venerdì 29 marzo 2019

Sabati dell'arte alla Certosa 1515 - Aprile 2019

CERTOSA 1515
I sabati dell'Arte
CARAVAGGIO
LA DEPOSIZIONE
 (e altro)

SABATO 20 APRILE  2019
inizio ore 10.30
 
Il Prof. V. ALOVISIO terrà una meditazione poetica dal titolo:
" CARAVAGGIO: l'urlo del corpo ferito"

Programma giornaliero

        10.00 - 10.30 - Accoglienza

        10.30 - 12.30 - Seminario in sala conferenza  

        12.30 - 14.30 - Pranzo in ristorante e relax in Certosa

        14.30 - 16.30 - Seminario in sala conferenza

        17.00             - Coffee or tea break  (volontario e non incluso)

Il costo d'iscrizione giornaliero, compreso il pranzo nell'accogliente ristorante , è di 25 euro.                      

VALTER ALOVISIO
Docente di Letteratura Italiana attualmente in pensione. Diplomato all'Accademia Albertina di Torino e scultore. Ha svolto molteplici attività di formazione docenti in ambito artistico, collaborando, tra le varie istituzioni, con Il Museo d’Arte contemporanea di Rivoli, la Galleria d’Arte Moderna di Torino ed i Centri di Documentazione del Comune di Torino. Da molti anni svolge attività di insegnamento nelle Università delle Tre età.

  ISCRIZIONE  (obbligatoria) =
Chi fosse interessato ad iscriversi può contattare =                      
PointZero<info@pointzero.com> (info@pointzero.com)






























































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































































CERTOSA 1515
I sabati dell'Arte

CARAVAGGIO
LA DEPOSIZIONE (e altro)

mercoledì 27 marzo 2019

Breve storia del debito pubblico italiano - Roberto Artoni


Riprendiamo e pubblichiamo un articolo apparso sul Sole 24 Ore del 19 Ottobre 2018 a firma di Enrico Marro che sintetizza uno studio di Roberto Antoni (Professore emerito di Scienza delle finanze alla Bocconi di Milano) sull’andamento storico del debito pubblico italiano. Argomento da sempre al centro del dibattito politico ed economico ma in questi giorni tornato sulle prime pagine dei giornali per il suo ulteriore aggravamento. Può essere utile per tutti noi mettere meglio a fuoco una questione fondamentale per il presente ed il futuro del nostro paese ma che, come si potrà rilevare, ha origini ben precise nel nostro passato prossimo. Un vecchio adagio citava “vizi privati, pubbliche virtù”, per quanto riguarda il debito pubblico è impossibile individuare delle virtù, restano i vizi, pubblici e privati

Debito pubblico: come, quando e perché è esploso in Italia

Se l’Italia si ritrova sempre nel mirino di mercati e agenzie di rating nonostante le dimensioni della sua economia e l’avanzo primario è per due motivi: una crescita stentata e un debito pubblico colossale, con la conseguente spesa per interessi. Ma come, quando e perché si è formato questo macigno che pesa da trent’anni sulle nostre vite? Un interessante studio di Roberto Artoni, ex commissario Consob e docente emerito di Scienza delle finanze all’Università Bocconi di Milano, analizza l’andamento del rapporto debito-Pil individuando quattro fasi di impennata: le prime tre riassorbite nel giro di qualche anno, l’ultima (quella che stiamo vivendo da trent’anni) ormai cronica, nonostante gli sforzi compiuti.
Andamento storico debito pubblico Italia
Il primo boom del debito italiano si verifica nel 1897, con la crisi economica di fine Ottocento, quando raggiunge il 117% del Pil nonostante un saldo primario positivo. Solo con la tumultuosa crescita economica del periodo giolittiano torna a scendere a quota 70% (nonostante le spese legate alla guerra di Libia). Le altre due impennate del debito si verificano durante i conflitti mondiali. Nel primo dopoguerra, in particolare, l'enorme debito contratto per lo sforzo bellico tocca il 160% del Pil, a livelli non lontani da quelli attuali della Grecia. Come nota Artoni, il rapporto debito-Pil sale infatti dal 71% del 1913 al 99% del 1918, per poi impennarsi nel “biennio rosso” 1919-1920, raggiungendo il massimo storico di 160% nel 1920. Riuscire a ridurlo è un’impresa: quattro anni dopo è ancora al 142%. Solo con la sistemazione, o la cancellazione di fatto, dei debiti di guerra, oltre che con una rilevante caduta del debito interno, la seconda crisi di finanza pubblica viene superata.
Gli effetti della crisi del 1929 e della Grande Depressione tornano a far gonfiare il debito portandolo all'88% del Pil nel 1934, con una spesa costante in termini nominali ma una rilevante diminuzione delle entrate. Nella seconda metà degli anni Trenta, tuttavia, il buon andamento economico consente al Regno d’Italia di ridurre il passivo al 79% del prodotto interno lordo, nonostante l’aumento delle spese militari. L’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale torna però ovviamente a gonfiare il debito, che raggiunge il 108% nel 1943. Negli ultimi due anni del conflitto e nell’immediato secondo dopoguerra un’inflazione Nelle prime tre occasioni, quindi, inflazione e parziali ristrutturazioni del debito hanno contribuito a riportare la situazione sotto controllo: nel secondo dopoguerra il debito italiano si ritrova poco al di sopra del 20% del Pil. Ancora nel 1964, in pieno boom economico, quando l’economia italiana cresce in media del 5% annuo sostanzialmente senza inflazione, il rapporto debito-Pil si trova al 33%. Per quale motivo? Semplice: perché il costo del debito è inferiore al tasso di crescita e la politica fiscale si mantiene molto equilibrata, un po’ per scelta ma soprattutto per effetto del boom economico. «Se il debito aumenta ma aumenta anche la crescita non è un problema – spiega l’economista Alessandro Tentori, di AXA - perché il Paese può ripagarlo. Il problema si pone se la crescita nominale è più bassa del tasso di interesse nominale sul debito perché, in questo caso, tende ad aumentare». Queste condizioni favorevoli continuano bene o male fino alla fine degli anni Sessanta. Attenzione però, perché nel 1968 il rapporto debito-Pil già è aumentato dal 33% di cinque anni prima al 41%, mentre emergono le prime tensioni finanziarie ed economiche, sia sul piano interno che su quello internazionale. La quarta fase di boom del debito è quella di cui stiamo ancora pagando le conseguenze. «È il problema veramente aperto», sottolinea Artoni, visto che per la prima volta nella storia d’Italia non stiamo riuscendo a riassorbirlo. Gli sforzi non sono mancati: il nostro Paese è stato l’unico in Europa a chiudere in attivo (al netto degli interessi sul debito) 22 bilanci pubblici su 23 tra il 1995 e il 2017. Nel 2007 siamo riusciti a riportare il “mostro” al di sotto del confine del 100%, ma la Grande Crisi l’ha fatto ripiombare al di sopra del 130% del Pil. Zavorrati verso il fondo dalla spesa per interessi e da una crescita economica anemica, non riusciamo a uscire da questa palude del debito creata in un’altra epoca. Ma vediamo in dettaglio come si sono create le sabbie mobili nelle quali siamo imprigionati. Dal 1968 al 1983 la situazione delle nostre finanze pubbliche inizia a precipitare. La crescita per fortuna resta buona, intorno al 3% medio annuo (anche se siamo lontani dalle performance del “miracolo economico”) ma con la crisi petrolifera del 1973 esplode un’inflazione galoppante (da noi ulteriormente “pompata” dalle svalutazioni della lira). In Italia il carovita vola dal 5,2% del 1972 al 19% del 1974, mantenendosi attorno al 15% fino alla fine del decennio, quando si impenna di nuovo fino a toccare uno spaventoso 21,7%. In questo periodo va però sottolineato come i tassi reali siano fortemente negativi grazie a una politica monetaria statunitense molto permissiva. Intanto il miglioramento del welfare, processo in atto dal decennio precedente, provoca un aumento della spesa pubblica che si combina con la stagnazione delle entrate dando vita a un mix fatale che dal 1973 in poi ci porta a chiudere bilanci in pesante deficit (fino al 10%, più del triplo rispetto alle soglie del Trattato di Maastricht). Il debito però non esplode, aumentando sì nei primi anni Settanta per via della recessione ma restando poi sostanzialmente stabile: nel 1981 si trova ancora al 60% del Pil. Per quale motivo? Perché dal 1975 la Banca d’Italia si impegna a garantire il successo delle aste dei titoli di Stato, stampando moneta per comprare le obbligazioni rimaste invendute (dal 1975 al 1981 gli interessi che pagavamo infatti erano in media inferiori del 10% rispetto all’inflazione, quindi collocare “carta” governativa era un’impresa ardua). In questo modo il costo dell’aumento del debito sparisce dai conti pubblici ma si scarica sulla lira, che non a caso nella seconda metà degli anni Settanta si svaluta di un impressionante 40% rispetto al dollaro. Nel 1981 esplode la bomba nucleare che condanna l’Italia a morire di debito, complice la cronica avversione dei Governi dell’epoca alla disciplina di bilancio. Viene innescata negli Stati Uniti dal nuovo presidente Ronald Reagan e dal Governatore della Federal Reserve Paul Volcker, che decidono di dichiarare guerra all’inflazione (allora al 14% negli Usa). La Fed dà vita a una memorabile stretta sui tassi, passati in sei mesi dal 9% a quasi il 19%, abbattendo il carovita (nel 1983 oltreoceano al 3,2%) ma innescando una mini-recessione prima del boom economico. Tutte le altre banche centrali del pianeta sono costrette a inseguire la Fed, compresa Bankitalia. È in questo contesto che nel luglio 1981 il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi avviano il “divorzio”: via Nazionale, come altre banche centrali, si libera dall’obbligo di acquistare i titoli di Stato invenduti, tornando a essere indipendente nelle sue scelte di politica monetaria. La decisione, avversata da tutti i principali partiti politici, permette alla lira di restare all’interno del Sistema monetario europeo, la banda di fluttuazioni tra le valute del Vecchio Continente introdotta nel 1979 e destinata a diventare il nucleo della futura Unione monetaria. Il nostro Paese arriva al 1982 in condizioni sudamericane: l’inflazione viaggia intorno al 17% divorando il potere d’acquisto di stipendi, risparmi e pensioni, i tassi d’interesse all’inizio dell’anno superano il 25%, lo spread tra i decennali italiani e quelli della Repubblica federale tedesca tocca l’inimmaginabile record di 1175 punti base. Una vetta mai più raggiunta nemmeno durante Tangentopoli e la crisi della lira (769 punti base), o nella crisi del debito sovrano del 2011 che costò il posto a Berlusconi e spianò la strada a Monti (574 punti base). Proprio nell’anno in cui gli azzurri alzano al cielo la Coppa del Mondo a Madrid, Banca d'Italia mette in guarda i Governi dall’usare l'arma della spesa pubblica con eccessiva disinvoltura, rischiando di creare quel colossale debito che poi si è materializzato e che da trent’anni ci pende, affilatissimo, sul collo, rubandoci il futuro. «Nel biennio 1981-82 il prodotto interno lordo è rimasto stazionario - scrive il Governatore Ciampi - ma il settore pubblico ha aumentato del 14% il suo debito in termini reali, mentre il debito del Paese verso l’estero è aumentato di 9 miliardi di dollari». Il disavanzo delle amministrazioni pubbliche italiane nel quinquennio 1977-82 ha superato il 10% del Pil, notava preoccupata Bankitalia, contro l’1% degli Stati Uniti. Su spesa pubblica, deficit e debito bisogna correggere la rotta, sottolinea Ciampi: «La correzione deve affrontare il problema della spesa, modificandone l’angolo di rotta. I progressi nel campo della funzione sociale potranno essere salvaguardati e resi duraturi solo se saranno posti in una vera cornice di giustizia distributiva, di stabilità monetaria, di efficienza». Ma la realtà è un’altra: nell’Italia del 1982 vengono allegramente «introdotti sistemi di intervento pubblico che comportano nel presente, e ancor più nel futuro, spese incompatibili con le più ottimistiche previsioni di crescita - conclude amaramente il futuro presidente della Repubblica - promettendo la distribuzione di un reddito non prodotto e non producibile in tempi brevi».
Andamento rapporto deficit/Pil
Le parole di Ciampi cadono nel vuoto. I Governi italiani che si succedono negli anni Ottanta continuano a mantenere saldi primari negativi al limite dell’indecenza (si sfiora il 15%), sorvolando allegramente sulla disciplina di bilancio. È in questi anni che il debito decolla, anche perché con un'inflazione che non scende sotto il 10% fino al 1985, per trovare acquirenti di BoT e BTp il tasso medio dei nostri titoli di Stato resta sempre a doppia cifra. Il mostro del debito diventa spaventoso: nel 1980 era appena sotto il 60%, ma dieci anni dopo è già volato al 100% del Pil. E pensare che quello degli anni Ottanta è un periodo di crescita economica apprezzabile, nota Artoni, e soprattutto di incremento delle entrate, che aumentano di otto punti percentuali. Il grande problema restano i tassi di interesse reali che dobbiamo pagare sul debito. Spaventosamente alti. Viaggiano intorno al 5%, con un’incidenza della spesa per interessi sul debito pubblico che nel 1994 raggiungerà il 12% del Pil. «In questo periodo deve essere sottolineata la passività delle nostre autorità di politica economica - accusa Artoni - che hanno assistito inerti all’evoluzione della nostra finanza pubblica, forse soddisfatte del fatto che a tassi di interesse reali così elevati fosse comunque possibile il finanziamento del Tesoro». Nell’estate del 1992, pochi mesi dopo la firma del trattato di Maastricht, arriva la spallata sui mercati: il finanziere George Soros mette alla prova la tenuta dello Sme con un violento attacco speculativo, spingendo sterlina britannica e lira quasi fuori dal sistema e costringendo Bankitalia a una svalutazione brusca del 7%. Nel 1994 il debito pubblico raggiunge il 124% del Pil. Da allora è passato quasi un quarto di secolo, ma siamo ancora all’anno zero. Anzi in condizioni peggiori, con un passivo superiore al 130% del Pil. Condannati a morire di debito.

