare e selezionare gli spiriti migliori. A questa visione, la cui evidente novità è frutto del concreto processo storico ottocentesco, è però del tutto estranea una idea puramente nostalgica della originaria “cultura” borghese. Weber non rimpiange bei tempi andati, non sogna un improbabile ritorno alle ideali speranze di un tempo, ma è lucidamente consapevole che quel bagaglio culturale, che è e resta il suo bagaglio, non è più proponibile nelle forme di allora. E conseguentemente individua la leva fondamentale per un processo di (ri)democratizzazione davvero in grado di porre sotto controllo l’ ”economico” nel “lavoro dello spirito”, ora rifondato ed articolato su “scienza” e “politica”, che, eppure in forme al tempo incompiute, di quella cultura era e resta parte integrante e fondante. Un visione quindi determinata dal suo presente e tutta proiettata verso il futuro e presentata come la sola possibilità di recuperare, adattandola ai tempi nuovi, proprio la “cultura” delle origini. Vale a dire, per l’appunto, l’esatto contrario di una operazione di restaurazione nostalgica. Cacciari in questo Capitolo evidenzia il forte carattere di novità della proposta weberiana per quanto sempre intimamente legata alla “cultura” ereditata dalle grandi correnti di pensiero, filosofico in primis, della modernità europea. Lo fa attraverso una accurata contrapposizione fra le idee di Weber e quelle espresse da Thomas Mann nelle “Considerazioni di un impolitico”, del 1918, e successivamente nel saggio del 1932 “Goethe come esponente dell’età borghese”. Mann, messo da Cacciari a confronto con Weber, appare all'opposto l’alfiere di un accorato rimpianto di una cultura, la sua va da sé, ridimensionata ad ancella della visione economicista del mondo. I numi tutelari di questa cultura ai quali Mann guarda sono gli stessi di cui Weber è, nella sua formazione culturale, ampiamente debitore. Ma la direzione dello sguardo weberiano è diversa, perché non si limita ad un semplice “recupero” di sentimenti e valori. Si tratta invece di attuare un “salto” in avanti, una svolta che impone anche l’autocritica del non aver sufficientemente contrastato il formarsi della gabbia d’acciaio.  Una operazione che è del tutto impossibile per Mann, troppo concentrato sulla sola conservazione di un’etica che, per Weber, è ormai improponibile nelle stesse forme. L’idea weberiana di “responsabilità” coerentemente esige quindi che l’etica borghese, che pure nella sua essenza condivide con Mann, si rovesci in una nuova prospettiva. Quella delle nuove forme del “lavoro dello spirito”.
V – La fine (del fine) della Storia
Cosa resta delle idee di Weber un secolo dopo, in un nuovo passaggio temporale non meno segnato da cambiamenti epocali? In questo ultimo Capitolo Cacciari risponde a questa domanda concentrando la sua attenzione sul ruolo del “politico” e sul suo rapporto con l’”economico” visti nell'attuale contesto globalizzato e ipertecnologico. Non sono invece presenti specifici accenni, nel suo giudicare il “lavoro dello spirito” ai nostri giorni, alla validità della “razionalizzazione” e del rapporto dialettico fra “lavoro scientifico” e “lavoro politico”. Sembra quindi lecito dedurre che per Cacciari l’impianto analitico weberiano mantenga, n questi suoi aspetti di base, una sua persistente validità. Diverso è invece il giudizio, in primo luogo storico e di certo non a demerito di Weber, sulla concreta capacità del “politico” di opporsi alla “gabbia di acciaio”. Il tormentato, e tragico, percorso novecentesco si è chiuso con l’avvento di uno scenario, quello della globalizzazione, che ha inciso in modo pesante e negativo sulle potenzialità del “politico”, quand'anche avesse davvero fatto propria l’indicazione weberiana. La globalizzazione, processo totalmente capitalistico e per nulla “borghese”, ha di fatto esteso all'intero mondo le pareti della gabbia annullando lo spazio politico della “forma Stato”. Ed era questa, nei suoi confini nazionali, la dimensione politico-istituzionale presa in considerazione da Weber. La sua idea di riportare al centro della scena politica la cultura “borghese”, razionalizzata e innervata dal metodo scientifico, era gioco forza pensata nello spazio territoriale e politico dello Stato. La sua concezione della pluralità dei “valori” che potevano, in un conflitto giocato sul piano rigoroso del confronto razionale, ispirare il “politico” non aveva infatti una configurazione geograficamente globale. Weber e globalizzazione sono pertanto, secondo Cacciari, del tutto incompatibili. Ma già da prima la reale evoluzione della democrazia rappresentativa non aveva dato conforto alle idee e alle speranze weberiane. Se il conflitto fra “politico” ed “economico” poteva, secondo Weber,  essere fruttuosamente gestito solo con una azione politica