martedì 1 giugno 2021

La Parola del mese - Giugno 2021

 

La parola del mese

 A turno si propone una parola

 evocativa di pensieri fra di loro collegabili

 in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

GIUGNO 2021

A questa “parola del mese” siamo pervenuti partendo dalla segnalazione di un articolo, apparso sul Manifesto e pubblicato qui di seguito, che Nives Enrietti, nostra socia e attiva collaboratrice, aveva trovato interessante. Parlandone ci siamo poi resi conto che questa parola, titolo del saggio che l’articolo commentava, si collega strettamente al tema delle disuguaglianze e della giustizia sociale al centro di molte delle nostre recenti riflessioni. Inoltre a tutte due sembrava indicare una tematica così complessa e così pregnante nella sua definizione, ma soprattutto nei concreti modi di realizzarla, da rappresentare un serio banco di prova per “la destra e la sinistra” che, non a caso, attorno ad essa hanno entrambi da sempre evidenziato non pochi limiti e contraddizioni. Convinti quindi che meritasse la “promozione” a parola del mese ci siamo mossi raccogliendo altro materiale utile per pubblicare un dignitoso post. Salvo poi, controllando l’elenco (ormai davvero lungo) delle “parole del mese” renderci conto che l’onore di esserlo le era già stato attribuito parecchio tempo fa, a Gennaio 2015! Andati a controllare abbiamo constatato che al tempo, da blogger novelli, il post si limitava a introdurre la parola con una sua breve canonica descrizione. In qualche modo confortati si è allora deciso di mantenere la scelta così da completare, con questa sua seconda “promozione”, il “troppo poco” pubblicato allora. La “parola” di questo mese, introdotta con la traccia del post del Gennaio 2015, è:

Meritocrazia (2)

Meritocrazia = Concezione secondo la quale ogni riconoscimento (ricchezza, successo negli affari, scuola, lavoro, politica) è commisurato al merito individuale; termine formato dalla somma di merito (diritto alla lode, alla stima, a ricompense, dovute per la qualità, la capacità, le opere concrete di una persona) e crazia (potere, governo, dominio). Nella sua accezione più politica sta ad indicare una forma di governo dove le cariche amministrative, le cariche pubbliche, e qualsiasi ruolo che richieda responsabilità nei confronti degli altri, è affidata secondo criteri di merito, e non di appartenenza lobbistica, familiare (nepotismo e in senso allargato clientelismo) o di casta  economica

Come anticipato il primo contributo al suo approfondimento è l’articolo di Piero Bevilacqua (1944, storico, scrittore e saggista), pubblicato sul Manifesto del 09/04/2021, di commento del saggio “La meritocrazia” di Salvatore Cingari (1966, storico, docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università di Perugia). L’articolo di Bevilacqua è quindi preceduto dalla copertina del saggio in questione e dalla ripresa del suo risvolto di copertina


Il volume ricostruisce la storia del concetto di meritocrazia dal momento in cui fu coniata la parola (la seconda metà de gli anni cinquanta del Novecento) ai giorni nostri, guardando sia alle elaborazioni teoriche della filosofia e del pensiero sociale (da Young a Della Volpe, Hayek, Arendt, Rawls, Bell, Bourdieu, Walzer, Sen, Lasch, Sennet, Giddens) sia al linguaggio politico (da Martelli a Blair e Renzi) e al senso comune diffuso. Il percorso proposto mostra come il termine nasca con un significato negativo, a identificare una prefigurazione distopica, che continuerà a caratterizzare il suo utilizzo nel vecchio continente per alcuni decenni; e come negli Stati Uniti il lemma assuma invece da subito un significato anche positivo, all’interno di un’ideologia tecnocratica proiettata nella nuova civiltà postindustriale. È solo all’inizio del nuovo millennio che con la Terza Via l’ideologia meritocratica diventa parte dei valori della cultura politica progressista europea, sempre più sussunta dalla governance postfordista. La meritocrazia diventa perciò una parola-chiave del neoliberalismo, giustificando le crescenti diseguaglianze dovute ai processi di finanziarizzazione, delocalizzazione e privatizzazione. Anche dopo la crisi del 2008, la meritocrazia resta uno snodo fondamentale della narrazione neopopulista, a documentare il profondo legame fra quest’ultima e il neoliberalismo

