Il
“saggio” del mese
Il
libro scelto come “Saggio del mese” per Marzo 2019 ci invita a riflettere, a
discutere, di Politica (la maiuscola non è un refuso). E lo fa con un titolo
che, con una sorta di ossimoro, suona di evidente provocazione. Il libro è
infatti “La politica senza politica” ed il suo autore è Marco Revelli.
E’ una riflessione “partigiana”: Marco Revelli (storico, titolare della cattedra di Scienza della Politica presso l’Università degli Studi del
Piemonte Orientale, sociologo, politologo, giornaliste, autore di numerosi
saggi che studiano l’evoluzione delle forme politiche, sociali ed economiche
del Novecento, coautore con Guarracino Scipione e Ortoleva Peppino di uno dei
più diffusi manuali scolastici di Storia Moderna e Contemporanea) ha da
sempre affiancato alla sua attività di studioso ed accademico una intensa
partecipazione al dibattito politico su
posizioni apertamente di sinistra. Ciò nulla toglie allo spessore oggettivo
delle sue analisi che da tempo riflettono, in particolare, sul preoccupante
stato di salute della politica non solo italiana. Lo si coglie fin dalle prime
pagine della prefazione (le parti in corsivo blu sono estrapolate dal testo del saggio) ……..Non si tratta, voglio essere ben chiaro, di una crisi di
governabilità, come troppo spesso si ritiene. Non è la crisi della democrazia
come metodo per prendere decisioni, è la messa in stallo della democrazia come
metodo per arrivare a decisioni condivise. E’ una classica crisi di
rappresentanza che comporta inevitabilmente una crisi di legittimità……la
politica senza politica è la politica del nostro tempo, impotente eppure
pervasiva, volgare eppure astrusa, distante dalla vita degli uomini eppure
presente nel loro spazio quotidiano…..Per sviluppare analisi e
riflessione Revelli compie, in questo suo ultimo saggio una operazione
culturalmente interessante. Riprende le considerazioni sviluppate in suoi
precedenti lavori in questa successione: Populismo 2.0, Einaudi, 2017, nel quale analizzava
le molteplici forme evolutive del populismo mondiale, Finale di partito, Einaudi, 2013, incentrato sulla crisi senza soluzioni dei grandi
partiti di massa del Novecento, e Poveri,
noi,
Einaudi, 2010, una indagine accurata e
sconvolgente sulla “nuova” povertà, in particolare italiana. Le riprende
innanzitutto per metterle in rapporto con gli ulteriori progressivi mutamenti avvenuti
negli ultimissimi anni, ma soprattutto per basare su questi tre elementi,
aggiornati, la sua idea di una politica, quella attuale, ormai “senza
politica”. Lo abbiamo scelto come saggio del mese perché, come si è detto, è un
stimolante invito a discutere “in modo alto” di politica, e di temi, come
quello del rapporto tra “elitès e popolo”, al centro dell’attenzione di questi
tempi, perché per sviluppare tema ed analisi mette in ordine pensieri e
pensatori che hanno segnato la storia del pensiero politico ed infine perché
può offrire qualche elemento di riflessione in più per decidere al meglio nelle
prossime, quanto mai decisive, elezioni europee. La sintesi che qui presentiamo
del saggio del mese non brilla certo per brevità, ma non è stato proprio
possibile sacrificare più di tanto la ricchezza di osservazioni e spunti di
riflessione che esso ci offre.
PARTE PRIMA = I NUOVI POPULISMI
Capitolo primo – Che cos’è il nuovo populismo
Già nei primi anni Settanta
due importanti studiosi, Ghita Ionescu (politologo inglese di origini rumene 1913-1996) ed
Ernest Gellner (filosofo, antropologo e sociologo inglese 1925-1995), parafrasando
una celebre frase di Marx affermavano che “uno spettro si aggira per il mondo:
il populismo”. Nei decenni successivi questo “spettro” ha assunto molti
connotati ed è stato utilizzato per definire situazioni, tendenze, movimenti spesso
in buona misura diversificati…….qualcosa non torna nell’uso del termine
impiegato nella battaglia politica quotidiana come arma contundente più che
come significante descrittivo……”Populismo” è in effetti un
termine difficile da maneggiare non diversamente da “democrazia”. Hanno ambedue
la stessa radice “populus” e “demos” e formano di fatto una coppia dialettica….quando la democrazia è in salute il
populismo arretra, ma quando il populus soffre anche la democrazia entra in
sofferenza…..Jan-Verner Muller (politologo tedesco), uno dei più acuti osservatori
del fenomeno, afferma che il populismo è l’ombra permanente della democrazia
rappresentativa. Un’ombra che si è manifestata ogni qual volta la democrazia è entrata,
per le più varie ragioni storiche, in crisi. Un’ombra che assume forme
accattivanti perché, ed è questa la sua prima caratteristica costitutiva,
sembra essere in grado di offrire soluzioni semplificanti a problemi al
contrario inevitabilmente complicati. Già Ralf Dahrendorf (filosofo, politologo
inglese di origini tedesche, 1929-2009) sosteneva che “il populismo è semplice, la democrazia
complessa”. Attorno a questa constatazione esiste un consenso diffuso, ma per
Revelli occorre andare oltre e completarla guardando alle sue inevitabili
conseguenze, una di innegabile evidenza universale è l’abbassamento del livello
culturale e civile della partecipazione…il populismo non genera altro che volgari caricature di
cittadini, che però recitano la parte della voce della verità…….Anche
partendo da questa consapevolezza, e stante l’uso spesso confuso del termine, è
quindi necessario tentare di definirne meglio i caratteri costitutivi,
perlomeno quelli che sembrano poter comporre una base in qualche modo comune
alle sue molteplici forme, perché non di “populismo” si deve parlare, ma di
“populismi”. Per farlo occorre mettere ordine in un campo di analisi che ne ha
evidenziato, spesso in modo integrativo e complementare, ma non raramente alternativo,
aspetti e caratteristiche. Secondo alcuni il populismo ha evidenti caratteri
ideologici, là dove emerge come contrapposizione senza via di uscita fra popolo
ed elitès, altri ne evidenziano invece l’aspetto di impulso che si concretizza
in un “linguaggio”, uno stile politico più che in un insieme di contenuti. Il
già citato Muller sottolinea la propensione populista a dividere il campo
politico fra “alto” e “basso”, fra chi “ha potere” e chi “ne è escluso”, in
questo senso non è solo contro le elites, ma è fortemente “antipluralista”
vedendo nel “popolo”, l’entità divinatoria alla sua base, un soggetto politico,
omogeneo, indifferenziato……per
questo rifiuta la classica distinzione fra destra e sinistra, distinzione
