La
parola del mese
A turno si propone una parola
evocativa di pensieri fra
di loro collegabili
in grado di offrirci nuovi
spunti di riflessione
GIUGNO 2021
A questa “parola del mese” siamo pervenuti partendo dalla
segnalazione di un articolo, apparso sul Manifesto e pubblicato qui di seguito,
che Nives Enrietti, nostra socia e attiva collaboratrice, aveva trovato
interessante. Parlandone ci siamo poi resi conto che questa parola, titolo del
saggio che l’articolo commentava, si collega strettamente al tema delle
disuguaglianze e della giustizia sociale al centro di molte delle nostre recenti
riflessioni. Inoltre a tutte due sembrava indicare una tematica così complessa
e così pregnante nella sua definizione, ma soprattutto nei concreti modi di
realizzarla, da rappresentare un serio banco di prova per “la destra e la
sinistra” che, non a caso, attorno ad essa hanno entrambi da sempre evidenziato
non pochi limiti e contraddizioni. Convinti quindi che meritasse la
“promozione” a parola del mese ci siamo mossi raccogliendo altro materiale
utile per pubblicare un dignitoso post. Salvo poi, controllando l’elenco (ormai
davvero lungo) delle “parole del mese” renderci conto che l’onore di esserlo le
era già stato attribuito parecchio tempo fa, a Gennaio 2015! Andati a
controllare abbiamo constatato che al tempo, da blogger novelli, il post si
limitava a introdurre la parola con una sua breve canonica descrizione. In
qualche modo confortati si è allora deciso di mantenere la scelta così da
completare, con questa sua seconda “promozione”, il “troppo poco” pubblicato
allora. La “parola” di questo mese, introdotta con la traccia del post del
Gennaio 2015, è:
Meritocrazia (2)
Meritocrazia = Concezione
secondo la quale ogni riconoscimento (ricchezza, successo negli affari, scuola,
lavoro, politica) è commisurato al merito individuale; termine formato dalla
somma di merito (diritto alla lode, alla stima, a ricompense, dovute per la
qualità, la capacità, le opere concrete di una persona) e crazia (potere, governo, dominio). Nella sua accezione più politica sta
ad indicare una forma di governo dove le cariche amministrative, le cariche
pubbliche, e qualsiasi ruolo che richieda responsabilità nei confronti degli
altri, è affidata secondo criteri di merito, e non di appartenenza lobbistica,
familiare (nepotismo e in senso allargato clientelismo) o di casta economica
Come anticipato il
primo contributo al suo approfondimento è l’articolo di Piero Bevilacqua (1944, storico, scrittore e saggista), pubblicato sul
Manifesto del 09/04/2021, di commento del saggio “La meritocrazia” di Salvatore
Cingari (1966,
storico, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di
Perugia). L’articolo di Bevilacqua è quindi preceduto dalla copertina del
saggio in questione e dalla ripresa del suo risvolto di copertina
Il volume
ricostruisce la storia del concetto di meritocrazia dal momento in cui fu
coniata la parola (la seconda metà de gli anni cinquanta del Novecento) ai
giorni nostri, guardando sia alle elaborazioni teoriche della filosofia e del
pensiero sociale (da Young a Della Volpe, Hayek, Arendt, Rawls, Bell, Bourdieu,
Walzer, Sen, Lasch, Sennet, Giddens) sia al linguaggio politico (da Martelli a
Blair e Renzi) e al senso comune diffuso. Il percorso proposto mostra come il
termine nasca con un significato negativo, a identificare una prefigurazione
distopica, che continuerà a caratterizzare il suo utilizzo nel vecchio
continente per alcuni decenni; e come negli Stati Uniti il lemma assuma invece
da subito un significato anche positivo, all’interno di un’ideologia
tecnocratica proiettata nella nuova civiltà postindustriale. È solo all’inizio
del nuovo millennio che con la Terza Via l’ideologia meritocratica diventa
parte dei valori della cultura politica progressista europea, sempre più
sussunta dalla governance postfordista. La meritocrazia diventa perciò una
parola-chiave del neoliberalismo, giustificando le crescenti diseguaglianze
dovute ai processi di finanziarizzazione, delocalizzazione e privatizzazione.