Non c’è talento che tenga in una società classista

Chi non concorda sul principio che per accedere a un impiego pubblico tramite un concorso cioè la valutazione di una commissione competente non debba valere il criterio del merito nella scelta dei vincitori? Che si tratti dell’accesso alla carica di direttore generale di un ministero o di semplice impiegato comunale, nessuno troverebbe giusto e accettabile che a essere premiati fossero i meglio raccomandati (da un ministro o dal parroco) o i più simpatici e fisicamente avvenenti. L’ovvio criterio di giustizia, alla base dell’efficienza ordinaria di ogni amministrazione di uno stato di diritto, nasconde la più potente macchina di esclusione sociale su cui si regge la società capitalistica. I candidati che arrivano a sostenere i concorsi costituiscono la punta di un iceberg la cui base sommersa è affollata da una vasta platea di individui che per nascita, ambiente familiare, percorso scolastico, destino sociale non possono neppure aspirare a presentarsi a un concorso. Il classismo delle società contemporanee opera ab ovo feroci selezioni nelle possibilità di successo dei cittadini, che vengono a posteriori nascoste dalla relativa neutralità meritocratica del concorso pubblico. Quest’ultimo passaggio finale di un lungo percorso non fa che sancire l’ingiustizia sociale originaria con cui la società classista ha già escluso la massa degli immeritevoli, cioè dei subalterni, degli emarginati, dei più poveri, di chi non ha potuto studiare. Solo considerando le disparità enormi dei «punti di partenza» che dividono ab inizio i singoli individui, il concetto di meritocrazia appare per quello che è: uno dei più potenti dispositivi di inganno ideologico con cui il potere capitalistico nasconde i fondamenti di emarginazione e ingiustizia su cui si regge. Interviene sul problema (ampiamente discusso in altri paesi) Salvatore Cingari, con La meritocrazia (Ediesse, pp. 221, euro 15), un agile saggio che non solo ricostruisce le origini storiche del termine e il dibattito internazionale anche recente, ma soprattutto illustra con brillante acribia il ruolo di concetto egemonico giocato da questo termine nel processo di devastazione culturale operato dell’ideologia neoliberista negli ultimi vent’anni. Egli non solo ricorda sulla scorta di qualche grande pensatore americano, come John Rawls o ricorrendo agli studi sulla meritocrazia di Michael Young come le «uguaglianze delle opportunità», tanto vantate dalla sociologia americana e dai suoi superficiali cantori europei, siano in realtà opportunità offerte ad alcuni pochi di sopravanzare i molti meno dotati in quanto meno fortunati. Le stesse componenti fondamentali del merito, vale a dire lo sforzo e il talento, sono frutto dell’ambiente familiare e sociale o sono doni della natura e come tali immeritati. Ma la parte più originale del contributo di Cingari si condensa nella disamina di come il criterio di meritocrazia sia diventato, soprattutto in Italia, uno strumento di surrogazione dell’analisi sociale e una forma ingannevole di camuffamento delle gerarchie di classe. L’esaltazione dell’individuo più dotato, più capace, dunque il più utile all’impresa capitalistica e il più efficiente nel far funzionare la macchina pubblica, crea un immaginario valoriale che fa apparire i meno dotati come colpevoli della loro minorità, responsabili delle loro sconfitte, della loro emarginazione. Al tempo stesso questa vera e propria concezione del mondo fa si che tutti i deficit della società, il mal funzionamento dei servizi, il disagio dei ceti poveri, gli scacchi delle imprese o i fallimenti dell’operato pubblico, siano spiegati con criteri moralistici: la mancanza di competenza, di merito, da parte dei gestori della cosa pubblica. Il fallimento del mercato, quindi la perdita di competitività del sistema, nella gara inter-capitalistica, va cercata nella insufficiente applicazione della meritocrazia. E qui l’autore coglie un nesso che val la pena illustrare con le sue parole. Secondo Cingari la meritocrazia diventa l’anello di congiunzione fra ideologia neoliberista e retorica populistica: «l’idea, cioè, che il crescente malessere sociale sia frutto di un mancato rispetto delle regole in una visione della società come gioco competitivo. La questione morale – in una prospettiva che diventa interclassista – a sovrapporsi a quella sociale, imputando alla corruzione, al favoritismo, al privilegio neofeudale di imprese e istituzioni pubbliche o partitico-sindacali, la responsabilità dell’accrescersi delle disuguaglianze, dell’impoverimento del ceto medio, della diminuzione delle opportunità di lavoro». Il discorso sul merito occulta così presso i ceti popolari ogni spiegazione storica e di classe delle disuguaglianze, dell’emarginazione e dello sfruttamento subito, sublimandola sul piano del costume, affondandola nel sopramondo dei sempiterni e immodificabili egoismi umani e così disinnescando ogni volontà di rivolta e conflitto. In aggiunta a quello di Cingari, a testimonianza di quanto la meritocrazia rappresenti un tema vivo e centrale nel dibattito politico, è stato recentemente pubblicato anche qui in Italia il saggio di Michael Sandel (1953, filosofo statunitense, uno dei principali esponenti del comunitarismo, rivolge la sua ricerca alla filosofia morale e politica) “La tirannia del merito”

