venerdì 21 gennaio 2022

La crisi climatica è una questione di giustizia sociale

 

E’ da tempo percezione diffusa la stretta relazione fra emergenza climatica ed ambientale e giustizia sociale, la cui ricaduta è verificabile sia all’interno delle singole nazioni sia fra le varie aree del pianeta. Non sempre questa percezione, e le conseguenti possibili reazioni, sono però adeguatamente proporzionate alla reale consistenza dei processi in corso. Il seguente articolo, che fornisce illuminanti dati al riguardo, ci è sembrato utile a colmare almeno in parte questo deficit di conoscenza, in particolare per quanto concerne l’Africa, il continente che per un cumulo di ragioni, storiche e contemporanee, è quello più colpito dalle ricadute ambientali e dalle disuguaglianze economiche e sociali. Una situazione che, storicamente ed attualmente, chiama direttamente in causa l’Europa, Italia ben compresa, e le sue, spesso cieche ed inefficaci, politiche di gestione degli inevitabili conseguenti flussi migratori

La crisi climatica è una questione

di giustizia sociale

Articolo di Francesco Suman (filosofo della scienza, giornalista scientifico, collabora con MicroMega, Nature Italy e Valigia Blu) 

La transizione energetica è probabilmente la sfida più grande che l’umanità abbia mai dovuto affrontare. Il settore energetico da solo è responsabile di oltre i tre quarti delle emissioni di gas a effetto serra globali che riscaldano il pianeta e stanno causando la crisi climatica. Per ridurle occorrerà rivoluzionare i sistemi con cui produciamo, consumiamo e trasportiamo l’energia. Ma un elemento che troppo spesso si perde nel racconto delle prospettive e delle possibilità delle nuove “economie verdi” è il fatto che la transizione energetica e la lotta al cambiamento climatico, oltre a essere una questione ambientale, sono una partita che va giocata sul terreno della giustizia sociale. I Paesi più poveri soffrono e soffriranno sempre più gli effetti più gravi e drammatici di una crisi climatica che non hanno generato, e che in larghissima parte è stata causata dalle emissioni dei Paesi più ricchi. Greta Thunberg ha chiuso il discorso che ha inaugurato la Youth4Climate, già passato alla storia per il “bla bla bla” con cui ha fatto il verso ai leader mondiali, con un grido di incitazione a cui hanno risposto in coro i 400 giovani delegati giunti a Milano in rappresentanza di quasi 200 Paesi: “what do we want? CLIMATE JUSTICE! When do we want it? NOW!”. Che cosa vogliamo? GIUSTIZIA CLIMATICA! Quando la vogliamo? ORA! Nel suo discorso l’attivista svedese ha ancora una volta posto l’accento proprio su quanto la crisi climatica sia solo un sintomo di una crisi molto più profonda, che va affrontata alla radice: “una crisi di sostenibilità, una crisi sociale, una crisi di disuguaglianza, che risale al colonialismo, e basata sull’idea che alcune persone valgano più di altre e che ritengono di avere il diritto di sfruttare e rubare la terra e le risorse di altre persone”. Per capire appieno le parole di Thunberg basta guardare ai dati. E quelli relativi all’Africa, in particolare, parlano chiaro.

Percentuali e responsabilità

Ogni ragionamento sul cambiamento climatico non può che partire dai dati relativi alle cosiddette emissioni storiche. Secondo quanto calcolato dal Global Carbon Project, e rielaborato dal New York Times, i Paesi ricchi che rappresentano il 12% della popolazione mondiale hanno immesso in atmosfera più del 50% dell’anidride carbonica mai prodotta da attività antropica dal 1750 a oggi. Tra questi, gli Stati Uniti da soli raggiungono quasi il 25%, mentre l’Europa, includendo il Regno Unito, supera il 20%. Gli altri sono Giappone (4%), Canada (2%) e Australia (1%). Al di fuori di questa lista si collocano Paesi meno ricchi, ma le cui economie stanno contribuendo in maniera decisiva negli ultimi decenni al riscaldamento globale: la Cina ha raggiunto quasi il 13% delle emissioni storicamente accumulate, la Russia è di poco sotto al 7%, l’India è di poco sopra al 3%. Approssimando un po’, si può dire che il Nord America, l’Europa e l’Asia sono responsabili ciascuna di circa il 30% delle emissioni di CO2 degli ultimi tre secoli. Il riscaldamento globale di 1,1°C verificatosi rispetto all’era preindustriale e certificato dall’ultimo rapporto dell’IPCC (il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite) è per il 90% responsabilità loro. Tutta l’Africa, così come il Sud America, ha contribuito solo per il 3% dell’anidride carbonica storicamente emessa. In più, l’Africa in particolare è un continente particolarmente esposto ai rischi e agli effetti della crisi climatica. Lo ha sottolineato spesso nei suoi interventi anche Vanessa Nakate, giovane attivista dell’Uganda, e lo mostra chiaramente il rapporto dell’IPCC che racconta come già oggi “l’aumento delle temperature di superficie è stato generalmente più rapido in Africa rispetto alla media globale”. L’osservato aumento di ondate di calore sulla terraferma e sul mare, così come la diminuzione di ondate di freddo, sono destinati a continuare nel corso di tutto il secolo con l’avanzare della crisi climatica. La crescita del livello dei mari ha avuto un impatto più severo in Africa negli ultimi tre decenni rispetto alla media globale e continuerà a contribuire a fenomeni di allagamento ed erosione delle coste sabbiose. Più calore in atmosfera significa anche precipitazioni più intense, ma non necessariamente un aumento delle precipitazioni medie annuali: la maggior parte delle regioni dell’Africa dovranno paradossalmente far fronte a più alluvioni causate da eventi meteorologici estremi e al contempo a una maggiore siccità. Quest’ultima è un problema gravissimo specialmente nella parte orientale del continente, dove gli ultimi ghiacciai sembrano destinati a scomparire entro il decennio del 2040. Secondo un rapporto della World Meteorological Organization del 2021, il Kenya, l’Etiopia e la Somalia hanno visto precipitazioni stagionali sotto la media negli ultimi due anni, mentre sono sotto la media da 10 anni in Madagascar, che ha recentemente dichiarato ufficialmente la prima carestia climatica. L’impatto su economie basate in gran parte sull’agricoltura è devastante.