Anche dopo la crisi del 2008, la meritocrazia resta uno snodo fondamentale
della narrazione neopopulista, a documentare il profondo legame fra
quest’ultima e il neoliberalismo
Non c’è talento che tenga in una società classista
Chi non concorda sul principio che per accedere a un impiego pubblico tramite un concorso cioè la valutazione di una commissione competente non debba valere il criterio del merito nella scelta dei vincitori? Che si tratti dell’accesso alla carica di direttore generale di un ministero o di semplice impiegato comunale, nessuno troverebbe giusto e accettabile che a essere premiati fossero i meglio raccomandati (da un ministro o dal parroco) o i più simpatici e fisicamente avvenenti. L’ovvio criterio di giustizia, alla base dell’efficienza ordinaria di ogni amministrazione di uno stato di diritto, nasconde la più potente macchina di esclusione sociale su cui si regge la società capitalistica. I candidati che arrivano a sostenere i concorsi costituiscono la punta di un iceberg la cui base sommersa è affollata da una vasta platea di individui che per nascita, ambiente familiare, percorso scolastico, destino sociale non possono neppure aspirare a presentarsi a un concorso. Il classismo delle società contemporanee opera ab ovo feroci selezioni nelle possibilità di successo dei cittadini, che vengono a posteriori nascoste dalla relativa neutralità meritocratica del concorso pubblico. Quest’ultimo passaggio finale di un lungo percorso non fa che sancire l’ingiustizia sociale originaria con cui la società classista ha già escluso la massa degli immeritevoli, cioè dei subalterni, degli emarginati, dei più poveri, di chi non ha potuto studiare. Solo considerando le disparità enormi dei «punti di partenza» che dividono ab inizio i singoli individui, il concetto di meritocrazia appare per quello che è: uno dei più potenti dispositivi di inganno ideologico con cui il potere capitalistico nasconde i fondamenti di emarginazione e ingiustizia su cui si regge. Interviene sul problema (ampiamente discusso in altri paesi) Salvatore Cingari, con La meritocrazia (Ediesse, pp. 221, euro 15), un agile saggio che non solo ricostruisce le origini storiche del termine e il dibattito internazionale anche recente, ma soprattutto illustra con brillante acribia il ruolo di concetto egemonico giocato da questo termine nel processo di devastazione culturale operato dell’ideologia neoliberista negli ultimi vent’anni. Egli non solo ricorda sulla scorta di qualche grande pensatore americano, come John Rawls o ricorrendo agli studi sulla meritocrazia di Michael Young come le «uguaglianze delle opportunità», tanto vantate dalla sociologia americana e dai suoi superficiali cantori europei, siano in realtà opportunità offerte ad alcuni pochi di sopravanzare i molti meno dotati in quanto meno fortunati. Le stesse componenti fondamentali del merito, vale a dire lo sforzo e il talento, sono frutto dell’ambiente familiare e sociale o sono doni della natura e come tali immeritati. Ma la parte più originale del contributo di Cingari si condensa nella disamina di come il criterio di meritocrazia sia diventato, soprattutto in Italia, uno strumento di surrogazione dell’analisi sociale e una forma ingannevole di camuffamento delle gerarchie di classe. L’esaltazione dell’individuo più dotato, più capace, dunque il più utile all’impresa capitalistica e il più efficiente nel far funzionare la macchina pubblica, crea un immaginario valoriale che fa apparire i meno dotati come colpevoli della loro minorità, responsabili delle loro sconfitte, della loro emarginazione. Al tempo stesso questa vera e propria concezione del mondo fa si che tutti i deficit della società, il mal funzionamento dei servizi, il disagio dei ceti poveri, gli scacchi delle imprese o i fallimenti dell’operato pubblico, siano spiegati con criteri moralistici: la mancanza di competenza, di merito, da parte dei gestori della cosa pubblica. Il fallimento del mercato, quindi la perdita di competitività del sistema, nella gara inter-capitalistica, va cercata nella insufficiente applicazione della meritocrazia. E qui l’autore coglie un nesso che val la pena illustrare con le sue parole. Secondo Cingari la meritocrazia diventa l’anello di congiunzione fra ideologia neoliberista e retorica populistica: «l’idea, cioè, che il crescente malessere sociale sia frutto di un mancato rispetto delle