Il seguente articolo di Francesca Rigotti (1951, filosofa e saggista) apparso sulla rivista on-line DoppioZero commenta nel merito il saggio di Sandel evidenziandone gli aspetti salienti

La tirannia del merito

Nel suo libro All’inferno e ritorno. Per la nostra rinascita sociale ed economica, (Feltrinelli, Milano 2021, che ha in copertina l’immagine stilizzata di un labirinto, et pour cause) Carlo Cottarelli afferma una verità inconfutabile: la tutela del merito è «un fondamentale principio di efficienza economica». La parte seconda dell’opera, quella che narra il ritorno dall’inferno (vogliamo sperare) è infatti dedicata al merito, principio tanto lodato e magnificato quanto spinoso e non scevro di problemi. Lo mostra infatti, con dissimili conclusioni, un altro testo di un altro autore ma della stessa casa editrice: La tirannia del merito (Feltrinelli, Milano 2021), che traduce la versione originale The Tyranny of Merit, di Michael Sandel. Sandel, la star mondiale della filosofia politica, il docente ad Harvard che incanta migliaia e migliaia di studenti nelle sue lezioni nella prestigiosa università statunitense ma anche sul web. Bene. Il testo di Sandel è integralmente dedicato al merito, all’efficienza della scelta effettuata secondo il merito, ma anche ai suoi effetti collaterali non sempre positivi e, nei confronti della giustizia, decisamente pessimi.

Un grado sufficiente di possibilità

Torniamo all’economista e all’efficienza produttiva che richiede il merito per distribuire incarichi e compensi individuali. Per lasciar operare correttamente questo criterio bisogna puntare, afferma Cottarelli, sul dare a tutti le stesse chances o uguaglianza di possibilità o meglio, per essere realisti, «un grado sufficiente di possibilità». Quando si cominciò a parlare di questi temi anni fa si usava l’immagine della corsa a condizioni impari: è ovvio che se si allineano sulla linea di partenza la gazzella e la tartaruga, al traguardo arriverà la gazzella, come Achille del resto, a meno che non ci metta lo zampino Zenone e gli faccia percorrere tutti i punti della linea uno dopo l’altro accordando un piccolo vantaggio alla tartaruga. Ma se la tartaruga venisse adeguatamente allenata? Ce la potrebbe fare? Fornire a tutti il grado sufficiente di possibilità vorrebbe dire equiparare le condizioni di partenza con espedienti tali da annullare i vantaggi di cui godono le gazzelle alla nascita: zampe lunghe e elastiche, allenamento costante per sfuggire ai leoni della savana: talenti ed esercizi che alla tartaruga non sono dati. Commenteremo dunque questo esempio con le parole di John Rawls, grande filosofo politico e teorico del liberalismo egualitario del Novecento, nonché forte critico della meritocrazia: «Nessuno merita il posto che ha nella distribuzione delle doti naturali, più di quanto non merita la sua posizione di partenza nella società. L’affermazione che un uomo merita il carattere superiore che lo mette in grado di fare uno sforzo per sviluppare le sue capacità è altrettanto problematica; il suo carattere infatti dipende in buona parte da una famiglia e da circostanze sociali a lui favorevoli, cose per cui non può pretendere alcun merito» (J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano 1982, p. 89). 

