La parola del mese
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri
collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
AGOSTO
2020
Ricordiamo tutti bene quella specie di mantra che ha mediaticamente accompagnato buona parte dei mesi duri del lock down: “nulla sarà più come prima”. Nella migliore delle ipotesi esprimeva più una illusoria speranza che una reale convinzione, ma la constatazione della sua pochezza ben poco alleggerisce la tristezza di constatare quanto sia sempre più flebile la possibilità che questa fase pandemica possa rappresentare una reale svolta che lasci alle spalle un’idea di sviluppo sempre più insostenibile, e stili di vita e modi pensare errati e dannosi. Ma è ancora più è triste ritrovare nelle cronache quotidiane il ricomparire, con la stessa sfrontatezza di prima, di inaccettabili atteggiamenti che da troppo tempo segnano e avvelenano la nostra società e le nostre comunità. Non pochi casi - basta citare il mare di spregevoli insulti in Rete che hanno accompagnato la nomina a Cavaliere di Gran Croce di Sami Modiano, lucidissimo e attivissimo novantenne ebreo italiano superstite di Auschwitz, - testimoniano in particolare il persistere di quella che può essere considerata la “madre” di tutte le intolleranze, di tutte le discriminazioni cieche e violente. Stiamo ovviamente parlando di.......
ANTISEMITISMO
Antisemitismo
(da Wikipedia) =
la
paura o l'odio irrazionale verso i giudei, cioè gli ebrei. Secondo la Working
Definition of Antisemitism ("definizione pratica dell'antisemitismo"),
dell'Agenzia europea dei
diritti fondamentali «l'antisemitismo è quella certa percezione descrivibile
come odio verso gli ebrei. Le manifestazioni retoriche e fisiche
dell'antisemitismo sono dirette contro singoli ebrei o non ebrei, e/o contro la
loro proprietà, contro le istituzioni comunitarie e contro le strutture
religiose ebraiche. Inoltre tali manifestazioni possono anche avere come
bersaglio Israele, concepito come una collettività di ebrei. L'antisemitismo
accusa frequentemente gli ebrei di cospirare ai danni del resto dell'umanità,
ed è spesso utilizzato per incolpare gli ebrei di uno o più problemi politici,
sociali ed economici. Trova espressione orale, scritta e impiega stereotipi
sinistri e tratti caratteriali negativi
L’antisemitismo
è un mostro che raramente, e per brevi periodi, pare sopirsi salvo poi rialzarsi
con identica cieca brutalità ferocemente la testa, a maggior ragione quando
posizioni di destra che esplicitamente si richiamano a fascismo e nazismo
percepiscono un clima politico che sembra sdoganarle. Non è però questione
legata solamente alla recente storia novecentesca come molti ritengono, al
contrario, con accentuazioni che spesso hanno assunto risvolti tragici, è una
ferita che da molti secoli lacera in profondità la cultura e i modi di pensare
dell’intero occidente. In molti, storici, sociologi, teologi, psicologi, hanno
analizzato le radici dell’odio antiebraico, ed è quindi vastissima e
approfondita, ancorché inadeguata a sterilizzarlo, la letteratura sul tema. La
scelta di “antisemitismo” come “Parola del mese” nasce dalla lettura di un
nuovo saggio che lo analizza da una prospettiva “diversa” che ci è sembrata
particolarmente interessante.
Horvilleur
Delphine (rabbino femmina francese,
caporedattrice della rivista ebraica “Revue de pensée juve”) offre infatti con
questo suo saggio un contributo originale essendo una ricostruzione
dell’antisemitismo elaborata per vie “interne” alla cultura ebraica, una sua lettura dal punto di vista
“rabbinico”. Analogamente a quanto fatto da Abraham Yehoshua con il suo saggio
del 1996 “Ebreo, israeliano, sionista, concetti da precisare” anche Horvilleur
risale la cultura ebraica, leggendola nei suoi testi sacri, per cercare di
capire se in queste fonti si nascondano indizi utili a capire un odio cosi
antico e tenace. L’antisemitismo non va genericamente confuso con il razzismo,
ha da sempre distinte peculiarità: se le altre forme di razzismo esprimono essenzialmente
un odio per “chi non ha” le caratteristiche che si presume codifichino una
etnia, in particolare il colore della pelle, le usanze, la cultura, la lingua,
quello verso l’ebreo è un odio verso “chi ha”, o si presume che abbia, potere,
denaro, privilegi, ma anche resistenza, tenacia, capacità di reagire e reggere
anche il disumano. Ma è soprattutto l’odio verso “chi ha” una sua
“separatezza”, una sua autonomia, gli ebrei sono infatti sempre stati visti,
per quanto siano componente attiva ed importante di tutte le società in cui
vivono, come una comunità a sé, un mondo “a parte”. Non si capisce ad esempio
perché, se non in base a questo particolare pregiudizio identificativo, ancora
oggi nel presentare un personaggio del mondo della cultura, dello spettacolo, della
politica, dell’economia e della finanza, si ritiene in qualche modo utile
precisare il suo essere “ebreo”. Persino in chi convintamente ripugna e
condanna l’antisemitismo può esistere, forse proprio per una inconscia esigenza
di compensazione, una sorta di sottile “attenzione” in più nel rapportarsi “con
l’ebreo”. Un sentimento così particolare, così tenace, così diffuso, non può
non avere matrici antiche, antichissime, in gran misura così sotterranee da
sfuggire ad una sua ricostruzione solo razionale. Seguire Delphine Horvilleur
nella sua riflessione, risalendo con lei nel tempo a molti millenni prima che,
in Germania alla fine del 1800, fosse coniato lo stesso termine di “antisemitismo”,
può essere un modo prezioso per meglio capire le origini della questione
antisemita, e più in generale per meglio comprendere che molte delle
problematiche che continuano ad investire le nostre società richiedono, se
davvero vogliamo che “nulla sia più come prima” uno sforzo coraggioso di
ricostruzione a ritroso delle basi culturali sulle quali esse poggiano. Con
questo spirito presentiamo questa sintesi del libro di Delphine Horvilleur
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Capitolo primo: l’antisemitismo è una questione di famiglia
A lungo gli ebrei hanno preferito chiamarsi
come “il popolo di Israele”, un nome imposto da un angelo divino a Giacobbe,
nipote di Abramo il capostipite semitico che per primo invece si definì “ebreo”.