Giustizia climatica

La Nigeria è il maggior produttore di petrolio tra i Paesi africani. Il conflitto del delta del Niger, che vede coinvolti le multinazionali produttrici di petrolio, il governo nigeriano e le popolazioni che vivono in quell’area, prosegue ormai dagli anni Novanta. Anche la Repubblica Democratica del Congo è tra i 10 maggiori produttori di petrolio in Africa, ma negli ultimi anni è diventata l’emblema dello sfruttamento di una risorsa mineraria cruciale per la transizione energetica: il cobalto. In Congo si trova circa il 70% delle riserve mondiali di questo minerale impiegato negli elettrodi di molti sistemi di accumulo, come le batterie agli ioni litio contenute in smartphone, computer e veicoli elettrici. Esistono anche batterie che non impiegano cobalto, come quelle litio-ferro-fosfato o quelle agli ioni sodio (ancora in fase di perfezionamento e sviluppo). Tuttavia secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), la domanda di cobalto potrebbe aumentare di oltre 20 volte da qui al 2040. La miniera di Kinsafu, nella Repubblica Democratica del Congo, una delle più grandi riserve di cobalto e rame del mondo, è stata controllata per più di un decennio dal gigante minerario statunitense Freeport McMoRan, mentre ora è passata nelle mani di una compagnia sostenuta direttamente da Pechino, la China Molybedenum. Quello di Kinsafu è uno dei due più grandi depositi di cobalto che sono passati alla Cina negli ultimi 5 anni. L’altro è quello di Tenke Fungurume, che da solo produce il doppio del cobalto prodotto da qualsiasi altro Paese al mondo. Erogando ingenti finanziamenti statali alle compagnie che operano in Africa, la Cina è arrivata a controllare l’anno scorso 15 delle 19 maggiori miniere di cobalto della Repubblica Democratica del Congo. Un’indagine del New York Times ha documentato anche le tensioni che la spartizione di queste risorse provoca in Congo, in Africa e, di riflesso, sui mercati globali. Lo scorso luglio una rivolta vicino a un porto del Sud Africa, da cui gran parte del cobalto estratto viene esportato in Cina e in altri Paesi, ha provocato un improvviso rialzo dei prezzi del metallo, che è continuato nei mesi successivi. Secondo un’analisi di Benchmark Mineral Intelligence, una delle maggiori agenzie che producono report sull’economia dell’elettrico, il prezzo in salita delle batterie impatterà sui produttori di veicoli elettrici che faticheranno a venderli a prezzi competitivi. La IEA stima che già entro il 2030 l’offerta di cobalto potrebbe arrivare a coprire solo l’80% della domanda. Secondo quanto riporta il New York Times, da quando il controllo delle miniere è passato in mani cinesi i problemi di sicurezza sono aumentati. Le incursioni di chi vuole impossessarsi illegalmente del cobalto sono più frequenti e non vengono gestite adeguatamente, secondo la testimonianza di chi ha lavorato per oltre un decennio alla miniera di Tenge Fungurume. Per sorvegliare i siti di estrazione, China Molybdenum ha assunto truppe di miliziani armati che non esitano ad aprire il fuoco quando lo reputano necessario. L’azienda cinese avrebbe anche tentato di nascondere casi di incidenti sul lavoro, offrendo ricompense agli infortunati per non parlare. Le attività di estrazione del cobalto in Congo storicamente hanno sfruttato il lavoro minorile, hanno contribuito al finanziamento di conflitti e ad abusi dei diritti umani. Tutto ciò fa del cobalto non solo un minerale critico, ma un vero e proprio “minerale di conflitto”. Inoltre la compagnia cinese non starebbe pagando tutte le royalties sulle estrazioni dovute al governo congolese, che sta considerando di sospendere la concessione, mentre la Cina non starebbe rispettando gli accordi sottoscritti per finanziare la costruzione di strade, ponti, centrali elettriche e altre infrastrutture cruciali per il Paese. Lo schema proposto con il cobalto congolese non sembra diverso da quello già messo in atto negli anni passati con il petrolio drenato da altri Paesi africani: estrazione di risorse in cambio di infrastrutture, corruzione a diversi livelli e tensioni che sfociano in scontri violenti. Per il presidente Tshisekedi il Paese ha uno straordinario potenziale per le energie rinnovabili, sia per quanto riguarda i depositi minerari sia l’energia prodotta dalle centrali idroelettriche. “Ma come possiamo – si chiede Tshisekedi – mettere queste straordinarie risorse a disposizione del mondo, assicurando prima il beneficio dei congolesi e degli africani?”

Accesso all’elettricità e infrastrutture in Africa

Complice la pandemia da COVID-19, la quantità di persone che non ha accesso all’elettricità nei Paesi dell’Africa sub-sahariana è aumentata nel 2020, mentre era in discesa dal 2013. Circa 800 milioni di persone al mondo soffre di quella che è nota come povertà energetica e circa tre quarti di queste (quasi 600 milioni di persone) vivono nell’Africa sub-sahariana. Mediamente un cittadino africano consuma ogni anno meno energia elettrica di quanto non ne consumi un frigorifero negli Stati Uniti o in Europa. Secondo i dati riferiti al 2019 della IEA, in Sud Africa oltre il 94% della popolazione ha accesso all’energia elettrica, mentre questa percentuale scende all’84% in Kenya, che pure dal 2013, quando era al 20%, ha fatto progressi enormi. Grandi passi avanti sono stati fatti anche in Ghana (85%), Senegal (70%), Rwanda (52%) ed Etiopia (50%). Ma la situazione è ancora drammatica in Paesi come il Sud Sudan, dove crolla addirittura all’1,1%, al 3% nella Repubblica Centro Africana, a poco più dell’8% in Congo. Com’è possibile che il Paese che siede sopra i due terzi delle risorse globali di cobalto, un elemento cruciale per la transizione verso un mondo elettrificato e a emissioni zero, sia in grado di fornire elettricità a meno di un decimo dei propri cittadini? Secondo la IEA nel 2030 saranno 660 milioni le persone che non avranno accesso all’elettricità e la metà di queste sarà concentrata in 7 Paesi, 6 africani e 1 asiatico: Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Uganda, Tanzania, Niger, Sudan e Pakistan. Come è evidente, la transizione energetica non si dispiega con un’unica agenda comune a tutti i Paesi del mondo. Se ad esempio i mercati più sviluppati mirano a eliminare le vendite delle auto a motore termico entro il 2035 sostituendole con quelle elettriche, come è stato dichiarato alla COP26 con un accordo firmato da circa 40 Paesi e da una decina di case automobilistiche, le priorità in Africa sono tutt’altre e riguardano la costruzione delle infrastrutture necessarie ad abbattere la povertà energetica, i finanziamenti e il trasferimento delle conoscenze (in gergo diplomatico capacity building) necessarie alla realizzazione di quelle infrastrutture. Per soddisfare l’obiettivo 7.1 dell’agenda 2030 dell’ONU che riguarda l’accesso universale all’energia elettrica e a sistemi di cottura sostenibili, secondo la IEA saranno necessari sforzi di cooperazione internazionale a supporto di politiche che investano 35 miliardi di dollari ogni anno da qui al 2030. Oltre ad ampliare la rete elettrica, rendendola più efficiente e intelligente, sarà fondamentale puntare su soluzioni decentralizzate rese possibili dalle fonti rinnovabili come il fotovoltaico, i cui costi sul mercato si sono drasticamente abbassati nel corso dell’ultimo decennio.  “Queste soluzioni sono particolarmente indicate per le aree rurali e remote dei Paesi africani, dove vivono molte delle persone che ancora sono private dell’accesso all’elettricità” si legge nel rapporto IEA. Oltre agli investimenti sulle infrastrutture, già a partire dalla COP15 di Copenhagen del 2009 i Paesi ricchi avevano promesso a quelli più vulnerabili al cambiamento climatico 100 miliardi di dollari l’anno per far fronte agli effetti catastrofici della crisi climatica, che come abbiamo visto colpisce più duramente proprio i Paesi africani. Nel documento finale della COP26, il “patto sul clima di Glasgow”, viene però riportato: “si nota con profondo rammarico che l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 in favore dei Paesi in via di sviluppo, nel contesto di azioni di mitigazione e trasparenza nell’implementazione, non è stato ancora raggiunto”.

