La parola del mese
A
turno si propone una parola
evocativa di pensieri fra di loro collegabili
in grado di offrirci nuovi spunti di
riflessione
Settembre
2021
Anche
la Parola di questo mese ci arriva da una cultura ed un lessico antichi, quello
della Grecia classica. Ed ancora una volta galeotta fu la lettura di un breve
saggio pubblicato dalla casa editrice Jaca Book all’interno di una collana, a
sua volta collegata ad un “Laboratorio di filosofia e cultura”, il cui
Direttore scientifico è il filosofo Carlo Sini coautore del saggio in
questione, ambedue, collana e Laboratorio con nome:
Mechrì
Avverbio del greco antico il cui significato è:
fino
a qui
E’
stato di conforto e di stimolo ritrovare, va da sé a ben altro livello!!!!, nel
Laboratorio di Carlo Sini alcune delle motivazioni e delle finalità alla base
della nostra, ben più modesta, esperienza di CircolarMente, come si può
rilevare dalla presentazione del suo programma 2019/2020 appena concluso che ne
riprende le
finalità di fondo (chi fosse
interessato a consultare il suo nuovo programma può utilizzare il seguente link
: Microsoft Word - Programma 2020-2021
(mechri.it)
……Inaugurando il suo quinto anno di attività Mechrì rinnova la sua proposta culturale all’insegna di
quella che, in esordio, appariva una sfida impervia e dagli esiti incerti:
l’idea cioè di organizzare percorsi di studio, approfondimento, divulgazione e
ricerca che intrecciassero arti e scienze naturali, tecniche
analitico-quantitative con le più antiche tradizioni sapienziali, scienze sociali
e poesia, entro un orizzonte formativo articolato e tuttavia coerente. Non
occorre sottolineare quanto tale proposta contrasti con la tendenza alla
frammentarietà che caratterizza non soltanto le attuali formazioni
professionali, ma anche gli ambiti della loro applicazione, le espressioni del
lavoro culturale, i modi di produzione, le pratiche conoscitive che ognuno di
noi frequenta quotidianamente. Il riscontro avuto ci ha tuttavia confermati
nell’ipotesi che una possibile ricomposizione del corpo dei saperi non sia una
aleatoria suggestione, ma una esigenza condivisa da molti operatori del lavoro
culturale e non. L’esercizio di una formazione transdisciplinare permanente può
infatti contribuire alla costruzione di prospettive di ampio respiro, aprendo
strade d’azione e di pensiero alternative all’inedia dei particolarismi e
all’inefficacia della omologazione culturale. Che poi una partecipata politeia
delle idee sia la condizione per una armoniosa convivenza sociale e politica,
dove le differenze contribuiscano a quel sapere comune che è innanzitutto un
saper vivere insieme, si sa, è la scommessa più ardita e la più profonda radice
di quel sapere eminentemente extra-disciplinare che, nella tradizione
occidentale, si chiama “filosofia”…..