Merito passivo e merito attivo

Davanti a talenti assegnati dal destino o merito passivo, zampe lunghe o alto Q.I., è facile dire che se non c’è responsabilità individuale non c’è merito. Ma anche la posizione che riconosce il merito attivo, quello che ha a che fare con la componente dello sforzo, la posizione cioè che mette in conto le diseguaglianze perché esse riflettono non le doti ma le ambizioni degli individui e le loro scelte responsabili, è indebolito dalla critica di Rawls. E se l’ambizione e la capacità di sforzarsi e di compiere scelte astute non fossero nient’altro che doti naturali, o capacità che si apprendono socialmente in certi contesti educativo-ambientali e non in altri, come sostiene Rawls? Per una scelta pienamente consapevole nei confronti dell’impegno e dello sforzo sono infatti necessarie premesse quali capacità di previsione, fiducia in se stessi, forza di volontà, costanza ecc., qualità in gran parte dipendenti da fattori ereditari, ambiente di nascita, cure parentali ed educative. Insomma Rawls mette a tacere entrambe le componenti del merito, entrambe ingiuste: il talento/ doti naturali, e la capacità di impegnarsi. 

Umiliati e meritevoli

Ma la critica più forte al merito era arrivata vent’anni circa prima di quella di Rawls, e proprio dall’inventore, nel 1958, del termine meritocrazia, il sociologo inglese Michael Young. Ed era stato lo stesso Young a ideare l’equazione del merito universalmente accettata, ovvero:  Q.I. (talento, doti naturali) + sforzo (impegno, applicazione) = merito. Attenzione però, perché nel suo The Rise of Meritocracy Young descrive la società meritocratica come una distopia della peggior specie, mostrando tramite l’espediente dell'ironia, le due facce della medaglia, cioè vantaggi e svantaggi della società meritocratica. Uno degli svantaggi peggiori, dal punto di vista sociale, è la divisione della società in intelligenti e stupidi; in istituzioni di serie A, popolate da persone per lo più arroganti, competitive, aggressive e prive di valori morali, e istituzioni di serie B che raccolgono persone in gran parte demoralizzate, avvilite e umiliate nella loro autostima. Si può ridurre a «invidia» il sentimento che proveranno questi ultimi nel vedersi relegati in simile condizione? Nella società meritocratica inoltre competitività e aggressione trionferebbero a tutto svantaggio di doti come la gentilezza e il coraggio delle persone, la loro immaginazione e sensibilità, simpatia, mitezza e generosità, mentre giovani privi di esperienza, saggezza e maturità, nota Young, potrebbero vantarsi dei loro meriti e spadroneggiare su persone più mature ma meno privilegiate.

La ricetta di Sandel

Le argomentazioni di Young e Rawls vengono riprese in toto nel volume di Sandel e condite con un po’ del Max Weber dell’etica protestante, con la colossale intuizione ivi contenuta della tensione insita, soprattutto nel Calvinismo, tra merito umano e grazia divina; con un pizzico di Pelagio e della sua idea (eresia! eresia!) che l’essere umano possa meritare la salvezza dell’anima senza l’intervento della grazia divina. Infine, con un po’ di critica alla retorica di Obama, il presidente che fuse merito ed eccezionalismo americano facendone il tema centrale delle sue campagne e presidenze: «Ciò che rende l’America così eccezionale, ciò che ci fa così speciali ... è questa idea di base che in questo paese, non importa il tuo aspetto, non importa da dove vieni, non importa qual è il tuo cognome ... se lavori duro e sei pronto ad assumerti responsabilità, puoi farcela, puoi andare avanti» (p. 14). Se le opportunità sono uguali, e qui rientra Cottarelli a rafforzare le parole di Obama, le persone andranno dove talento e sforzo le porteranno e il successo sarà merito loro. Ma se talento e sforzo sono entrambi socialmente e culturalmente condizionati (per riprendere Rawls), e se la retorica del merito umilia e demoralizza la società e la spacca in vincenti convinti che il successo sia merito loro, e in perdenti indotti a pensare di aver meritato l’insuccesso (per riprendere Young) la conclusione di Sandel è drastica: «A condizioni di rampante disuguaglianza e di mobilità bloccata, ripetere il messaggio che siamo responsabili della nostra sorte e meritiamo quel che abbiamo erode la solidarietà e demoralizza i lasciati indietro dalla globalizzazione, etc. » (p. 17).