Responsabilità comuni ma differenziate

Se come si è detto Paesi appartenenti a fasce economiche diverse hanno differenti priorità nella realizzazione della transizione energetica, viene da chiedersi se il meccanismo diplomatico e politico adottato dalla conferenza delle parti dell’ONU, ovvero quello di produrre un unico documento condiviso da quasi 200 Paesi, sia il metodo più adatto a fronteggiare le sfide del cambiamento climatico e della giustizia climatica. O meglio, viene da chiedersi se il principio delle responsabilità comuni ma differenziate, formalizzato dall’UNFCCC già nel 1992 a Rio de Janeiro, inserito nel Protocollo di Kyoto nel 1997 e ribadito nell’accordo di Parigi del 2015, trovi la sua migliore attuazione nella sottoscrizione di un unico documento valido per quasi 200 Paesi. Proprio riguardo al testo del Patto sul clima sottoscritto il 13 novembre a Glasgow, ha fatto notizia e scalpore il veto posto all’ultimo momento dall’India riguardo all’eliminazione (phase-out) del carbone, spingendo per la sostituzione del termine, al paragrafo 36, con uno più morbido: riduzione graduale (phase-down). Come ricordavamo in apertura, l’India ha contribuito per circa il 3% di tutte le emissioni mai rilasciate in atmosfera dall’era pre-industriale a oggi, è considerato un Paese in via di sviluppo, e in quanto tale chiede di poter sviluppare la propria economia attingendo a una fonte primaria di energia, il carbone, che nel 2020 rappresentava il 44% del suo mix energetico nazionale. Pochi giorni prima, sempre alla COP26 di Glasgow, circa 40 Paesi avevano siglato una dichiarazione che mirava a eliminare l’uso del carbone. Tra i firmatari c’erano Paesi come la Polonia che genera circa il 70% della propria energia elettrica dal carbone. Non c’erano però Cina e India, ovvero i due più grandi consumatori di carbone al mondo, ma nemmeno Stati Uniti e Australia. Non avevano firmato quella dichiarazione sul carbone nemmeno molti Paesi africani che dal combustibile solido dipendono per la generazione di elettricità. Intervistato dal Guardian durante lo svolgimento della COP26, Tanguy Gahouma-Bekale, a capo del gruppo africano per le negoziazioni sul cambiamento climatico, ha commentato che l’impegno sul carbone è un importante passo avanti, ma le nazioni in via di sviluppo hanno bisogno di più tempo: “Se vogliamo raggiungere con successo gli obiettivi posti dall’accordo di Parigi dobbiamo abbandonare tutti i combustibili fossili e il carbone è tra quelli. Ma la nostra situazione in Africa è diversa. Stiamo ancora percorrendo la strada dello sviluppo. Non possiamo drasticamente abbandonare il carbone e il petrolio. Per ora dobbiamo usarli per eradicare la povertà e garantire l’accesso all’energia. Avremo bisogno di supporto nella transizione. E abbiamo bisogno di essere flessibili. Per i prossimi 5 o 10 anni, dobbiamo portare avanti carbone e rinnovabili insieme, in modo che la transizione sia morbida”. Dietro le colpe date all’India per aver annacquato il passaggio in merito alla riduzione del carbone si celano dunque da una parte le esigenze di crescita dei Paesi in via di sviluppo, ma dall’altra gli interessi dei Paesi più ricchi (vedi Usa, ma anche Cina) che non hanno alcuna intenzione di concedere il minimo vantaggio ai concorrenti. La stesura di un unico documento condiviso da Paesi con esigenze molto diverse fra loro rischia allora di alimentare la strategia attendista del “prima agisci tu, poi io”, descritta anche in un recente articolo di Valigia Blu sulle tattiche del negazionismo, che nei fatti non fa altro che ritardare le azioni contro il cambiamento climatico. Nell’assecondare le richieste, per certi versi legittime, dei Paesi in via di sviluppo, quelli più ricchi ottengono un alibi dietro cui nascondersi. Alcune cose è bene che siano condivise da tutti i Paesi, come i criteri e le modalità di condivisione e monitoraggio delle emissioni che finalmente sono stati concordati alla COP26, altre forse dovrebbero incarnare in maniera più esplicita il principio delle responsabilità differenziate. È tempo che chi ha recato perdite e danni (loss and damage) ai Paesi più vulnerabili non solo li risarcisca con sostegni finanziari adeguati, ma che si impegni per primo a ridurre le proprie emissioni.

Economia circolare

La transizione energetica, la sua riuscita e la sua durata, non solo sono cruciali per le sorti delle generazioni a venire, ma costituiscono anche un’occasione di riscatto per Paesi come quelli africani che storicamente sono sempre stati usati come miniera delle economie avanzate del pianeta. Una maggiore autonomia energetica del continente africano si potrà raggiungere però solo ad alcune condizioni. La prima è una produzione dell’energia decentralizzata e localizzata che le fonti di energia rinnovabile come il fotovoltaico possono in linea di principio garantire, specialmente in quelle aree rurali poco connesse alla rete. La seconda è che il sistema energetico del domani sia davvero diverso dal “petrolitico” che ha caratterizzato il Ventesimo secolo (l’era del petrolio): dovrà diventare sempre meno dipendente dall’attività estrattiva. Per l’Occidente esistono anche motivi di “pragmatismo geopolitico” che dovrebbero spingere a cambiare strada. Ad oggi l’Unione Europea importa la stragrande maggioranza dei minerali impiegati nelle batterie: litio, manganese, cobalto, grafite e nickel i principali. Secondo il rapporto sui minerali critici pubblicato a maggio 2021 dalla IEA, la domanda di litio potrebbe aumentare fino a 40 volte da qui al 2040, quella dei componenti degli elettrodi (oltre al cobalto, nickel e grafite) di circa 20 volte, quella delle cosiddette terre rare di 7 volte. La dipendenza da pochi Paesi che dominano la filiera produttiva (la Cina, per quanto riguarda la lavorazione dei minerali critici alla transizione energetica) o da Paesi che soffrono una grave instabilità politica (come la Repubblica Democratica del Congo) rischia far oscillare pesantemente i prezzi di mercato, inceppare le forniture, rallentare la transizione stessa e alimentare conflitti nelle regioni in cui quei minerali vengono estratti. Anche per tutte queste ragioni sarà allora fondamentale riutilizzare i minerali che già sono stati estratti dal sottosuolo. Per far questo occorre investire in ricerca, sviluppo e progettare filiere produttive che tengano conto dell’intero ciclo di vita del prodotto e dei materiali che lo compongono. Prima ancora di una questione ecologica e ambientale, il riciclo dei minerali estratti, e utilizzati ad esempio nelle batterie, è una questione di sicurezza geopolitica ed economica. In ultima analisi, è una questione di giustizia sociale, di giustizia climatica. L’economia circolare è un paradigma che non può più essere rimandato.

martedì 18 gennaio 2022

Proposta premi Nobel su pace e clima

 

Per pace e clima ripartire dalla proposta dei premi Nobel

Articolo di Maurizio Simoncelli - sito online “Sbilanciamoci”

Spese militari in forte aumento, nuovi sistemi d’arma basati sull’Intelligenza artificiale, crescenti tensioni, caratterizzano questa seconda guerra fredda. La società civile non è insensibile a fermare la geopolitica del caos, lo dimostra la proposta dei premi Nobel. Ma deve fare più pressione sulla politica, anche in Italia.

Un appello per la riduzione del 2% della spesa militare mondiale è stato lanciato da oltre cinquanta premi Nobel e presidenti di accademie scientifiche. Personalità scientifiche di altissimo valore hanno pubblicamente rilevato la pericolosità di una crescente spesa militare che si avvicina ai 2.000 miliardi con una crescita ininterrotta da diversi anni, in parallelo a tensioni in aumento nell’area del Pacifico asiatico. La proposta dei Nobel consiste nella richiesta indirizzata ai governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite affinché negozino una riduzione annuale congiunta delle loro spese militari del 2% per cinque anni consecutivi. In questo modo si avrebbe un tesoretto miliardario che potrebbe essere utilizzato al 50% in un fondo globale, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, con lo scopo di affrontare le gravi sfide comuni dell’umanità come le pandemie, i cambiamenti climatici e la povertà estrema. L’altra metà potrebbe rimanere a disposizione dei singoli governi, per usarli, ad esempio, per la riconversione industriale delle aziende belliche verso una produzione civile. La cifra complessiva stimata si aggirerebbe intorno ai 1.000 miliardi di dollari entro il 2030. Non poca cosa, insomma. I premi Nobel inoltre mettono in evidenza che una decisione di tal genere rappresenterebbe un segnale di fiducia, distensivo che aumenterebbe la sicurezza, pur mantenendo la deterrenza e l’equilibrio, riducendo comunque le tensioni e il relativo rischio di guerra. Nel passato accordi di disarmo in campo nucleare (come gli accordi SALT e START tra USA e URSS) hanno portato non solo ad una riduzione numerica degli armamenti, ma anche ad una clima più disteso tra le due superpotenze. La scelta di diversi Stati di dismettere arsenali nucleari o non dotarsene ha comunque ridotto i rischi della proliferazione. Oggi la minaccia nucleare, ancora presente, purtroppo, si limita a “sole” 13.000 testate a fronte delle 70.000 della prima guerra fredda: si può comunque distruggere il mondo intero, anche se meno volte rispetto al passato!

sabato 15 gennaio 2022

Il "Saggio" del mese - Gennaio 2022

 