In aggiunta e a completamento di queste finalità di fondo ci è infatti parso
che anche aver scelto Mechrì/fino
a qui come nome del Laboratorio, e
della collana di saggi possa essere utilizzato da noi di CircolarMente per
sintetizzare il sentire di fondo che sta ispirando la nostra più recente
attività, come associazione e come blog. Da tempo siamo infatti persuasi che il
percorso storico della Modernità occidentale non sia più sostenibile ad
accettabile. I modi e le idee che hanno guidato Mechrì/fino a qui il suo pur straordinario sviluppo economico stanno dimostrando tutta la
loro negativa invasività sull’ambiente, sulla natura e sulle relazioni sociali
ed umane. Ben consapevoli dei nostri limiti stiamo quindi proponendo, con un
percorso che ha comunque una sua logica di sviluppo lineare, spunti di
riflessione che, guardando ai vari aspetti che compongono il quadro globale
delle convinzioni Mechrì/fino
a qui vincenti, aspirano ad
essere piccoli mattoni a comporre una base complessiva di riflessioni utili ad
avviare una svolta non più rinviabile (il recente appello dell’ONU
sulla necessità di realizzare un vero cambiamento delle azioni che impattano
sull’ambiente entro il 2030 non lascia più spazio a sottovalutazioni ed
ipocrisie). All’interno di questo
contesto si colloca anche il breve saggio che ci ha fatto incontrare Mechrì/fino a qui:
I due autori: Carlo Sini
Filosofo, ha insegnato per trent'anni Filosofia teoretica
all'Università degli Studi di Milano. Accademico dei Lincei e membro di altre
accademie
e
Telmo Pievani:
Professore associato presso il Dipartimento di Biologia dell'Università
degli studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia
delle Scienze Biologiche, direttore di Pikaia, il portale
italiano dell'evoluzione, autore di diversi saggi (il suo ultimo è
“Finitudine”, nostra Parola del mese di Febbraio 2021 con brevissima sua
sintesi)
offrono,
prendendo spunto dal saggio di Pievani “Imperfezione”
(Raffaello
Cortina editore – 2019) un dialogo a due di altissimo livello che
senza avere la pretesa di dire la “parola ultima” sulla “nascita
della cultura”, questione per definizione irrisolvibile
nella sua interezza, offrono una approfondita panoramica di quanto Mechrì/fino a qui la “scienza” ha potuto evidenziare al riguardo e avviano, su
questa base, un coinvolgimento della “filosofia”
in perfetta coerenza con lo spirito che anima il Laboratorio, e la collana Mechrì/fino a qui coordinate da Carlo Sini. Consigliandone caldamente la lettura integrale
presentiamo qui una sinteticissima rassegna degli argomenti affrontati per
offrire una seppur minima contezza del loro valore:
Il dialogo fra Sini
e Pievani parte dal comune apprezzamento del lavoro
di ricerca scientifica portato avanti da Luigi Luca Cavalli-Sforza (1922-2018, genetista)
straordinario esempio di scienziato poliedrico non imbrigliabile in confini
specialistici ristretti. Cavalli-Sforza ha, sulla base di accurate e vaste
ricerche, evidenziato che le ondate migratorie da sempre lasciano al contempo
tracce genetiche e linguistiche a dimostrazione dell’assurdità
del separare le produzioni del corpo e quelle dello spirito, e della necessità che il lavoro scientifico, ed
intellettuale in genere, debba essere interdisciplinare essendo la conoscenza e
la cultura un progetto strutturalmente interconnesso nelle sue varie
articolazioni
P a testimonianza del suo rigoroso muoversi, come scienziato e come
filosofo, con questo spirito cita l’ampio utilizzo che nel suo nuovo libro (“Finitudine”, nostra parola del mese di Febbraio
2021 presentata proprio sulla traccia di questo saggio) fa del “De rerum natura” di Lucrezio per riflettere, filosoficamente, su molte tematiche scientifiche. In
particolare evidenzia la non casuale relazione tra “linguaggio” e “contenuti strettamente scientifici”: non a caso il DNA viene descritto come
un linguaggio di quattro lettere, che sta alla base dell’ “alfabeto della vita”, del “libro della vita”. E d’altronde la dinamica della scoperta scientifica non è, non è mai
stata, pura logica razionale. In ogni processo di elaborazione di una teoria
intervengono sempre fonti di ispirazione esterne alla scienza. Ed ancora cita,
come esempio illuminante, Cavalli-Sforza che aveva capito la relazione fra la
tendenza alla uniformazione genetica in piccole comunità con quella, non a caso
corrispondente, dei cognomi dei nuclei familiari. Ampliando questa ricerca su
vasta scala era giunto a chiedersi come fosse possibile, perché così
attestavano le ricerche, che due meccanismi così diversi come l’evoluzione dei
geni e quella delle lingue fossero così ampiamente sovrapponibili. Studi
recentissimi hanno poi ulteriormente confermato questo suo “stupore” evidenziando che, man mano che ci si allontana dall’Africa, culla
dell’homo sapiens, il numero di fonemi che compongono le varie lingue
diminuisce parallelamente al diminuire della variabilità genetica. Aspetto
tanto “strano” quanto ancora tutto da esplorare che ben testimonia la necessità
di non procedere nell’indagine scientifica per comportamenti stagni
S traduce in termini filosofici questa constatazione parlando di “metodo euristico”, ossia un procedere che non si chiude aprioristicamente, ma che sa
individuare, nell’insieme delle possibili ipotesi, una buona direzione di
ricerca e su questa cammina restando sempre pronto ad eventuali aggiustamenti.