regole in una visione della società come gioco competitivo. La questione morale – in una prospettiva che diventa interclassista – a sovrapporsi a quella sociale, imputando alla corruzione, al favoritismo, al privilegio neofeudale di imprese e istituzioni pubbliche o partitico-sindacali, la responsabilità dell’accrescersi delle disuguaglianze, dell’impoverimento del ceto medio, della diminuzione delle opportunità di lavoro». Il discorso sul merito occulta così presso i ceti popolari ogni spiegazione storica e di classe delle disuguaglianze, dell’emarginazione e dello sfruttamento subito, sublimandola sul piano del costume, affondandola nel sopramondo dei sempiterni e immodificabili egoismi umani e così disinnescando ogni volontà di rivolta e conflitto. In aggiunta a quello di Cingari, a testimonianza di quanto la meritocrazia rappresenti un tema vivo e centrale nel dibattito politico, è stato recentemente pubblicato anche qui in Italia il saggio di Michael Sandel (1953, filosofo statunitense, uno dei principali esponenti del comunitarismo, rivolge la sua ricerca alla filosofia morale e politica) “La tirannia del merito”
Il seguente articolo di Francesca Rigotti (1951, filosofa e
saggista)
apparso sulla rivista on-line DoppioZero commenta nel merito il saggio di
Sandel evidenziandone gli aspetti salienti
La
tirannia del merito
Nel suo libro All’inferno
e ritorno. Per la nostra rinascita sociale ed economica, (Feltrinelli,
Milano 2021, che ha in copertina l’immagine stilizzata di un labirinto, et pour
cause) Carlo Cottarelli afferma una verità inconfutabile: la tutela del merito
è «un fondamentale principio di efficienza economica». La parte seconda
dell’opera, quella che narra il ritorno dall’inferno (vogliamo sperare) è
infatti dedicata al merito, principio tanto lodato e magnificato quanto spinoso
e non scevro di problemi. Lo mostra infatti, con dissimili conclusioni, un
altro testo di un altro autore ma della stessa casa editrice: La
tirannia del merito (Feltrinelli, Milano 2021), che traduce la
versione originale The Tyranny of Merit, di Michael Sandel. Sandel,
la star mondiale della filosofia politica, il docente ad Harvard che incanta
migliaia e migliaia di studenti nelle sue lezioni nella prestigiosa università
statunitense ma anche sul web. Bene. Il testo di Sandel è integralmente
dedicato al merito, all’efficienza della scelta effettuata secondo il merito,
ma anche ai suoi effetti collaterali non sempre positivi e, nei confronti della
giustizia, decisamente pessimi.
Un grado sufficiente di
possibilità
Torniamo all’economista e
all’efficienza produttiva che richiede il merito per distribuire incarichi e
compensi individuali. Per lasciar operare correttamente questo criterio bisogna
puntare, afferma Cottarelli, sul dare a tutti le stesse chances o uguaglianza di
possibilità o meglio, per essere realisti, «un grado sufficiente di
possibilità». Quando si cominciò a parlare di questi temi anni fa si usava
l’immagine della corsa a condizioni impari: è ovvio che se si allineano sulla
linea di partenza la gazzella e la tartaruga, al traguardo arriverà la
gazzella, come Achille del resto, a meno che non ci metta lo zampino Zenone e
gli faccia percorrere tutti i punti della linea uno dopo l’altro accordando un
piccolo vantaggio alla tartaruga. Ma se la tartaruga venisse adeguatamente
allenata? Ce la potrebbe fare? Fornire a tutti il grado sufficiente di
possibilità vorrebbe dire equiparare le condizioni di partenza con espedienti
tali da annullare i vantaggi di cui godono le gazzelle alla nascita: zampe
lunghe e elastiche, allenamento costante per sfuggire ai leoni della savana:
talenti ed esercizi che alla tartaruga non sono dati. Commenteremo dunque
questo esempio con le parole di John Rawls, grande filosofo politico e teorico
del liberalismo egualitario del Novecento, nonché forte critico della
meritocrazia: «Nessuno merita il posto che ha nella distribuzione delle doti
naturali, più di quanto non merita la sua posizione di partenza nella società.
L’affermazione che un uomo merita il carattere superiore che lo mette in grado
di fare uno sforzo per sviluppare le sue capacità è altrettanto problematica;
il suo carattere infatti dipende in buona parte da una famiglia e da
circostanze sociali a lui favorevoli, cose per cui non può pretendere alcun
merito» (J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano 1982, p.
89).