Il “Saggio” del mese

 GENNAIO 2022

Anche solo seguendo le cronache di questi tempi tormentati è davvero difficile essere ottimisti sulla tanto invocata, a parole, “svolta green”: da una parte degrado e surriscaldamento proseguono con costante e preoccupante incremento (il nostro post pubblicato ad Ottobre “Cambiamento climatico: evidenze dalle scienze fisiche” di Gianni Colombo illustra nel dettaglio i probabili futuri scenari), dall’altra persistono inadeguata conoscenza, timida consapevolezza, insufficiente volontà a procedere in modo concreto ed immediato. Questo colpevole ritardo accentua la complessità degli interventi sempre più necessari che, per la natura della partita in gioco, richiedono il concorso congiunto e coordinato di tutti i saperi umani. Da tempo come CircolarMente cerchiamo, nel nostro piccolo, di muoverci in questa direzione mossi dalla convinzione che comunque una vera svolta potrà avverarsi solo se l’umanità si interrogherà sul senso ultimo del suo rapporto con il pianeta e la natura. Ciò significa che tutte le misure adottabili, tutte le volontà politiche che le individueranno e che daranno loro concreto seguito, potranno avere reale efficacia e valenza solo se adeguatamente sostenute da questa riflessione, che impone di entrare senza timori e remore anche nel campo della “filosofia”. Non a caso quindi, restando nel nostro piccolo, abbiamo dedicato diversi “Saggi del mese” e “Parole del mese” a suggestioni di questo genere [fra le altre, guardando anche solo a quelle più recenti ricordiamo quelle offerte da filosofi come Jonas (post Aprile 2021), Heidegger (due post collegati Maggio 2021), Remo Bodei (post Gennaio 2021), ed il collegato contributo dell’antropologo Descola (Giugno 2021)].. Non è semplice orientarsi nel vastissimo campo del pensiero filosofico, che per definizione non ha limiti e confini, ma proprio per il ruolo centrale che esso può avere nell’attuale temperie è bene cercare di meglio capire cosa si intende quando si parla di filosofia, e soprattutto quale tipo di filosofia di più si collega a questo fondamentale scopo. Il saggio di questo mese offre interessanti spunti in questa direzione (ci scusiamo per la complessità di alcuni passaggi e per la sua lunghezza, ma questa sintesi non poteva essere più di tanto semplificata e compressa)

Donatella Di Cesare (docente di filosofia teoretica presso l’Università La Sapienza di Roma, di lei abbiamo pubblicato, come “Parola del mese” di Novembre 2021 “Il complotto al potere”)


dal risvolto di copertina……

È tempo che la filosofia torni alla città. Anzitutto per risvegliarla da quel sonnambulismo che la narcosi di luce del capitale ha provocato. Ma quale margine ha il pensiero nel mondo globalizzato, chiuso in se stesso, incapace di guardare fuori e oltre? Mentre viene richiamata alla sua vocazione politica, la filosofia è spinta a non dimenticare la sua eccentricità, la sua atopia. Nata dalla morte di Socrate, figlia di quella condanna politica, sopravvissuta a salti coraggiosi e rovesci epocali, come nel Novecento, la filosofia rischia di essere ancella non solo della scienza, ma anche di una democrazia svuotata, che la confina a un ruolo normativo …… Non bastano la critica e il dissenso. Memori della sconfitta, dell’esilio, dell’emigrazione interna, i filosofi tornano per stringere un’alleanza con gli sconfitti, per risvegliarne i sogni.

L’immanenza satura del globo

……. Non c’è più un fuori. Appare così l’ultimo stadio della globalizzazione …… e quel fuori intende proprio la realtà esterna all’uomo, da sempre l’oggetto della sua voglia di scoprire e capire a lungo rimasto sconosciuto ed alieno. Poi la svolta, poco alla volta così tanto si è scoperto e capito da creare l’illusione della fine del “fuori”. La globalizzazione compiuta e l’Antropocene ne sono la definitiva conferma. In questa sorta di “immanenza satura” di una realtà tutta afferrata ed abitata, il cui nome non può che essere TINA (There Is No Alternative, non c’è alternativa), in questo mondo senza “fuori” c’è ancora spazio e ruolo per la filosofia? E’ sempre più urgente capirlo se tutti i segnali che dalla realtà ci pervengono, ci dicono, a volerli e saperli cogliere, che la …… virata dell’umanità verso la catastrofe appare imminente ….. In questo mondo che presuntuosamente tutto illuminato sembra aver cancellato il rigenerante buio della notte, bisogna ripartire dallo spazio e dal tempo originariamente casa naturale della filosofia: le ore della notte che preludono al sorgere del giorno, quelle della …… veglia …… là dove la filosofia e la sua vocazione politica sono nate, nella Grecia classica

Eraclito, la veglia ed il comunismo originario

E’ Eraclito, detto l’ “oscuro”, (6°-5° secolo a.C.), il primo filosofo che guidato dalla luce del lògos, il pensiero che si fa discorso, celebra la fecondità della veglia. Della sua opera filosofica, per alcuni un trattato sulla natura per altri un saggio sulla politica, restano pochi confusi frammenti. Eraclito è però un severo guardiano della pòlis, nella quale il discutere deve avere la forma del “pòlemos”, la “discorde armonia dei contrari ”, del conflitto che, “padre di tutte le cose”, aiuta a trovare soluzione a tutti i contrasti. Occorre però che l’uomo, troppo spesso prigioniero della propria privata meschinità, non si sottragga al suo ascolto restando così un “idiòtes”, un idiota, termine greco che altro non indicava che l’uomo privato in contrapposizione all’uomo pubblico. In un frammento Eraclito precisa che idiòtes è colui che, restando fermo nell’isolamento della notte, si preclude la partecipazione al giorno. Il richiamo alla veglia è costante nei suoi frammenti …… non dormite, non lasciatevi andare al sonno dell’idiozia privata, non agite e non parlate come se si stesse dormendo! ….. Guardiano della città Eraclito, per il quale la politica è figlia della filosofia, denuncia la “notte della politica”. La pòlis, la città, può reggere solo grazie al koinon”, il “comune inteso come pubblico”, che deve, tramite il logos, alimentare il “nomos”, lo spirito delle leggi, degli statuti. Il comunismo originario, inteso come attenzione al bene comune, altro non è che la vigilanza sullo spazio pubblico di cui si fa custode la politica.

Narcosi di luce. Sulla notte del capitale

Più di due millenni dopo in luogo della veglia di Eraclito troviamo l’abbagliante luce di un giorno, divenuto ben più di un semplice intervallo fra due notti. Che cosa avrebbe egli detto di questa sorta di narcosi di luce” ? Non avrebbe certo applaudito se solo avesse potuto vedere l’intera umanità vivere buona parte del giorno e della notte davanti a schermi luminosi, ed ancor meno avrebbe approvato l’ idea di tempo della vita  sintetizzato nella matematica formula del 24/7: …… ad indicare un vivere fatto di produzione e consumo senza limiti, in una operatività incessante che si protrae ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette ……. Nessun ostacolo pare limitarla, il tempo dell’uomo è ormai il giorno permanente, l’abolizione del confine tra attività e riposo. Una sorta di narcotica insonnia che non è più la veglia, colma di attenzione e di pensieri, di Eraclito. Ma in questa trance illuminata senza limiti può ancora esistere il “risveglio”?

Chiamata alla “polis”

Questa domanda chiama in gioco l’interrogarsi a-temporale della filosofia, il riflettere filosofico non riducibile nelle logiche del tempo, da sempre però insidiato da due rovinose tentazioni: il chiudersi in sé stesso, astraendosi dal mondo, oppure il rinunciare alla propria natura diventando tutt’altra cosa. Due tentazioni che si sono accentuate nei giorni nostri dove i saperi si riducono a simulazioni tecnologiche, dove dilagano, in contrasto solo apparente, semplificazione e iper-specializzazione. Mentre la vocazione filosofica è quella di un approfondimento che tutto cerca di comprendere senza steccati …… se ciascun ambito di conoscenza affronta un problema, la filosofia pone un problema ai problemi …… manifestando così la sua più genuina tensione interna: quella di tenere intrecciate esistenza e politica in una comune traiettoria scandita da tre parole: atopia, ucronia, anarchia ….. (su di esse si tornerà nel merito più avanti). Porre un problema ai problemi è infatti la più genuina dimensione dell’interrogarsi filosofico e della sua vocazione verso la pòlis, la politica che ..... in un rinvio reciproco è ispirata dalla pòlis ed al tempo stesso aspira alla pòlis ….. Nella attuale narcosi della luce di un giorno infinito l’interrogarsi filosofico della veglia diventa il simbolo del suo rientro nella pòlis.