Riprendendo la considerazione iniziale sulla stretta relazione fra “corpo” e “spirito” dice di come, inizialmente già colpito dall’ipotesi scientifica
dell’influenza liberatoria che l’assunzione della posizione eretta ha avuto su
mani e bocca, e quindi sulla migliore capacità di produrre manufatti, sia stato
ancor più interessato da successive scoperte che hanno attestato che le prime
produzioni litiche (schegge
di pietra lavorate) sono databili a più di tre milioni di anni fa ossia un milione di anni
prima del genere Homo con la sua più certa posizione eretta. Al punto che,
banalizzando ma neanche troppo, è lecito chiedersi se sono nati prima i piedi,
oppure le mani, le gambe o la voce articolata da una bocca libera. Sono domande
neanche tanto ingenue che aprono la strada ad una considerazione importante: non ha senso indagare l’origine di un processo partendo dal suo risultato
finale. La
lunga evoluzione dell’uomo ci insegna che dobbiamo comprendere lo sviluppo in
itinere sapendo che è segnato da tappe che non necessariamente sono già
perfettamente indirizzate verso il traguardo ultimo. Ad esempio, come
rispondere alla domanda: il cervello cresce in
corrispondenza con le capacità tecnologiche? Anche in questo caso le scoperte sembrano attestare
che non si è di fronte ad un processo evolutivo lineare, che in contemporanea
si hanno testimonianze di comportamenti diversi se con contrastanti. Eppure ci
troviamo di fronte ad un passaggio evolutivo decisivo per la nascita della cultura: scheggiare pietre ha un grande significato progettuale, di
organizzazione del lavoro, di istruzione pedagogica, di adattamento del corpo a
nuove funzioni e quindi di modifica della struttura cerebrale e delle mappe
mentali. E’ questa la nascita della cultura? e che cosa si deve allora
intendere per cultura? già Darwin ha evidenziato come l’evoluzione delle forme
viventi non sia guidata dallo scopo di creare qualcosa, ma che proceda “per caso”, dove successi ed insuccessi si equivalgono e dove è impossibile
individuare cause certe per ogni passaggio. Filosoficamente questa situazione
può essere definita come un “processo sistemico”, dove ogni punto
non può che essere quello che provvisoriamente è in relazione a tutti gli altri
punti che compongono il quadro.
P condivide la definizione di “processo sistemico”, scientificamente traducibile
in “concezione costruttivista dell’adattamento”, vale a dire un
percorso che vede un organismo modificare con le sue attività l’ambiente in cui
si muove venendo poi, come retroazione, a sua volta modificato da queste stesse
modifiche. Non esiste sullo sfondo una inspiegabile ricerca della “perfezione”, ma sempre si procede di imperfezione in
imperfezione (non a caso titolo del suo saggio). Tutti i sistemi
umani più raffinati inventati dall’evoluzione, il DNA, il cervello, a ben
vedere sono ampiamente imperfetti pur funzionando benissimo, a dimostrare che
l’imperfezione non è un incidente di percorso verso un ipotetica perfezione, ma
è il modo concreto di procedere dell’evoluzione. Venendo ad esempio al rapporto
tra sviluppo del cervello e sviluppo tecnologico, è un errore ritenere che
tecnologie più complesse corrispondano a cervello sempre più grande. Sono ormai
molte le evidenze fornite da reperti che smentiscono questa idea per molti
aspetti determinata dalla autoreferenziale volontà umana di dare maggiore
dignità evolutiva al nostro successo di specie. Eppure la storia umana è molto
più complessa, ed è tutt’altro che semplice rispondere alla domanda: “come siamo arrivati? Mechrì/fino
a qui? Neppure l’idea di “progresso” regge alla prova dei fatti. Perché la parola “progresso” richiama di
per sé stessa un percorso lineare, di successi che si aggiungono a quelli
precedenti, magari, così lo vedono in molti, guidati da un preciso disegno che
muove in una precisa direzione, come se la natura fosse un agente intenzionale.