Merito passivo e merito
attivo
Davanti a talenti assegnati
dal destino o merito passivo, zampe lunghe o alto Q.I., è facile dire che se
non c’è responsabilità individuale non c’è merito. Ma anche la posizione che riconosce
il merito attivo, quello che ha a che fare con la componente dello sforzo, la
posizione cioè che mette in conto le diseguaglianze perché esse riflettono non
le doti ma le ambizioni degli individui e le loro scelte responsabili, è
indebolito dalla critica di Rawls. E se l’ambizione e la capacità di sforzarsi
e di compiere scelte astute non fossero nient’altro che doti naturali, o
capacità che si apprendono socialmente in certi contesti educativo-ambientali e
non in altri, come sostiene Rawls? Per una scelta pienamente consapevole nei
confronti dell’impegno e dello sforzo sono infatti necessarie premesse quali
capacità di previsione, fiducia in se stessi, forza di volontà, costanza ecc.,
qualità in gran parte dipendenti da fattori ereditari, ambiente di nascita,
cure parentali ed educative. Insomma Rawls mette a tacere entrambe le
componenti del merito, entrambe ingiuste: il talento/ doti naturali, e la
capacità di impegnarsi.
Umiliati e meritevoli
Ma la critica più forte al merito era arrivata vent’anni circa prima di quella di Rawls, e proprio dall’inventore, nel 1958, del termine meritocrazia, il sociologo inglese Michael Young. Ed era stato lo stesso Young a ideare l’equazione del merito universalmente accettata, ovvero: Q.I. (talento, doti naturali) + sforzo (impegno, applicazione) = merito. Attenzione però, perché nel suo The Rise of Meritocracy Young descrive la società meritocratica come una distopia della peggior specie, mostrando tramite l’espediente dell'ironia, le due facce della medaglia, cioè vantaggi e svantaggi della società meritocratica. Uno degli svantaggi peggiori, dal punto di vista sociale, è la divisione della società in intelligenti e stupidi; in istituzioni di serie A, popolate da persone per lo più arroganti, competitive, aggressive e prive di valori morali, e istituzioni di serie B che raccolgono persone in gran parte demoralizzate, avvilite e umiliate nella loro autostima. Si può ridurre a «invidia» il sentimento che proveranno questi ultimi nel vedersi relegati in simile condizione? Nella società meritocratica inoltre competitività e aggressione trionferebbero a tutto svantaggio di doti come la gentilezza e il coraggio delle persone, la loro immaginazione e sensibilità, simpatia, mitezza e generosità, mentre giovani privi di esperienza, saggezza e maturità, nota Young, potrebbero vantarsi dei loro meriti e spadroneggiare su persone più mature ma meno privilegiate.
La ricetta di Sandel
Le argomentazioni di Young e
Rawls vengono riprese in toto nel volume di Sandel e condite con un po’ del Max
Weber dell’etica protestante, con la colossale intuizione ivi contenuta della
tensione insita, soprattutto nel Calvinismo, tra merito umano e grazia divina;
con un pizzico di Pelagio e della sua idea (eresia! eresia!) che l’essere umano
possa meritare la salvezza dell’anima senza l’intervento della grazia divina.
Infine, con un po’ di critica alla retorica di Obama, il presidente che fuse
merito ed eccezionalismo americano facendone il tema centrale delle sue
campagne e presidenze: «Ciò che rende l’America così eccezionale, ciò che ci fa
così speciali ... è questa idea di base che in questo paese, non importa il tuo
aspetto, non importa da dove vieni, non importa qual è il tuo cognome ... se
lavori duro e sei pronto ad assumerti responsabilità, puoi farcela, puoi andare
avanti» (p. 14). Se le opportunità sono uguali, e qui rientra Cottarelli a
rafforzare le parole di Obama, le persone andranno dove talento e sforzo le
porteranno e il successo sarà merito loro. Ma se talento e sforzo sono entrambi
socialmente e culturalmente condizionati (per riprendere Rawls), e se la
retorica del merito umilia e demoralizza la società e la spacca in vincenti
convinti che il successo sia merito loro, e in perdenti indotti a pensare di
aver meritato l’insuccesso (per riprendere Young) la conclusione di Sandel è
drastica: «A condizioni di rampante disuguaglianza e di mobilità bloccata,
ripetere il messaggio che siamo responsabili della nostra sorte e meritiamo
quel che abbiamo erode la solidarietà e demoralizza i lasciati indietro dalla
globalizzazione, etc. » (p. 17).