Stupirsi: una passione inquieta

Già al tempo dei Greci la vocazione politica della filosofia si è misurata con il sofismo, il parlare, farcito di retoriche parole, che non possiede un vero sapere. E’ proprio contro il sofismo che Socrate dichiara il suo “sapere di non sapere”, convinto com’è che filosofare altro non è che ……. guardarsi attorno con stupore, interrogarsi con meraviglia …… chi filosofa è ineluttabilmente preso da stupore, e chi non prova stupore non può filosofare …. Non si ha vera filosofia, e vera vocazione politica, se si guarda freddamente alle cose del mondo. Il pàthos filosofico, che è vera passione, impone lo stupore di chi non giudica più ovvio quello che appena prima tale sembrava essere. E’ lo stesso stupore dello scienziato di fronte all’ignoto che affronta? I greci, senza fare distinzioni, chiamano “theorìa” ….. la contemplazione delle cose che accompagna lo stupore …… Filosofo e scienziato sembrerebbero accomunati dallo stupore e dalla theorìa. Ma l’affinità si ferma qui: l’oggetto del suo stupore diventa per lo scienziato un problema da risolvere con metodo e sempre aguzzando la vista. La filosofia al contrario, se non di meno esige occhi aperti, poi impone che questi si chiudano per consentire quel singolare vedere che è il pensare. Se lo scienziato volge il suo stupore alla comprensione dell’ente, del fenomeno oggetto del suo stupore, il filosofo guarda, con occhi chiusi, al …. motivo che è al fondo di quello stupore …. In un mondo come quello attuale così fondato sul progresso scientifico il compito della filosofia non deve però essere quello di venire, per dare sostanza e conforto al suo procedere, dopo la scienza, ma è quello di precederla, di venire prima, di porsi prima, interrogandosi ad occhi chiusi, le domande che diano senso e direzione allo stesso stupore scientifico

Tra cieli ed abissi

Il difficile rapporto fra pòlis e filosofia è ben raccontato dallo scherzoso mito di Talete di Mileto (620-540 a.C. filosofo ed astronomo) che, camminando di notte con lo sguardo volto alle stelle, finisce dentro un pozzo suscitando lo scherno di una servetta. Un aneddoto che racconta di come la filosofia vede cose che altri non vedono, ma non vede quel che tutti vedono, dimostrando incapacità di abitare il mondo concreto. Ma un altro aneddoto, sempre con Talete protagonista, sembra ribaltare la situazione. Da esperto di astronomia, che al tempo coincideva con la filosofia, riuscì a cogliere i segnali per una stagione favorevole alla produzione di olive ed affittò quindi in anticipo tutti i frantoi, per poi riaffittarli, al tempo della raccolta, a prezzi ben più alti facendosi così beffe delle critiche sull’inutilità della filosofia e dimostrando che il filosofo saprebbe bene come arricchirsi semplicemente non è ciò che gli interessa.  Il Talete anedottico racconta però una verità che ben presto assumerà toni tragici: il cattivo rapporto tra pòlis e filosofia, vista come una minaccia sovversiva per la città. 

L’atopia di Socrate

Esemplare è la nota vicenda di Socrate (469-399 a.C.) e della sua condanna a morte. Socrate, universale archetipo del filosofo, chiama in causa la prima delle parole che definiscono la vocazione politica della filosofia: l’atopia, l’essere priva di luogo, àtopos in greco. Non ha lasciato scritti, ma ha dato vita ad un nuovo modo di filosofare: il dialogo. Quelli a lui attribuiti sono tutti opera del suo discepolo Platone (428-348 a.C.), tant’è che il Socrate che conosciamo è solo quello di Platone ed è quindi impossibile sapere dove finisce il primo ed inizia il secondo. Senofonte (425-355 a.C. storico) racconta il suo quotidiano percorrere la pòlis coinvolgendo i passanti con nella sua domande insistite capaci di mettere ironicamente a nudo idee date per certe fino a suscitare riprovazione e persino rancore. Questi dialoghi, così estranei al senso comune, lo fanno così risultare sempre “fuori luogo, àtopos”. Socrate è ben presente, ma è come se non lo fosse, come se, parallelo al dialogo in corso, dialogasse, in un luogo a sé, con un demone personale …… si aggira nell’agorà ma ne trascende i limiti ……. Consapevole che ….. occorre distanza per riuscire a vedere quello che altrimenti sarebbe troppo vicino ….. La sua atopia è anche eterotopia, ossia il suo essere altrove, in più luoghi in contemporanea. Resta nella città perché il suo essere con il pensiero altrove è la leva per decentrare l’ordine della pòlis, troppo chiuso, asfittico, omologato.

Una morte politica

La morte di Socrate è un topos che da sempre travalica l’ambito filosofico, il quadro di Jacques-Louis David del 1787 è la perfetta sintesi visiva di un fatto senza tempo. Socrate rappresenta la svolta irreversibile verso una nuovo modo di intendere la filosofia che, abbandonata l’indagine sui fenomeni naturali (la cifra filosofica che ha sin lì caratterizzato i filosofi non a caso poi definiti “presocratici”)  volge ora il suo sguardo verso la pòlis, in quella che Platone definirà “seconda navigazione. Il suo “so di non sapere” è interamente rivolto verso questi nuovi orizzonti. L’espressione greca cita “sùnoida emautòi” la cui traduzione letterale sarebbe “vedo con me dentro me stesso” - una espressione complessa che la traduzione latina in “conscientia”, coscienza, non rende appieno -   emerge proprio dall’interrogarsi su questioni che riguardano strettamente la vita della pòlis, le sue fondamenta culturali, fino ad essere vista  come una minaccia per valori fin lì considerati “non indagabili” perché “volontà degli dei”. Socrate, condannato a morte perché colpevole di …… non riconoscere gli dei che la pòlis riconosce e di aver così corrotto i giovani ….. appena prima di morire pronuncia parole che danno senso alla scelta di accettare la condanna. Rivolgendosi a Critone, suo discepolo, dice ……. dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo! Non dimenticatevene! ….. Si sacrificava un gallo ad Asclepio, dio della medicina, come segno di gratitudine per essere guariti da una malattia. Socrate ci dice che, morendo, è guarito dalla malattia del vivere, e, rivolgendosi ai discepoli, che la filosofia deve continuare ad interrogarsi e a interrogare la  pòlis tutta  con un dialogo che non può non avere la dimensione del conflitto, del pòlemos.

Platone, quando la filosofia si esiliò nella città

Nulla sarebbe più stato come prima, per i filosofi la vita nella pòlis era ormai troppo pericolosa. Lo stesso Platone si allontana da Atene rifugiandosi in Magna Grecia nei pressi di Crotone, ma dopo dieci anni torna con l’intenzione di preservare l’atopia del maestro fondando una nuova scuola, l’Accademia, ai margini della città. Un spazio altro, retto da leggi proprie opposte a quelle della pòlis. L’altrove filosofico si materializza in un altrove fisico, sconfitto con la morte di Socrate …… rientra nelle veste di una sorta di esilio dentro la pòlis ….. Nel giardino dell’Accademia, che non era l’agorà, la filosofia non rinunciava a guardare verso la città, ma accettando di farlo in una sorta di auto-esilio. Di lì a breve inizierà il definitivo declino della pòlis greca, impossibile non collegarlo al rifiuto violento della politica intesa come partecipazione condivisa al bene comune.