lunedì 25 marzo 2019

Sintesi del “viaggio fotografico” in Russia fra leggende, modernità e letteratura. Aurora Tabone - a cura di Carla Toscano



Sintesi del “viaggio fotografico” in Russia fra leggende, modernità e letteratura.
  Aurora Tabone

a cura di Carla Toscano

 La professoressa Aurora Tabone, relatrice della conferenza fotografica sulla Russia è laureata in lingue e letteratura straniera, è stata socio fondatore della Associazione Circolarmente, autrice di libri sulla lingua per le scuole. Nella presentazione la Presidente Massima Bercetti ha voluto mettere in evidenza un aspetto del suo lavoro sulla lingua utilizzata non solo come modello del parlare e scrivere corretto, ma presentata e compresa come strumento per capire attraverso la parola la realtà che ci circonda, le cose e le persone che si incontrano. Nei suoi viaggi, che si sono svolti i più recenti negli anni 2014 - 2016 - 2017 e altri negli anni '90 sono state scattate le foto che ci ha presentato. Questo viaggio attraverso una parte della Russia, il cui territorio si estende dall'Europa all'Asia a Sud, fino alla Cina per 17 milioni di kmq con una popolazione, tutto sommato esigua (145 milioni di abitanti) che comprende 11 fusi orari e variazioni climatiche importanti, ci ha portato a conoscere aspetti inconsueti, molto particolari e poco conosciuti della Grande Russia in compagnia di artisti: pittori, poeti, romanzieri classici e moderni.

Gli artisti.

Sono stati presentati aspetti artistici che negli anni della guerra fredda e della cortina di ferro erano sconosciuti all'occidente. Alla fine dell'800 e fino al 2012 è sorto un movimento di impressionisti russi, che nel paese ebbe grande risonanza e successo e negli ultimi anni è stato loro dedicato un importante Museo, le loro opere non sono mai uscite dal paese. Mentre scrittori e poeti classici del primo novecento come Achmatova, Čecov,  Mandel’štam, Cvetaeva e molti altri percorrevano l'Europa e conoscevano molto bene l'Italia ed amavano la nostra letteratura soprattutto Dante. I poeti russi non danno molta importanza alla pubblicazione delle loro opere perché preferiscono declamarle in pubblico tra amici ed estimatori. Le foto ci hanno portato nelle case Museo di artisti celebri come la casa a San Pietroburgo di Alessandr Blok, morto nel 1921, praticamente di fame negli anni di grande carestia. In questa casa tra i cimeli è conservato un ritratto del poeta Majakowskij (grande personaggio della rivoluzione che si è ucciso a 37 anni lasciando scritto che nessuno doveva essere incolpato della sua morte) ora praticamente dimenticato tanto che la sua casa di Mosca è sempre chiusa con qualche scusa. Cose che succedono a Mosca! Quando Blok è morto la poetessa Achmatova scrisse " Il sole nostro si è spento". La casa Museo della poetessa si trova alla Fontanka: L'Achmatova era una donna bellissima e molto ammirata in patria e all'estero è stata la signora della poesia e della letteratura, molto odiata dal potere , il marito morì fucilato ed il figlio fu imprigionato nelle carceri di Leningrado. Molte sono le poesie che ci ha lasciato e sulla sua casa scrisse:

"Bevo ad una casa distrutta

alla mia vita sciagurata

a solitudini vissute in due

e bevo anche a te

al morto gelo dei tuoi occhi

ad un mondo crudele e rosso

a un dio che non ci ha salvato"

MOSCA

A Mosca a Mosca" è l'esclamazione nel dramma di A.Čecov "Le tre sorelle" perché "tutto comincia e tutto finisce a Mosca. L'emblema conosciuto da tutti di Mosca è senz'altro la piazza Rossa, in un'immagine di notte tutta illuminata dove spicca la torre Spasskaja del Cremlino, 