Non funziona così! Forse più che chiederci quali pressioni selettive hanno
generato la crescita del cervello, e quindi della cultura, dovremmo chiederci
quali, temporanee, riduzioni di pressione selettiva abbiano consentito alla specie
Homo di mettere in atto un processo fisiologico, la crescita del cervello, che
sappiamo essere biologicamente molto costoso, molto impegnativo per tanti
aspetti. Se così fosse però anche la cultura, a partire dal linguaggio,
potrebbe essere un mosaico di compromessi tra spinte selettive differenti che
si “sono rilassate” anche grazie a due specifiche ragioni: la maggiore e migliore protezione
dalle minacce ambientali che l’evoluzione tecnologica ci ha fornito e lo
sviluppo di una organizzazione sociale sempre più complessa e totale. A queste
due ragioni si aggiunge, in parallela specifica progressione, la crescita
culturale intesa in senso lato: linguaggio certo, ma anche manipolazione del
cibo e conoscenza dell’ambiente, fattori capaci di una spinta evolutiva tale da
far dire che, in questi casi, la cultura viene prima, poi seguono la genetica e
la biologia. Noi siamo biologici
anche grazie alla nostra evoluzione culturale e siamo culturali anche grazie
alle nostre potenzialità biologiche.
S in filosofia si dice “mondo ambiente” per dire della
relazione che l’uomo, grazie alla cultura, ha realizzato con il mondo attorno.
In questo mondo/ambiente quella dimensione dell’uomo che chiamiamo cultura,
come giustamente è precisato in “Imperfezione” si è via via arricchita ed
ampliata grazie all’influsso di diversi elementi, due in particolare: la stratificazione, forme culturali che si sovrappongono, a crescere una sull’altra, con
quella nuova che si forma, proprio grazie a quella precedente, in specifiche
aree cerebrali che ad esempio vedono quelle connesse a manualità e gestualità
essere in relazione con la facoltà del linguaggio, e la cooptazione, con termine più tecnico “exaptation”, ovvero il
meccanismo evolutivo che produce nuove funzioni appoggiandosi a strutture
cerebrali già preposte ad altre funzioni umane. Parliamo comunque di un
percorso, frastagliato come si è già detto, di almeno due milioni di anni e che
per l’Homo sapiens, che compare sulla scena evolutiva solo poco più di
duecentomila anni fa, vede un’accelerazione significativa circa settantacinque
millenni fa, quando in Africa evidenze archeologiche dimostrano il comparire
di comportamenti e capacità umane mai viste prima: oggetti con figure astratte,
ornamenti del corpo, sepolture rituali, pitture rupestri, strumenti musicali. A
dimostrazione di una nuova qualità
plastica cerebrale, sicuramente rafforzata dall’apprendimento
mediante esperienze che
da lì in poi ha consentito altri straordinari salti culturali: scriviamo da soli cinquemila anni eppure da subito con risultati egregi!!!! Darwin sintetizza
questa plasticità con la famosa formula “nuovi
usi di antiche funzioni” proprio per spiegare la nascita dell’autocoscienza e del linguaggio
complesso. E qui siamo di fronte ad un salto, quello della cultura che cresce
anche grazie alla volontà spirituale
dell’uomo, che Darwin non poteva meglio spiegare non possedendo adeguate
competenze ed evidenze testimoniali. Uno scoglio che ancora oggi non appare
superato del tutto. Quanto incide in
questo senso il meccanismo della cooptazione/exaptation?