Quei migranti del pensiero

Si apre con questo auto-esilio, questa assenza/presenza, una attitudine speculativa che resterà irrisolta per l’intera storia delle filosofia. I filosofi, divenuti non-cittadini, possono così migrare verso un esercizio teorico pieno, totale: è l’esordio del bìos theretikòs, della vita dedicata alla meditazione filosofica. La theorìa, come si è visto “la contemplazione delle cose”, richiede una certa estraneità, una atopia volontaria. Aristotele (384-322 a.C.) parla nella sua “Politica” di bios xenikòs”, vita che si estranea, vita da straniero. Una condizione indispensabile per il pensare filosofico, ma al tempo stesso una apertura nella quale rischia di infilarsi quella dannosa tentazione a chiudersi su sé stesso. Lo dice bene il mito platonico della biga alata, simbolo dell’anima umana trainata da due cavalli, uno immagine della generosità ed uno dell’egoismo. Sta all’auriga, al filosofo, reggere bene le redini e far sì che la biga segua il giusto percorso verso l’alto. Solo i filosofi sanno staccarsi dal suolo dell’egoismo e salire verso il cielo della generosità ……. i filosofi sono i sublimi migranti del pensiero …… Ed è così che il pensiero filosofico reinveste la pòlis, cosa sarebbe infatti la città …… senza questi non-cittadini capaci di osservarla dall’alto? ….. E d’altronde l’atopia filosofica è insita nello stesso esercizio del pensare. Hannah Arendt (1906-1937, filosofa, politologa), nel suo libro “La vita della mente” dedica un capitolo a Socrate intitolandolo dove siamo quando pensiamo”, la sua risposta è “da nessuna parte”, il pensare è un “non luogo”. E Wittgeinstein (1889-1951, filosofo tedesco) analizzando la grammatica del verbo tedesco “denken”, pensare”, sostiene che è impossibile dargli un inizio, una fine, un luogo. Eppure anche se chi pensa sembra allontanarsi dal mondo il suo pensiero resta mondano, rivolto alla pòlis giù in basso.  I filosofi, seguendo Platone, possono anche auto-esiliarsi ma sempre …… fanno ogni volta ritorno nella città come richiedenti asilo …..

Che cos’è (allora) la filosofia?

Senza giungere agli estremi drammatici della vicenda socratica aleggia costante una diffidenza verso la filosofia, specie quando manifesta la sua vocazione politica. Era così nell’Atene di Socrate e Platone ed è così ancora oggi. A che serve? A che pro? Qual è il suo scopo? Sono le domande che illustrano una diffidenza “innata” verso tutto ciò che non sembra offrire un riscontro pratico, misurabile. Mette disagio lo stesso nome. Se il filosofare si fosse chiamato “sofo-logia”, cioè “dottrina della sapienza, avrebbe incontrato meno perplessità dell’auto-definirsi “filo-sofia”, “amore per la sapienza”. Pochi filosofi si sono preoccupati di rispondere alla domanda: che cos’è la filosofia? Hanno filosofato ed in questo è consistita la loro risposta. Ricordiamo quella di Kant (1724-1804, filosofo tedesco)attitudine naturale dell’essere umano”, quando si pone, fin da piccolo, domande, assolutamente filosofiche, su: futuro, morte, felicità. Più di recente Heidegger (1889-1976, filosofo tedesco) ha intitolato un suo saggio proprio così: “Che cos’è la filosofia’” Ma se si legge con attenzione il testo si capisce che non si arriva a nessuna definizione. Heidegger non fa altro che mettere in discussione il senso della domanda, soprattutto perché, precisa, “non si può parlare sulla filosofia”. Meglio, questa è l’unica sua risposta, restare al nome, al nome greco, “la filosofia parla greco”, preoccupandoci (come abbiamo visto nel “Saggio” di Maggio 2021 “Heidegger ed il nuovo inizio” di Umberto Galimberti) di ripensarla al termine del ciclo storico aperto da Platone che ha visto, avendo separato l’uomo dalla natura, realizzarsi il predominio della tecnica. La vera domanda diventa allora: Che ne sarà della filosofia nell’era della tecnica?

Domande radicali

Eppure, come ci ha insegnato Socrate, la filosofia è “domanda”, non avendo oggetto, metodo e fini specifici ….. è proprio nell’interrogare, nell’interrogarsi, il suo consistere ….. Nulla sfugge a questo indagare, neppure il nulla. Sta anche in questo la sua differenza rispetto alla scienza che procede perché mossa da ipotesi attorno ad un fenomeno osservabile, mentre la filosofia innalza a dignità di domanda ciò che per la scienza appare fuori questione. Allo stesso modo non va confusa con la matematica che pure analogamente procede per concetti, quelli che la filosofia, non avendo limiti, però trascende. Essa è perciò …. trascendentale per definizione …. Pone domande radicali che vanno oltre il limite in alto e le radici in basso, e sottopone alla domanda più radicale il suo stesso interrogarsi, la domanda filosofica interroga anche l’interrogante …. Proprio per questo non può, non volendolo, fornire risposte definitive. A conclusione del suo saggio “La questione delle tecnica” Heidegger scrive: il domandare è la pietà del pensiero …… e solo il pensiero filosofico possiede questo sentimento.

Il fuori-luogo della metafisica

La filosofia, a differenza di tutte le altre discipline che hanno dominio su luoghi/tematiche che hanno confini, è quindi atopia, fuori-luogo. Questo territorio paradossale ha un nome meta-fisica. La storia è nota, quando Adronico (100-20 a.C. filosofo di Rodi) ordina filologicamente le opere di Aristotele classifica tutti i quattordici libri che vengono dopo quelli dedicati alla fisica tà metà tà physikà, letteralmente ciò che fa seguito alla fisica. Ma la preposizione greca metà ha doppio senso: dopo, ma anche oltre. Ed è all’oltre che è bene guardare. Quei quattordici libri infatti non vengono semplicemente dopo, ma vanno oltre la fisica. La filosofia scaturisce infatti dall’insoddisfazione per ciò che si presenta ai nostri sensi come nudo dato fisico e la metafisica è allora l’abbandono dei territori dell’esperienza sensoriale, della certezza del tangibile, per cercare di definire l’indefinibile. Una dimensione che deve misurarsi con il rischio di ridursi ad un semplice “dopo empirico”, vale a dire la nuda ontologia, la logica degli enti visti come tali, oppure di levarsi verso un radicale “oltre empirico”, ossia la dottrina dell’ultraterreno, la teologia. Nella modernità si è poi aggiunto un ulteriore temibile nemico: il neo-positivismo logico, che riduce la filosofia ad ancella della scienza, perfettamente sintetizzato dallo scritto polemico di Rudolf Carnap (1891-1970, filosofo tedesco naturalizzato statunitense) “Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio”. Conforta però la replica di Ernst Bloch (1885-1977, filosofo tedesco teorico del “principio speranza”) che riconduce l’oltre della metafisica all’altrove della originaria atopia filosofica, un nuovo spazio dove è possibile collocare l’utopia, il luogo che (ancora) non esiste. Si compie con l’entrata in scena dell’utopia, il secondo termine snodo, il passaggio ad un trascendere senza trascendenza.

Dissidio e critica

Attorno a questi primi due snodi si è percorso a volo d’aquila il lungo cammino della filosofia inevitabilmente contrassegnato dalla costante contesa fra filosofi, impossibile ad essere arginata perché tale è la sua natura. I dissidi interni si legano poi a quelli con l’esterno che mai si placano: i rapporti dei filosofi con le comunità in cui vivono non sono mai stati buoni. La filosofia non può vantare particolari riconoscimenti in nessuna epoca, neppure in quella attuale così prodiga di premi a chiunque. Per dirne una, neppure la più rilevante: Henrì Bergson (1859-1941, filosofo francese), Bertrand Russel (1872-1970, filosofo inglese), Jean-Paul Sartre (1905-1980, filosofo francese) hanno sì vinto un Nobel, ma quello della letteratura! Sarà forse per la loro insistenza a sollevare continue domande che sembrano allontanare da possibili soluzioni ma i filosofi non sono mai chiamati a risolvere problemi. Consapevoli di ciò, sono gli stessi filosofi che spesso si auto-emarginano: Spinoza (1632-1677) scrisse la sua “Etica” nell’esilio nel villaggio di Voorburg, Marx (1818-1883) diede vita al “Capitale” nel chiuso di povere stanze londinesi, Heidegger diede compimento a “Essere e tempo” in un capanno della Foresta Nera, non diversamente da Wittgenstein. I grandi capolavori filosofici sono venuti alla luce lontano dall’agorà. In fondo è questa stessa atopia della filosofia a rendere ogni suo archè (principio, origine), ogni idea-base filosofica, fondamentalmente an-archico. Anarchia, la terza parola snodo, vale a dire l’assenza di governo, di comando, ha qualcosa di più di una assonanza terminologica con il confrontarsi filosofico senza predeterminati archè. Atopia, utopia, anarchia su questi snodi poggia l’esercizio filosofico della critica, non uno sterile cavillare, ma l’impegno a non accettare nulla senza riflettere