realmente “razionale”, così non è certo stato per tutto il Novecento. E, a maggior ragione, con l’attuale affermarsi della globalizzazione, la democrazia rappresentativa, l’unica dimensione politica per Weber, si è trasformata, pressoché ovunque, in un tumulto demagogico, sterile e pericoloso. La crisi della democrazia rappresentativa segna anche quella della “borghesia”, soprattutto di quella idealizzata da Weber, lasciando così spazio alle pulsioni semplificatrici della identificazione fra “popolo” e “Capo” che annullano ogni intermediazione e ogni spazio per quella “responsabilità” invocata da Weber come criterio guida fondamentale. Questa deriva democratica è al tempo stesso causa ed effetto della definitiva compiuta egemonia dell’ “economico” nella sua ultima versione del capitalismo globalizzato. Il “lavoro politico”, storicamente incapace di rigenerarsi su basi razionali, è oggi del tutto impossibilitato ad essere un libero “lavoro dello spirito”. Ne consegue allora che si sia in questo modo chiuso ogni spazio, ogni prospettiva, per il “lavoro intellettuale” in generale? A quest’ultima domanda Cacciari risponde con un no affidato ad una speranza. Quella che non vada dispersa l’idea di un “lavoro dello spirito”, sia intellettuale che scientifico, non subalterno all'attuale versione del “politico” e allo strapotere egemonico dell’ “economico. Questa visione, secondo Cacciari, accomuna Weber e Marx”, per quanto fra di loro diversissimi su molti centrali aspetti. Entrambi hanno infatti messo al centro della loro costruzione teorica un’idea di “lavoro” mirata, seppure con percorsi e protagonisti diversi, ad abbattere le pareti della gabbia d’acciaio. Cacciari non sa, perché non è dato saperlo, in che tempi e modi questo “lavoro dello spirito” possa riemergere. Ma se la “fine della storia”, quella che ha portato alla gabbia d’acciaio, potrà mai darsi è bene che ciò avvenga non nella forma della definitiva cancellazione di ogni “fine” alternativo, ma in quella di un “fine” che miri ad essere un nuovo “sapere assoluto” in grado di sussumere in sé ogni elemento, del passato e del presente, utile a definire un nuovo e vero “sistema delle libertà”.

mercoledì 1 luglio 2020

La parola del mese - Luglio 2020


La parola del mese
 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
LUGLIO 2020
Progresso (vs crescita)
La scelta di “Progresso” come parola del mese è maturata leggendo il saggio (recentemente uscito per i titoli “Il Mulino” nella sezione significativamente intitolata “parole controtempo”), di Aldo Schiavone (storico, accademico e saggista, membro dell’Italian Institute of Human Sciences –SUM)  dall’omonimo titolo, (la cui lettura ci è stata suggerito  anche  dalla nostra socia Carla Toscano che  doverosamente ringraziamo per la sua preziosa curiosità culturale)…

A differenza di quelle dei due mesi precedenti non si tratta certo di un neologismo, e neppure di un termine scarsamente utilizzato, lo spunto offerto da Schiavone è però sembrato in grado di coprire una necessità avvertita in modo ancora confuso; quello di individuare un termine capace di definire lo scopo ultimo, l’idea guida di base, della attuale fase di “ripartenza” resa finalmente possibile, e indispensabile, dal confortante allentamento della pressione pandemica.  Se sono sicuramente importanti tutti gli interventi specifici che consentano di recuperare un quadro, economico e sociale, a dir poco preoccupante, al tempo stesso, come da più parti e a più riprese è stato sottolineato, questa “ripartenza” può, e deve, rappresentare l’occasione per intervenire sulle tante storture di sistema che già in epoca precovid gravavano sul  nostro, e per essere al contempo, in un contesto necessariamente globale, anche l’occasione di (ri)modellare l’economia su basi ecologicamente ed ambientalmente davvero sostenibili. (ancora una volta, nel nostro piccolo, abbiamo profeticamente intitolato il programma 2019/2020 di CircolarMente “ricucire le ferite”!) Se è’ allora indispensabile definire idee e proposte immediatamente spendibili, ma già inserite in ottiche generali di lungo periodo (continuiamo a ritenere che quella avanzata dal Forum Disuguaglianze sia in questo senso un validissimo e concreto contributo) è altrettanto urgente individuare “parole” che possano essere il più possibile condivise ed in grado di dare nome, e sostanza, agli obiettivi di fondo da raggiungere. “Progresso”, nella sua accezione più nobile, potrebbe quantomeno concorrere in questo senso. Per presentarne il significato abbiamo quindi scelto, nella molteplicità delle sue declinazioni, quella che di più si lega al contesto economico e sociale, ponendola inoltre in antitesi con quella che, a nostro avviso, a sua volta rappresenta il modo non più condivisibile per pensare questa ripartenza.