Abramo però non nasce nella terra di Israele ma nella città caldea di Ur. E’ lì
che lo raggiunge una chiamata divina che gli ordina di partire per la Terra Promessa
di Canaan. Nell’antico ebraico la parola “ivrì”, “ebreo”, per la prima volta usata
da Abramo nel momento di abbandonare la città nativa di Ur, indica “colui che
attraversa, che passa”. L’identità ebraica, fin dal suo primo comparire,
rimanda pertanto allo sradicamento dalla terra natia ….. non parla di origine bensì di rottura
dall’origine …… un ebreo non viene da una terra che si chiama così, ma
è colui che si mette in cammino per andare via dal posto in cui è nato. La
Terra Promessa verso cui si dirige è pertanto il desiderio di un posto in cui
l’ebreo non è nato. A testimonianza della consapevolezza di questo tratto
costitutivo la Torah (il
riferimento centrale della religione ebraica costituita dai primi cinque libri,
corrispondenti al Pentateuco, della
Tanakh, la Bibbia ebraica coincidente con l’Antico Testamento cristiano), più volte racconta
della tendenza ebraica allo spostamento, alla peregrinazione. Più ancora che la
Caldea di Abramo sarà infatti successivamente l’Egitto la vera matrice del
popolo ebraico. E’ da lì, dopo averlo abitato per moltissimi anni, che la
stirpe di Giacobbe si rimette in marcia, agli ordini di Mosè, verso la Terra
Promessa ad attestare senza più ombra di dubbio che il suo tratto fondativo è sempre
una partenza, e che quindi……. la sua identità poggia su uno sradicamento dal luogo in
cui è nato …….. La diaspora ebrea avvenuta dopo la distruzione del
Tempio nel 70 d.C da parte dei Romani rafforza definitivamente questo carattere
originario: l’ebreo non è mai completamente parte del posto in cui si nasce, in
cui magari per tante generazioni è vissuto, egli sa di dover essere sempre
pronto ad “una chiamata” verso la Terra Promessa. La Torah spiega quindi in questi termini la
separatezza che contraddistingue la presenza ebraica presso altri popoli, altre
terre, quella separatezza che, come meglio vedremo, è spesso alla base del
pregiudizio antiebraico. Un altro nome, “giudeo”, è poi usato nella Torah per definire,
per estensione, tutti gli ebrei, anche se è in effetti quello di una sola delle
dodici tribù, quella di Giuda, ovvero quello di una specifica regione, la
Giudea. Ebreo/giudeo prendono comunque tardi piede nel testo della Torah, lo
fanno soprattutto in concomitanza con la comparsa in scena di un altro personaggio
centrale nella storia di formazione dell’identità ebraica: Ester. Anche in
questo caso gli ebrei non stanno dimorando nelle loro terre ma, lì deportati
dopo la distruzione del primo Tempio, vivono in relativa armonia e tranquillità
in Persia sotto il regno di Assuero, che dopo aver ripudiato la prima moglie
indice una sorta di concorso di bellezza per trovarne una nuova. La vincitrice è Ester, figlia di Mardocheo
discendente della tribù di Beniamino, il cui nome in ebraico significa “la
nascosta, la misteriosa”, (I nomi che la Torah dà a molti
personaggi cardine della storia ebraica non sono casuali, ma già da soli molto
raccontano del tratto fondamentale della situazioni in cui agiscono) perché, come tutti i
membri della comunità, anch’essa è restia a manifestare apertamente la sua
appartenenza. La vittoria di Ester viene però subito contrastata da un
consigliere del Re che mette in guardia il sovrano su questa sua nascosta
appartenenza usando queste parole ……. c’è un popolo disseminato ma distinto tra tutti i popoli
che abitano il tuo regno, hanno leggi diverse e non rispettano le tue. Questo
non deve esserti indifferente e lasciarti tranquillo …… Quale perfetto,
e profetico, condensato della diffidenza che da allora in poi ha circondato la
presenza ebraica presso altri popoli viene offerta dalla stessa Torah! Questo
consigliere del Re ha nome Aman, e discende da una stirpe che ha come primo
progenitore Amalec, un personaggio biblico fondamentale per ricostruire la
storia dell’odio verso gli ebrei. “Della stirpe di Amalec” è, non a caso, il
nome con cui nel pensiero rabbinico sono chiamati tutti i peggiori nemici, dai
crociati agli inquisitori, dai protagonisti dei progrom fino ai nazisti. Amalec
ha però una progenie sorprendente! Egli discende infatti da Esau fratello
gemello di Giacobbe, nelle sue vene quindi, non diversamente da Ester, scorre
sangue ebreo! Ma a fronte di ciò quale
può essere allora l’origine del suo cieco odio verso i suo stesso popolo? La
Torah racconta due vicende che forniscono spiegazioni tra loro differenti. Secondo
la prima, raccontata nel libro della Genesi, Amalec sarebbe il frutto di una relazione
incestuosa fra Timma ed Elifaz, sorella e fratello perché entrambi figli di
Esau. L’origine dell’odio violento di Amalec, e dei suoi discendenti, consisterebbe,
secondo questo racconto, nel tentativo di cancellare agli occhi del mondo …….. la violazione
del tabù supremo, quello dell’incesto ………..