Il Novecento: cesure e traumi

I grandi nomi della tradizione filosofica classica non poco oscurano il Novecento filosofico che, al contrario, rappresenta una sua fase apicale, capace di esprimere …. una critica acuta, e con una radicalità senza precedenti, della ragione alla base del pensiero occidentale ….. fino a segnare un prima ed un poi. Questa radicalità si spiega sulla base di due aspetti: la crescente consapevolezza dei limiti e delle contraddizioni della razionalità tecnica e la somma degli eventi catastrofici che hanno costellato l’intero secolo. La globalizzazione tecnologica, l’avvento della specializzazione scientifica, e tragedie quali Hiroshima e la Shoah, congiungendosi, segnano la riflessione filosofica, alla quale finalmente si aggiunge la voce delle donne, ed impongono una continuità per nulla interrotta dalla retorica del nuovo secolo/millennio. Non a caso Peter Sloterdijk (filosofo tedesco contemporaneo) intitola un suo recente saggio “Che cosa è successo nel XX secolo?’”, giudicando il Novecento non solo l’esito compiuto della modernità occidentale, ma una autentica “apocalisse del reale”. Vede il secolo che abbiamo alle spalle, ma nel quale siamo ancora pienamente immersi, come il terreno di scontro di una battaglia “in nome del reale”, che ha lasciato sul campo spettri e sogni. Per rimuovere i primi occorre allora una nuova interpretazione dei secondi.

Dopo Heidegger

Al di là della sua figura e, persino, del suo pensiero il “caso Heidegger” è emblematico per capire l’attuale vocazione politica della filosofia. Gli elementi del “caso” sono noti: Heidegger, da molti considerato un pensatore imprescindibile, è da altrettanti accusato di simpatie verso il nazismo. La questione non è tanto quella dei pericoli della “militanza” per chi filosofa, ma è apertamente quella del ….. rapporto, della tensione, fra filosofia e politica ….. Emerge - proprio nel momento in cui la filosofia esce dall’auto-esilio di cui si è detto e diviene punto di riferimento diffuso - una domanda cruciale: il fascino del filosofo che seduce non rischia di trasformarsi, grazie ad una sua possibile disponibilità, in un seduttore sedotto dal potere sino ad immaginare di “guidare la guida”? …… Su questo dilemma si sono confrontati tutti i maggiori filosofi della seconda metà del Novecento, in un dibattito che ha coinvolto, in un cammino a ritroso, pensatori come Nietzsche (1844-1900), Hegel (1770-1831), Fichte (1762-1814), Rousseau (1712-1778), arrivando sino agli stessi Platone e Socrate. Progressivamente si è però affermato un giudizio equilibrato: il singolo filosofo può anche sbagliare nelle singole scelte, ma nulla può impedire che la filosofia non dia consistente seguito alla sua vocazione politica in un secolo che chiama il pensiero filosofico ad intervenire su problematiche e scelte dirimenti per tutta l’umanità. Il suo controverso rapporto con il nazismo, mai del tutto chiarito, non deve allora impedire di cogliere che proprio Heidegger ha definitivamente demolito l’immagine del filosofo adagiato in un conformismo apolitico. Semmai gli va riconosciuto di aver spostato su un nuovo, più impegnativo, piano la vocazione politica della filosofia: proprio la sua critica alla tecnica lo porta a far coincidere l’attuale pòlis con l’intero pianeta ….la pòlis planetarizzata è l’orizzonte, l’enigma da sciogliere ….. Dopo Heidegger la filosofia è chiamata a dispiegare la sua vocazione politica guardando all’intero pianeta.

Contro negoziatori e filosofi normativi

Non tutta la filosofia del secondo Novecento, tornata comunque a guardare alla pòlis, lo fa ispirata dai tre snodi alla base della sua vocazione politica: atopia, utopia, anarchia. E’ ad esempio lontanissima dalla necessaria radicalità la filosofia di stampo normativo, il cui maggior esponente è stato sicuramente John Rawls (1921-2002, filosofo statunitense). In ambito accademico si è caratterizzata per un recupero della filosofia morale kantiana, che sul piano più politico si è tradotto in una visione di …… democratizzazione della democrazia …… basata sulla riaffermazione di valori morali, di norme (da qui il nome “normativa”) etiche. Prive però della inderogabile radicalità critica che le condizioni reali stanno da tempo imponendo. Una filosofia quindi, prima ancora che normativa, “normale”, che rinuncia apertamente ad ogni aperta contrapposizione per guardare ad una costante mediazione. Una sorta di filosofia “neutrale”, di fatto “ancilla” dello status quo politico ed economico, che punta ad una sorta di ruolo di “negoziatore” tra le diverse, e conflittuali, istanze. Con un certo scimmiottamento della psicologia si articola su esperimenti mentali, rompicapo, storielle, quiz (il più famoso è il trolley problem: si può deviare un carrello ferroviario che sta per investire un gruppo di operai facendo cadere sul binario un uomo grasso ed antipatico, è giusto farlo?) che dovrebbero far maturare un condiviso senso morale. Heidegger, che al tempo spazzò via il neo kantismo di Ernst Cassirer (1874-1945, filosofo accademico tedesco), non avrebbe certo apprezzato il successo di John Rawls.

Ancilla democratiae: un mesto ritorno

Il rientro nella pòlis della filosofia è temporalmente avvenuto in coincidenza con il pieno affermarsi, e relativo estendersi, della democrazia. Non poco ha contribuito in questo senso la considerazione che la filosofia potesse, e dovesse, ….. muoversi solo all’interno del dominio della democrazia ….. Questa sorta di condizione di “ancilla democratiae” ha trovato fondamento teorico nell’opera di Hannah Arendt “Le origini del totalitarismo” ed enunciazione esasperata nel saggio di Richard Rorty (1931-2007, filosofo statunitense) “La priorità della democrazia sulla filosofia”. Attorno alla democrazia, alla sua tenuta nel mutare della storia, il dibattito è da sempre acceso e aperto, quello che qui interessa è però una domanda: può una forma politica avere primato sul pensiero? A maggior ragione se, come evidenziato da Jacques Derridà (1930-2004, filosofo francese) la democrazia è sempre in divenire? Non si rischia allora di ridurre la vocazione politica delle filosofia ad un neutro dibattito pubblico, ad una componente, fra le tante, della “comunicazione” in senso lato? In un terreno che, a maggior ragione nell’era dei media e dei social, legherebbe quindi il filosofo ad una prospettiva il cui riferimento sarebbe la platea indistinta degli “spettatori” ….. riducendo la politica a scambio di opinioni, incontro di punti di vista, discussione pubblica in genere ….. arricchendo la già vasta gamma degli strumenti al servizio della “pratica di consenso”. Il crollo dei regimi totalitari, passaggio del tutto positivo, ha trascinato con sé la “fine delle utopie” innescando così, accanto al trionfo della democrazia, lo svuotamento del vero confronto politico e la sublimazione del corpo del popolo nella dimensione impersonale dell’opinione pubblica. Ma se la vocazione politica della filosofia, ridotta a sua ancilla, non coltiva il pensiero sempre e comunque come …. pensiero al di là (atopia, utopia, anarchia) ….. rischia seriamente una impasse

Poetica della chiarezza

Si aggiunge, in questa rassegna dei rischi e dei limiti per il rientro nella pòlis della politica, un altro pericolo: il linguaggio filosofico. La ricerca della parola giusta è da sempre un assillo della filosofia coltivato guardando alla trasposizione coerente ed esatta dei concetti e, al contempo, alla giusta ricezione e comprensione da parte degli interlocutori. Va riconosciuto che in questa era in cui l’evoluzione del linguaggio è ispirata dai codici specialistici della scienza e della tecnica, e dalla neo lingua del social, alla filosofia si impone uno sforzo ulteriore di recupero di una propria lingua, il cui orizzonte, in tale ostile mare linguistico, non può che essere “poetico”. Per la vocazione politica della filosofica per “poesia” non si intende però decoro, ornamento, versi, ma il recupero della capacità della parola filosofica di essere “dialogo”, di “condensare” concetti ed idee. La filosofia, per essere ascoltata e capita in un mondo che parla altre lingue, deve elaborare, recuperando l’espressione di Giambattista Vico (1668-1774, filosofo classico), una “politica poetica”.