Merito e sorteggio
Dunque gli argomenti di
Sandel, benché presentati nella solita maniera vivace e attraente e ricca di
«casi», sono lungi dall’essere inediti. Forse un momento di originalità lo si
può individuare nel suo introdurre un elemento di scelta particolare: il caso,
il sorteggio. Prendiamo tutte le buste con le domande presentate dagli studenti
per iscriversi a facoltà prestigiose o a corsi di laurea a numero chiuso e che
soddisfino le condizioni date (cui io aggiungerei il pio desiderio della
conoscenza del latino e della cultura classica), propone Sandel, buttiamole giù
dalle scale dei templi della cultura universitaria e poi tiriamole su a
casaccio, nel numero che corrisponde ai posti a disposizione, e forse
riusciremo a eliminare un po’ di ingressi privilegiati...
Il caso, questo sconosciuto
Eh, un bel ritorno al
sorteggio, con cui forse otterremmo qualche punto in più per la giustizia e
anche per l’efficienza e saremmo tutti più contenti. Del ruolo del caso nella
scelta democratica si occupano Nadia Urbinati e Luciano Vandelli in una bella
vela einaudiana del 2020: La democrazia del sorteggio, in cui
si riscopre un metodo antico che ritrova oggi nuova energia. Nella richiesta
del sorteggio si legge sfiducia nei confronti delle competenze; ma anche un
rimedio alla crisi di risentimento, rancore e umiliazione che getta gli esclusi
dai successi della globalizzazione nelle braccia dei partiti di estrema destra.
Se infatti la scelta nasce dal caso non è necessario incolparsi dei propri
insuccessi e si sta meglio; o se deriva, come accadeva per es. nell’Ancien
Régime, da privilegi invalicabili di sangue, di ceto o di sesso come quelli cui
si trova davanti, in Il Rosso e il nero di
Stendhal, Julien Sorel, giovane dotato costretto a indossare la tonaca nera
dell’ecclesiastico perché non può indossare la divisa rossa dei militari.
Il sorteggio in democrazia
In Italia la proposta di far
intervenire il caso nella democrazia integrando le elezioni con il sorteggio è
venuta dal Movimento 5 Stelle. Trovo l’idea attraente anche se viene proposta,
per come mi posiziono io, da un avversario politico. Ma se c’è una cosa che ho
imparato in questa pandemia è che ci si trova a correre il rischio di lodare il
peggiore avversario politico, se dice qualcosa di ragionevole che i tuoi amici
non dicono, o essere dal tuo peggior nemico lodato, in sintonia con le parole
di Andrea Voßkuhle, Presidente della Corte Costituzionale tedesca. Il libro,
soprattutto nella parte di Urbinati, dà conto delle ragioni teoriche e delle
esperienze storiche del sorteggio, che qui non ripercorreremo. Esso mostra
soprattutto come l’introduzione della scelta per sorteggio potrebbe apportare
alle società democratiche misure di difesa dell’eguaglianza legale e politica
nonché di argine contro la corruzione. Di nuovo un bel modo per coniugare
efficienza e giustizia. Interessante, nell’analisi di Urbinati, è l’idea della
necessità che chi lo pratica sia convinto che il sorteggio sia neutrale, non
influenzato, ed equivalga, ecco il punto, al caso assoluto. Ma non c’è anche
una questione di convinzione alla base del «riconoscimento egualitario», che
solleva le persone dalla condizione di umiliazione e depressione economica,
assegnando loro una dignità che può essere utile per puntare a riscattarsi?
Il suffragio e la sorte
La sorte deve essere davvero
centrale se si è pensato di poterle affidare decisioni anche importanti.