orizzontale, travolta dalla contrapposizione fra alto e basso, o tra dentro e
fuori……che necessità della continua costruzione del rifiuto
dell’altro (il fuori) di volta in volta individuato in chi non rientra (il
dentro) nell’idea di popolo omogeneo. Un altro fattore, rilevabile in tutti i
populismi, è la finalità di ricreare una “sovranità popolare”…..grazie all’azione di un leader carismatico
o comunque legato emotivamente alla propria gente……Questo
ultimo aspetto può spiegarne l’apparente carattere “rivoluzionario”, specie nel
linguaggio, che però non giunge mai a mettere in discussione il sistema in
generale, limitandosi al cambio del personale di governo. Dall’insieme di
queste, ed altre collegate, caratteristiche diventa possibile delineare, a
grandi linee, due forme di populismo: uno di “contesto”, ossia un sentire
diffuso e in parte indefinito, che nasce da sentimenti serpeggianti di paura,
rancore, diffidenza, e che attraversa più strati sociali e più nazioni, ed uno
di “progetto”, ossia uno più definito politicamente, che si incarna in un
soggetto politico chiaramente individuabile che punta apertamente alla
conquista del governo, e quindi è più specificamente legato al singolo paese in
cui si muove. Collegata in modo variamente intrecciato a questa prima
distinzione sembra possibile delinearne una seconda fra un populismo “di
sinistra” ed uno “di destra”. Il primo, seppure quasi ovunque non più
riferibile alla tradizione classica di “lotta di classe”, ha al suo centro la
lotta contro le elitès, contro l’establishement, riproducendo quindi lo schema
di “basso” contro “alto”; il secondo in aggiunta alla lotta contro le elitès
individua altri nemici, gli “altri”, i “diversi” che, protetti dalle stesse
elitès, ed in questo starebbe la loro maggiore colpa, in qualche modo inquinano
l’omogeneità del popolo. In questa versione di destra il populismo aggiunge,
concretizzando la propensione anti-pluralista, il recupero, spesso idealizzato,
della “tradizione”, della cultura nazionalistica, di una visione identitaria di
popolo. Sullo sfondo opera comunque un fattore determinante per ogni sua
versione: il suo manifestarsi in tempi……..in cui le persone vedono le norme politiche (fin
lì) prevalenti, preservate e
difese dalle elitès, in contrasto con le loro paure, speranze e preoccupazioni….Non
esattamente coincidente con questa visione è l’dea di Lacan (Jacques Lacan,
psichiatra, psicanalista e filosofo francese 1901-1981)
secondo la quale il populismo sarebbe…..la forma che la politica assume nell’epoca in cui essa si
manifesta come assenza…..come distanza ed impotenza, ed in
quanto tale non deve essere inteso come “antipolitica” ma come una sorta di
“recupero” del politico, persino accentuata fino ad assurgere
all’iper-politico, legata però ad una “costruzione”,
quella del “popolo”, su cui si basa, totalmente culturale e non reale. Tanto da
tendere a ripresentarsi in un continuo indeterminismo perché la costruzione del
popolo è in effetti una costruzione “linguistica”. Una visione quella lacaniana
che trova sponda nel lavoro di Benjamin Arditi (filosofo e politologo messicano) che
concorda nella propensione del populismo a recuperare un ruolo alla dimensione
del “politico”, in questo senso esso non è nè anti-politico, né a-politico, ma
semmai, per l’appunto, iper-politico. Invece Slavoj Zizek (filosofo, sociologo,
politologo sloveno), recuperando in parte, ma in modo poi critico, il discorso
lacaniano offre una interpretazione originale del populismo…….il populismo (a volte) è buono in pratica,
ma non abbastanza buono in teoria……Zizek gli riconosce infatti
il merito, nella pratica, di scompaginare il pensiero dominante neo-liberista,
ma gli rimprovera il limite di non intaccare mai le ragioni del male, non possedendo
una teoria adeguata alla individuazione delle sue vere radici. Questa carenza
porta inevitabilmente il populismo a non vedere nel sistema il vero nemico
spostando il fuoco….sull’intruso
che non lo fa funzionare in modo adeguato…….E quindi,
contrariamente all’interpretazione lacaniana, il populismo lungi dall’essere un
recupero del “politico” è in effetti una forma di de-politicizzazione, di
scadimento della politica.
Fin qui le analisi, le interpretazioni, il dibattito culturale,
tutt’altro che esaustivo, attorno ad un
fenomeno che sembra caratterizzare il cuore dell’attuale confronto politico in
tutto il mondo occidentale. Ma quali sono stati, quali sono, i “fatti”,
oggettivamente leggibili, che hanno creato, componendolo e dandogli dimensione
reale, lo “spettro” del populismo? Quali sono state, quali sono, le faglie che
si sono aperte nei consolidati assetti politici novecenteschi e che hanno
provocato il terremoto populista? Nei successivi due Capitoli Revelli li
riassume e li interpreta in questa ottica.
Capitolo secondo – Il puzzle populista. Chi sono i “nuovi
barbari”?
Per meglio comprendere la
fotografia reale dei sommovimenti del quadro politico occidentale,
indistintamente definiti nei commenti come “esplosione del populismo”, occorre
anticipare due considerazioni analitiche:
·
la coincidenza temporale, assolutamente non casuale, fra questa
esplosione (al tempo prevista solo da pochi commentatori e analisti politici) e
la piena ricaduta dei radicali cambiamenti, economici e sociali, riconducibili
alla globalizzazione, specie nella sua accentuata versione neo-liberista. Il
passaggio dalla old alla new economy, con il suo carico di generalizzati cali
occupazionali e di spaventosa crescita delle disuguaglianze, si lega
oggettivamente, in termini spaziali e temporali, al populismo, al suo
manifestarsi, al suo dilagare
·
un legame percepibile però su un preciso terreno politico: diversamente da quelle “classiche” -
scioperi, occupazioni, scontri di piazza e via dicendo - la rivolta contro gli
effetti della globalizzazione, nella versione populista, si è manifestata…..con l’unico strumento rimastole nella post-democrazia attuale:
il voto, il voto “impresentabile”, politicamente scorretto, da esodo rabbioso…..
E’ nella lettura in profondità
dei terremoti elettorali avvenuti soprattutto nella seconda decade del nuovo
millennio che si fonda quindi la possibilità di intravedere chi, cosa, come, ha
messo in moto il fenomeno “populismo”. Revelli lo fa partendo, nel Capitolo
secondo, dalla situazione statunitense e da quella inglese, confermando in
pieno le analisi ed i giudizi a suo tempo già espressi nel suo “Populismo 2.0”.