P sappiamo con sufficiente certezza che lungo il percorso evolutivo, con il
modificarsi del mondo/ambiente, strutture cerebrali preposte a determinate
funzioni divenute obsolete vengono dirottate ad altre funzioni. Allo stesso
modo è lecito supporre che anche la crescente plasticità del cervello sia stata
più il prodotto dell’influenza congiunta delle pressioni ambientali e
dell’evoluzione dell’ambiente culturale, con quest’ultima che, con un
sovrapporsi accidentale ed imperfetto, ha per l’appunto utilizzato, riadattandole,
strutture cerebrali ormai alleggerite da funzioni ormai superate.
S è bene capire meglio questa evoluzione culturale fatta di competenze
sempre più avanzate, ma “avanzate” in che
senso”?.
Sempre in Imperfezione è interessante quanto detto riguardo al ruolo del DNA
nel processo lungo il quale il mondo/ambiente, ormai comprensivo della cultura,
“scolpisce il corpo vivente”, là dove si precisa che il DNA è sì
informazione e codice, ma anche “materia tridimensionale” per evidenziare che
per comprendere l’evoluzione è opportuno tenere sempre nella giusta
considerazione l’aspetto biologico. E questo aspetto dà l’opportunità di farne
entrare in gioco un altro che, dal punto di vista filosofico, è essenziale: il linguaggio, ogni linguaggio con il quale tentiamo di descrivere il
mondo/ambiente, uomo compreso, è per sua intima essenza metaforico. Quando, ad esempio,
usiamo, parlando del DNA, la parola “scrittura” - nel DNA sono “scritte le istruzioni vitali” - altro non facciamo che
ricorrere ad una metafora, la forma del linguaggio che di più si presta per “passare da ciò che è a che cosa si dice che è”. E allora diventa
doveroso prestare la massima attenzione a quali metafore, spesso
inconsciamente, ricorriamo, ad esempio sostenere che una certa area cerebrale “presiede”, letteralmente siede sopra, alla memoria sembra proprio una metafora
errata. Altre metafore sono al contrario molto utili a definire la “corrispondenza” tra fenomeno e linguaggio. In particolare, tornando al complesso
percorso evolutivo fatto di casualità e di imperfezioni in cui giocano un ruolo
importante stratificazione e exaptation, quella della “matrioska” è illuminante. La indiscutibile complessità dei processi evolutivi non è
riducibile a relazioni lineari tra singola causa e singolo effetto, e nessun
adattamento è fin dall’inizio “costruito” per “presiedere” ad una funzione, e questo stato di cose impone il ricorso ad un
linguaggio appropriato le cui metafore, e la matrioska lo è, siano
consapevolmente proporzionate a questa complessità. Occorre quindi, nel
descrivere i processi evolutivi, quello culturale compreso, prestare molta
attenzione a come un “oggetto culturale”, qual’è il
linguaggio inteso come strumento verbale concettuale, può rappresentare una
realtà in modificazione infinita
P anche solo l’aver metaforicamente descritto il DNA come un linguaggio,
inevitabilmente solo bidimensionale, conferma l’opportunità di questo richiamo
a tener conto di come una metafora linguistica possa incanalare il pensiero,
far vedere alcune cose e nasconderne altre. Un altro esempio è non meno
illuminante: è stato completato il grandioso “progetto
genoma”,
la mappatura di tutti i geni umani, il cui avvio avvenne all’insegna del
motto “un gene,
un tratto” ossia “ il genotipo mappa
(metafora) il fenotipo” , ed essendo l’uomo una specie molto complessa e molto evoluta, si
calcolava in duecentomila il numero dei
geni “mappabili”. A fine progetto ne sono stati “mappati” ventiduemila, un
decimo del previsto! Non è stato sbagliato nulla nella “mappatura”,