P.zza Rossa  e torre Spasskaia
viene celebrato il Capodanno russo che si svolge il 13 gennaio, era anticamente la piazza del mercato e dove si svolgevano le esecuzioni capitali. Dietro al Mausoleo di Lenin, ora deserto, si trovano le statue degli statisti e degli eroi, tra questi la statua di  Juri Gagarin, il primo astronauta. Ed ora di Mosca la relatrice ci presenta alcuni scorci e notizie inediti come il Palazzo dell’ex Governatore della città, frequentato anche dal grande poeta Puskin e dalla sua bellissima moglie , che ai tempi sovietici è stato spostato indietro di 13 metri in 41 minuti (la precisione russa) per fare posto ad una larga via che consentisse il passaggio della sfilata del 1° Maggio
Mosca: il palazzo spostato
Anche il caffè Puskin non è mai esistito, ma è stato costruito solo negli anni ’80, mentre merita una visita il glorioso caffè Tchaikovsky. Nella città coesistono monumenti ed edifici costruiti ai tempi di Stalin come le Sette Sorelle, chiamate all'epoca "edifici alti" e non grattacieli per distinguerli da quelli americani, e sono attualmente sedi di ministeri, alberghi o Università, come l'edificio sulla Collina dei Passeri sede dell'Università di Mosca che conta 50000 studenti circa. Oggi le nuove costruzioni chiamate “giganti di vetro” costituiscono Moscow city. Nel parco Gorky, voluto da Stalin come posto della cultura e del riposo, ha sede ora il Museo di arte contemporanea “Garage”; le fabbriche dismesse sono state ristrutturate ed adibite a luoghi pubblici. Il Museo dell'impressionismo russo si trova in una di queste ex fabbriche. Il quartiere “Ottobre Rosso” che ospitava una fabbrica di cioccolato è stato trasformato nel 2015 con un utilizzo moderno con gallerie d'arte, scuole di design ecc. Dal 2000 in poi le città si sono modernizzate riutilizzando gli spazi per uso pubblico. In un libro di Paolo Nori dal titolo "La grande Russia portatile" si può scoprire una Russia moderna. La Duma è il Parlamento russo e il suo nome deriva dal verbo “dumat’” che significa pensare, per i russi, molto precisi nel significato delle parole, non è il luogo dove si discute ma dove si pensa! La piazza davanti alla Duma di Stato ricorda gli avvenimenti degli anni '90, quando Eltsin quando salì su un carro armato e nelle strade comparve la scritta "Non sparate sui vostri fratelli". La scritta è esposta al Museo di Storia della Russia contemporanea. In una via centrale di Mosca troviamo una lapide che ricorda il soggiorno di Gramsci. Nel Museo di Storia della Russia contemporanea l'accompagnatore dei visitatori è un robot, la guida del futuro.
Museo di Storia della Russia contemporanea
FERROVIA
Il treno e l’aereo sono i mezzi di trasporto più utilizzati, viste le grandi distanze del territorio. Il trasporto ferroviario è gestito dalla Rossiskie Jeleznié Doroghi. Il treno è stato protagonista di molti romanzi di grandi scrittori classici da Dostoevskij a Tolstoj: Anna Karenina incontra il conte Vronskij in una stazione ferroviaria e si suiciderà sotto un treno, lo stesso Tolstoj morirà in una stazioncina ferroviaria, nel Dottor Zivago di Pasternak il treno assume un ruolo importante- Con la transiberiana che parte da Mosca inizia il viaggio verso il lago Baikal.
Transiberiana a Novosibirs
kAlla partenza la provodnika, impiegata del ministero degli interni è la responsabile della carrozza su cui si viaggia e si occupa di mantenerla in ordine e di verificare i documenti dei passeggeri. Nel periodo bolscevico Lenin si servì della ferrovia per diffondere la propaganda del regime. La transiberiana è lunga 9220 km, il locomotore può trasportare fino a 60 vagoni. Dal finestrino il panorama è sempre uguale, monotono salvo piccole stazioni, molto ben curate, dove ci si ferma per un caffè e dove si ha modo di incontrare la gente del posto che vende i suoi prodotti. Gogol’ scriveva: " Rus’, Rus’ tutto in te è aperto, deserto, uniforme". Sul treno si conoscono le persone; negli anni '60 i giovani sovietici percorrevano le strade del loro paese proprio come gli americani di Keruac in "On the road" e si riunivano nei locali intorno alla vodka per festeggiare il loro mito, l'americano Ernest Hemingway, grande bevitore! La vodka in Russia occupa un posto centrale nella vita, esistono dei locali con centinaia di bottiglie di vodka messe in mostra negli scaffali illuminati: Gorbacev, non molto amato, ne limitò l'uso e per questo fu ulteriormente odiato. Kazan, altra città, che si trova lungo il percorso ospita un'Università famosissima dove studiò Lenin ed un bellissimo Cremlino. Gli abitanti della Russia risiedono per il 73% nelle grandi città, la campagna è pressoché deserta e l'immagine che noi abbiamo delle troike che trasportavano i nobili nell'inverno russo sono solo per i turisti. E si arriva in Siberia, terra mistica, terra di sciamani che con i loro abiti coperti di placche di metallo ed altri oggetti, scacciano gli spiriti maligni con i loro movimenti rumorosi. Nei boschi di betulle, i lunghi nastri colorati indicano le vie del cielo. Le donne sciamane sono tutte nere perché a loro è precluso il cielo.Nei boschi vivono le streghe (Baba Jaga) in piccole casette di legno. Nel 1941 in Siberia volarono le” streghe della notte”. Erano donne del Reggimento 558, creato da Marina Raskova che guidavano aerei con cui bombardarono i tedeschi invasori nel Caucaso. Erano aerei molto leggeri, che permettevano di volare a bassa quota, l'equipaggio era composto da due donne (pilota e sganciatore), compirono 23000 voli e 1100 notti di combattimento, trovando i tedeschi completamente impreparati. Stalin non era d'accordo alla creazione di un reggimento tutto femminile, ma la Raskova cocciuta disse " Una donna può tutto" e lo convinse. Gli Urali sono monti ricchissimi di tutto. Una città interessante è Ekaterinburg famosa per l'esecuzione, durante la rivoluzione, di tutta la famiglia dello zar Nicola II, avvenuta nel seminterrato del palazzo dove erano prigionieri ed i loro cadaveri furono bruciati e sepolti nei dintorni. Sul luogo ora sorge la Cattedrale sul Sangue versato tipico della Russia come espiazione. Davanti alla chiesa si trova il monumento al Komsomol, alla Gioventù comunista (le contraddizioni sovietiche) di bolscevica memoria.
Ekaterinburg (la parte moderna)
In Siberia c'erano i gulag, luoghi di detenzione dei dissidenti prima degli Zar poi di Stalin. Molti erano campi di transito dei detenuti per i lavori forzati della Siberia del Nord. Non ci sono testimonianze in questi luoghi. Altre città importanti sono Omsk, dove fu imprigionato Dostoewskij. A Novosibirskfu costruito un ponte sul fiume voluto dallo zar Alessandro III° che, per collaudarlo, fece salire sul treno tutte le maestranze con i loro famigliari!! Ora è una grande città con due aeroporti. Irkutsk antichissima città di commercio delle pelli pregiate, fondata dai Cosacchi e qui si trovano monumenti funerari che ricordano i Decabristi (nobili rivoluzionari che nel dicembre 1825 sfidarono lo zar per ottenere migliori condizioni di vita per i contadini e che furono condannati ai lavori forzati, anche Puskin era un simpatizzante decabrista, ma non fu toccato) con loro giunsero anche le loro mogli che vengono ricordate con una lapide per le idee di giustizia che proponevano. L'ultima città è
Ulan Ude fondata dai cosacchi, confina con la Mongolia; vicino si trova il Datsan di Ivolgin, iil centro buddista più importante di tutta la Russia. In inverno le temperature possono scendere a meno 45° e a meno 50° le scuole vengono chiuse. Qui si trova la testa di Lenin più grande di tutta la Russia. Solo la testa, si dice che il resto si sia perso durante il trasporto in elicottero Infine il lago Baikal (mare sacro) è il lago più antico del pianeta e la più grande riserva d'acqua, è alimentato da 336 fiumi con un solo emissario Angara e naturalmente esiste una leggenda: il gigante Baikal aveva molte figlie femmine, ma la preferita era Angara. Questa si innamorò di Enisej e scappò per raggiungere l'amato, il padre per fermarli scagliò con forza una roccia che ancora si può vedere in mezzo al lago.
Lago Baikal
Ma Angara non si intimorì e si congiunse con Enisej e ancora oggi i due fiumi Angara e Enisej continuano il loro viaggio uniti. Per comprendere la Russia dobbiamo fare riferimento ad un altro grande scrittore e poeta, F. Tjutčev, che dal 1837 al 1839 operò a Torino come incaricato speciale dello zar presso i Savoia, e alle sue parole "con la mente non si può capire la Russia, non la si può misurare col metro comune, in essa c'è un'essenza particolare, nella Russia si può soltanto credere".
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Il pubblico è intervenuto soprattutto con ricordi di viaggio, ma una piccola curiosità in conclusione può aiutarci a comprendere i russi così diversi da noi. Quando chiediamo ad un russo il suo nome la risposta non è "io mi chiamo" ma " gli altri mi chiamano" questo ci può spiegare la precisione russa. Se consultiamo l'orario ferroviario vi troviamo l'ora di arrivo alla stazione i minuti di fermata e l'ora della partenza sempre rispettati e anche l'ora di Mosca perché………tutto comincia e tutto finisce a Mosca!


martedì 5 marzo 2019

L'angolo dell'arte - Marzo 2019


L’angolo dell’arte”
Spazio mensile curato da
Valter Alovisio – Point Zero



Carissimi amici,

questo mese vi segnalo una bellissima e preziosissima mostra che si tiene nel Palazzo Reale di Milano.  S’intitola:

"Antonello da Messina
Dentro la pittura” 

E’ una mostra dedicata al celebre artista del Rinascimento Italiano particolarmente rinomato per la qualità e la profondità dei suoi ritratti.

L’ANNUNCIATA  (1475/76)

HECCE HOMO  (1473)
        
RITRATTO TRIVULZIO  (1476)

 Sono 19 le opere in mostra a Palazzo Reale che ci permettono di conoscere questo artista eccezionale della Storia italiana che è Antonello da Messina.
L’appuntamento, che durerà fino al 2 giugno 2019, mette in mostra quasi la metà dei sui dipinti, sono infatti sono solamente 35 le opere a lui attribuite che sono sopravvissute al tempo.
Quindi una mostra davvero eccezionale.
La particolarità di questa mostra sta anche nel fatto che, a fare da “Cicerone silenzioso” lungo il percorso, sarà lo storico dell’arte Giovan Battista Cavalcaselle che, attraverso 28 fogli di suoi scritti datati 1870, racconta questo artista per lungo tempo dimenticato.
Tra gli appuntamenti più importanti per il 2019, dal punto di vista culturale mi permetto di consigliare questa mostra perché  ci consente di  vedere  ed approfondire un artista tra i più talentuosi nell’ambito dei ritratti.
Tra i quadri che si possono ammirare l’”Annunciata” che da sola può sintetizzare tutta la sua produzione, “Sant’Agostino”, “San Girolamo”, “San Gregorio Magno”, ma anche “Ritratto d’uomo”.
Tutte opere che giungono da diverse parti del mondo per costituire una mostra molto ricca.
Da non dimenticare anche il trittico con la “Madonna con Bambino”, che arriva dagli Uffizi  di Firenze  , oppure – dal  Collegio degli Alberoni di Piacenza – il celebre “Ecce Homo”.
Non manca anche un approfondimento dedicato al suo rapporto con la città natale: Messina.
“Questo appuntamento storico, la cui realizzazione è stata possibile grazie alla collaborazione con molte diverse istituzioni, italiane e internazionali – ha affermato l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno –, vede riunite per la prima volta a Milano ben diciannove opere di Antonello da Messina, proponendo al pubblico il racconto affascinante di un artista innovatore dei suoi tempi, il cui carisma è giunto intatto sino a noi”.

Aperta fino al 2 giugno 2019  il lunedì dalle 14,30 alle 19,30, martedì, mercoledì, venerdì e domenica dalle 9,30 alle 19,30, giovedì e sabato dalle 9,30 alle 22,30.