Progresso: lo sviluppo verso forme di vita più elevate e più complesse, perseguito attraverso l’avanzamento della cultura, delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, dell’organizzazione sociale, il raggiungimento delle libertà politiche e del benessere economico, al fine di procurare all’umanità un miglioramento generale del tenore di vita e un grado maggiore di liberazione dai disagi (fonte: Enciclopedia Treccani)
Crescita (economica): L’insieme degli aspetti quantitativi dello sviluppo, misurati attraverso le principali grandezze macroeconomiche (reddito nazionale, investimenti ecc.). La teoria della crescita si distingue dall’economia dello sviluppo per l’attenzione esclusiva agli aspetti quantitativi e alla formalizzazione, a discapito dello studio degli aspetti istituzionali, storici, etici, antropologici che condizionano i processi di sviluppo nelle diverse regioni del mondo (fonte: Enciclopedia Treccani)
Progresso e crescita (alias sviluppo) sono infatti, se intese in questi termini e se valutate nell’attuale fase storica dell’umanità, ossia dopo ormai tre secoli di incessante e frenetica corsa “in avanti”, in totale antitesi. Ancora adesso, in queste primi momenti di riflessione sul post pandemia, il rischio resta quello che prevalgano i richiami, che si levano da destra e da (buona parte della) sinistra, all’imperativo della crescita, per molti quindi ancora l’unica dottrina possibile.  Se l’alternativa non ci sembra poter essere un richiamo alla “decrescita”, termine che, seppure anche da chi da tempo la propone non sia schematicamente intesa come “meno ricchezza”, molti spaventa perché troppo facilmente associabile alle parole “recessione”, “impoverimento”, può essere allora utile capire se (ri)parlare di “progresso” può (ri)avere un senso. Scritto prima dello scoppio della pandemia il testo di Schiavone solo in parte però fornisce spunti di riflessione in questo senso, un suo più diretto aggancio con la crisi pandemica è infatti affidata ad un postfazione aggiunta successivamente, e propone una lettura del “progresso” proiettata su orizzonti più ampi con una interpretazione decisamente forte e spiazzante. Va ben oltre il significato storicamente consolidato di “progresso” e, come sempre in questi casi, la sua condivisione oppure la sua critica richiedono una riflessione attenta. Ma in fondo è proprio questo lo scopo della “Parola del mese”, e di CircolarMente in generale.
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Capitolo I - Lo sguardo dell’angelo
E’ lo sguardo con cui, nella lettura di Valter Benjamin, ”l’angelus novus” dipinto da Paul Klee guarda alla “tempesta” che chiamiamo “progresso”….