Soprattutto essa ci deve apparire imparziale, sopra le parti, neutrale e non
influenzata da fattori esterni, in una parola, giusta: non è un caso che
entrambe le personificazioni, della giustizia e della fortuna, portino una
benda sugli occhi. Nella scelta condotta a caso non concorrono né la ragione
determinata né la volontà intenzionale; essa avviene per accidente, avrebbe
detto Aristotele, e non in vista di un fine, anche perché la sorte, come
sappiamo, non ci vede tanto bene. Per noi occidentali moderni che abbiamo
attraversato il pensiero platonico, il quale ci attribuisce una razionalità che
guida al bene, nonché il pensiero cristiano che ci riconosce una volontà libera
che svolge la stessa funzione, per noi che continuiamo a credere fortemente nel
peso di questi fattori, volontà, ragione, intenzionalità, merito, è difficile convivere
con l'idea greca arcaica di poter essere controllati da forze esterne a noi, di
essere attaccati a un filo da cui pendiamo (sorte viene dal latino sérere,
annodare, legare insieme). Ci illudiamo invece di essere guidati unicamente da
ragione e volontà, intenzione e impegno, come se contenessero più saggezza del
destino. I greci antichi procedevano spesso alle elezioni di governanti e
magistrati per sorteggio: che avessero ragione loro? Che ci sia nel caso una
nuova possibilità di tenere insieme merito, efficienza e giustizia?
Completiamo il commento al saggio di Sandel con il
seguente articolo di Mauro Del Corno (1978, giornalista finanziario, saggista) meno addentro agli aspetti
più filosofici e più attento a quelli politici
La finzione del merito
Cosa c’è che non va nella meritocrazia? Da anni siamo
talmente immersi in discorsi e racconti sulle meravigliose virtù di questa
parola che è difficile persino porsi la domanda.
Eppure sarebbe il caso di farlo, come argomenta il libro del docente di filosofia
politica di Harvard Micheal Sandel. Qui si annidano infatti alcune delle ragioni che
alimentano le simpatie nei confronti di movimenti populisti in tutto il mondo
occidentale. Qui le origini dell’elezione di Donald
Trump o della Brexit. Voti
con il “dito medio” ma spesso molto più consapevoli di quanto non
raccontano molti commentatori. Circoscritta ad alcuni ambiti la meritocrazia è
qualcosa di sano e desiderabile. Non lo è più se viene utilizzata come prima
pietra su cui edificare una società. Oppure come foglia
di fico per nascondere la totale inazione dei governi in
tema di ingiustizia sociale. Quello che invece hanno fatto negli anni le forze
cosiddette progressiste, dai labouristi di Tony
Blair (e tardivi imitatori italici),
ai social democratici tedeschi di Gerhard
Shroeder, passando per Barak Obama o Hillary
Clinton. – La meritocrazia, ricorda Sandel, nella realtà non
esiste. Negli Stati Uniti, gli studenti della Ivy
League (il gruppo di università più prestigiose del
paese, ndr) provenienti dal 50% più povero della popolazione sono il 4% del totale.
Gli alunni che arrivano dall’1% delle famiglie più abbienti sono di più di
quelli che provengono dal 50% meno benestante. Spesso chi viene ammesso nelle
scuole di élite non è più intelligente o più meritevole.
Spesso è solo chi ha avuto alle spalle una famiglia che lo ha
sostenuto negli studi, gli ha permesso di frequentare corsi di
preparazione ai test di ammissione o di fare sport come la vela o l’equitazione
che danno “crediti” e facilitano l’ammissione. In Europa la situazione è meno
estrema, almeno in certi paesi, ma la direzione è la stessa e la retorica
meritocratica è altrettanto tambureggiante. Negli
ultimi decenni la risposta delle forze progressiste alle diseguaglianze
crescenti è stata sempre una: più
scuola. “Per le forze politiche progressiste ogni
problema economico è un problema di insufficiente educazione scolastica,
in altri termini un fallimento degli “sconfitti” dalla globalizzazione nel
procurarsi giuste competenze e giuste credenziali”, scrive Sandel. Usato in
questo modo l’argomento diventa però uno specchietto
per le allodole. Un modo per distogliere l’attenzione da altri
fattori, più rilevanti, che hanno determinato e determinano l‘incremento
delle iniquità,
come l’azzeramento delle capacità contrattuali dei
lavoratori, dovuto anche alla polverizzazione dei sindacati o
come sistemi fiscali che favoriscono le fasce più benestanti della
popolazione. La risposta che viene offerta è tutt’al più una via di fuga, non
un rimedio.