Ma essendo la “Legge” la fonte che sancisce il tabù, e quindi la condanna della
sua violazione, ecco allora che con Alamec ed il suo odio si manifesta la possibile
fonte dell’odio allargato verso gli ebrei: nessun altro popolo infatti vive in
così totale compenetrazione con la “Legge”, nessun altro popolo la pone al di
sopra delle altre leggi di convivenza comunitaria. L’odio verso gli ebrei
troverebbe, in questo modo, appiglio in una ulteriore accentuazione del loro
carattere di separatezza culturale. Secondo la seconda versione rabbinica,
contenuta nel Talmud babilonese (altro testo sacro ebraico, è la
raccolta di testi rabbinici di commento ed interpretazione della Torah), Timma non si sarebbe affatto macchiata di
incesto, ma, nata in una famiglia non semitica, piccata per non essere stata
accolta in quella di Esaù, ovvero non accettata come convertita, sarebbe
divenuta, per vendicare l’affronto, la concubina di Elifaz generando Alamec
come figlio illegittimo. In questo caso alla base dell’odio anti ebraico ci
sarebbe ……. Il
disprezzo dello straniero che non è stato accolto nella famiglia …… Versione che trova consistenza nel fatto che
il nome Alamec significa, non a caso quindi, proprio “colui che è privo di
popolo”. In questo caso l’estensione dell’odio negli altri popoli poggerebbe
nell’invidia, che sfocia prima in paura e poi in rancore, della compattezza
escludente del popolo ebreo. Che valga la prima o la seconda versione
l’interpretazione rabbinica comunque induce a ritenere che ……. Amalec, l’odio
verso gli ebrei, si risveglia ogni volta che il rancore, che viene da un
lontano passato, grida e convince che la memoria da più diritti che doveri …… Vale a dire che questo lontano passato alla
base dell’odio verso gli ebrei, in gran parte sconosciuto ma inconsciamente
vivo e presente, è comunque avvenuto tutto all’interno della stessa storia
ebraica. Ma la lettura rabbinica risale la Torah ancora più indietro, perché
l’appartenenza di Alamec alla stirpe di Esau, personaggio biblico ben noto per
la sua rinuncia alla primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie,
rimanda ad un'altra linea di frattura interna all’ebraismo. Giacobbe ed Esaù,
fratelli gemelli, sono, secondo la tradizione biblica, in aperto contrasto fin
dal loro dividersi il ventre materno di Rebecca, la quale passando davanti ad
una sinagoga sentiva Giacobbe scalciare per l’ansia di entrarvi mentre era Esaù
a scalciare davanti ad un altare idolatra. Questo racconto, come tantissimi
dell’Antico Testamento, ha una evidente valenza simbolica: la fede ebraica di
Giacobbe e l’odio verso di essa di Esaù convivono nello stesso sacco amniotico,
si manifestano congiuntamente fin dalla nascita …… come se gli ebrei e i loro nemici non
potessero che venire al mondo simultaneamente ……. E come tutti noi ben sappiamo è Giacobbe a
vincere, e con lui vince l’astuzia sulla forza bruta di Esaù, così configurando
l’archetipo dello scontro tra due modi di rapportarsi con il mondo. Ed ancora
una volta sono i nomi stessi a sancirlo: Esaù in ebraico significa “già fatto”,
come già fatto, primordiale, era lo stare nel mondo grazie alla forza fisica,
Giacobbe significa invece “tallonerà”, egli esce infatti dal ventre di Rebecca
agguantando il tallone di Esaù, come a dire che l’intelligenza, l’astuzia,
vengono dopo la forza bruta ma solo per sopravanzarla. E se, come si è già
detto, è proprio Giacobbe, obbedendo ad un angelo, a cambiare nome per assumere
per primo quello di Israele, allora da lì in poi la storia degli ebrei, del
loro essere vittime di tragiche esplosioni di violenza fisica, si può spiegare
anche con dall’odio verso chi è ritenuto
vincente sulla pura forza perché più astuto, più scaltro, più calcolatore.