Lo scritto di Benjamin è del 1940, davvero difficile in quel contesto formulare un giudizio diverso, ma tutto il Novecento rappresenta da una parte l’apice del paradigma progressista e dall’altra il pirmo affiorare di dubbi, remore, critiche aperte. Ben altre aspettative e certezze avevano infatti accompagnato un’idea indissolubilmente legata alla modernità fino a rappresentarne di fatto la tensione ideale. Quella che lo aveva fatto germogliare a metà del Trecento, subito dopo la spaventosa peste nera che aveva cancellato un terzo della popolazione europea, allorquando come attiva reazione si era formata la convinzione che il tenace operare umano avrebbe creato le basi per un costante miglioramento dei modi di vita, della conoscenza, della stessa capacità di governare la natura. L’antica concezione della circolarità del tempo, con l’inesorabile ripetersi della catena degli eventi, lasciava il posto ad una sua idea rettilinea con una freccia costantemente puntata verso un futuro immaginato sempre migliore del presente. I secoli delle scoperte geografiche, dell’esplosione dei commerci, delle grandi potenze marinare, di una classe imprenditoriale sempre più attiva e vincente, hanno dato progressiva sostanza a questa convinzione. nella parte del mondo investita dalla modernità. Ma è solo a cavallo fra Settecento e Ottocento, con l’età dei Lumi, che la parola progresso acquista senso compiuto. E’ in questo passaggio storico che inizia a cementarsi un rapporto che, con vicendevole incentivo, sarà alla base dell’intero tracciato progressista: quello della scienza e della tecnica con l’economia e la società. Un rapporto che diventa la chiave di lettura fondamentale dell’Ottocento, il secolo che Jacques Le Goff (uno dei massimi storici francesi, scomparso pochi anni fa) a ragione veduta, definisce “il grande secolo dell’idea di progresso”. Fino alla sua autentica celebrazione operata dall’ positivismo di fine Ottocento all’insegna della definitiva convinzione che il metodo scientifico applicato a tutte le discipline umane fosse il vero motore della storia. L’ingresso nel nuovo secolo avviene non a caso con un continuo balzo tecnologico, ogni scoperta scientifica, ogni innovazione tecnica, conteneva già in nuce il salto successivo, ogni cambiamento nei modi di produzione e nei modelli sociali già si apriva in nuove direzioni. Non sono mancate lungo questo trionfale procedere ottocentesco voci discordanti se non di aperta critica: il Romanticismo tutto, ma poi Leopardi (le magnifiche sorti e progressive) e Nietzsche per citarne solo alcuni, a dimostrazione di un primo affiorare di remore filosofiche sul ruolo e peso della scienza. In campo più strettamente politico posizioni di rifiuto appartengono al campo reazionario della “destra” nostalgica piuttosto che dell’isolamento sdegnoso del Papato, mentre la sinistra al contrario, marxismo in primis, ha fin da subito fatta sua la bandiera del “progresso” visto come orizzonte in cui il progredire tecnico si legava strettamente al superamento delle ingiustizie sociali. La lotta di classe non è mai stata un contrapporsi al “progresso” in quanto tale, ma al suo connubio con il sistema di produzione capitalistico e alle logiche di profitto che lo ispiravano. A Novecento appena avviato la tragedia del primo conflitto mondiale, e le conseguenti profonde turbolenze sociali e politiche, segnano un primo vacillare di questa fede indiscussa nel progresso. Nei decenni successivi se da una parte il peso di scienza, tecnica, e tecnologia continua a crescere in un costante accelerato volano, iniziano, soprattutto in campo intellettuale, a manifestarsi alcuni significativi distinguo. Da una parte nelle scuole di pensiero economico anglosassoni alla parola “progress”, ritenuta troppo impregnata di idealità, si inizia a preferire quella più asciutta e tecnica di “growth”, di “crescita”, dando avvio, con questa sottigliezza all’apparenza solo terminologica, al prevalere dell’aspetto economico e produttivo, al suo riscontro essenzialmente quantitativo. Al contempo  in Francia iniziano a comparire analisi e studi, in particolare in campo sociologico, che guardano con preoccupazione alle crescenti storture e contraddizioni prodotte dal procedere progressista, ad iniziare proprio dalla catastrofe della Grande Guerra la quale aveva chiaramente mostrato il potenziale autodistruttivo in esso insito. (lungo questa linea di pensiero francese si collocherà, alcuni decenni dopo, un saggio fondamentale di Raymond Aron, 1905-1983, filosofo e sociologo , con emblematico titolo “Les désillusions du progrès”). La fiducia in un radioso futuro strettamente legato al procedere del progresso in questi stessi decenni resta uno dei tratti distintivi della sinistra, ed in particolare del neonato movimento comunista internazionale e della sua nazione guida, la Russia dei Soviet, che lo fanno vieppiù