Valter ALOVISIO

lunedì 4 marzo 2019

Il "Saggio" del mese - Marzo 2019


Il “saggio” del mese 

MARZO 2019

Il libro scelto come “Saggio del mese” per Marzo 2019 ci invita a riflettere, a discutere, di Politica (la maiuscola non è un refuso). E lo fa con un titolo che, con una sorta di ossimoro, suona di evidente provocazione. Il libro è infatti “La politica senza politica” ed il suo autore è Marco Revelli.
E’ una riflessione “partigiana”: Marco Revelli (storico, titolare della cattedra di Scienza della Politica presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale, sociologo, politologo, giornaliste, autore di numerosi saggi che studiano l’evoluzione delle forme politiche, sociali ed economiche del Novecento, coautore con Guarracino Scipione e Ortoleva Peppino di uno dei più diffusi manuali scolastici di Storia Moderna e Contemporanea) ha da sempre affiancato alla sua attività di studioso ed accademico una intensa partecipazione al dibattito politico  su posizioni apertamente di sinistra. Ciò nulla toglie allo spessore oggettivo delle sue analisi che da tempo riflettono, in particolare, sul preoccupante stato di salute della politica non solo italiana. Lo si coglie fin dalle prime pagine della prefazione (le parti in corsivo blu sono estrapolate dal testo del saggio) ……..Non si tratta, voglio essere ben chiaro, di una crisi di governabilità, come troppo spesso si ritiene. Non è la crisi della democrazia come metodo per prendere decisioni, è la messa in stallo della democrazia come metodo per arrivare a decisioni condivise. E’ una classica crisi di rappresentanza che comporta inevitabilmente una crisi di legittimità……la politica senza politica è la politica del nostro tempo, impotente eppure pervasiva, volgare eppure astrusa, distante dalla vita degli uomini eppure presente nel loro spazio quotidiano…..Per sviluppare analisi e riflessione Revelli compie, in questo suo ultimo saggio una operazione culturalmente interessante. Riprende le considerazioni sviluppate in suoi precedenti lavori in questa successione: Populismo 2.0, Einaudi, 2017, nel quale analizzava le molteplici forme evolutive del populismo mondiale, Finale di partito, Einaudi, 2013, incentrato sulla crisi senza soluzioni dei grandi partiti di massa del Novecento, e Poveri, noi, Einaudi, 2010, una indagine accurata e sconvolgente sulla “nuova” povertà, in particolare italiana. Le riprende innanzitutto per metterle in rapporto con gli ulteriori progressivi mutamenti avvenuti negli ultimissimi anni, ma soprattutto per basare su questi tre elementi, aggiornati, la sua idea di una politica, quella attuale, ormai “senza politica”. Lo abbiamo scelto come saggio del mese perché, come si è detto, è un stimolante invito a discutere “in modo alto” di politica, e di temi, come quello del rapporto tra “elitès e popolo”, al centro dell’attenzione di questi tempi, perché per sviluppare tema ed analisi mette in ordine pensieri e pensatori che hanno segnato la storia del pensiero politico ed infine perché può offrire qualche elemento di riflessione in più per decidere al meglio nelle prossime, quanto mai decisive, elezioni europee. La sintesi che qui presentiamo del saggio del mese non brilla certo per brevità, ma non è stato proprio possibile sacrificare più di tanto la ricchezza di osservazioni e spunti di riflessione che esso ci offre.
PARTE PRIMA = I NUOVI POPULISMI
Capitolo primo – Che cos’è il nuovo populismo
Già nei primi anni Settanta due importanti studiosi, Ghita Ionescu (politologo inglese di origini rumene 1913-1996) ed Ernest Gellner (filosofo, antropologo e sociologo inglese 1925-1995), parafrasando una celebre frase di Marx affermavano che “uno spettro si aggira per il mondo: il populismo”. Nei decenni successivi questo “spettro” ha assunto molti connotati ed è stato utilizzato per definire situazioni, tendenze, movimenti spesso in buona misura diversificati…….qualcosa non torna nell’uso del termine impiegato nella battaglia politica quotidiana come arma contundente più che come significante descrittivo……”Populismo” è in effetti un termine difficile da maneggiare non diversamente da “democrazia”. Hanno ambedue la stessa radice “populus” e “demos” e formano di fatto una coppia dialettica….quando la democrazia è in salute il populismo arretra, ma quando il populus soffre anche la democrazia entra in sofferenza…..Jan-Verner Muller (politologo tedesco), uno dei più acuti osservatori del fenomeno, afferma che il populismo è l’ombra permanente della democrazia rappresentativa. Un’ombra che si è manifestata ogni qual volta la democrazia è entrata, per le più varie ragioni storiche, in crisi. Un’ombra che assume forme accattivanti perché, ed è questa la sua prima caratteristica costitutiva, sembra essere in grado di offrire soluzioni semplificanti a problemi al contrario inevitabilmente complicati. Già Ralf Dahrendorf (filosofo, politologo inglese di origini tedesche, 1929-2009) sosteneva che “il populismo è semplice, la democrazia complessa”. Attorno a questa constatazione esiste un consenso diffuso, ma per Revelli occorre andare oltre e completarla guardando alle sue inevitabili conseguenze, una di innegabile evidenza universale è l’abbassamento del livello culturale e civile della partecipazione…il populismo non genera altro che volgari caricature di cittadini, che però recitano la parte della voce della verità…….Anche partendo da questa consapevolezza, e stante l’uso spesso confuso del termine, è quindi necessario tentare di definirne meglio i caratteri costitutivi, perlomeno quelli che sembrano poter comporre una base in qualche modo comune alle sue molteplici forme, perché non di “populismo” si deve parlare, ma di “populismi”. Per farlo occorre mettere ordine in un campo di analisi che ne ha evidenziato, spesso in modo integrativo e complementare, ma non raramente alternativo, aspetti e caratteristiche. Secondo alcuni il populismo ha evidenti caratteri ideologici, là dove emerge come contrapposizione senza via di uscita fra popolo ed elitès, altri ne evidenziano invece l’aspetto di impulso che si concretizza in un “linguaggio”, uno stile politico più che in un insieme di contenuti. Il già citato Muller sottolinea la propensione populista a dividere il campo politico fra “alto” e “basso”, fra chi “ha potere” e chi “ne è escluso”, in questo senso non è solo contro le elites, ma è fortemente “antipluralista” vedendo nel “popolo”, l’entità divinatoria alla sua base, un soggetto politico, omogeneo, indifferenziato……per questo rifiuta la classica distinzione fra destra e sinistra, distinzione orizzontale, travolta dalla contrapposizione fra alto e basso, o tra dentro e fuori……che necessità della continua costruzione del rifiuto dell’altro (il fuori) di volta in volta individuato in chi non rientra (il dentro) nell’idea di popolo omogeneo. Un altro fattore, rilevabile in tutti i populismi, è la finalità di ricreare una “sovranità popolare”…..grazie all’azione di un leader carismatico o comunque legato emotivamente alla propria gente……Questo ultimo aspetto può spiegarne l’apparente carattere “rivoluzionario”, specie nel linguaggio, che però non giunge mai a mettere in discussione il sistema in generale, limitandosi al cambio del personale di governo. Dall’insieme di queste, ed altre collegate, caratteristiche diventa possibile delineare, a grandi linee, due forme di populismo: uno di “contesto”, ossia un sentire diffuso e in parte indefinito, che nasce da sentimenti serpeggianti di paura, rancore, diffidenza, e che attraversa più strati sociali e più nazioni, ed uno di “progetto”, ossia uno più definito politicamente, che si incarna in un soggetto politico chiaramente individuabile che punta apertamente alla conquista del governo, e quindi è più specificamente legato al singolo paese in cui si muove. Collegata in modo variamente intrecciato a questa prima distinzione sembra possibile delinearne una seconda fra un populismo “di sinistra” ed uno “di destra”. Il primo, seppure quasi ovunque non più riferibile alla tradizione classica di “lotta di classe”, ha al suo centro la lotta contro le elitès, contro l’establishement, riproducendo quindi lo schema di “basso” contro “alto”; il secondo in aggiunta alla lotta contro le elitès individua altri nemici, gli “altri”, i “diversi” che, protetti dalle stesse elitès, ed in questo starebbe la loro maggiore colpa, in qualche modo inquinano l’omogeneità del popolo. In questa versione di destra il populismo aggiunge, concretizzando la propensione anti-pluralista, il recupero, spesso idealizzato, della “tradizione”, della cultura nazionalistica, di una visione identitaria di popolo. Sullo sfondo opera comunque un fattore determinante per ogni sua versione: il suo manifestarsi in tempi……..in cui le persone vedono le norme politiche (fin lì) prevalenti, preservate e difese dalle elitès, in contrasto con le loro paure, speranze e preoccupazioni….Non esattamente coincidente con questa visione è l’dea di Lacan (Jacques Lacan, psichiatra, psicanalista e filosofo francese 1901-1981) secondo la quale il populismo sarebbe…..la forma che la politica assume nell’epoca in cui essa si manifesta come assenza…..come distanza ed impotenza, ed in quanto tale non deve essere inteso come “antipolitica” ma come una sorta di “recupero” del politico, persino accentuata fino ad assurgere all’iper-politico,  legata però ad una “costruzione”, quella del “popolo”, su cui si basa, totalmente culturale e non reale. Tanto da tendere a ripresentarsi in un continuo indeterminismo perché la costruzione del popolo è in effetti una costruzione “linguistica”. Una visione quella lacaniana che trova sponda nel lavoro di Benjamin Arditi (filosofo e politologo messicano) che concorda nella propensione del populismo a recuperare un ruolo alla dimensione del “politico”, in questo senso esso non è nè anti-politico, né a-politico, ma semmai, per l’appunto, iper-politico. Invece Slavoj Zizek (filosofo, sociologo, politologo sloveno), recuperando in parte, ma in modo poi critico, il discorso lacaniano offre una interpretazione originale del populismo…….il populismo (a volte) è buono in pratica, ma non abbastanza buono in teoria……Zizek gli riconosce infatti il merito, nella pratica, di scompaginare il pensiero dominante neo-liberista, ma gli rimprovera il limite di non intaccare mai le ragioni del male, non possedendo una teoria adeguata alla individuazione delle sue vere radici. Questa carenza porta inevitabilmente il populismo a non vedere nel sistema il vero nemico spostando il fuoco….sull’intruso che non lo fa funzionare in modo adeguato…….E quindi, contrariamente all’interpretazione lacaniana, il populismo lungi dall’essere un recupero del “politico” è in effetti una forma di de-politicizzazione, di scadimento della politica.