Tutte caratteristiche che non a caso la vulgata popolare attribuisce “all’ebreo”.
In definitiva, ci evidenzia Delphine Horvilleur, l’insieme di questi passi
biblici attesta che nella cultura ebraica …….. l’antisemita nasce nell’stante stesso in
cui compare l’ebreo, sortito dalla stessa
matrice, compreso nello stesso versetto……
L’intera identità ebraica è sempre una faccenda di separazione, l’essere ebreo
porta indissolubilmente legato a sé l’essere contro l’ebreo. L’indagine dei
rabbini, per quanto risalga verso le origini, attesta sempre la stessa
considerazione, l’antisemitismo …… l’odio verso gli ebrei è immancabilmente la
manifestazione di un rapporto doloroso con l’origine di un’eredità e di un
rancore ancestrale ……. Se questa frattura, che racconta della complessa
identità costituiva ebraica, è già tutta interna all’ebraismo occorre allora
capire attraverso quali percorsi si sia riversata negli altri popoli.
Capitolo secondo: l’antisemitismo è un conflitto di civiltà
Per molti secoli è all’interno dell’Impero
romano che prende corpo l’antisemitismo e di conseguenza la sua interpretazione
rabbinica. E’ bene ricordare infatti che il Talmud è stato redatto, assemblando
un vasto patrimonio di narrazioni orali, sotto la dominazione romana dopo la distruzione
del Tempio del 70 d.C. e delle successiva diaspora. Privato della propria
terra, senza più il luogo per eccellenza di culto, il giudaismo rabbinico
diventa il vero punto di riferimento per l’intera comunità ebraica ancorché
sparsa per tutto l’impero. Ed è uno scritto rabbinico del sesto secolo d.C. che
sintetizza perfettamente il rapporto tra potere romano ed ebrei: l’Imperatore
Adriano, lo stesso raccontato con toni diversissimi da Marguerite Yourcenar,
così risponde ad un suo consigliere che gli chiede per quale ragione ha fatto
impiccare due ebrei, il primo reo di averlo salutato ed il secondo reo di non
averlo fatto, “vorresti tu spiegarmi come
liberarmi dei miei nemici’”. Ma che cosa può aver fatto divenire gli ebrei,
ormai indifesi e in inoffensivo continuo peregrinare in esilio, così tanto
nemici da meritare condanne così illogiche? Giustamente Delphine Horvilleur
evidenzia che dalla diaspora in poi, per finire al loro drammatico Novecento,
la sopravvivenza del popolo di Israele è ……. sempre dipesa dai legami con il potere in
carica ……. In questo quadro un altro scritto rabbinico inserito nel
Talmud consente di capire quale relazione l’ebraismo ha con l’Impero romano. I
Romani in questo scritto sono definiti “figli
di Esaù”, rendendo in tal modo, visto quanto sopra, l’Impero il nemico
archetipo del popolo ebraico, ossia l’altra parte di un autentico scontro di
civiltà. Significa cioè immaginare …. un confronto
fra due tipi di umanità opposti già letteralmente in utero ……. Un
altro trattato talmudico, del II secolo, approfondisce questa relazione non
solo molto conflittuale ma anche centrale per la genesi dell’antisemitismo. Si
tratta del racconto tanto paradossale quanto illuminante di un dialogo tra l’Imperatore
Antonino il Pio, padre di Marco Aurelio, e il rabbino Yehudah Ha-Nasi, il
principale autore della Mishnah, la legge ebraica orale. Paradossale perché
nella prima parte i ruoli sono invertiti: è l’Imperatore che si comporta in
modo ossequioso e sottomesso con il rabbi, addirittura con tratti di
sottomissione sessuale, e soprattutto perché dimostra di conoscere le fonti
bibliche persino meglio di lui. Al punto di dimostrarsi non solo a conoscenza
della definizione di “figli di Esaù”,
ma persino preoccupato del passo biblico in cui si afferma che “nessuno della casa di Esaù sopravviverà”.
Un modo simbolico per avanzare una domanda centrale ….. l’odio per gli ebrei potrebbe essere
abbandonato o definisce in eterno il mondo e la cultura che lo esprimono? ……. La risposta del rabbi è precisa: non esiste
nessuna fatalità, la condanna dei discendenti di Esaù va intesa come la
condanna di “chi agisce come lui”.
Parrebbe quindi che se l’antisemitismo, derivando dall’odio atavico di Esaù, è
ormai compenetrato nel mondo romano da esso è tuttavia possibile uscirne a
patto di “non agire come Esaù”. La
seconda parte del racconto entra nel merito di cosa si debba intendere per “agire come Esaù”, e lo fa ribaltando
completamente il gioco dei ruoli della prima parte: l’Imperatore torna ad
essere pienamente tale ed il rabbi lascia il posto ad un terzo personaggio,
Qetyad Bar Shalom, che, nella veste di un consigliere molto vicino
all’Imperatore, paragona il suo odio verso gli ebrei “come uno che ha un ulcera inguaribile ad una gamba”. Al che
l’Imperatore chiede ai suoi consiglieri: deve
costui tagliare l’arto e vivere o tenere l’ulcera e soffrire rischiando la
morte? Questa metafora non viene introdotta a caso nel Talmud ……. corrisponde
all’immagine che tutti gli antisemiti hanno dell’ebreo: una fonte di
contaminazione per l’organismo che l’accoglie e che ne minaccia
l’integrità con la sua stessa presenza ……. Non
per nulla una delle offese abitualmente usate è quella di “sporco ebreo”! e non a caso Hitler definiva gli ebrei
“tubercolosi razziale”. Si apre in questo modo la finestra su una delle ragioni
alla base di tutto l’antisemitismo: la difesa dell’integrità di una civiltà dal
morbo rappresentato da quella ebraica, da una civiltà alternativa che
“pretende” con la sua separatezza di mantenersi integra ……. l’antisemita è
sempre un integralista dell’integralità …….