coincidere con la ostruzione di una “futura umanità”. Al contrario in tutto l’Occidente pesano moltissimo la grave crisi del 1929, che spazza via ogni illusione sul benessere garantito dall’industrializzazione, e poi lo spaventoso spettacolo delle macerie della Seconda Guerra e dell’indicibile dramma dell’Olocausto. Le tragedie che Benjamin immagina, avendole perfettamente intraviste e intuite, essere sotto lo sguardo dell’Angelus Novus. Dubbi, sfiducia, rifiuto sembrano però ancora manifestarsi in prevalenza in ambito culturale ed intellettuale, l’uscita dal dramma della lunga fase di conflitti mondiali rappresenta invece a livello di massa, non diversamente dal primigenio reagire alla peste del Trecento, una fase, che si rivelerà comunque breve, segnata dal fervore della ricostruzione, e delle crescenti conquiste degli importanti diritti del welfare. Un comprensibile clima di rinnovata fiducia verso il futuro accresciuta dalla diffusa sensazione di benessere del capitalismo consumistico, solo parzialmente attutiti provvisoriamente dai timori di un conflitto nucleare e dalle permanenti tensioni della guerra fredda. A partire dai primi anni settanta, e poi a seguire in modo via via più consistente, tornano a farsi sentire voci che si levano a evidenziare la dissociazione fra il crescente e inarrestabile sviluppo della scienza e della tecnica, con la loro collegata capacità di influenzare ogni aspetto della società, e la potenzialità complessiva di adeguare una parallela progettualità culturale e sociale ed una razionalità politica di governo dei processi sociali, generati proprio da scienza e tecnica. Una dissociazione che esce dai ristretti ambiti intellettuali e che diventa, all’interno dei forti movimenti di lotta degli ultimi decenni del Novecento, un sentire sempre più diffuso e partecipato man mano che acquistano maggiore evidenza i pericoli e le ricadute negative sull’ambiente e sulla stessa vita che tale sviluppo comporta. La caduta del Muro e la fine dell’esperienza del comunismo mondiale implicano in aggiunta il venire meno dell’ultima vera barriera, ideologica, che ancora conservava un’idea di futuro in cui progresso tecnico e sociale restavano collegati.  I decenni a cavallo del nuovo millennio, proprio in coincidenza con il pieno affermarsi della terza rivoluzione tecnologica vedono esplodere te numerose contraddizioni del processo di globalizzazione neoliberista.  La vittoria globale dell’economia capitalistica, che avrebbe dovuto segnare, con la “fine della storia”, il definitivo affermarsi di una razionalità globale incentrata su individualismo e logiche di profitto, vede al contrario esplodere sentimenti di ansia e sospetto. Il ridimensionamento delle coperture offerte dallo stato sociale, l’esplosione di vasti processi di deindustrializzazione e di crescente disuguaglianza di reddito, il manifestarsi dei gravissimi danni ambientali e climatici accentuano la diffidenza verso un futuro sempre più definito da innovazioni tecniche che si realizzano a velocità troppo elevate per il comune sentire. Per la prima volta l’idea di futuro, visto nella sua interezza, delle nuove generazioni appare peggiore di quella dei loro padri. La parola “progresso” non suscita più certezze e aspettative confortanti. La freccia del tempo non è più unica, si è sdoppiata: sempre più puntata in un avanti accelerato quella tecnologica sempre più incerta e contratta quella del comune sentire.
Capitolo II - Dove va la freccia
Un comune sentire che sembra ritrarsi di fronte alla potenza dell’attuale salto scientifico e tecnico, e delle trasformazioni che sembra in grado di produrre, fino a ritenere che una definizione di questa epoca non possa più essere affidata alla parola “progresso”. Fino al punto di non ritenerla più spendibile come paradigma dell’intero pensiero storico? La tentazione appare forte in molti eppure tecniche e conoscenza, strumenti tecnologici e saperi man mano acquisiti, sono da sempre alla base del “progredire” umano. Lo sono dai tempi dei nostri antenati preistorici così come ai tempi dell’acceleratore di particelle del CERN di Ginevra, lungo un procedere nel tempo che ha avuto le caratteristiche di una incessante “progressione” irreversibile. Una progressione che può essere letta come un itinerario ispirato, fin dal suo grado zero, dall’istinto umano di affrancarsi dalla dipendenza dal contesto naturale, proprio grazie al conoscerlo sempre più a fondo e quindi al governarlo sempre meglio. Può essere questa la freccia di tutta la storia umana ed ha una direzione precisa e progressiva che conduce dal passato al futuro e che è intimamente connessa con una predisposizione morfologica dell’animale uomo a sviluppare una intelligenza duttile, trasformatrice e non di rado anche rapinosa. Vale a dire che la relazione tra “homo sapiens” e contesto naturale ha di per sé carattere progressivo con una freccia