Fin qui le analisi, le interpretazioni, il dibattito culturale, tutt’altro che esaustivo, attorno ad  un fenomeno che sembra caratterizzare il cuore dell’attuale confronto politico in tutto il mondo occidentale. Ma quali sono stati, quali sono, i “fatti”, oggettivamente leggibili, che hanno creato, componendolo e dandogli dimensione reale, lo “spettro” del populismo? Quali sono state, quali sono, le faglie che si sono aperte nei consolidati assetti politici novecenteschi e che hanno provocato il terremoto populista? Nei successivi due Capitoli Revelli li riassume e li interpreta in questa ottica.
Capitolo secondo – Il puzzle populista. Chi sono i “nuovi barbari”?
Per meglio comprendere la fotografia reale dei sommovimenti del quadro politico occidentale, indistintamente definiti nei commenti come “esplosione del populismo”, occorre anticipare due considerazioni analitiche:
· la coincidenza temporale, assolutamente non casuale, fra questa esplosione (al tempo prevista solo da pochi commentatori e analisti politici) e la piena ricaduta dei radicali cambiamenti, economici e sociali, riconducibili alla globalizzazione, specie nella sua accentuata versione neo-liberista. Il passaggio dalla old alla new economy, con il suo carico di generalizzati cali occupazionali e di spaventosa crescita delle disuguaglianze, si lega oggettivamente, in termini spaziali e temporali, al populismo, al suo manifestarsi, al suo dilagare
· un legame percepibile però su un preciso terreno  politico: diversamente da quelle “classiche” - scioperi, occupazioni, scontri di piazza e via dicendo - la rivolta contro gli effetti della globalizzazione, nella versione populista, si è manifestata…..con l’unico strumento rimastole nella post-democrazia attuale: il voto, il voto “impresentabile”, politicamente scorretto, da esodo rabbioso…..
E’ nella lettura in profondità dei terremoti elettorali avvenuti soprattutto nella seconda decade del nuovo millennio che si fonda quindi la possibilità di intravedere chi, cosa, come, ha messo in moto il fenomeno “populismo”. Revelli lo fa partendo, nel Capitolo secondo, dalla situazione statunitense e da quella inglese, confermando in pieno le analisi ed i giudizi a suo tempo già espressi nel suo “Populismo 2.0”. Il voto americano del 2016 che ha inaspettatamente (?) premiato Donald Trump non lascia margine a dubbi: nell’assenza dalle urne del voto “nero” hanno votato, con percentuali spiazzanti, per “make America great again” gli agricoltori delle grandi praterie, i ceti medi marginalizzati, i minatori e gli operai (bianchi), i montanari delle alte colline, assieme alla già consolidata maggioranza silenziosa, bigotta e moralista, fino a coprire di rosso (il colore che, ironia della sorte, nelle mappe elettorali individua il voto repubblicano ) la stragrande maggioranza degli Stati americani. Stesso spettacolo nel voto inglese sulla Brexit dello stesso anno. Si sono schierati con percentuali molto alte per il “leave” le aree e le città industriali, e quindi il voto operaio, andando contro l’indicazione (tiepida) per il “remain” del partito laburista, assieme a quello delle aree rurali, e di quelle emarginate delle periferie. Non serve certo riprodurre qui i dati di dettaglio di due risultati ormai così definiti in modo condiviso e trasversale:
· un voto “di protesta” con una base……territoriale, prima ancora che politica e culturale….
· una base territoriale che si sovrappone perfettamente alla mappa del disagio sociale degli sconfitti dalla globalizzazione, delle tante figure sociali e produttive che si sono sentite travolgere dal cambiamento globalizzato….appare chiaro il ruolo giocato da quella vera e propria cesura secolare che è stata la sconfitta del lavoro, del lavoro dipendente, del lavoro operaio….senza trovare nei vecchi riferimenti politici ascolto e sponde concrete.
La lezione venuta da questi due voti, quasi in fotocopia fatte salve le ovvie specificità nazionali, è che ciò che è stato comunemente definito populismo, e come tale da ricondurre entro le caratteristiche costitutive individuate nel Capitolo primo, si manifesta nella realtà politica con l’affermarsi di un…….voto prevalentemente di vendetta, di vendetta sociale si potrebbe dire…..Che si lega però non all’alveo tradizionale dei partiti  di “sinistra” e progressisti, che in ambedue le situazioni (con la sola eccezione di Bernie Sanders negli USA, sconfitto però nelle primarie, e di Jeremy Corbyn, al tempo però in minoranza all’interno del Labour) non si sono posti l’obiettivo di fronteggiare politicamente la globalizzazione, puntando semmai a cavalcarla fino ad essere identificati con essa. E lasciando così ampi margini a quel voto “di vendetta” ed al suo concretizzarsi nella tendenza, in mancanza di altre sponde, a…..riconoscersi come popolo, nell’unico spazio in cui si pensa di essere tale, quello dei vecchi, logori, confini nazionali, dato che in un altro spazio popolo non c’è……
Capitolo terzo  – L’Europa populista
Revelli sposta quindi l’attenzione sul vecchio continente, cercando, anche qui, di far emergere nelle situazioni nazionali reali le caratteristiche costitutive del populismo a conferma di quanto evidenziato nel Capitolo primo. Buona parte dell’Europa ha emesso un sospiro di sollievo quando nel 2017, dopo Trump e Brexit, Macron ha sconfitto al ballottaggio con ampio margine Marine Le Pen. Tutto bene allora? Certo che no. La vittoria di Macron al secondo turno è in gran parte spiegabile con la particolare tendenza elettorale francese di premiare, al ballottaggio, il candidato meno “estremista”. Ma il voto vero, quello “libero” del primo turno ha dimostrato l’intatta forza del Front National che, superata l’iniziale impronta di destra estrema di Le Pen padre, si è con la figlia Marine caratterizzato come partito dichiaratamente populista. Nel 2017 il Front ha vinto nel 54% dei comuni francesi con Macron fermo a poco più del 20%. Il ridotto scarto numerico si spiega con la vittoria di Macron nei grandi comuni (periferie e banlieu escluse però), Parigi in primis, ma anche Lione, Bordeaux, Nantes. La mappa del voto lepenista, il dato che più interessa l’analisi di Revelli, dimostra che anche in Francia essa si manifesta lungo le faglie delle aree sociali investite dalla globalizzazione, e quindi in quelle a maggior tasso di disoccupazione, di de-industrializzazione, meno acculturate, con minori aspettative di vita. E’ significativo ad esempio che ancora al secondo turno Marine Le Pen abbia raccolto il 56% del voto operaio. Si aggiunge però un aspetto specifico francese: quello che vede, più ancora di quanto successo negli USA e in Gran Bretagna, la convinta adesione al populismo lepenista delle aree rurali, della Francia delle campagne, che si sentono altra cosa rispetto alle grandi concentrazioni urbane. L’impressione che Revelli ricava dal dato francese è quella che il voto del 2017 non ha assolutamente chiuso la partita, l’unico dato certo è la fuga, clamorosa e forse irreversibile, dai grandi contenitori politici di sinistra e di destra (partito socialista e destra repubblicana)…….l’elettorato resosi fluido e fuoriuscito dai precedenti contenitori non sembra voler tornare alle case di origine e la politica francese rimarrà a lungo liquida……(non compare nel saggio di Revelli, scritto ben prima del loro affacciarsi sulla scena politica, alcun accenno al movimento dei gilets jeaunes. Ed è ancora troppo presto per una loro classificazione politica, accanto ad alcuni tratti populisti sono infatti presenti elementi “classici” di scontro sociale, anche violento, ma di incerto colore politico. Non sembrano essere inoltre un movimento omogeneo, molte anime persino contrapposte lo compongono Il voto delle prossimo europee e la loro eventuale partecipazione in prima persona piuttosto che in appoggio ad altri ci dirà qualcosa di più al riguardo)…….se Parigi piange Berlino non ride……..E piangono soprattutto i due grandi partiti, quello socialista dell’SPD e quello di centro della CDU/CSU, i pilastri degli ultimi governi della “grande coalizione”, che sono scesi dall’80% dei voti totali nel 1998 al residuo 50% nel 2017. In un contesto molto ampio di travasi elettorali è stata così premiata l’Alleanza per lla Germania AfD diventata la terza forza del paese. E l’AfD è…..radicalmente anti-establishement, dichiaratamente anti-europea, tendenzialmente anti-sistema…….Caratteristiche che la fanno rientrare nell’alveo generico del populismo di nuova maniera, con un aspetto aggiuntivo sicuramente preoccupante: la sua sempre meno celata simpatia per idee e valori dell’estrema destra fino a conglobare movimenti apertamente neo-nazisti. Il suo successo del 2017 era peraltro già stato anticipato da significative affermazioni nelle precedenti elezioni del 2016 in numerosi Lander. Ed è anche in questo caso la mappa territoriale della sua consistenza che Revelli ritiene fondamentale per capire le ragioni del successo. Se nella Germania ex Ovest il disagio ed il rifiuto verso le coraggiose politiche migratorie della Merkel ne sono la principale spiegazione, in quella ex Est, in cui la crisi economica continua a picchiare duro, stanti i ritardi strutturali ancora non del tutto recuperati dall’unificazione, questi toni xenofobi si saldano con la……apparente solidarietà verso il basso, i lasciati indietro, i sacrificati del cosmopolitismo……Ed anche ad Ovest la spinta xenofoba si basa in molti Lander con un consenso più marcato negli strati “bassi”….anche in Germania l’onda populista è alimentata dalla paura, che in molti casi diventa ansia, di essere superati dal tempo, dalla frustrazione e dalla rabbia di chi si sente trascurato……stati d’animo che si trascinano fin dall’abbandono del marco, e  che si sono accentuati con la crisi del 2008 e con le attuali tendenze economiche negative, creando potenzialmente margini, pericolosi, di ulteriore espansione. …….La terza Europa, Visegrad e non solo ……..Se già lo sguardo verso la Germania ex Est coglie segnali inquietanti ancora più preoccupanti sono quelli che vengono dalle quattro nazioni, emerse dalla fine del blocco sovietico, che nel 1991 avevano costituito, in quel di Visegrad, una sorta di coordinamento per il loro ingresso nella UE: Ungheria, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca. Ad esse si è recentemente aggiunta l’Austria a formare un fronte, compatto e aggressivo, di populismi senza se e senza ma. …….sono tutti populismi dal profilo decisamente radicale, strutturati attorno ad un mix di nazionalismo sovranista,  di xenofobia, di impronta identitaria, di dichiarata vocazione autoritaria definibile “democrazia illiberale”…….Per tutte il richiamo del populismo nazionalista è