Il voto americano del 2016 che ha inaspettatamente (?) premiato Donald Trump
non lascia margine a dubbi: nell’assenza dalle urne del voto “nero” hanno
votato, con percentuali spiazzanti, per “make America great again” gli
agricoltori delle grandi praterie, i ceti medi marginalizzati, i minatori e gli
operai (bianchi), i montanari delle alte colline, assieme alla già consolidata
maggioranza silenziosa, bigotta e moralista, fino a coprire di rosso (il colore
che, ironia della sorte, nelle mappe elettorali individua il voto repubblicano
) la stragrande maggioranza degli Stati americani. Stesso spettacolo nel voto
inglese sulla Brexit dello stesso anno. Si sono schierati con percentuali molto
alte per il “leave” le aree e le città industriali, e quindi il voto operaio,
andando contro l’indicazione (tiepida) per il “remain” del partito laburista, assieme
a quello delle aree rurali, e di quelle emarginate delle periferie. Non serve
certo riprodurre qui i dati di dettaglio di due risultati ormai così definiti
in modo condiviso e trasversale:
·
un voto “di protesta” con una base……territoriale,
prima ancora che politica e culturale….
·
una base territoriale che si sovrappone perfettamente alla mappa
del disagio sociale degli sconfitti dalla globalizzazione, delle tante figure
sociali e produttive che si sono sentite travolgere dal cambiamento
globalizzato….appare chiaro il ruolo
giocato da quella vera e propria cesura secolare che è stata la sconfitta del
lavoro, del lavoro dipendente, del lavoro operaio….senza trovare nei
vecchi riferimenti politici ascolto e sponde concrete.
La lezione venuta da questi
due voti, quasi in fotocopia fatte salve le ovvie specificità nazionali, è che
ciò che è stato comunemente definito populismo, e come tale da ricondurre entro
le caratteristiche costitutive individuate nel Capitolo primo, si manifesta
nella realtà politica con l’affermarsi di un…….voto prevalentemente di vendetta, di vendetta sociale si
potrebbe dire…..Che si lega però non all’alveo tradizionale dei partiti di “sinistra” e progressisti, che in ambedue
le situazioni (con la sola eccezione di Bernie Sanders negli USA, sconfitto
però nelle primarie, e di Jeremy Corbyn, al tempo però in minoranza all’interno
del Labour) non si sono posti l’obiettivo di fronteggiare politicamente la
globalizzazione, puntando semmai a cavalcarla fino ad essere identificati con
essa. E lasciando così ampi margini a quel voto “di vendetta” ed al suo
concretizzarsi nella tendenza, in mancanza di altre sponde, a…..riconoscersi come popolo, nell’unico
spazio in cui si pensa di essere tale, quello dei vecchi, logori, confini
nazionali, dato che in un altro spazio popolo non c’è……
Capitolo terzo – L’Europa
populista
Revelli sposta quindi
l’attenzione sul vecchio continente, cercando, anche qui, di far emergere nelle
situazioni nazionali reali le caratteristiche costitutive del populismo a
conferma di quanto evidenziato nel Capitolo primo. Buona parte dell’Europa ha
emesso un sospiro di sollievo quando nel 2017, dopo Trump e Brexit, Macron ha
sconfitto al ballottaggio con ampio margine Marine Le Pen. Tutto bene allora?
Certo che no. La vittoria di Macron al secondo turno è in gran parte spiegabile
con la particolare tendenza elettorale francese di premiare, al ballottaggio,
il candidato meno “estremista”. Ma il voto vero, quello “libero” del primo
turno ha dimostrato l’intatta forza del Front National che, superata l’iniziale
impronta di destra estrema di Le Pen padre, si è con la figlia Marine
caratterizzato come partito dichiaratamente populista. Nel 2017 il Front ha
vinto nel 54% dei comuni francesi con Macron fermo a poco più del 20%. Il
ridotto scarto numerico si spiega con la vittoria di Macron nei grandi comuni
(periferie e banlieu escluse però), Parigi in primis, ma anche Lione, Bordeaux,
Nantes. La mappa del voto lepenista, il dato che più interessa l’analisi di
Revelli, dimostra che anche in Francia essa si manifesta lungo le faglie delle
aree sociali investite dalla globalizzazione, e quindi in quelle a maggior
tasso di disoccupazione, di de-industrializzazione, meno acculturate, con
minori aspettative di vita. E’ significativo ad esempio che ancora al secondo
turno Marine Le Pen abbia raccolto il 56% del voto operaio. Si aggiunge però un
aspetto specifico francese: quello che vede, più ancora di quanto successo
negli USA e in Gran Bretagna, la convinta adesione al populismo lepenista delle
aree rurali, della Francia delle campagne, che si sentono altra cosa rispetto
alle grandi concentrazioni urbane. L’impressione che Revelli ricava dal dato
francese è quella che il voto del 2017 non ha assolutamente chiuso la partita, l’unico
dato certo è la fuga, clamorosa e forse irreversibile, dai grandi contenitori
politici di sinistra e di destra (partito socialista e destra repubblicana)…….l’elettorato resosi fluido e fuoriuscito
dai precedenti contenitori non sembra voler tornare alle case di origine e la
politica francese rimarrà a lungo liquida……(non compare nel saggio di Revelli,
scritto ben prima del loro affacciarsi sulla scena politica, alcun accenno al
movimento dei gilets jeaunes. Ed è ancora troppo presto per una loro classificazione
politica, accanto ad alcuni tratti populisti sono infatti presenti elementi
“classici” di scontro sociale, anche violento, ma di incerto colore politico.