che va dal più semplice al più complesso. Va anche detto inoltre che la storia dell’uomo non può certo essere ridotta al solo rapporto con il contesto naturale. E’ fatta in ugual misura di tutti i fattori inter-umani: socialità, forme economiche e giuridiche, relazioni di potere, pensiero astratto, esperienze religiose e filosofiche, amore per il bello, idee morali, gusto musicale e le tantissime altre manifestazioni della cultura. Anche a questa dimensione umana può essere applicato il paradigma del “progresso”? E’ sufficiente la sola parabola del Novecento per comprendere la reversibilità della freccia se ad essa applicata. A questa indiscutibile constatazione si deve poi aggiungere la necessaria riflessione sul “posto” dell’uomo nel generale complesso evolutivo della vita sul pianeta Terra.  Una evoluzione che fin dal suo primo comparire è sempre proceduta per scarti e salti improvvisi, governata dal gioco del caso e dell’eccezione, alternando esplosioni di forme di vita a non rari momenti di rischio di estinzione totale. Lungo un arco temporale di miliardi di anni che sfugge, per definizione, alla reale comprensione e messa fuoco umana. Questa storia evolutiva immensamente più antica e lenta non si concilia con quella culturale. Troppo diverse le scale temporali. Prende corpo da questo iato l’illusione umana di una natura ferma, immobile sfondo per i nostri pensieri ed azioni, se non un proscenio in movimento, anch’esso “progressivo”, finalizzato alla nostra vincente comparsa sulla scena. Teogonie e teologie, e buona parte della intera cultura umana, questo in sostanza raccontano. Un racconto che dà dignità e significato ad un naturale procedere che, anche grazie ad una serie di incredibili passaggi favorevoli, ha prodotto la vincente comparsa dell’intelligenza umana. Una (auto)celebrazione non priva di oggettivi riscontri. A questa posizione, che sostanzialmente è quella che dà senso ultimo alla freccia del progresso, se ne contrappone però, una seconda, anch’essa peraltro frutto dell’intelligenza umana, che, attraverso culture e pensatori quali ad esempio, Lucrezio, Spinoza, a Darwin, ritiene l’uomo un modesto, e provvisorio, ramo dell’albero della vita nel quale dovrebbe stare con maggiore olistica modestia. In questo quadro non c’è progresso la freccia, non ha una direzione precisa. E’ forse però arrivato il tempo, visti i possibili scenari che attendono le scelte future dell’umanità, di capire se esiste una terza posizione che faccia sintesi. Una posizione che da una parte riconosca che nulla, specie sul piano scientifico, autorizza l’uomo a ritenersi il risultato voluto di un progetto in tal senso finalizzato, ma che dall’altra accetti che la comparsa dell’umano, e l’azione della sua intelligenza e della sua cultura, hanno ormai, “oggettivamente”, un ruolo sullo stesso generale percorso evolutivo della vita terrestre. Una posizione che, come logica conseguenza, ridarebbe senso alla parola progresso, una direzione alla freccia, responsabilizzando l’uomo, e la sua cultura, a muoversi verso un futuro in armonia con la vita tutta. E’ una rilfessione che sta assumendo carattere di assoluta urgenza.  Il Novecento ha già sancito la capacità umana di modificare la natura.ma in questo primo scorcio del nuovo millennio si sono sviluppate ulteriori formidabili potenzialità che impongono una responsabile e ragionata scelta fra queste tre posizioni. Si è infatti sempre più vicini alla possibile definitiva scissione fra due mondi: quello naturale e quello culturale, e la oggettiva invasività di queste potenziali renderà naturale non più quello che non abbiamo ancora “toccato”, ma quello che avremo deciso di non toccare e di difendere come tale. E l’uomo, nella sua interezza, rientra pienamente in tutto questo. Esiste sempre più la concreta possibilità che l’uomo si congedi dalla selezione naturale, che il suo futuro sia deciso non più dall’evoluzione ma dalla sua stessa intelligenza, magari potenziata. Lo stesso Darwin aveva intravisto il possibile crearsi  di un “effetto reversivo”, altrimenti detto proprio “effetto Darwin”, ossia che l’evoluzione giunga a selezionare una cultura capace di sostituirsi alla stessa selezione naturale. Siamo sempre più vicini a questa situazione sin qui del tutto ipotetica, che implicherebbe che umano sarà ciò che l’uomo stesso vorrà che sia. Sulla base di quanto è finora stato anche questa possibile svolta sarà definibile come “progresso”? ancora si collocherà lungo la sua freccia? Esistono diverse direzioni, scegliere verso quale orientarci sarà un passaggio tanto complesso quanto decisivo, per farlo al meglio, per rispondere a queste due domande, occorre urgentemente sciogliere quella scissione fra potenza della scienza e della tecnica e capacità di governarla per il bene comune che, come si è visto, sono alla base dell’attuale diffidenza della parola “progresso”.