Potenti profezie del salto: Marx e Kierkegaard

Aiuta a meglio comprendere i limiti di questo inadeguato ritorno il confronto con due cesure, autentiche e radicali, che hanno segnato la filosofia occidentale seppur muovendosi in direzioni opposte. Queste cesure avvengono nel panorama filosofico ottocentesco segnato da Hegel e dalla sua ambizione di una sintesi tra realtà e spirito simboleggiata da una celebre sentenza “ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale”. Qui si manifesta la rottura che, annullando quella presunta sintesi, rimette in moto il procedere filosofico; epigoni di Hegel, Marx e Kierkegaard (1813-1855) partono infatti dalla convinzione opposta: “ciò che è razionale non è ancora reale, e ciò che è reale non è ancora razionale” muovendo però il primo verso una manifesta esteriorità ed il secondo verso una forte interiorità. La fiamma di Marx è infatti interamente rivolta verso l’esterno, verso il mondo, verso la realtà capitalistica, verso un orizzonte capace di dare senso al filosofare. E’ celebre la sua tesi “i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, si tratta di trasformarlo”. Parole banalmente lette come un appello alla pragmatismo, mentre per Marx stanno a significare che tra interpretazione e trasformazione non sussiste antitesi, che l’inaggirabile interpretazione contiene in sé il potenziale della prassi, che dallo spirito teoretico possa e debba sprigionarsi energia pratica. Questa processo evolutivo non può che partire dall’esercizio “interpretativo” della realtà segnata dall’alienazione capitalistica che segna profondamente l’uomo, ed in primis il lavoratore. In questo senso il ruolo che Marx, ovvero la filosofia, consegna al “proletariato” è quello di essere una forza dialettico-storica capace di far compiere all’intera umanità un salto rivoluzionario. Per Kierkegaard invece il salto rivoluzionario deve compierlo il singolo, ma non di meno resta una scissione dalla millenaria storia filosofica. Guidato dal costante malinconico dubbio verso una realtà che appare luminosa, ma tale non è, il singolo rappresenta l’essere che dubita di sé, schiacciato com’è dall’angoscia che nasce da una esistenza che è di per sé stessa un enigma. Venuta meno la fiducia verso il reale la parola resta al singolo che è costretto a decidere la sua direzione, a prendere posizione: aut aut. Sarà questo il cammino, come si vedrà di Walter Benjamin (1892-1940). Ma per Kierkegaard trasformare la propria esistenza significa anche incidere sulla realtà, in questo converge con Marx nel giudizio critico verso la società borghese e nel consegnare speranze al “quarto Stato”. Ma nulla potrà davvero mutare senza un risveglio delle singole interiorità. Marx e Kierkegaard, così vicini e così opposti, restano due potenti profeti del “salto”, l’attitudine che deve, tornando ai giorni nostri, ispirare la vocazione politica della filosofia.

Filosofia del risveglio

Se, riprendendo Kierkegaard, si può dire che non c’è filosofia che non sia filosofia dell’esistenza perché l’atopia filosofica non può che dimorare nel prendersi cura dell’esistenza e della sua sorte, come serbare questa atopia nel ritorno alla pòlis?  Pensatore anomalo e poliedrico è Walter Benjamin ad aprire un nuovo varco. Capace, come pochi, di penetrare nella presunta magia dei negozi, delle gallerie commerciali, coglie perfettamente la loro natura di “case di sogno della collettività, di tempo di sogno del capitalismo avanzato”, e fa riemergere la figura di un filosofo capace di denunciare questo “sogno del tempo”, in una sorta di veglia sonnambolica. Eraclito torna in scena. In questa età del sogno capitalistico la filosofia deve “risvegliare”, deve “lottare per il risveglio dello spazio collettivo”.  Ma cos’è il “risveglio”? E’ il rientro nel tempo sospeso tra sonno e veglia, un sapere non ancora cosciente che, quando riguarda non il singolo ma l’intera pòlis, acquista un carattere di storicità, diventa l’avventurarsi in una nuova fase. La lotta del filosofo non deve essere solo quella di un brusco richiamo ad uscire dalla notte, ma anche quella di recuperare i sogni, di ricordare quelli delle generazioni passate che hanno contribuito a creare il presente. Affinché ….. chi ha sognato non abbia sognato invano ….. Sta in questo richiamo il nuovo varco aperto da Benjamin, quello da lui stesso definito come “la svolta copernicana nella visione della storia”. Il passato non è fatto solo di avvenimenti chiusi, ma soprattutto di processi, rielaborati nei sogni, che ancora irrompono nel presente …… ha quindi una vita postuma  ….. Questo è il fronte della lotta, quello di riprendere al capitalismo il controllo dei sogni, l’eredità del passato. Per Benjamin le merci non sono solo, come per Marx, feticci, ma rappresentano tanto aspirazioni concrete come impulsi utopici che vanno svelati e redenti dalla loro versione capitalistica. La vocazione politica della filosofia deve allora affiancare all’esercizio della critica il risveglio del sogno, inteso come riscatto della vita postuma

Angeli sconfitti e stracciaioli

Memore delle antiche sconfitte la filosofia si riaffaccia sulla pòlis divenuta metropoli globale, torna sconfitta per allearsi con gli sconfitti, politicamente è come un richiedente asilo. Non ha però alcun senso richiamare l’immagine di Socrate che dialoga lungo le vie di Atena, d’altronde pochi si soffermano sulle parole ed il linguaggio è decaduto. Il filosofo, che resta un guastafeste, un fuori-luogo, è diventato, ancora immagine di Benjamin, uno “stracciaiolo”. Che gira a raccogliere rimasugli di ricordi, di discorsi, di sogni, di rabbie, per gettarli in un carretto che diventa la sua cassetta degli attrezzi, nell’alba di una possibile rivoluzione.

Poscritto an-archico

La filosofia deve quindi, per rinverdire la sua vocazione politica, restare libera nel suo rapporto con la pòlis. Non deve essere condizionata da eccessi di “archè”, di strumenti aprioristici, deve essere, come già si è detto, an-archica. Fino ad accettare la sua piena de-costruzione, la sua rinuncia ad una presunta autonomia. Aiuta molto in questo senso il pensiero filosofico di Levinas (1906-1995, filosofo francese), al cui centro sta l’invito incessante a considerare che prima del sé viene sempre l’altro, che prima della libertà viene la responsabilità, e che quest’ultima è di per sé an-archica. Se da Platone in poi, passando per Hobbes (1588-1679, filosofo inglese), per giungere a Schmitt (Karl Schmitt 1888-1985, giurista e filosofo tedesco) il pensiero filosofico-politico è ossessionato dall’atto archico, dal fondare un soggetto sovrano, oggi è tempo di una svolta an-archica. Nel suo duplice significato di “ciò che viene prima, che precede ogni principio, ogni archè” e di “ciò che si muove per contrastare ogni principio istituito e istitutivo”. In questo senso an-archia non è disordine, ma ordine diverso, che può nascere solo da un profondo ed insistito esercizio critico verso la sovranità in quanto tale, in particolare nella sua attuale forma economico capitalistica.

……… in un’epoca in cui lo Stato, minato nella sua sovranità, cerca di controllare ogni spazio politico è necessario volgere lo sguardo all’esterno dei suoi confini, ma anche all’interno del suo territorio, nei luoghi e nei tempi che si aprono. Perché la politica è una domanda di giustizia occorrerà articolare un an-archismo della responsabilità …….