Alla domanda dell’Imperatore tutti i consiglieri rispondono di amputare la
gamba, solo Qetyad Bar Shalom comprende che la domanda è assurda in sé, che non
si può ……tagliare
via un taglio….., una ferita che già è entrata nell’organismo, e la
sua risposta è allora “per prima cosa non
potrai liberartene del tutto”. Certo che il suo nome, Qetyad Bar Shalom,
suona assai strano, sembra proprio un nome da ebreo, ma è impensabile che un
imperatore che odia gli ebrei abbia un consigliere ebreo. Ancora una volta la
spiegazione sta nel nome stesso: Qetyad Bar Shalom significa letteralmente “frattura che viene dalla completezza”. Non
importa quindi di che stirpe sia davvero Qetyad Bar Shalom, quel che conta è
che egli, con questo nome, personifica la frattura della civiltà ebraica che
incide sulla completezza di quella romana ed enuncia, in questo modo, la
questione fondamentale al centro dell’odio antiebraico: …… l’ebreo incarna l’impossibilità di una
espansione uniforme …… egli viene
cioè percepito come colui che, dall’interno, crea una ferita, impedisce al
corpo di espandersi, di consolidarsi. Il racconto del Talmud prosegue con la
risposta dell’imperatore, una risposta che è profetica sul modo di reagire
dell’antisemita: posto di fronte all’evidenza: “hai detto bene, ma chiunque sfidi il sovrano lo gettano nella
fornace”. Qetyad Bar Shalom ha cioè reso evidente l’impossibilità di sanare
una “ferita” che è ormai connaturata con l’intero organismo, tagliare via una
parte non restituirà mai la precedente totale integrità. Per l’Imperatore egli
ha quindi ragione, l’ebreo è ormai nell’organismo della civiltà romana, ma
proprio perché ha ragione deve essere messo a morte. L’antisemitismo messo a
nudo di fronte alla sua irrisoluzione reagisce esattamente da “figlio di Esaù” Essere gettato nella
fornace è però una morte rituale, già Abramo venne buttato dal tiranno di Ur in
una fornace ma ne uscii vivo grazie ad un miracolo divino e potette poi dar vita
all’ebraismo. E una fornace, profeticamente, ricorda altri ben più tragici
tragici forni recenti. Il significato di questo racconto, fortemente simbolico,
è evidente ……. La
possibilità di essere figli di Esaù ma senza agire come Esaù è condizionata
dalla capacità di vivere con la frattura, di accettare l’incompletezza, e dalla
capacità di rinunciare alla tentazione integralista …… A Qetyad Bar
Shalom lungo il tragitto verso il supplizio una donna dice “guai al naviglio che parte senza aver pagato la tassa”, al che egli
si strappa il prepuzio dicendo “colui che
paga il prezzo può passare”. E’ la inattesa ed improvvisa comparsa sulla
scena del “femminile”, da subito legata ad un gesto simbolico di castrazione,
si apre così con questo dialogo al termine di un racconto, che ha una valenza
simbolica straordinaria, una nuova porta verso un altro percorso di conoscenza
dell’antisemitismo, quello stesso che farà dire secoli dopo a Sigmund Freud “il complesso di castrazione è la più
profonda radice inconscia dell’antisemitismo ed anche il senso maschile di
superiorità nei confronti della donna ha la stessa profonda radice inconscia”. E
se l’odio per gli ebrei fosse anche una guerra tra i sessi?
Capitolo terzo: l’antisemitismo è una guerra fra i sessi
Nell’armamentario delle offese antisemite non
potevano certo mancare quelle a sfondo sessuale. E come sempre in queste
situazioni nel corso del tempo si sono consolidati alcuni stereotipi, in
particolare quello che dipinge l’ebreo come poco virile, se non come libidinoso
“femminizzato”. Iniziano già con Tacito queste offese, che però ancora si
limita a descriverli come inclini alla libidine, ma già nel XII secolo il
naturalista cristiano Tommaso di Cantimprè giunge a scrivere che i maschi ebrei
hanno le mestruazioni, a giusto risarcimento del sangue fatto versare a Cristo!
Se è legittimo sorridere di una fantasia così malata il sorriso presto svanisce
di fronte alle ricerche “scientifiche” novecentesche che, coniugando fisiologia
e psicologia, “dimostrano” la femminilità dell’ebreo nel corpo e nello spirito.