suonato subito dopo l’adesione alla UE sostanzialmente visto come una potenzialità di mercato, e non motivata dal alcuna ragione ideale ed anzi fin da subito permeata da forti diffidenze verso la cultura occidentale e le sue elitès. Diffidenze poi apertamente esplose in una netta contrapposizione anche per l’incapacità dei primi governi post-sovietici, ancora tutti di impronta socialdemocratica, di governare progressivamente il cambiamento, spesso sfociato in gravi collassi economici. Le carriere politiche dei leader più rappresentativi, l’ungherese Viktor Orban, il ceco Andrej Babis, raccontano meglio di tante analisi questa evoluzione: ambedue con trascorsi giovanili nei rispettivi partiti comunisti, poi alfieri del liberalismo occidentale, per poi trasformarsi in illiberali campioni populisti. Leggermente diverso il percorso polacco e slovacco, ma per tutti i quattro paesi originari del blocco di Visegrad il fondamento del loro populismo sta….nella retorica anti-establishement (specie tedesco, e qui la storia gioca la sua parte) e nell’idea di popolo ordinario, autentico, legittimo….Ed anche qui si ritrovano alcuni dei caratteri fondanti del populismo già visibili in tutti i paesi fin qui presi in esame: sostegno dei ceti operai, di lavoratori sindacalizzati, minatori, negozianti, contadini, delle zone rurali e delle periferie, tutti cementati dal rifiuto del migrante, specie se mussulmano. Si conferma quindi che per…..la lettura del fenomeno populista del nuovo millennio le mappe sono più eloquenti delle tabelle…….Per il blocco di Visegrad si aggiunge poi un aspetto specifico di particolare importanza: l’incidenza del retaggio di una idealizzata identità storica, etnica, culturale, religiosa. Già evidente nella stessa scelta di Visegrad, antica città-castello ungherese dove nel 1335 si riunirono i sovrani di Boemia, di Polonia e di Ungheria per formare un fronte unico contro gli invasori………Italia: la chiusura del cerchio……Alla situazione italiana il saggio di Revelli dedica, per ovvie ragioni, particolare attenzione. Non riportiamo qui i commenti analitici del terremoto elettorale del 4 Marzo 2018, sono ormai dato consolidato (e su questi rammentiamo un nostro precedente post del Novembre 2018 specificamente dedicato all’analisi del voto del 4 Marzo) e, nell’ambito del filo rosso che guida il suo saggio ci limitiamo a riportare le osservazioni più di fondo che egli sviluppa al riguardo…..,,Non si discosta dal quadro generale la vicenda italiana: anche qui, come nel resto delle situazioni esaminate, il successo del populismo è leggibile sia individuando le figure sociali che l’hanno prodotto sia le mappe territoriali nelle quali si è articolato. Alcune specificità impongono osservazioni aggiuntive. La prima è l’affermarsi di due forme di populismo solo in minima parte omogenee - ambedue anti-elitès, euroscettiche, e all’apparenza fortemente riformatrici - ma di fatto concorrenziali su diversi aspetti: da una parte quella del M5S, più attenta al disagio sociale in particolare del Sud, ed ai temi del lavoro, dall’altra quella più “plebea” della Lega non più Nord, più nazionalista-sovranista, decisamente xenofoba. Le convergenti convenienze hanno prodotto, sulla base del famoso “Contratto”, un comune governo, ma le diversità innegabili stanno via via emergendo, accentuate dal clamoroso balzo in avanti nei sondaggi della Lega. L’anomalia italiana di due populismi, ambedue di grande successo e solo in parte assimilabili, rappresenta un unicum particolare. Un secondo dato italiano, strettamente connesso al primo, si impone all’attenzione. Il terremoto politico del decennio che va dalle elezioni del 2008 a quello del 2018 ha visto…..una vera e propria apocalisse del voto moderato che ha visto uscire dal proprio campo 18 milioni di voti (fra cui 7 milioni del PD e ben 9 del PdL)……….Se per quest’ultimo buona parte della spiegazione sta nel fisiologico declino del suo leader storico, per il PD il discorso è più complesso. Se lo sfondamento elettorale sia dei M5S che della Lega poggia sul voto riscosso nei “produttori” - dai piccoli imprenditori agli operai, dagli impiegati ai commercianti/artigiani, dai dipendenti pubblici ai disoccupati – , ossia le figure che storicamente costituivano, assieme ai pensionati, unici rimasti, la base sociale del voto “a sinistra”, e se la mappa del voto vede il PD tenere nelle aree più benestanti, più acculturate, più garantite, nei centri e non nelle periferie, diventa legittimo chiedersi, al di là delle opinioni politiche di merito, se il Pd non  abbia di fatto …..subito una mutazione genetica con la sua trasformazione da “partito degli ultimi” a “partito dei primi”……..Il voto contrapposto fra centro e periferie, come si è visto non solo italiano, merita una riflessione aggiuntiva. Non si tratta infatti solo di diversi orientamenti elettorali, quello che è saltato è il paradigma che per tutto il Novecento, ed ancora nella prima decade del nuovo secolo, prima quindi che il fenomeno populista lo evidenziasse, ha visto una stretta coincidenza fra…….i centri di potenza (i luoghi di concentrazione della produzione e dell’economia, e quindi le città, le grandi aree urbane, a al loro interno il “centro”) e i poli di coscienza (la dove nascevano e si costruivano idee, elaborazioni, stili di comportamento sociale) oggi centri di potenza e poli di coscienza sembrano essersi diversificati sempre più…… E’ in fondo la rappresentazione geografico-urbanistica del contrasto tra elitès e popolo. La situazione italiana, più ancora che di altri paesi, è esemplare in questo senso. E lo è anche per la conseguenza ultima di questi processi sconvolgenti: i populismi, tutti, trovano linfa nelle contraddizioni, nemmeno affrontate, dell’ordine neo-liberista globalizzato, ma sfondano perché trovano un “vuoto”, uno spazio politico non più occupato, abbandonato da chi è stato fin qui “al centro”, perché essi……scaturiscono dal vuoto. Non sono espressione di un qualche “pieno”. Sono al contrario soltanto ciò che ha riempito il grande buco che si era creato…..
PARTE SECONDA = FINALE DI PARTITO
Capitolo primo – All’origine della psicosi sociale contemporanea
……La domanda a questo punto è: vuoto perché? O anche: vuoto di cosa?............Il termine vuoto riporta a Lacan, alla sua interpretazione del populismo ed alla collegata…..costruzione linguistica del popolo……Una operazione che, inconclusa e inconcludibile, sfocia, se la si valuta nei termini lacaniani, in un certo grado di psicosi, ossia in una rottura fra il soggetto ed il mondo esterno, alla non integrata  collocazione dell’Io nel rapporto con gli altri. A livello individuale, sempre secondo Lacan, l’insorgenza di una psicosi trova origine nella mancata chiusura del processo di costruzione del soggetto, del suo ordine simbolico (“la seconda natura di ogni essere parlante”, come lo definisce Zizek) dovuta alla intervenuta mancanza del “Nome del Padre”, ossia del simbolico autoritario che “ci dà il nome”. Questa mancanza precipita il soggetto in un mondo di metafore simboliche che tentano, inutilmente, di coprirla. Uno schema non diverso può essere applicato…..ai fenomeni collettivi, al mentale delle comunità e ai loro processi di identificazione……In queste dinamiche collettive “il Nome del Padre” è stato via via assunto dal concetto di Dio e quindi dalla Chiesa, dal potere regale, e quindi dalla Patria, e poi nell’era della secolarizzazione politica, perlomeno in occidente, anche …..da quel novello principe che era il partito politico, la forma partito…….un “Nome del padre” capace di chiudere il cerchio della collocazione del Noi nello spazio sociale e politico. Questa assunzione al ruolo è avvenuta a cavallo di Ottocento e Novecento e la sua analisi più completa ed esauriente è quella fatta da Moisei Ostrogorsky (sociologo e storico russo considerato con Max Weber e Robert Michels fondatore della sociologia politica.1854-1921). Ostrogorsky evidenzia lo stretto legame fra l’avanzare della democratizzazione del potere e il formarsi di strutture partitiche, fra l’individualizzazione sociale cresciuta sulle ceneri dell’ancien régime e il bisogno delle masse di qualcosa che ricoprisse il ruolo lasciato libero dal sovrano decaduto. Il partito, la forma partito fornisce la risposta alla domanda dei i singoli individui e delle masse di trovare un equilibrio tra……i sentimenti che si dividono solitamente l’animo umano: il dovere e l’amor proprio……Per molti decenni, per tutto il Novecento e qualcosa oltre, esso è stato al centro non solo dei sistemi politici, ma, proprio per la sua vocazione a dare Nome al Padre, al centro dell’intera dimensione della “politica”. Gramsci lo definì “intellettuale collettivo” vedendo in esso il baricentro della costruzione dell’egemonia. Eppure, nonostante queste premesse originarie, un secolo o poco più dopo, a cavallo dei due millenni, si manifesta in modo dirompente in tutto il mondo occidentale una “crisi di sfiducia” vero i partiti, verso il “partito” che poggia su numeri impressionanti. E proprio in Italia meglio si misura la fine di quel suo ruolo lacaniano: alla fine della Prima Repubblica…..nessuno dei vecchi partiti del Novecento sarebbe sopravvissuto con il proprio nome di origine, col proprio “Nome del Padre”…………..
Capitolo secondo – Interpretazioni della crisi del partito