Non sembrano essere inoltre un movimento omogeneo, molte anime persino
contrapposte lo compongono Il voto delle prossimo europee e la loro eventuale
partecipazione in prima persona piuttosto che in appoggio ad altri ci dirà
qualcosa di più al riguardo)…….se Parigi piange Berlino non ride……..E
piangono soprattutto i due grandi partiti, quello socialista dell’SPD e quello
di centro della CDU/CSU, i pilastri degli ultimi governi della “grande
coalizione”, che sono scesi dall’80% dei voti totali nel 1998 al residuo 50%
nel 2017. In un contesto molto ampio di travasi elettorali è stata così premiata
l’Alleanza per lla Germania AfD diventata la terza forza del paese. E l’AfD
è…..radicalmente
anti-establishement, dichiaratamente anti-europea, tendenzialmente anti-sistema…….Caratteristiche
che la fanno rientrare nell’alveo generico del populismo di nuova maniera, con
un aspetto aggiuntivo sicuramente preoccupante: la sua sempre meno celata
simpatia per idee e valori dell’estrema destra fino a conglobare movimenti
apertamente neo-nazisti. Il suo successo del 2017 era peraltro già stato
anticipato da significative affermazioni nelle precedenti elezioni del 2016 in
numerosi Lander. Ed è anche in questo caso la mappa territoriale della sua
consistenza che Revelli ritiene fondamentale per capire le ragioni del
successo. Se nella Germania ex Ovest il disagio ed il rifiuto verso le
coraggiose politiche migratorie della Merkel ne sono la principale spiegazione,
in quella ex Est, in cui la crisi economica continua a picchiare duro, stanti i
ritardi strutturali ancora non del tutto recuperati dall’unificazione, questi
toni xenofobi si saldano con la……apparente
solidarietà verso il basso, i lasciati indietro, i sacrificati del
cosmopolitismo……Ed anche ad Ovest la spinta xenofoba si basa in molti Lander
con un consenso più marcato negli strati “bassi”….anche in Germania l’onda populista è alimentata dalla paura, che
in molti casi diventa ansia, di essere superati dal tempo, dalla frustrazione e
dalla rabbia di chi si sente trascurato……stati d’animo che si
trascinano fin dall’abbandono del marco, e che si sono accentuati con la crisi del 2008 e
con le attuali tendenze economiche negative, creando potenzialmente margini,
pericolosi, di ulteriore espansione. …….La terza Europa, Visegrad e non solo ……..Se già lo
sguardo verso la Germania ex Est coglie segnali inquietanti ancora più
preoccupanti sono quelli che vengono dalle quattro nazioni, emerse dalla fine
del blocco sovietico, che nel 1991 avevano costituito, in quel di Visegrad, una
sorta di coordinamento per il loro ingresso nella UE: Ungheria, Polonia,
Slovacchia, Repubblica Ceca. Ad esse si è recentemente aggiunta l’Austria a
formare un fronte, compatto e aggressivo, di populismi senza se e senza ma. …….sono tutti
populismi dal profilo decisamente radicale, strutturati attorno ad un mix di
nazionalismo sovranista, di xenofobia,
di impronta identitaria, di dichiarata vocazione autoritaria definibile
“democrazia illiberale”…….Per tutte il richiamo del populismo
nazionalista è suonato subito dopo l’adesione alla UE sostanzialmente visto
come una potenzialità di mercato, e non motivata dal alcuna ragione ideale ed
anzi fin da subito permeata da forti diffidenze verso la cultura occidentale e
le sue elitès. Diffidenze poi apertamente esplose in una netta contrapposizione
anche per l’incapacità dei primi governi post-sovietici, ancora tutti di
impronta socialdemocratica, di governare progressivamente il cambiamento,
spesso sfociato in gravi collassi economici. Le carriere politiche dei leader
più rappresentativi, l’ungherese Viktor Orban, il ceco Andrej Babis, raccontano
meglio di tante analisi questa evoluzione: ambedue con trascorsi giovanili nei
rispettivi partiti comunisti, poi alfieri del liberalismo occidentale, per poi
trasformarsi in illiberali campioni populisti. Leggermente diverso il percorso
polacco e slovacco, ma per tutti i quattro paesi originari del blocco di
Visegrad il fondamento del loro populismo sta….nella retorica anti-establishement (specie tedesco, e qui la storia gioca la sua
parte) e
nell’idea di popolo ordinario, autentico, legittimo….Ed anche qui si
ritrovano alcuni dei caratteri fondanti del populismo già visibili in tutti i
paesi fin qui presi in esame: sostegno dei ceti operai, di lavoratori
sindacalizzati, minatori, negozianti, contadini, delle zone rurali e delle
periferie, tutti cementati dal rifiuto del migrante, specie se mussulmano. Si
conferma quindi che per…..la lettura del fenomeno populista del nuovo millennio le
mappe sono più eloquenti delle tabelle…….Per il blocco di Visegrad
si aggiunge poi un aspetto specifico di particolare importanza: l’incidenza del
retaggio di una idealizzata identità storica, etnica, culturale, religiosa. Già
evidente nella stessa scelta di Visegrad, antica città-castello ungherese dove
nel 1335 si riunirono i sovrani di Boemia, di Polonia e di Ungheria per formare
un fronte unico contro gli invasori………Italia: la chiusura del cerchio……Alla situazione italiana il saggio di
Revelli dedica, per ovvie ragioni, particolare attenzione. Non riportiamo qui i
commenti analitici del terremoto elettorale del 4 Marzo 2018, sono ormai dato
consolidato (e su questi rammentiamo un nostro
precedente post del Novembre 2018 specificamente dedicato all’analisi del voto
del 4 Marzo) e, nell’ambito del
filo rosso che guida il suo saggio ci limitiamo a riportare le osservazioni più
di fondo che egli sviluppa al riguardo…..,,Non si discosta dal quadro generale la
vicenda italiana: anche qui, come nel resto delle situazioni esaminate, il
successo del populismo è leggibile sia individuando le figure sociali che
l’hanno prodotto sia le mappe territoriali nelle quali si è articolato. Alcune
specificità impongono osservazioni aggiuntive. La prima è l’affermarsi di due
forme di populismo solo in minima parte omogenee - ambedue anti-elitès,
euroscettiche, e all’apparenza fortemente riformatrici - ma di fatto
concorrenziali su diversi aspetti: da una parte quella del M5S, più attenta al
disagio sociale in particolare del Sud, ed ai temi del lavoro, dall’altra
quella più “plebea” della Lega non più Nord, più nazionalista-sovranista,
decisamente xenofoba. Le convergenti convenienze hanno prodotto, sulla base del
famoso “Contratto”, un comune governo, ma le diversità innegabili stanno via
via emergendo, accentuate dal clamoroso balzo in avanti nei sondaggi della
Lega. L’anomalia italiana di due populismi, ambedue di grande successo e solo
in parte assimilabili, rappresenta un unicum particolare. Un secondo dato
italiano, strettamente connesso al primo, si impone all’attenzione. Il
terremoto politico del decennio che va dalle elezioni del 2008 a quello del
2018 ha visto…..una
vera e propria apocalisse del voto moderato che ha visto uscire dal proprio
campo 18 milioni di voti (fra cui 7 milioni del PD e ben 9 del PdL)……….Se
per quest’ultimo buona parte della spiegazione sta nel fisiologico declino del
suo leader storico, per il PD il discorso è più complesso. Se lo sfondamento
elettorale sia dei M5S che della Lega poggia sul voto riscosso nei “produttori”
- dai piccoli imprenditori agli operai, dagli impiegati ai
commercianti/artigiani, dai dipendenti pubblici ai disoccupati – , ossia le
figure che storicamente costituivano, assieme ai pensionati, unici rimasti, la
base sociale del voto “a sinistra”, e se la mappa del voto vede il PD tenere
nelle aree più benestanti, più acculturate, più garantite, nei centri e non
nelle periferie, diventa legittimo chiedersi, al di là delle opinioni politiche
di merito, se il Pd non abbia di fatto
…..subito una
mutazione genetica con la sua trasformazione da “partito degli ultimi” a
“partito dei primi”……..Il voto contrapposto fra centro e periferie,
come si è visto non solo italiano, merita una riflessione aggiuntiva. Non si
tratta infatti solo di diversi orientamenti elettorali, quello che è saltato è
il paradigma che per tutto il Novecento, ed ancora nella prima decade del nuovo
secolo, prima quindi che il fenomeno populista lo evidenziasse, ha visto una
stretta coincidenza fra…….i centri di potenza
(i luoghi di concentrazione della produzione e dell’economia, e quindi
le città, le grandi aree urbane, a al loro interno il “centro”) e i poli di
coscienza (la dove nascevano e si
costruivano idee, elaborazioni, stili di comportamento sociale) oggi centri di
potenza e poli di coscienza sembrano essersi diversificati sempre più……
E’ in fondo la rappresentazione geografico-urbanistica del contrasto tra elitès
e popolo. La situazione italiana, più ancora che di altri paesi, è esemplare in
questo senso. E lo è anche per la conseguenza ultima di questi processi
sconvolgenti: i populismi, tutti, trovano linfa nelle contraddizioni, nemmeno
affrontate, dell’ordine neo-liberista globalizzato, ma sfondano perché trovano
un “vuoto”, uno spazio politico non più occupato, abbandonato da chi è stato
fin qui “al centro”, perché essi……scaturiscono dal vuoto. Non sono espressione di un
qualche “pieno”. Sono al contrario soltanto ciò che ha riempito il grande buco
che si era creato…..