Questa ossessione sessista conosce il suo inevitabile apice con il nazismo
raggiungendo livelli patologici, al punto che non pochi studiosi, fra i quali
Theodor Adorno, la pongono, uscendo dallo stretto ambito antisemitico, in stretta
relazione con una crisi europea di virilità causata dal crescente peso della
presenza femminile nella società. Resta comunque inoppugnabile il peso della
identità sessuale ebraica nel catalogo delle offese antisemite. Delphine
Horvilleur si chiede però, in coerenza con lo scopo del suo saggio, se nelle
stesse scritture ebraiche non esistano spunti, ovviamente ispirati da ben altre
finalità, che in qualche modo possano indurre a ritenere che ……. ci sia qualcosa
di vero nella ricorrente rappresentazione dell’ebreo come una sorta di donna …… Non sono poche infatti le narrazioni del
Talmud che, contrapponendo ebrei e romani, mettono a confronto due mascolinità
antagoniste. La reazione rabbinica all’insolenza dei romani vincitori, basata
in gran misura sull’immagine dell’ebreo debole e poco virile, sarebbe
consistita non tanto nel controbattere l’accusa ma nel valorizzare, in
contrapposizione a quella romana, una virilità non solo muscolare ma basata
anche su sottigliezza, acume, padronanza delle parole, ovvero recuperando ancora
una volta, adattandola ai tempi, la distinzione tra il forzuto Esaù ed il
femmineo Giacobbe, con il secondo vincitore. Già nel contrasto con l’idea
romana di mascolinità assume un peso fondamentale un tratto fortemente
distintivo dell’ebraismo: la circoncisione rituale, della quale i romani
avevano un autentico orrore assimilandola alla castrazione. Per la cultura
rabbinica al contrario la circoncisione sancisce, in un rito di passaggio, la
conquista di una vera virilità, come se il taglio del prepuzio “fallicizzasse” il maschio ebreo. Allo
stesso tempo però, in assoluta mancanza di contraddizione, non sembra esistere
nella cultura religiosa ebraica un particolare imbarazzo alla “femminizzazione”
dell’intero popolo ebraico: In molti passaggi della Torah, attribuiti a profeti
come Isaia e Osea, la relazione del popolo di Israele con il suo Dio ……. è sempre vista
come una relazione coniugale ed il genere prescelto per definire il popolo è
sempre il femminile in rapporto ad un Dio maschio ……. Nello stesso Cantico
dei Cantici, la più celebre lirica d’amore biblica, la relazione tra la
pastorella ed il suo pastore incarna il legame tra Israele e il suo Dio. Non
mancano certo nella Torah personaggi virili, quali Sansone e Giosuè, ma sono
figure di secondo piano, quelli che più pienamente incarnano, e creano,
l’ebraismo non vantano un fisico possente, anzi: Abramo è sterile, Isacco orbo,
Giacobbe fragile, zoppo e persino codardo, lo stesso Mosè….è balbuziente!. Questi
personaggi condividono inoltre qualcosa dell’universo femminile, un qual certo
senso di ……. impotenza
sulla quale si fondano, paradossalmente, il loro potere d’azione e la loro
legittimità ……….. Per alcuni
commentatori lo stesso rito della circoncisione, fermo restando quanto sopra,
si configura come una iscrizione simbolica del femminile nel corpo del neonato
maschio. E’ facilmente comprensibile che questa diversa idea di una virilità,
che non teme di assumere caratteri di femminilità, possa, passando dalla
cerchia degli studiosi alla vox populi, aver prestato il fianco a deformazioni
caricaturali e a violente offese. Mentre invece il tema dell’identità sessuale
è una componente fondamentale dell’ebraismo così come si è venuto configurando dopo
la distruzione del Tempio nel 70 d.C. e la successiva diaspora. Da quando cioè
il pensiero rabbinico, che costruisce nei secoli successivi il complesso del
Talmud, si è dovuto misurare con l’impossibilità del rapporto fisico con la
divinità che aveva il suo perno
proprio nei riti nel Tempio. La contrazione forzata della presenza del divino,
un di meno pesantissimo, è stata ribaltata dal pensiero rabbinico in un punto
di forza rifondando l’identità ebraica proprio su quella mancanza, su quella
rottura, su un di meno rigenerato però in un di più di consapevolezza della
propria irriducibile forza identitaria. Il matrimonio ebraico si celebra con un
gesto simbolico che sintetizza perfettamente questo ribaltamento: evocando la rottura di un bicchiere, per
rammentare ad ogni focolare domestico in costruzione che ……. la vita ebraica
si costruisce sulla consapevolezza di una rottura che però fa da fondamenta …… Lo sforzo rabbinico di ricostruire su queste
nuovi basi l’identità ebraica, così ben riuscito da costituire, rappresentando
una evidente prova della invidiata e temuta irriducibilità dell’ebraismo, una
ulteriore spinta all’odio antiebraico, è stato in qualche modo agevolato dalla
stessa identità sessuale, già delineata nella Torah, che sanciva l’originaria rottura
della separazione del lato maschile da quello femminile. In fondo tutta la
storia dell’ebraismo è un continuo succedersi di rotture e ricostruzioni, di
partenze e di ritorni, a formare però una inesauribile e irriducibile unità.