Capitolo III – Il futuro ritrovato
Come intervenire su questa scissione, su questa frattura? Tenendo inoltre conto che è la prima volta nella storia umana che il rapporto tra tecnica e altri saperi si presenta sbilanciato a favore della tecnica e con una chiara tendenza, se nulla succede, ad accentuarsi ulteriormente. La storia ci racconta di un sbilanciamento esattamente opposto, quello che nella cultura greco-romana, base di tutta la cultura occidentale, ha visto la tecnica ristagnare a fronte del grande fiorire degli altri saperi. Alla rivoluzione agricola, alla scoperta della metallurgia, all’uso della ruota, per diversi millenni non seguirono altre innovazioni di portata significativa. In questa sorta di stasi tecnologica, appena scalfita dal materialismo scientifico della scuola ionica, la spinta alla conoscenza si è orientata a lungo verso l’umano, il pensiero, lo spirito. Uno sbilanciamento, opposto a quello attuale, che ha segnato per secoli  l’intera cultura. Lo testimonia in modo calzante l’incongruenza del pensiero antico, le cui eccellenze nulla ancora oggi hanno perso di valore, nel considerare la schiavitù ed il ruolo della donna. Una macchia, incomprensibile e imperdonabile, che non è spiegabile con un deficit filosofico o di pensiero sociale, ma che trova invece una sua ragione proprio nel ritardo tecnologico del tempo. Schiavitù e ruolo della donna hanno infatti rappresentato, al punto da figurare come elementi “naturali” della condizione umana, le due basi sulle quali poggiava la “produzione” dei beni primari, compresa la collegata creazione del surplus che consentiva al ceto privilegiato la stessa speculazione intellettuale, diversamente non ottenibili.  E non a caso l’idea di una emancipazione di tutto l’umano ha potuto iniziare a fare breccia nella storia del pensiero quando la tecnica ha iniziato ad ampliare il suo peso sulle condizioni materiali di esistenza e produzione. Pensiero sull’umano e tecnica procedono quindi lungo percorsi diversi ma non indipendenti, e la storia dimostra come sia soprattutto la seconda a incidere sul primo. La potenza della tecnica crea infatti le condizioni perché il pensiero tutto possa elevarsi, allargarsi fino a concepire l’umano nella sua interezza. Come si innesta allora il “progresso” in questo quadro? Il percorso della scienza e della tecnica da sempre procedono lungo una freccia progressiva, e in modo ancor più netto a partire dalla modernità, ma non dissimile appare quello del pensiero che dovrebbe “padroneggiare” la crescente potenza scientifica e tecnologica. Per comprenderlo è però necessario uno sguardo sui tempi lunghi, perché sono indubitabili i passaggi storici, gli esempi si sprecherebbero, in cui un deficit contingente di pensiero ha consentito usi distorti della tecnica. Lo sguardo dello storico deve icogliere il risultato su archi temporali che vadano oltre tali passaggi, in tal caso diventa possibile vedere è che, finora!, le ricadute del progresso scientifico e tecnico sono state comunque incanalate in una direzione progressiva di avanzamento globale della società umana. Ma al tempo stesso coglie anche l’evidenza che questo procedere progressivo eè dipeso, e ancora dipende, dalla capacità reale di orientare con chiarezza e costanza la potenza di scienza e tecnica E che quindi quanto è più grande questa potenza tanto più deve valere questa capacità di controllo e orientamento. Da questo rapporto conseguono poi due precise conseguenze. La prima, quella più importante, consiste nella consapevolezza che l’orientamento in avanti della freccia del “governo della potenza” ha un solo verso, quello sin qui dato da tutta la storia umana: che la ricaduta del progresso tecnico investa l’intera totalità dell’umano, di tutte le esistenze. La seconda, che dà senso e completezza alla prima, è che, come ancora una volta la storia dimostra, più procede la tecnica e più può procedere anche la stessa capacità di orientamento; vale a dire che, come si visto, senza quello tecnico l’intero progresso umano non può realizzarsi, e che quindi non si esce dalle difficoltà cercando di comprimere la potenza tecnica. Mai