PARTE SECONDA = FINALE DI PARTITO
Capitolo primo – All’origine della psicosi sociale contemporanea
……La domanda a questo punto è: vuoto perché? O anche: vuoto
di cosa?............Il termine vuoto riporta a Lacan, alla sua
interpretazione del populismo ed alla collegata…..costruzione linguistica del popolo……Una
operazione che, inconclusa e inconcludibile, sfocia, se la si valuta nei
termini lacaniani, in un certo grado di psicosi, ossia in una rottura fra il
soggetto ed il mondo esterno, alla non integrata collocazione dell’Io nel rapporto con gli
altri. A livello individuale, sempre secondo Lacan, l’insorgenza di una psicosi
trova origine nella mancata chiusura del processo di costruzione del soggetto,
del suo ordine simbolico (“la seconda natura di ogni essere parlante”, come lo
definisce Zizek) dovuta alla intervenuta mancanza del “Nome del Padre”, ossia
del simbolico autoritario che “ci dà il nome”. Questa mancanza precipita il
soggetto in un mondo di metafore simboliche che tentano, inutilmente, di coprirla.
Uno schema non diverso può essere applicato…..ai fenomeni collettivi, al mentale delle
comunità e ai loro processi di identificazione……In queste dinamiche
collettive “il Nome del Padre” è stato via via assunto dal concetto di Dio e
quindi dalla Chiesa, dal potere regale, e quindi dalla Patria, e poi nell’era
della secolarizzazione politica, perlomeno in occidente, anche …..da quel novello
principe che era il partito politico, la forma partito…….un “Nome
del padre” capace di chiudere il cerchio della collocazione del Noi nello
spazio sociale e politico. Questa assunzione al ruolo è avvenuta a cavallo di
Ottocento e Novecento e la sua analisi più completa ed esauriente è quella
fatta da Moisei Ostrogorsky (sociologo
e storico russo considerato con Max Weber e Robert Michels fondatore della sociologia
politica.1854-1921).
Ostrogorsky evidenzia lo stretto legame fra l’avanzare della democratizzazione
del potere e il formarsi di strutture partitiche, fra l’individualizzazione
sociale cresciuta sulle ceneri dell’ancien régime e il bisogno delle masse di
qualcosa che ricoprisse il ruolo lasciato libero dal sovrano decaduto. Il
partito, la forma partito fornisce la risposta alla domanda dei i singoli
individui e delle masse di trovare un equilibrio tra……i sentimenti che si dividono solitamente
l’animo umano: il dovere e l’amor proprio……Per molti decenni, per
tutto il Novecento e qualcosa oltre, esso è stato al centro non solo dei
sistemi politici, ma, proprio per la sua vocazione a dare Nome al Padre, al
centro dell’intera dimensione della “politica”. Gramsci lo definì “intellettuale collettivo” vedendo in
esso il baricentro della costruzione dell’egemonia. Eppure, nonostante queste
premesse originarie, un secolo o poco più dopo, a cavallo dei due millenni, si
manifesta in modo dirompente in tutto il mondo occidentale una “crisi di
sfiducia” vero i partiti, verso il “partito” che poggia su numeri
impressionanti. E proprio in Italia meglio si misura la fine di quel suo ruolo
lacaniano: alla fine della Prima Repubblica…..nessuno dei vecchi partiti del Novecento sarebbe
sopravvissuto con il proprio nome di origine, col proprio “Nome del Padre”…………..
Capitolo secondo – Interpretazioni della crisi del partito
Tutti gli studiosi di scienze sociali – assenti
non a caso i politici di professione - si sono misurati su questo
sconvolgimento. Le tesi e le spiegazioni si sprecano. Ma tutte concordano su un
aspetto…….su
ciò che va sotto il nome di teoria elitistica della politica, l’idea cioè che
ogni processo democratico sia destinato a subire una torsione in senso
oligarchico, a produrre strutture gerarchiche nelle quali una minoranza domina la maggioranza e decide per essa…..E’
stato Robert Michels (sociologo
e politologo tedesco poi naturalizzato italiano 1876-1936) fin dal 1910 a dare
canone a questa teoria definendola “legge ferrea dell’oligarchia”. Eppure,
attraverso percorsi storici molto complessi e contradditori, la forma partito è
riuscita a resistere alla comprensibile disillusione pressochè per tutto il
Novecento. Cosa può spiegare l’esplosione della “crisi di sfiducia”? Revelli
parte dalla prima e più semplice risposta: le oligarchie sono diventate insopportabili perché i
leader sono peggiorati…..Constatazione ahi noi innegabile, sono
d’altronde superati da tempo i meccanismi di selezione che portavano al vertice
dei partiti i migliori, quelli che si erano guadagnati fiducia e consenso anche
pagando di persona le proprie scelte politiche. Ma è una spiegazione che spiega
poco, ossia non spiega le ragioni di questa innegabile involuzione. Qualche
elemento più significativo viene da un fondamentale saggio di Richard Sennet (sociologo statunitense) “Il declino dell’uomo
pubblico”. Sennet mette in collegamento la trasformazione antropologica che ha
visto emergere in modo diffuso……un Io ipertrofico e insieme vuoto…..che
proietta nella sfera pubblica sentimenti e pulsioni private abbassando di
conseguenza il livello stesso del dibattito collettivo, non solo politico, ad
una sorta di linguaggio e narrazione da soap opera. Ovviamente in un contesto
simile prevalgono i leader che meglio sono visti come vicini al livello, basso,
del pubblico. Più legate al processo di globalizzazione ed alle sue ricadute
economiche e sociali sono le letture di
Zygmunt Bauman (filosofo
e sociologo polacco, 1925-2017) e Ronald Inglehart (politologo statunitense, 1934). Bauman attribuisce
la sfiducia verso i partiti alla impossibilità/incapacità della politica di
esercitare azioni di governo reali verso i centri di potere globalizzati che si
muovono in un altrove inattingibile. Inglehart ritiene che la crisi della
rappresentanza nasca dall’impossibilità per i partiti, sorti per rappresentare
i bisogni materiali primari, le mutate esigenze nell’era dei bisogni sociali
post-materialisti. Le struttura tradizionali dei partiti, per quanto
deteriorate dalle tendenze oligarchiche, sono valse finche potevano parlare a
nome di masse unificate da bisogni sociali omogenei. Sono diventate obsolete
con il definitivo affermarsi di bisogni sociali più frammentati, più autonomi,
più selezionati e differenziati…..e per tutti questi motivi meno stoccabili nei grandi
contenitori di una volta…..C’è in ognuna di queste valutazioni un