“What you can earn depends on what you can learn”, quello che può
guadagnare dipende da quanto tu impari, ripeteva ossessivamente Bill
Clinton. E pazienza per chi era ormai fuori tempo massimo o per
chi, anche volendo, all’università non ci poteva andare. La stessa litania è
stata ripetuta da Barack Obama, Hillary Clinton e altri leader europei progressisti. L’espressione
“you deserve”, tu meriti, voi meritate, compare su libri e articoli 4
volte di più rispetto al 1970. Siamo poi davvero convinti che edificare una società
sul concetto di meritocrazia sia una buona scelta? Far passare l’idea, molto
opinabile, che un individuo ricopra una certa posizione esclusivamente per i
suoi meriti o demeriti è pericoloso. Tutto il merito di un successo o il peso
di un fallimento viene caricato sul singolo individuo, assolvendo in toto
l’organizzazione sociale di cui fa parte. Così, chi sta in vetta diventa
arrogante, pensa si meritarsi tutto quello che ha, ed è
meno incline ad atteggiamenti solidaristici. Chi sta in basso sviluppa sensi
di colpa, per lo più immotivati. Il senso di colpa si evolve
facilmente in rancore, peggio in violenza. Il professore Martin
Delay dell’università
dell’Ontario ha accuratamente documentato come il livello di diseguaglianze di
una società ,sia la variabile più strettamente correlata al tasso di omicidi. E
invece le elites sul concetto di meritocrazia ci marciano e ci marciano eccome.
Un modo per lavarsi le mani, lasciare le cose come stanno e per giustificare i propri privilegi. Sandel
definisce anche il concetto di “credenzialismo”: entri
in certe cerchie sociali solo se puoi esibire determinate credenziali. Il
valore di una laurea ad Oxford o ad Harvard risiede più in questo che nel
livello di preparazione e competenze che fornisce. “Il
credenzialismo è oggi l’unico pregiudizio socialmente accettato”,
scrive Sandel e alimenta l’arroganza intellettuale di chi sta ai vertici. “Probabilmente
siamo troppo intelligenti, troppo sottili e raffinati”. Così un esponente
dell’Esecutivo di Emmanuel Macron ha risposto a chi gli chiedeva, durante le
proteste di piazza francesi, se il governo avesse sbagliato qualcosa. Il fatto
che si possa arrivare a risposte di questo tipo la dice lunga di quanto
siderale sia ormai la distanza che si è creata tra elites e gran parte dell’
elettorato. “Abbracciamo la globalizzazione e la prosperità che porta e
usiamola per attenuare le sofferenze per le classi lavoratrici”, questa
è stata la promessa che i partiti progressisti hanno fatto al loro elettorato
tradizionale. Ma questa promessa non è mai stata mantenuta e quando le fasce si
sentono abbandonate è naturale, e comprensibile, che cedano alle sirene del
populismo. Tra l’altro, documenta Sandel, questa superiorità delle capacità di
governo delle elites con credenziali è tutta da dimostrare. Le principali doti
che dovrebbe avere chi governa sono visione politica e virtù civiche. Non
esattamente quello che viene insegnato all’università. Come ricorda l’autore,
alcuni dei presidenti statunitensi più apprezzati di sempre, come George
Washington, Abramo Lincoln e Harry Truman non avevano frequentato il college. Frank
Delano Roosvelt, che pure aveva studiato Harvard, contava nel suo
entourage, diversi esponenti privi di “credenziali” universitarie tra cui lo
strettissimo consigliere Harry Hopkins, era un assistente sociale. L’esito finale dei
ragionamenti di Sandel non è affatto che l’istruzione non sia importante o
che la cultura non abbia un valore. Non è neppure che tutti dovrebbero essere
uguali impiegati alla pari. Non è una celebrazione dell’uno
vale uno. E’ semplicemente un invito a dare al “merito” il giusto significato,
il giusto valore e a impiegarlo nei giusti contesti. Senza che diventi la
(finta) stella polare delle nostre società come accaduto negli ultimi
40 anni. In precedenza la meritocrazia non era vista come un qualcosa di
particolarmente desiderabile. L’assunto era che quello che una persona guadagna
dipende in buona misura da fattori fuori dal suo controllo,
come il livello di domanda di uno specifico talento e il fatto che i talenti e
le capacità di cui una persona è dotata siano rari o molto diffusi. Poi le cose
sono cambiate. I risultati, sia economici che sociali, sono tutt’altro che
entusiasmanti.
Infine
chi fosse interessato ad approfondire le opinioni di Sandel può, utilizzando il
sottostante link, visionare una sua recente intervista
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