Tutti gli studiosi di scienze sociali – assenti non a caso i politici di professione - si sono misurati su questo sconvolgimento. Le tesi e le spiegazioni si sprecano. Ma tutte concordano su un aspetto…….su ciò che va sotto il nome di teoria elitistica della politica, l’idea cioè che ogni processo democratico sia destinato a subire una torsione in senso oligarchico, a produrre strutture gerarchiche nelle quali una minoranza  domina la maggioranza e decide per essa…..E’ stato Robert Michels (sociologo e politologo tedesco poi naturalizzato italiano 1876-1936) fin dal 1910 a dare canone a questa teoria definendola “legge ferrea dell’oligarchia”. Eppure, attraverso percorsi storici molto complessi e contradditori, la forma partito è riuscita a resistere alla comprensibile disillusione pressochè per tutto il Novecento. Cosa può spiegare l’esplosione della “crisi di sfiducia”? Revelli parte dalla prima e più semplice risposta: le oligarchie sono diventate insopportabili perché i leader sono peggiorati…..Constatazione ahi noi innegabile, sono d’altronde superati da tempo i meccanismi di selezione che portavano al vertice dei partiti i migliori, quelli che si erano guadagnati fiducia e consenso anche pagando di persona le proprie scelte politiche. Ma è una spiegazione che spiega poco, ossia non spiega le ragioni di questa innegabile involuzione. Qualche elemento più significativo viene da un fondamentale saggio di Richard Sennet (sociologo statunitense) “Il declino dell’uomo pubblico”. Sennet mette in collegamento la trasformazione antropologica che ha visto emergere in modo diffuso……un Io ipertrofico e insieme vuoto…..che proietta nella sfera pubblica sentimenti e pulsioni private abbassando di conseguenza il livello stesso del dibattito collettivo, non solo politico, ad una sorta di linguaggio e narrazione da soap opera. Ovviamente in un contesto simile prevalgono i leader che meglio sono visti come vicini al livello, basso, del pubblico. Più legate al processo di globalizzazione ed alle sue ricadute economiche e sociali sono  le letture di Zygmunt Bauman (filosofo e sociologo polacco, 1925-2017) e Ronald Inglehart (politologo statunitense, 1934). Bauman attribuisce la sfiducia verso i partiti alla impossibilità/incapacità della politica di esercitare azioni di governo reali verso i centri di potere globalizzati che si muovono in un altrove inattingibile. Inglehart ritiene che la crisi della rappresentanza nasca dall’impossibilità per i partiti, sorti per rappresentare i bisogni materiali primari, le mutate esigenze nell’era dei bisogni sociali post-materialisti. Le struttura tradizionali dei partiti, per quanto deteriorate dalle tendenze oligarchiche, sono valse finche potevano parlare a nome di masse unificate da bisogni sociali omogenei. Sono diventate obsolete con il definitivo affermarsi di bisogni sociali più frammentati, più autonomi, più selezionati e differenziati…..e per tutti questi motivi meno stoccabili nei grandi contenitori di una volta…..C’è in ognuna di queste valutazioni un pezzo, anche importante, di verità, ma per Revelli la chiave di lettura….del deficit di fiducia nel moderno principe….sta in altro fattore
Capitolo terzo – Post-fordismo politico + Capitolo quarto = i costi della politica
Un fattore che stupisce non sia stato rilevato e valutato con la giusta attenzione perché era sotto gli occhi di tutti: lo stretto parallelismo, temporale e strutturale, fra il fordismo, il nuovo modo di produrre che si impone a partire dal primo dopoguerra, ed il formarsi dei grandi contenitori politici del Novecento. Una vera e propria sovrapposizione, temporale innanzitutto, quasi che l’uno aspettasse l’altro, ma soprattutto strutturale. Per meglio coglierla è necessario sintetizzare i caratteri fondanti del nuovo modello produttivo sorto con la seconda rivoluzione industriale. La visione fordista poggia su una concezione tutto sommato semplice…..per combinare un insieme complesso di uomini e di tecniche  in un piano di razionale efficienza occorre isolarlo dal disordine del suo ambiente……La fabbrica fordista è razionale, è efficiente, è onnicomprensiva, ogni passaggio è concatenato alla perfezione, ma soprattutto è un sistema chiuso. E’ con il fordismo che le fabbriche hanno cancelli, hanno guardiani, sono invisibili all’esterno e l’esterno è invisibile a chi ci lavora. Il paradigma fordista si coniuga, anche in questo caso con una coincidenza temporale tanto significativa quanto naturale, con quello weberiano (Max Weber, sociologo tedesco, considerato il padre fondatore della moderna sociologia,1864-1920) della centralità dell’’apparato burocratico. Non solo la produzione viva ma l’intera macchina produttiva ed amministrativa devono uniformarsi ai criteri di specializzazione, sincronismo, razionalizzazione. A chi gli chiedeva ragione di ciò Weber rispose in modo lapidario: l’economia moderna non può essere guidata diversamente. E va detto che, al di là di ogni valutazione di merito, la storia dell’economia per quasi tutto il Novecento ha dato ragione a Ford (Henry Ford, imprenditore statunitense, proprietario della storica omonima fabbrica di auto, 1863-1847) ed a Weber. In ambito politico paradossalmente, ma solo a prima vista, la prima piena adozione del paradigma fordista/weberiano avviene, poco dopo la rivoluzione del 1917, nella Russia leninista. Il paese faro di ogni movimento rivoluzionario e comunista decide – dovendo organizzare un’intera società su basi nuove e facendo quindi propria l’affermazione di Weber: la burocrazia è la forma in assoluto più efficiente di organizzazione - di cancellare il ruolo dei soviet e di …..costruire la più gigantesca totalizzante burocrazia che la Storia abbia conosciuto……Si innesca a seguire una corsa fra tutti i partiti occidentali a strutturarsi sulle stesse logiche organizzative. Per restare a sinistra ed in Italia è Antonio Gramsci che dal carcere fissa il modello organizzativo del PCI, un modello basato su tre gruppi: i militanti di base, gli iscritti – i funzionari di partito – il vertice, rapportati fra di loro in una catena “produttiva e burocratica” di assoluta efficienza. A rimuovere ogni residuo dubbio sulla convergenza delle due “fabbriche” bastano le parole pronunciate da Lev Trockij a commento della nascente organizzazione del PCUS, allorchè si chiede se quello …..fosse un partito o una manifattura socialdemocratica………..Nascono e si sviluppano, vincendo dal loro punto di vista, la battaglia dell’efficienza organizzativa i grandi partiti novecenteschi, tutti, di ogni colore politico ed in tutte le nazioni, con la sola eccezione dell’anomalia americana. Vince, in analogia a quello fordista/weberiano, il modello basato sul…..primato dell’integrazione verticale, rigida, proprietaria, con un altissimo livello di formalizzazione di tutti i ruoli e funzioni…….Questi modelli hanno funzionato benissimo per quasi tutto il secolo, poi di colpo sono saltati, ambedue. Salta il paradigma fordista/weberiano. La saturazione dei mercati tradizionali, la necessità di aprirsi verso forme diverse di domanda, mettono in crisi innanzitutto il gigantismo industriale, l’incorporazione di tutte le fasi della lavorazione all’interno del sistema chiuso diventa improduttiva. Alleggerire, esternalizzare, temporizzare i flussi alle necessità del momento diventano i nuovi imperativi. E saltano in contemporanea, anche stavolta non a caso, i grandi apparati burocratici, diventati troppo macchinosi, lenti, autoreferenziali, per reggere alle nuove domande…….naturalmente tutto ciò non poteva non coinvolgere la forma partito……anch’essa troppo pesante, complicata, incapace di leggere i mutamenti che la crisi del fordismo sta provocando. Non più grandi ed omogenee masse, più facili da intercettare con programmi politici su di loro calibrati, ma una miriade crescente di figure sociali e produttive che chiedono specifiche attenzioni non facilmente assemblabili…..non più un corpo elettorale ma piuttosto un mercato politico……identico nei rischi di intercettamento esattamente come le nuove domande consumistiche. In successione saltano tutti i grandi contenitori novecenteschi, quelli che fanno il tonfo più clamoroso sono proprio i partiti comunisti……che di più avevano portato all’estremo le logiche di centralizzazione e dell’articolazione rigida…..E saltano anche per ragioni economiche: i costi della politica, prima attutiti dalla militanza e dalle adesioni di massa, diventano esorbitanti. In un mercato politico che richiede una presenza diversa, basata sui nuovi mezzi di comunicazione e diffusione, inaridite le fonti classiche, i bilanci segnano un rosso crescente. Sta in questa “fame di risorse economiche”, oltre che nell’irrompere dell’individualismo carrieristico, buona parte delle degenerazioni corruttive, dell’occupazione delle partecipate e delle istituzioni pubbliche, della crescita esponenziale, spesso non correlata a reali ragioni di spesa, dei sistemi di “finanziamento pubblico”. Si creano così una bolla speculativa, un diffuso malaffare e la correlata percezione sempre più ostile da parte della società e degli elettori. Sono le principali ragioni del rifiuto e della condanna senza appello del sistema dei partiti che in breve tempo esplodono con intensità più o meno virulente in tutto l’Occidente.
Capitolo quinto – La politica del vuoto, democrazia senza partiti?
Le ricadute di questo tracollo e del suo sfociare in un “rancore” anti-partitico sono molteplici e pesanti. E’ nel grande vuoto, nell’assenza del “Nome del Padre”, disintegrati i grandi contenitori, nell’incapacità di quello che resta dei partiti di dare risposte concrete ai mutamenti sociali ed economici, nel rancore che monta verso chi si è mostrato più attento al proprio interesse che a quello della collettività, verso chi “ha tradito”, che si forma il terreno, il vero e proprio humus, che alimenta quella sorta di psicosi collettiva che progressivamente diventa la fonte principale di alimentazione delle varie forme del populismo. Di psicosi si deve parlare. Non ha altro nome il fiorire, ed il diffondersi senza limiti nel mondo della Rete, di ossessioni, dietrologie, complottismo, rifiuto aprioristico di ogni realismo scientifico e di ogni autorità che a suo nome parli, di ogni dato oggettivo che vada contro quello che si afferma come il comune sentire. Sdoganati dall’assenza del “Nome del Padre” e dall’anonimato della Rete non ci sono più freni, non ci si vergogna più di pensare e di dire, ad alta voce, quello che nasce dalla pancia, da questa psicosi collettiva……forse non si dicono più menzogne di prima, non c’è un di più di menzogna. C’è un di meno di verità. Anzi. Non c’è più un concetto di verità……..E’ la dimensione della “post-verità”, il totale affermarsi di quello che Maurizio Ferraris (filosofo torinese) definisce….l’atomismo di milioni di persone convinte di avere ragione “non insieme” ma “da sole” o meglio con il solo riscontro del web……Si manifesta, con questa esplosione incontrollata e psicotica del sentimento pre-populistiico, una profonda diversità fra la fine del sistema fordista/weberiano e quella della “forma partito”: se il primo è stato in breve soppiantato, dall’interno, da un nuovo ordine economico e sociale, dal neo-liberismo globalizzato, da quella che Pierre Dardot e Christian Laval (filosofi francesi) chiamano “La nuova ragione del mondo”, la crisi dei grandi partiti novecenteschi non trova invece immediata soluzione. I partiti non scompaiono del tutto, ma sono ormai pallidi simulacri dei grandi contenitori novecenteschi, e non hanno sufficiente linfa vitale per ridarsi una credibilità tale da recuperare la crisi di sfiducia in cui sono precipitati. In questo quadro non si aprono soltanto spazi enormi ai populismo, è lo stesso concetto di democrazia rappresentativa che entra in sofferenza…….l’equivalente di ciò che chiamiamo post-verità in campo politologico prende il nome di post-democrazia…..E’ il termine con cui Colin Crouch (sociologo e politologo inglese) ha definito lo scenario della partecipazione democratica in Occidente nel nuovo millennio. Da molti tradotta nella domanda…..c’è democrazia senza i