pezzo, anche importante, di verità, ma per Revelli la chiave di lettura….del deficit di
fiducia nel moderno principe….sta in altro fattore
Capitolo terzo – Post-fordismo politico + Capitolo quarto = i
costi della politica
Un fattore che stupisce non
sia stato rilevato e valutato con la giusta attenzione perché era sotto gli
occhi di tutti: lo stretto parallelismo, temporale e strutturale, fra il
fordismo, il nuovo modo di produrre che si impone a partire dal primo
dopoguerra, ed il formarsi dei grandi contenitori politici del Novecento. Una
vera e propria sovrapposizione, temporale innanzitutto, quasi che l’uno
aspettasse l’altro, ma soprattutto strutturale. Per meglio coglierla è
necessario sintetizzare i caratteri fondanti del nuovo modello produttivo sorto
con la seconda rivoluzione industriale. La visione fordista poggia su una
concezione tutto sommato semplice…..per
combinare un insieme complesso di uomini e di tecniche in un piano di razionale efficienza occorre
isolarlo dal disordine del suo ambiente……La fabbrica fordista è
razionale, è efficiente, è onnicomprensiva, ogni passaggio è concatenato alla
perfezione, ma soprattutto è un sistema chiuso. E’ con il fordismo che le
fabbriche hanno cancelli, hanno guardiani, sono invisibili all’esterno e
l’esterno è invisibile a chi ci lavora. Il paradigma fordista si coniuga, anche
in questo caso con una coincidenza temporale tanto significativa quanto
naturale, con quello weberiano (Max Weber, sociologo tedesco, considerato il padre fondatore
della moderna sociologia,1864-1920) della centralità dell’’apparato
burocratico. Non solo la produzione viva ma l’intera macchina produttiva ed
amministrativa devono uniformarsi ai criteri di specializzazione, sincronismo,
razionalizzazione. A chi gli chiedeva ragione di ciò Weber rispose in modo
lapidario: l’economia moderna non può
essere guidata diversamente. E va detto che, al di là di ogni valutazione
di merito, la storia dell’economia per quasi tutto il Novecento ha dato ragione
a Ford (Henry
Ford, imprenditore statunitense, proprietario della storica omonima fabbrica di
auto, 1863-1847) ed a Weber. In ambito politico paradossalmente, ma solo a prima
vista, la prima piena adozione del paradigma fordista/weberiano avviene, poco
dopo la rivoluzione del 1917, nella Russia leninista. Il paese faro di ogni
movimento rivoluzionario e comunista decide – dovendo organizzare un’intera
società su basi nuove e facendo quindi propria l’affermazione di Weber: la burocrazia è la forma in assoluto più
efficiente di organizzazione - di cancellare il ruolo dei soviet e di …..costruire la più gigantesca totalizzante
burocrazia che la Storia abbia conosciuto……Si innesca a seguire una
corsa fra tutti i partiti occidentali a strutturarsi sulle stesse logiche
organizzative. Per restare a sinistra ed in Italia è Antonio Gramsci che dal
carcere fissa il modello organizzativo del PCI, un modello basato su tre
gruppi: i militanti di base, gli iscritti – i funzionari di partito – il vertice,
rapportati fra di loro in una catena “produttiva e burocratica” di assoluta
efficienza. A rimuovere ogni residuo dubbio sulla convergenza delle due
“fabbriche” bastano le parole pronunciate da Lev Trockij a commento della
nascente organizzazione del PCUS, allorchè si chiede se quello …..fosse un partito o una manifattura
socialdemocratica………..Nascono e si sviluppano, vincendo dal loro punto di vista,
la battaglia dell’efficienza organizzativa i grandi partiti novecenteschi,
tutti, di ogni colore politico ed in tutte le nazioni, con la sola eccezione
dell’anomalia americana. Vince, in analogia a quello fordista/weberiano, il
modello basato sul…..primato
dell’integrazione verticale, rigida, proprietaria, con un altissimo livello di
formalizzazione di tutti i ruoli e funzioni…….Questi modelli hanno
funzionato benissimo per quasi tutto il secolo, poi di colpo sono saltati,
ambedue. Salta il paradigma fordista/weberiano. La saturazione dei mercati
tradizionali, la necessità di aprirsi verso forme diverse di domanda, mettono
in crisi innanzitutto il gigantismo industriale, l’incorporazione di tutte le
fasi della lavorazione all’interno del sistema chiuso diventa improduttiva.
Alleggerire, esternalizzare, temporizzare i flussi alle necessità del momento
diventano i nuovi imperativi. E saltano in contemporanea, anche stavolta non a
caso, i grandi apparati burocratici, diventati troppo macchinosi, lenti,
autoreferenziali, per reggere alle nuove domande…….naturalmente tutto ciò non poteva non coinvolgere la forma
partito……anch’essa troppo pesante, complicata, incapace di leggere i
mutamenti che la crisi del fordismo sta provocando. Non più grandi ed omogenee
masse, più facili da intercettare con programmi politici su di loro calibrati,
ma una miriade crescente di figure sociali e produttive che chiedono specifiche
attenzioni non facilmente assemblabili…..non più un corpo elettorale ma piuttosto un mercato politico……identico
nei rischi di intercettamento esattamente come le nuove domande consumistiche.
In successione saltano tutti i grandi contenitori novecenteschi, quelli che
fanno il tonfo più clamoroso sono proprio i partiti comunisti……che di più avevano portato all’estremo le
logiche di centralizzazione e dell’articolazione rigida…..E
saltano anche per ragioni economiche: i costi della politica, prima attutiti
dalla militanza e dalle adesioni di massa, diventano esorbitanti. In un mercato
politico che richiede una presenza diversa, basata sui nuovi mezzi di
comunicazione e diffusione, inaridite le fonti classiche, i bilanci segnano un
rosso crescente. Sta in questa “fame di risorse economiche”, oltre che
nell’irrompere dell’individualismo carrieristico, buona parte delle
degenerazioni corruttive, dell’occupazione delle partecipate e delle
istituzioni pubbliche, della crescita esponenziale, spesso non correlata a
reali ragioni di spesa, dei sistemi di “finanziamento pubblico”. Si creano così
una bolla speculativa, un diffuso malaffare e la correlata percezione sempre
più ostile da parte della società e degli elettori. Sono le principali ragioni
del rifiuto e della condanna senza appello del sistema dei partiti che in breve
tempo esplodono con intensità più o meno virulente in tutto l’Occidente.
Capitolo quinto – La politica del vuoto, democrazia senza
partiti?