Merito e sorteggio

Dunque gli argomenti di Sandel, benché presentati nella solita maniera vivace e attraente e ricca di «casi», sono lungi dall’essere inediti. Forse un momento di originalità lo si può individuare nel suo introdurre un elemento di scelta particolare: il caso, il sorteggio. Prendiamo tutte le buste con le domande presentate dagli studenti per iscriversi a facoltà prestigiose o a corsi di laurea a numero chiuso e che soddisfino le condizioni date (cui io aggiungerei il pio desiderio della conoscenza del latino e della cultura classica), propone Sandel, buttiamole giù dalle scale dei templi della cultura universitaria e poi tiriamole su a casaccio, nel numero che corrisponde ai posti a disposizione, e forse riusciremo a eliminare un po’ di ingressi privilegiati...

Il caso, questo sconosciuto

Eh, un bel ritorno al sorteggio, con cui forse otterremmo qualche punto in più per la giustizia e anche per l’efficienza e saremmo tutti più contenti. Del ruolo del caso nella scelta democratica si occupano Nadia Urbinati e Luciano Vandelli in una bella vela einaudiana del 2020: La democrazia del sorteggio, in cui si riscopre un metodo antico che ritrova oggi nuova energia. Nella richiesta del sorteggio si legge sfiducia nei confronti delle competenze; ma anche un rimedio alla crisi di risentimento, rancore e umiliazione che getta gli esclusi dai successi della globalizzazione nelle braccia dei partiti di estrema destra. Se infatti la scelta nasce dal caso non è necessario incolparsi dei propri insuccessi e si sta meglio; o se deriva, come accadeva per es. nell’Ancien Régime, da privilegi invalicabili di sangue, di ceto o di sesso come quelli cui si trova davanti, in Il Rosso e il nero di Stendhal, Julien Sorel, giovane dotato costretto a indossare la tonaca nera dell’ecclesiastico perché non può indossare la divisa rossa dei militari.

Il sorteggio in democrazia

In Italia la proposta di far intervenire il caso nella democrazia integrando le elezioni con il sorteggio è venuta dal Movimento 5 Stelle. Trovo l’idea attraente anche se viene proposta, per come mi posiziono io, da un avversario politico. Ma se c’è una cosa che ho imparato in questa pandemia è che ci si trova a correre il rischio di lodare il peggiore avversario politico, se dice qualcosa di ragionevole che i tuoi amici non dicono, o essere dal tuo peggior nemico lodato, in sintonia con le parole di Andrea Voßkuhle, Presidente della Corte Costituzionale tedesca. Il libro, soprattutto nella parte di Urbinati, dà conto delle ragioni teoriche e delle esperienze storiche del sorteggio, che qui non ripercorreremo. Esso mostra soprattutto come l’introduzione della scelta per sorteggio potrebbe apportare alle società democratiche misure di difesa dell’eguaglianza legale e politica nonché di argine contro la corruzione. Di nuovo un bel modo per coniugare efficienza e giustizia. Interessante, nell’analisi di Urbinati, è l’idea della necessità che chi lo pratica sia convinto che il sorteggio sia neutrale, non influenzato, ed equivalga, ecco il punto, al caso assoluto. Ma non c’è anche una questione di convinzione alla base del «riconoscimento egualitario», che solleva le persone dalla condizione di umiliazione e depressione economica, assegnando loro una dignità che può essere utile per puntare a riscattarsi?