Capitolo quarto: l’antisemitismo è una battaglia elettorale
L’ironico titolo del capitolo non deve trarre
in inganno, non si tratta di un acceso confronto nelle urne, ma della
questione, centrale per comprendere le radici dell’antisemitismo, della
presunta pretesa degli ebrei di essere il “popolo eletto di Dio”. Lo scontro attorno a questa “elezione” è ben
presto uscita dall’ambito di dispute teologiche per divenire un’altra
componente dell’odio antiebraico in quanto strettamente collegata alle accuse di
arrogante superbia, di separatezza, di irriducibilità all’unità in questo caso
religiosa. La tradizione rabbinica appare persino imbarazzata nel replicare ad
una accusa per essa così difficile da comprendere per la semplice ragione che
“l’elezione” è, nello stesso ambito rabbinico, un argomento oggetto di una
esegesi infinita e, come si vedrà, soggetto a più interpretazioni, a fronte di
un antisemitismo così certo al riguardo, come se conoscesse meglio degli stessi
ebrei la lettura corretta. Lo stesso Freud, nella sua opera “L’uomo Mosè e la religione monoteista”,
afferma che questa convinzione elettiva non chiama tanto in causa cosa ne pensino
gli ebrei, quanto il perché certi “non ebrei” ne siano così certi. I passaggi
biblici chiamati in causa sono in effetti pochi: in uno Dio afferma di
intessere con gli ebrei un legame di tipo particolare denominato “alleanza, am segulah in ebraico”, un
termine che però più propriamente significa “popolo
tesoro”, “popolo rimedio”, “popolo distinto”. Ma quello che dovrebbe” più
pienamente giustificare le accuse antisemite è quello in cui, ai piedi del
monte Sinai, Dio consegna agli ebrei, tramite Mosè, un “qualcosa” che sembrerebbe avere un carattere di esclusività. Tant’è
che, secondo le accuse, gli ebrei lo avrebbero trattenuto solo per sé stessi,
eleggendosi così a popolo prediletto. Non altrimenti si spiegherebbe il …... non proselitismo
dell’ebraismo che, diversamente dal Cristianesimo e dall’Islam, non si
considera vocazione universale ……. Peccato che i primi a stupirsi di
questa “consegna in esclusiva” siano
proprio gli ebrei, la tradizione rabbinica, che non a caso su questo aspetto
raggiunge le sue massime vette di raffinatezza esegetica, si è da sempre posta
la domanda: “ma perché proprio a noi?”.
Una domanda alla quale ha risposto in molteplici modi indissolubilmente legati
ad una seconda domanda “e che cosa abbiamo
ricevuto di preciso?”. Le risposte che si sono via via succeduto partono da
una versione definibile come “massimalista”:
Dio consegna agli ebrei, ancora lungo la strada di ritorno dall’esilio in Egitto
ed in pieno deserto, lontano quindi da testimoni indiscreti, l’intera Torah già
comprensiva dello stesso Talmud, perché sono “in spirito” presenti alla
consegna anche tutte le generazioni di ebrei, anche quelle passate e quelle
future. …… riguardo a Dio tutto quello che è
già stato detto e tutto quello che si dirà in futuro è quindi già presente in
quell’istante primigenio ……. Altri commentatori rabbinici sostengono
invece che ai piedi del Sinai Dio ha consegnato solo le “dieci parole”, ovvero i “dieci
comandamenti”, ed è questa la versione confluita nella lettura
cristiana. Altri commentatori, in
percorso sempre più minimalista, dicono che non sono state consegnate tutte le
“dieci parole”, ma solo le prime due,
altri ancora replicano che però solo il primo comandamento è stato distintamente
udito, quello che recita “Io sono il
Signore, Dio tuo, che ti ho tratto dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù”.
Una lettura che ridurrebbe la rivelazione ad una conferma di emancipazione
dalla schiavitù. Niente affatto dicono altri! Gli ebrei sotto il Sinai hanno
udito una sola parola, la prima del primo comandamento: “Io” che tutto quanto da sola già conterrebbe. A meno che, e qui
entrano in scena i rabbini cabalisti, quello che in effetti è stato detto è una
lettera, una sola lettera, la prima lettera della prima parola del primo
comandamento. Questo unico suono è la lettera “Alef”, una lettera muta, una lettera silente, sotto il Sinai è in
effetti regnato un gran silenzio. A meno che, sostengono gli ultimi di questa
lunga catena rabbinica, non si debba intendere “Alef” soltanto come la posizione assunta dalla laringe per
emettere un suono articolato. Se vale questa ultima lettura rabbinica, la più
“minimalista”, ciò che Dio consegnò in esclusiva agli ebrei altro non fu
che …… la possibilità di una voce, la possibilità
di dire …… Ma è qui, in
questa “possibilità” di dire che ancora precede qualsiasi linguaggio, qualsiasi
logos, che si riuniscono a ben vedere la lettura massimalista e quella
minimalista. In quel luogo nel deserto, sotto un monte mai individuato, a tutte
le generazioni degli ebrei, venne soltanto consegnata …… la potenzialità del linguaggio e
dell’interpretazione, un “ancora-da-dire”
…… La Rivelazione semplicemente dice che tutto deve ancora essere detto.