Le ricadute di questo tracollo
e del suo sfociare in un “rancore” anti-partitico sono molteplici e pesanti. E’
nel grande vuoto, nell’assenza del “Nome del Padre”, disintegrati i grandi
contenitori, nell’incapacità di quello che resta dei partiti di dare risposte
concrete ai mutamenti sociali ed economici, nel rancore che monta verso chi si
è mostrato più attento al proprio interesse che a quello della collettività, verso
chi “ha tradito”, che si forma il terreno, il vero e proprio humus, che
alimenta quella sorta di psicosi collettiva che progressivamente diventa la
fonte principale di alimentazione delle varie forme del populismo. Di psicosi
si deve parlare. Non ha altro nome il fiorire, ed il diffondersi senza limiti
nel mondo della Rete, di ossessioni, dietrologie, complottismo, rifiuto
aprioristico di ogni realismo scientifico e di ogni autorità che a suo nome
parli, di ogni dato oggettivo che vada contro quello che si afferma come il comune
sentire. Sdoganati dall’assenza del “Nome del Padre” e dall’anonimato della
Rete non ci sono più freni, non ci si vergogna più di pensare e di dire, ad
alta voce, quello che nasce dalla pancia, da questa psicosi collettiva……forse non si dicono più menzogne di prima,
non c’è un di più di menzogna. C’è un di meno di verità. Anzi. Non c’è più un
concetto di verità……..E’ la dimensione della “post-verità”, il totale affermarsi
di quello che Maurizio Ferraris (filosofo torinese) definisce….l’atomismo di milioni di persone
convinte di avere ragione “non insieme” ma “da sole” o meglio con il solo
riscontro del web……Si manifesta, con questa esplosione incontrollata e psicotica
del sentimento pre-populistiico, una profonda diversità fra la fine del sistema
fordista/weberiano e quella della “forma partito”: se il primo è stato in breve
soppiantato, dall’interno, da un nuovo ordine economico e sociale, dal
neo-liberismo globalizzato, da quella che Pierre Dardot e Christian Laval (filosofi francesi)
chiamano “La nuova ragione del mondo”, la crisi dei grandi partiti
novecenteschi non trova invece immediata soluzione. I partiti non scompaiono
del tutto, ma sono ormai pallidi simulacri dei grandi contenitori
novecenteschi, e non hanno sufficiente linfa vitale per ridarsi una credibilità
tale da recuperare la crisi di sfiducia in cui sono precipitati. In questo
quadro non si aprono soltanto spazi enormi ai populismo, è lo stesso concetto
di democrazia rappresentativa che entra in sofferenza…….l’equivalente di ciò che chiamiamo
post-verità in campo politologico prende il nome di post-democrazia…..E’
il termine con cui Colin Crouch (sociologo e politologo inglese) ha definito lo scenario
della partecipazione democratica in Occidente nel nuovo millennio. Da molti
tradotta nella domanda…..c’è
democrazia senza i partiti?.....Se sono trascurabili le deboli difese
d’ufficio di partiti ed istituzioni è pur vero che la questione è molto più
complessa. La democrazia ha origini e storia che travalicano la nascita dei
partiti, ed il fatto che questi abbiano smesso di svolgere il proprio ruolo di
rappresentanza, pressochè esclusiva ed a lungo riconosciuta, non può
significare l’automatica fine della democrazia. Che è però certamente cambiata.
E’ entrata in una nuova fase. Una fase in cui si deve misurare con la crisi del
sistema dei partiti ma anche con il radicale mutamento della comunicazione
politica……sempre più plasmata
sula struttura del linguaggio pubblicitario…….che non richiede
elaborazioni e ragionamenti complessi, ma semmai slogan efficaci affidati ad un
leader testimonial vincente. Era anche questa caratteristica che aveva indotto,
ancora prima che Crouch introducesse il termine di post-democrazia, Bernard
Manin (filosofo
e politologo francese) ad individuare la trasformazione in atto come passaggio dalla
“democrazia dei partiti” alla “democrazia del pubblico”. Un passaggio che
replicava, invertendone in parte i termini, una precedente trasformazione che
aveva investito la democrazia occidentale. Quella che vide, agli inizi del
Novecento al primo sorgere dei partiti di massa, il precedente rapporto
fiduciario fra eletto ed elettori, basato sulla conoscenza diretta dei candidati
e quindi sulla fiducia che personalmente sapevano guadagnare (si votava con
collegi di dimensioni limitate stante la ridotta base elettorale), sostituito
dal consenso dato prima che alla persona al partito, al programma. Si votava
allora, stravolgendo il sistema fiduciario precedente, non per qualcuno che si
conosceva personalmente ma per qualcuno che rappresentava il partito che si
voleva premiare. Una analoga trasformazione, a ritroso, sta avvenendo a cavallo
del nuovo millennio, si torna a votare la persona prima ancora che il partito
ed il programma. Ma con una differenza fondamentale. Il rapporto di conoscenza
del candidato non è più di tipo personale, diretto, come avveniva allora, ma è
quello che si crea attraverso l’immagine del candidato costruita dai media,
dalla Rete, dal battage pubblicitario. Chi sceglie non è più un insieme di
elettori, è un “pubblico”, televisivo, di internet, di social e via
discorrendo. Nasce da analisi come quella di Manin la definizione di “mercato
del voto”. E come il mercato, quello
vero dei prodotti, tutto diventa fluido, liquido. Saltato il rapporto
partito-elettore……la
democrazia del pubblico tende ad assumere la mobilità come paradigma in un
mercato del voto nel quale domanda ed offerta si confrontano in modo dinamico……Sulla
scia di Manin si muove l’analisi di Pierre Rosanvallon (storico francese) quella
che di più di tutte ha posto l’accento sul peso della “crisi di sfiducia”. E dalla
diffidenza verso la politica, generata dalla crisi dei grandi contenitori
novecenteschi, che nasce a suo giudizio questa “crisi di sfiducia”….che non genera tanto una crisi della
democrazia, una negazione della democrazia, ma una forma diversa di democrazia……una
democrazia che assume, con la variabilità di un voto che è sempre di più un
voto “contro” e non di un voto “per”, il volto di una “democrazia di
sorveglianza”……strutturata
più su poteri di sanzione che su quello di decisione……Lo
stesso populismo si spiegherebbe in questi termini, come una esasperazione
ossessiva della sorveglianza, che rischia di stigmatizzare ogni forma di potere
che non sia quello, però difficilmente traducibile come rappresentanza
autentica, del popolo. Il populismo, secondo Rosanvallon, per questa ragione…….è così carico di negatività, ricorda le “masse
negative” di Canetti, ferocemente ripiegate su sé stesse……..