Il suffragio e la sorte

La sorte deve essere davvero centrale se si è pensato di poterle affidare decisioni anche importanti. Soprattutto essa ci deve apparire imparziale, sopra le parti, neutrale e non influenzata da fattori esterni, in una parola, giusta: non è un caso che entrambe le personificazioni, della giustizia e della fortuna, portino una benda sugli occhi. Nella scelta condotta a caso non concorrono né la ragione determinata né la volontà intenzionale; essa avviene per accidente, avrebbe detto Aristotele, e non in vista di un fine, anche perché la sorte, come sappiamo, non ci vede tanto bene. Per noi occidentali moderni che abbiamo attraversato il pensiero platonico, il quale ci attribuisce una razionalità che guida al bene, nonché il pensiero cristiano che ci riconosce una volontà libera che svolge la stessa funzione, per noi che continuiamo a credere fortemente nel peso di questi fattori, volontà, ragione, intenzionalità, merito, è difficile convivere con l'idea greca arcaica di poter essere controllati da forze esterne a noi, di essere attaccati a un filo da cui pendiamo (sorte viene dal latino sérere, annodare, legare insieme). Ci illudiamo invece di essere guidati unicamente da ragione e volontà, intenzione e impegno, come se contenessero più saggezza del destino. I greci antichi procedevano spesso alle elezioni di governanti e magistrati per sorteggio: che avessero ragione loro? Che ci sia nel caso una nuova possibilità di tenere insieme merito, efficienza e giustizia?

Completiamo il commento al saggio di Sandel con il seguente articolo di Mauro Del Corno (1978, giornalista finanziario, saggista) meno addentro agli aspetti più filosofici e più attento a quelli politici