Resta però la domanda centrale: perché questo ancora-da-dire è stato consegnato
ai soli ebrei? E sta in questa domanda
il cuore dell’ossessione antisemita, mossa, come si è visto, anche dal
risentimento provocato dalla sua ritenere pregiudicata l’unità universale, resa
irrealizzabile proprio per la presenza “non assimilabile” degli ebrei. Ma se quello
che è stato loro detto è un “tutto ancora
da dire” quello che è stato consegnato altro non è che un vuoto ancora
tutto da riempire, nel quali “tutti” possono e devono muoversi. Questa
constatazione, tanto semplice quanto dirompente, annulla ogni accusa di
“elezione”, che non si ha là dove si consegna un tutto completato, ma un tutto del
tutto ancora in divenire. Il problema allora, come in sostanza diceva Freud, si
ribalta. Non c’è una pretesa ebrea di “elezione” divina, ma c’è un problema di
chi, Impero romano, Cristianesimo, Islam, Lumi, si è al contrario costruito su
testi che tutto dicono e su un …… sogno compiuto di universalità, di un tutto per tutti …… Diventa
allora impossibile accettare, e occorre anzi combattere, chi non si assimila a questa universalità
compiuta non sapendo, o peggio ancora sforzandosi di non sapere, che ciò che gli è stato consegnato è il monito
che “tutto è ancora da dire”, e quindi chi, con la sua origine e la sua storia,
rammenta che la Verità non è mai “tutta”, è sempre frammentata oppure è inevitabilmente
totalitaria, criminale
Capitolo quinto: l’ecceSion
ebraica
Con il precedente Capitolo quarto si è
completato il percorso a ritroso nella Torah e nel Talmud che Delphine
Horvilleur ci ha proposto alla ricerca delle radici ebraiche che in qualche
modo si siano prestate, nel corso di molti secoli, a creare ed alimentare
l’antisemitismo. In quest’ultimo Capitolo quinto non compaiono quindi richiami
all’esegesi rabbinica perché ll tema affrontato è strettamente connesso alla
storia contemporanea, si tratta infatti dell’attuale Stato di Israele. ……. per alcuni una
vera e propria ossessione e sarebbe tanto ingenuo quanto disonesto affermare
che tutto ciò non ha nulla a che vedere con il nome ebreo e con ciò che ha
scatenato lungo la storia …….
L’opinione di Delphine Horvilleur è chiara al riguardo: le legittime critiche,
da lei stessa in molti casi condivise, a specifici aspetti della politica
israeliana, in particolare per la drammatica vicenda palestinese, in molti casi
e in molti loro sostenitori nascondono forti sentimenti antisemiti …… quali altre
politiche nazionalistiche ed espansionistiche mettono infatti costantemente in
causa la legittimità della nazione che le adotta? ……. Il percorso
storico di nascita di Israele è stato quanto mai complesso e tormentato, lo
stesso ovvio collegamento con la Shoah non è stato privo di contraddizioni, ma
a fronte di una realtà istituzionale consolidata e quindi legittima, è
difficile negare che Israele sia spesso divenuta una cartina di tornasole delle
persistenti forme di odio verso gli ebrei. Le quali, non solo, e non a caso,
periodicamente riaffiorano nelle loro forme storicamente consolidate, ma hanno anche
trovato in Israele un altro bersaglio facilmente individuabile e attaccabile. Fra
le varie spiegazioni, esaminate nei capitoli precedenti, che stanno alla base
dell’antisemitismo quella che di più interviene nell’ostracismo “a prescindere”
di Israele è ancora una volta la colpa dell’ebreo di essere la “parte” che impedisce la definizione di
un “tutto” universale. Innescando una
originale forma di attacchi di segno opposto: da destra “perché gli ebrei minacciano l’ordine occidentale”, da sinistra “perché gli ebrei rompono il fronte degli
oppressi in quanto inglobati nell’ordine occidentale”. Questa relazione
distorta del rapporto fra il tutto ed una, presunta, parte investe però,
osserva la Horvilleur, lo stesso sionismo (il movimento politico
religioso propugnatore della ricostituzione di uno Stato ebraico in Palestina) là dove …… considera Israele come il tutto della risposta alla
questione ebraica, come la sua sola soluzione …… Eppure l’ebreo, proprio per il suo attraversare per secoli il
mondo in esilio dalla propria terra, ha avuto modo di abitare diversi paesi e
lingue, e questo, diversamente da quanto sostenuto dall’antisemitismo, ha fatto
coabitare in lui tanto il “noi” quanto il “loro, tanto “il tutto” quanto “la
parte”. Già Sartre nel suo saggio “Riflessioni sulla questione ebraica” sottolineava
…… la rilevanza che lo sguardo altrui ha avuto sulla
costruzione dell’identità ebraica nella storia …… Ebbene a chiusura del suo saggio Delphine
Horvilleur, mettendo insieme questo potenziale che vive nella cultura ebraica
con la protervia cieca dell’antisemitismo, individua un provocatorio modo di “venire a capo definitivamente dell’ebreo”
…….. basta
che l’antisemita faccia credere all’ebreo che sa esattamente su cosa si fonda
la sua ebraicità. In quel momento l’ebreo non ci sarà più ……..
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