PARTE TERZA = POVERI, NOI
Capitolo primo – La terza chiave, la guerra non vista
Queste due dinamiche che hanno
contribuito all’affermarsi dei populismi, la crisi della democrazia e la crisi della
forma partito, le due chiavi di lettura fin qui seguite, hanno però visto
amplificarsi i loro effetti grazie alla presenza di una terza crisi…….una terza chiave e cioè la crisi tout
court………….Appartiene a tutti la percezione che la crisi globale
iniziata nel 2007/2008, e ad oggi ancora operante, abbia assunto dimensioni e
peso straordinari. Ma una lettura attenta delle dimensioni quantitative e
qualitative richiede il ricorso a termini come terremoto, come…..guerra…….perchè effetti e
ricadute sono pari a quelle di un vero e proprio conflitto. A partire dagli USA
per poi passare in Europa i numeri delle persone che ne sono state investite
sono impressionanti. Si parla in tutto l’Occidente di milioni di persone che
hanno perso, lavoro, casa, risparmi, e con essi dignità e rispetto: negli
USA…..gli americani censiti come
poverissimi, ossia titolari di un reddito della metà inferiore alla soglia di
povertà federale, sono 21 milioni, quelli semplicemente poveri sono addirittura
105 milioni, insieme fanno più di un terzo della popolazione americana (dato
2017)………..In Italia le persone in condizioni di povertà assoluta
erano quasi tre milioni già nel 2008, sono passate a più di cinque milioni nel
2017. Numeri impressionanti che trovano analoghe situazioni in quasi tutti i
paesi. Ma forse l’aspetto che più caratterizza questa crisi è il fatto che,
oltre che a creare vera povertà,…….in
tutto l’Occidente globalizzato una percentuale oscillante fra il 65% ed il 70%
dei cittadini abbia visto il proprio reddito appiattirsi o diminuire; una folla
calcolata in 540-580 milioni di persone non necessariamente povere ma
impoverite in termini relativi……..si tratta cioè di persone che hanno
perlomeno mantenuto, o ritrovato, un lavoro, ma un lavoro che non garantisce più
gli standard “abituali” di vita del periodo pre-crisi. Il lavoro, anche quando
c’è, non è decorosamente retribuito, oltre ad essere quasi sempre precario, a
termine…..sono
poveri che lavorano…... Per molti, moltissimi, di questi individui
si parla di “povertà relativa”…….in Italia sono più di dieci milioni quelli che vivono in
queste condizioni di deprivazione materiale, Una situazione grave in un paese
di sessanta milioni di abitanti……. Non
stupisce constatare che la classifica dei paesi più colpiti da questi fenomeni,
in cui l’Italia è nei primissimi posti, coincide perfettamente con la mappa di
quelli in cui forte è stata la crescita di fenomeni etichettabili come
populisti. Esiste poi un aspetto specifico che richiede la giusta attenzione:
questa guerra, questo disagio…… ha colpito soprattutto la ex classe media…….
Capitolo secondo – La crisi della classe media e la
diseguaglianza globale
La formazione di un diffusa
classe media è stato indubbiamente uno dei tratti caratterizzanti la modernità
novecentesca. Ed è stata la più consistente redistribuzione di ricchezza verso
il basso, che si accompagnava al parallelo diffuso salire verso l’alto, verso
professioni e retribuzioni migliori, il cosiddetto ascensore sociale. Ambedue
questi fenomeni non solo si sono bloccati in tutto l’Occidente, ma si sono
violentemente invertiti. A partire dagli studi di Thomas Piketty (economista francese) la
biblioteca di analisi economico - sociali che dimostra l’imponenza del
movimento di ri-concentrazione della ricchezza è ormai vastissima. Ed è un
fenomeno mondiale. Due soli dati, riferiti al 2017, a testimoniarlo:…….l’1% della popolazione mondiale,
quello più ricco, controlla una ricchezza pari a quella del restante 99%.....i
2.043 miliardari del mondo si sono accaparrati l’86% della ricchezza annuale
prodotta mentre ai 3 miliardi e 700 milioni che costituiscono il 50% più povero
non è andato nemmeno un penny……Siamo cioè di fronte ad un
sconvolgimento che sta ri-creando una condizione pre-moderna……con pochi signori, un’esigua classe
intermedia, ed un esercito sterminato di poveri………Una
condizione che molti trovano corretto definire:…..neo-feudalesimo…...Tornando allo specifico
dell’Occidente un altro elemento sembra caratterizzare la tendenza
inarrestabile alla diseguaglianza: la redistribuzione verso il basso del
secondo dopoguerra aveva premiato, magari con tempistiche lievemente diverse,
in modo omogeneo i territori, al contrario la ri-concentrazione della ricchezza
sta ricreando profonde spaccature territoriali. Le già citate, e decisive,
mappe del disagio sociale humus del populismo coincidono con questa nuova mappa
della ricchezza. L’insieme di questi processi economici e sociali ha avuto
tempistiche troppo accelerate per non farli vivere con sentimenti di rancore…….la folla che ha lasciato dietro di sé
questa crisi è una folla solitaria, un’enorme massa di individui che si sentono
abbandonati….a
livello di massa sono cresciuti il disprezzo e la diffidenza che hanno poi
prodotto quel voto di vendetta su cui oggi ci si interroga smarriti…………
Capitolo terzo – I serbatoi dell’ira
Revelli nell’ultima parte di
questo saggio ci propone una amara riflessione ed un accorato appello a tenere
nella giusta considerazione un ulteriore rischio degenerativo. Nel vuoto
rancoroso si muove, come si è visto, una politica senza politica, ossia una
politica che non solo non si propone come strumento per affrontare alla radice
i problemi sistemici che stanno determinando l’attuale stato di cose, ma
accentua, incentiva, accresce il rancore, la sete di vendetta, la ricerca di
capri espiatori. Così facendo crea vieppiù le condizioni di un degrado totale del
senso collettivo. Revelli cita alcuni gravissimi episodi emblematici del clima
diffuso che sembra essere stato sdoganato nel paese: i roghi di campi rom
compiuti da folle inferocite sono una testimonianza viva dell’odio che sta
diventando il catalizzatore dell’ira diffusa dei nostri tempi. Sono infatti saltate
le “banche dell’ira”, i grandi contenitori novecenteschi, con tutti i loro limiti
ed errori anche in questo saggio ben evidenziati, erano in qualche modo….dei depositi che permettevano di stoccare
il risentimento delle masse promettendo
in cambio una soddisfazione differita, il cristianesimo piuttosto che il
socialismo……Quella politica non esiste più. E la politica senza politica
non solo non funge più da banca dell’ira, ma soffia su di essa per accrescere
il fuoco che produce. Quello che è da sempre il sentimento di una passione
insana, l’invidia……in
questo caso l’invidia sociale, la prima radice del rancore, la forma più
estrema di risentimento……non volge più il suo sguardo verso
l’alto ma il destinatario dell’odio che produce è un “inferiore”. Il rischio è
che questo sentimento diventi la condizione ideale nella quale…..l’ondata di populismo si virulentizzi,
passi dall’essere un sentimento di ribellione e di rancore a forme manifeste di
fascismo facendone propria l’ideologia e la prassi…………