come in questo passaggio storico è allora indispensabile che la civiltà tutta cresca fino al livello necessario per governare una scienza ed una tecnica in grado di produrre, come già lo stanno facendo, innovazioni epocali. Una impresa che può essere vincente se realizza due obiettivi: definire un nuovo pensiero sull’uomo, e del suo posto in questo mondo, all’altezza della sfida e una nuova politica, una nuova democrazia, vale a dire e giuste sedi in cui si può esercitare la capacità di governo del processo tecnico. Sapendo che il primo non si ha se non cresce la politica e che il secondo per realizzarsi deve contare su un pensiero nuovo. Ed che ambedue necessitano di un ritorno in campo dell’idea di progresso coniugato con una nuova teoria, antropologica, culturale e politica, dell’umano che abbia integrato in sé la stessa tecnica. Un passaggio quest’ultimo che, in coerenza con il suo obiettivo ultimo, si può realizzare solo se il paradigma individuale, che ha caratterizzato sin qui l’intera modernità e che nel neoliberismo ha conosciuto la sua massima celebrazione, lascia il posto all’interezza dell’umano, ad una visione davvero collettiva, andando anche oltre alla visione collettivista, socialista e comunista, che ancora non riusciva a pensare il sociale se non partendo dall’individuale. Per delineare questa nuova idea di persona/sociale un primo decisivo banco di prova, fra i tanti che la potenza della tecnica e della scienza stanno delineando, consiste nel considerare inviolabile quella uguaglianza genetica che la storia umana ci ha consegnato e che appare invece in gran misura minacciata dagli attuali sviluppi della ricerca. Sta quindi a noi mutare ciò che si presenta allo sguardo dell’angelus novus di Klee e Benjamin.
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Si è detto in apertura della postfazione aggiunta da Schiavone per collegare il suo saggio agli spunti offerti dalla pandemia. Ci è sembrato utile recuperarne i passaggi più significativi per chiudere il cerchio della riflessione offerta da “Progresso”.
Virus e idee: come una postfazione
Molto di quanto è emerso all’attenzione in questa pandemia sembra essere in convergenza con la tesi sviluppata:
· La scienza e la tecnica = Le epidemie sono una costante nella storia umana perché è immutabile il contesto biologico, la darwiniana lotta per la sopravvivenza della specie, in cui avvengono. Ciò che muta è la forma sociale che di volta in volta esse assumono. Quella del covid19 è la prima che ha visto all’opera una medicalizzazione totale planetaria. Scienza e tecnica sono, in questa veste, apparse le vere custodi dell’umano. Chi ancora chiedeva prove della loro “progressività” è stato accontentato
· Il nostro posto nella natura = La pandemia ci ha ricordato, con le modalità della sua origine e diffusione, che l’uomo fa parte di un habitat naturale, di cui non siamo padroni assoluti  e che quindi dovremmo rispettare. Ma non ha senso dire che siamo andati troppo oltre nel sottomettere la natura alla arroganza della tecnica. Ci si è dimenticati troppo in fretta di come si moriva quando la natura era sacralmente intatta. E si continua a non capire che l’arroganza non è della tecnica ma della politica e dell’economia. Acquisire conoscenza e controllo della natura implica anche la sua conservazione ed il suo rispetto. Se questo ancora non succede è perché non si è ancora realizzato un pensiero complessivo che orienti in questa direzione scienza e tecnica
· Governabilità globale = Anche grazie alla rivoluzione tecnologica l’economia ha unificato l’intero pianeta, ma non è ancora nata una corrispondente capacità di governare i processi che ne discendono, ad esempio: del lavoro, della formazione, della cultura, della democrazia, della salute. E’ anche per questo vuoto che la pandemia ha potuto diffondersi. In fondo è l’ennesima dimostrazione dello squilibrio esaminato in questo saggio. La pandemia ha semmai accentuato l’urgenza e l’inderogabilità che la soluzione abbia carattere globale. Magari partendo proprio dalla salute, dalla sanità mondiale con protocolli, cure e strumenti condivisi globalmente