La finzione del merito

Cosa c’è che non va nella meritocrazia? Da anni siamo talmente immersi in discorsi e racconti sulle meravigliose virtù di questa parola che è difficile persino porsi la domanda. Eppure sarebbe il caso di farlo, come argomenta il libro del docente di filosofia politica di Harvard Micheal Sandel. Qui si annidano infatti alcune delle ragioni che alimentano le simpatie nei confronti di movimenti populisti in tutto il mondo occidentale. Qui le origini dell’elezione di Donald Trump o della BrexitVoti con il “dito medio” ma spesso molto più consapevoli di quanto non raccontano molti commentatori. Circoscritta ad alcuni ambiti la meritocrazia è qualcosa di sano e desiderabile. Non lo è più se viene utilizzata come prima pietra su cui edificare una società. Oppure come foglia di fico per nascondere la totale inazione dei governi in tema di ingiustizia sociale. Quello che invece hanno fatto negli anni le forze cosiddette progressiste, dai labouristi di Tony Blair (e tardivi imitatori italici), ai social democratici tedeschi di Gerhard Shroeder, passando per Barak Obama o Hillary Clinton.  La meritocrazia, ricorda Sandel, nella realtà non esiste. Negli Stati Uniti, gli studenti della Ivy League (il gruppo di università più prestigiose del paese, ndr) provenienti dal 50% più povero della popolazione sono il 4% del totale. Gli alunni che arrivano dall’1% delle famiglie più abbienti sono di più di quelli che provengono dal 50% meno benestante. Spesso chi viene ammesso nelle scuole di élite non è più intelligente o più meritevole. Spesso è solo chi ha avuto alle spalle una famiglia che lo ha sostenuto negli studi, gli ha permesso di frequentare corsi di preparazione ai test di ammissione o di fare sport come la vela o l’equitazione che danno “crediti” e facilitano l’ammissione. In Europa la situazione è meno estrema, almeno in certi paesi, ma la direzione è la stessa e la retorica meritocratica è altrettanto tambureggiante. Negli ultimi decenni la risposta delle forze progressiste alle diseguaglianze crescenti è stata sempre una: più scuola. “Per le forze politiche progressiste ogni problema economico è un problema di insufficiente educazione scolastica, in altri termini un fallimento degli “sconfitti” dalla globalizzazione nel procurarsi giuste competenze e giuste credenziali”, scrive Sandel. Usato in questo modo l’argomento diventa però uno specchietto per le allodole. Un modo per distogliere l’attenzione da altri fattori, più rilevanti, che hanno determinato e determinano l‘incremento delle iniquità, come l’azzeramento delle capacità contrattuali dei lavoratori, dovuto anche alla polverizzazione dei sindacati o come sistemi fiscali che favoriscono le fasce più benestanti della popolazione. La risposta che viene offerta è tutt’al più una via di fuga, non un rimedio. “What you can earn depends on what you can learn”, quello che può guadagnare dipende da quanto tu impari, ripeteva ossessivamente Bill Clinton. E pazienza per chi era ormai fuori tempo massimo o per chi, anche volendo, all’università non ci poteva andare. La stessa litania è stata ripetuta da Barack Obama, Hillary Clinton e altri leader europei progressisti. L’espressione “you deserve”, tu meriti, voi meritate, compare su libri e articoli 4 volte di più rispetto al 1970. Siamo poi davvero convinti che edificare una società sul concetto di meritocrazia sia una buona scelta? Far passare l’idea, molto opinabile, che un individuo ricopra una certa posizione esclusivamente per i suoi meriti o demeriti è pericoloso. Tutto il merito di un successo o il peso di un fallimento viene caricato sul singolo individuo, assolvendo in toto l’organizzazione sociale di cui fa parte. Così, chi sta in vetta diventa arrogante, pensa si meritarsi tutto quello che ha, ed è meno incline ad atteggiamenti solidaristici. Chi sta in basso sviluppa sensi di colpa, per lo più immotivati. Il senso di colpa si evolve facilmente in rancore, peggio in violenza. Il professore Martin Delay dell’università dell’Ontario ha accuratamente documentato come il livello di diseguaglianze di una società ,sia la variabile più strettamente correlata al tasso di omicidi. E invece le elites sul concetto di meritocrazia ci marciano e ci marciano eccome. Un modo per lavarsi le mani, lasciare le cose come stanno e per giustificare i propri privilegi. Sandel definisce anche il concetto di “credenzialismo”: entri in certe cerchie sociali solo se puoi esibire determinate credenziali. Il valore di una laurea ad Oxford o ad Harvard risiede più in questo che nel livello di preparazione e competenze che fornisce. “Il credenzialismo è oggi l’unico pregiudizio socialmente accettato”, scrive Sandel e alimenta l’arroganza intellettuale di chi sta ai vertici. “Probabilmente siamo troppo intelligenti, troppo sottili e raffinati”. Così un esponente dell’Esecutivo di Emmanuel Macron ha risposto a chi gli chiedeva, durante le proteste di piazza francesi, se il governo avesse sbagliato qualcosa. Il fatto che si possa arrivare a risposte di questo tipo la dice lunga di quanto siderale sia ormai la distanza che si è creata tra elites e gran parte dell’ elettorato. “Abbracciamo la globalizzazione e la prosperità che porta e usiamola per attenuare le sofferenze per le classi lavoratrici”, questa è stata la promessa che i partiti progressisti hanno fatto al loro elettorato tradizionale. Ma questa promessa non è mai stata mantenuta e quando le fasce si sentono abbandonate è naturale, e comprensibile, che cedano alle sirene del populismo. Tra l’altro, documenta Sandel, questa superiorità delle capacità di governo delle elites con credenziali è tutta da dimostrare. Le principali doti che dovrebbe avere chi governa sono visione politica e virtù civiche. Non esattamente quello che viene insegnato all’università. Come ricorda l’autore, alcuni dei presidenti statunitensi più apprezzati di sempre, come George Washington, Abramo Lincoln e Harry Truman non avevano frequentato il college. Frank Delano Roosvelt, che pure aveva studiato Harvard, contava nel suo entourage, diversi esponenti privi di “credenziali” universitarie tra cui lo strettissimo consigliere Harry Hopkins, era un assistente sociale. L’esito finale dei ragionamenti di Sandel non è affatto che l’istruzione non sia importante o che la cultura non abbia un valore. Non è neppure che tutti dovrebbero essere uguali impiegati alla pari. Non è una celebrazione dell’uno vale uno. E’ semplicemente un invito a dare al “merito” il giusto significato, il giusto valore e a impiegarlo nei giusti contesti. Senza che diventi la (finta) stella polare delle nostre società come accaduto negli ultimi 40 anni. In precedenza la meritocrazia non era vista come un qualcosa di particolarmente desiderabile. L’assunto era che quello che una persona guadagna dipende in buona misura da fattori fuori dal suo controllo, come il livello di domanda di uno specifico talento e il fatto che i talenti e le capacità di cui una persona è dotata siano rari o molto diffusi. Poi le cose sono cambiate. I risultati, sia economici che sociali, sono tutt’altro che entusiasmanti.

Infine chi fosse interessato ad approfondire le opinioni di Sandel può, utilizzando il sottostante link, visionare una sua recente intervista

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