partiti?.....Se sono trascurabili le deboli difese d’ufficio di partiti ed istituzioni è pur vero che la questione è molto più complessa. La democrazia ha origini e storia che travalicano la nascita dei partiti, ed il fatto che questi abbiano smesso di svolgere il proprio ruolo di rappresentanza, pressochè esclusiva ed a lungo riconosciuta, non può significare l’automatica fine della democrazia. Che è però certamente cambiata. E’ entrata in una nuova fase. Una fase in cui si deve misurare con la crisi del sistema dei partiti ma anche con il radicale mutamento della comunicazione politica……sempre più plasmata sula struttura del linguaggio pubblicitario…….che non richiede elaborazioni e ragionamenti complessi, ma semmai slogan efficaci affidati ad un leader testimonial vincente. Era anche questa caratteristica che aveva indotto, ancora prima che Crouch introducesse il termine di post-democrazia, Bernard Manin (filosofo e politologo francese) ad individuare la trasformazione in atto come passaggio dalla “democrazia dei partiti” alla “democrazia del pubblico”. Un passaggio che replicava, invertendone in parte i termini, una precedente trasformazione che aveva investito la democrazia occidentale. Quella che vide, agli inizi del Novecento al primo sorgere dei partiti di massa, il precedente rapporto fiduciario fra eletto ed elettori, basato sulla conoscenza diretta dei candidati e quindi sulla fiducia che personalmente sapevano guadagnare (si votava con collegi di dimensioni limitate stante la ridotta base elettorale), sostituito dal consenso dato prima che alla persona al partito, al programma. Si votava allora, stravolgendo il sistema fiduciario precedente, non per qualcuno che si conosceva personalmente ma per qualcuno che rappresentava il partito che si voleva premiare. Una analoga trasformazione, a ritroso, sta avvenendo a cavallo del nuovo millennio, si torna a votare la persona prima ancora che il partito ed il programma. Ma con una differenza fondamentale. Il rapporto di conoscenza del candidato non è più di tipo personale, diretto, come avveniva allora, ma è quello che si crea attraverso l’immagine del candidato costruita dai media, dalla Rete, dal battage pubblicitario. Chi sceglie non è più un insieme di elettori, è un “pubblico”, televisivo, di internet, di social e via discorrendo. Nasce da analisi come quella di Manin la definizione di “mercato del voto”.  E come il mercato, quello vero dei prodotti, tutto diventa fluido, liquido. Saltato il rapporto partito-elettore……la democrazia del pubblico tende ad assumere la mobilità come paradigma in un mercato del voto nel quale domanda ed offerta si confrontano in modo dinamico……Sulla scia di Manin si muove l’analisi di Pierre Rosanvallon (storico francese) quella che di più di tutte ha posto l’accento sul peso della “crisi di sfiducia”. E dalla diffidenza verso la politica, generata dalla crisi dei grandi contenitori novecenteschi, che nasce a suo giudizio questa “crisi di sfiducia”….che non genera tanto una crisi della democrazia, una negazione della democrazia, ma una forma diversa di democrazia……una democrazia che assume, con la variabilità di un voto che è sempre di più un voto “contro” e non di un voto “per”, il volto di una “democrazia di sorveglianza”……strutturata più su poteri di sanzione che su quello di decisione……Lo stesso populismo si spiegherebbe in questi termini, come una esasperazione ossessiva della sorveglianza, che rischia di stigmatizzare ogni forma di potere che non sia quello, però difficilmente traducibile come rappresentanza autentica, del popolo. Il populismo, secondo Rosanvallon, per questa ragione…….è così carico di negatività, ricorda le “masse negative” di Canetti, ferocemente ripiegate su sé stesse……..
PARTE TERZA = POVERI, NOI
Capitolo primo – La terza chiave, la guerra non vista
Queste due dinamiche che hanno contribuito all’affermarsi dei populismi, la crisi della democrazia e la crisi della forma partito, le due chiavi di lettura fin qui seguite, hanno però visto amplificarsi i loro effetti grazie alla presenza di una terza crisi…….una terza chiave e cioè la crisi tout court………….Appartiene a tutti la percezione che la crisi globale iniziata nel 2007/2008, e ad oggi ancora operante, abbia assunto dimensioni e peso straordinari. Ma una lettura attenta delle dimensioni quantitative e qualitative richiede il ricorso a termini come terremoto, come…..guerra…….perchè effetti e ricadute sono pari a quelle di un vero e proprio conflitto. A partire dagli USA per poi passare in Europa i numeri delle persone che ne sono state investite sono impressionanti. Si parla in tutto l’Occidente di milioni di persone che hanno perso, lavoro, casa, risparmi, e con essi dignità e rispetto: negli USA…..gli americani censiti come poverissimi, ossia titolari di un reddito della metà inferiore alla soglia di povertà federale, sono 21 milioni, quelli semplicemente poveri sono addirittura 105 milioni, insieme fanno più di un terzo della popolazione americana (dato 2017)………..In Italia le persone in condizioni di povertà assoluta erano quasi tre milioni già nel 2008, sono passate a più di cinque milioni nel 2017. Numeri impressionanti che trovano analoghe situazioni in quasi tutti i paesi. Ma forse l’aspetto che più caratterizza questa crisi è il fatto che, oltre che a creare vera povertà,…….in tutto l’Occidente globalizzato una percentuale oscillante fra il 65% ed il 70% dei cittadini abbia visto il proprio reddito appiattirsi o diminuire; una folla calcolata in 540-580 milioni di persone non necessariamente povere ma impoverite in termini relativi……..si tratta cioè di persone che hanno perlomeno mantenuto, o ritrovato, un lavoro, ma un lavoro che non garantisce più gli standard “abituali” di vita del periodo pre-crisi. Il lavoro, anche quando c’è, non è decorosamente retribuito, oltre ad essere quasi sempre precario, a termine…..sono poveri che lavorano…... Per molti, moltissimi, di questi individui si parla di “povertà relativa”…….in Italia sono più di dieci milioni quelli che vivono in queste condizioni di deprivazione materiale, Una situazione grave in un paese di sessanta milioni di abitanti……. Non stupisce constatare che la classifica dei paesi più colpiti da questi fenomeni, in cui l’Italia è nei primissimi posti, coincide perfettamente con la mappa di quelli in cui forte è stata la crescita di fenomeni etichettabili come populisti. Esiste poi un aspetto specifico che richiede la giusta attenzione: questa guerra, questo disagio…… ha colpito soprattutto la ex classe media…….
Capitolo secondo – La crisi della classe media e la diseguaglianza globale
La formazione di un diffusa classe media è stato indubbiamente uno dei tratti caratterizzanti la modernità novecentesca. Ed è stata la più consistente redistribuzione di ricchezza verso il basso, che si accompagnava al parallelo diffuso salire verso l’alto, verso professioni e retribuzioni migliori, il cosiddetto ascensore sociale. Ambedue questi fenomeni non solo si sono bloccati in tutto l’Occidente, ma si sono violentemente invertiti. A partire dagli studi di Thomas Piketty (economista francese) la biblioteca di analisi economico - sociali che dimostra l’imponenza del movimento di ri-concentrazione della ricchezza è ormai vastissima. Ed è un fenomeno mondiale. Due soli dati, riferiti al 2017, a testimoniarlo:…….l’1% della popolazione mondiale, quello più ricco, controlla una ricchezza pari a quella del restante 99%.....i 2.043 miliardari del mondo si sono accaparrati l’86% della ricchezza annuale prodotta mentre ai 3 miliardi e 700 milioni che costituiscono il 50% più povero non è andato nemmeno un penny……Siamo cioè di fronte ad un sconvolgimento che sta ri-creando una condizione pre-moderna……con pochi signori, un’esigua classe intermedia, ed un esercito sterminato di poveri………Una condizione che molti trovano corretto definire:…..neo-feudalesimo…...Tornando allo specifico dell’Occidente un altro elemento sembra caratterizzare la tendenza inarrestabile alla diseguaglianza: la redistribuzione verso il basso del secondo dopoguerra aveva premiato, magari con tempistiche lievemente diverse, in modo omogeneo i territori, al contrario la ri-concentrazione della ricchezza sta ricreando profonde spaccature territoriali. Le già citate, e decisive, mappe del disagio sociale humus del populismo coincidono con questa nuova mappa della ricchezza. L’insieme di questi processi economici e sociali ha avuto tempistiche troppo accelerate per non farli vivere con sentimenti di rancore…….la folla che ha lasciato dietro di sé questa crisi è una folla solitaria, un’enorme massa di individui che si sentono abbandonati….a livello di massa sono cresciuti il disprezzo e la diffidenza che hanno poi prodotto quel voto di vendetta su cui oggi ci si interroga smarriti…………
Capitolo terzo – I serbatoi dell’ira
Revelli nell’ultima parte di questo saggio ci propone una amara riflessione ed un accorato appello a tenere nella giusta considerazione un ulteriore rischio degenerativo. Nel vuoto rancoroso si muove, come si è visto, una politica senza politica, ossia una politica che non solo non si propone come strumento per affrontare alla radice i problemi sistemici che stanno determinando l’attuale stato di cose, ma accentua, incentiva, accresce il rancore, la sete di vendetta, la ricerca di capri espiatori. Così facendo crea vieppiù le condizioni di un degrado totale del senso collettivo. Revelli cita alcuni gravissimi episodi emblematici del clima diffuso che sembra essere stato sdoganato nel paese: i roghi di campi rom compiuti da folle inferocite sono una testimonianza viva dell’odio che sta diventando il catalizzatore dell’ira diffusa dei nostri tempi. Sono infatti saltate le “banche dell’ira”, i grandi contenitori novecenteschi, con tutti i loro limiti ed errori anche in questo saggio ben evidenziati, erano in qualche modo….dei depositi che permettevano di stoccare il risentimento delle masse  promettendo in cambio una soddisfazione differita, il cristianesimo piuttosto che il socialismo……Quella politica non esiste più. E la politica senza politica non solo non funge più da banca dell’ira, ma soffia su di essa per accrescere il fuoco che produce. Quello che è da sempre il sentimento di una passione insana, l’invidia……in questo caso l’invidia sociale, la prima radice del rancore, la forma più estrema di risentimento……non volge più il suo sguardo verso l’alto ma il destinatario dell’odio che produce è un “inferiore”. Il rischio è che questo sentimento diventi la condizione ideale nella quale…..l’ondata di populismo si virulentizzi, passi dall’essere un sentimento di ribellione e di rancore a forme manifeste di fascismo facendone propria l’ideologia e la prassi…………