semplicemente era errata questa metafora, era sbagliata l’idea del genoma come
una sorta di sacchetto di biglie per cui tanta complessità tante biglie, tanti
geni. Cambiare metafora spesso ampia lo sguardo, fa vedere di più e meglio,
perché in effetti non sono banali costruzioni astratte, ma “organizzatori del pensiero”. Nel caso del progetto genoma, ad esempio, non contava il numero dei
geni, ma come sono connessi e regolati tra di loro, la metafora giusta non era
quindi la “mappa”, ma la “rete”. Ed allora è fuorviante sostenere metaforicamente che gli organismi
viventi sono fatti di un “hardware” che è il
loro corpo e di un “software” che è il loro genoma, e quindi non
reggono, le idee di modificare la vita modificando il DNA. La matrioska vita è
un insieme di interazioni che coinvolge corpo e genoma, e non è eticamente
accettabile ridurre un essere vivente ad una sorta di robot manipolabile con la
modifica del suo presunto “software”
S queste tendenze in campo scientifico attestano un deficit nei percorsi
formativi scientifici che non tengono adeguatamente in considerazione “la storicità del lavoro scientifico”. Non si può ad esempio sostenere che l’uomo è il prodotto dell’evoluzione e poi non riflettere che anche questa affermazione, metaforica, è il
frutto dell’evoluzione. Si è detto della profonda interrelazione tra ambiente e
cultura all’interno della quale entrambi si modificano a vicenda, e proprio per
questa ragione l’uso delle metafore richiede innanzitutto che si sappia che,
storicamente parlando, si tratta per l’appunto di metafore, con i loro pregi ed
i loro limiti
P purtroppo questo a-storicismo in campo scientifico vale anche per il
riconoscere gli errori che, inevitabilmente, in campo scientifico sempre si
possono presentare. Non basta, quando succede, ammettere l’errore, occorre
ripercorrere, storicamente, il percorso fatto per capire dove stava il
problema. Non basta cambiare, a posteriori, la metafora del “progetto genoma”
occorre avere il coraggio di evidenziare che l’errore metaforico si spiegava
con un limite analitico e previsionale
S un buon aiuto potrebbe venire proprio dalla filosofia là dove, pur consapevole
dei propri limiti analitici conseguenti alla mancanza di “falsicabilità” delle proprie affermazioni, evidenzia i rischi di un sapere scientifico
troppo basato sullo studio specialistico e quindi impossibilitato a vedere ”l’intero dell’esperienza”. Questo rischio, correlato a quello dell’a-storicismo, impedisce di
comprendere che il discorso scientifico non può ridursi al “dire le cose” ma deve mirare al “dire all’altro”, al creare cioè una
comunità di saperi, quella stessa che, molto presumibilmente, è stata alla base
della nascita della cultura. In questo quadro se è innegabile il limite
falsificatorio del sapere filosofico nondimeno quello scientifico non può,
astoricamente, non cogliere che l’oggettività delle prove scientifiche ha
sempre una relazione, storica, con le pratiche conoscitive, espressive e
sociali, le quali non poco intervengono proprio nell’indirizzare la stessa
falsicabilità
P è proprio questo atteggiamento che è definibile come “oggettivismo ingenuo”. Le prove empiriche si ottengono gettando una rete, metafora, ma le
maglie della rete sono state preventivamente costruite sulla base di
presupposti teorici, che sono a loro volta il risultato del processo evolutivo
culturale. Oggi in fisica, ad esempio, ci sono modelli, teorie e grandi visioni
del mondo e della realtà, per i quali non esistono prove empiriche ovvero, come
nel caso del “bosone di Higgs” le prove arrivano
decenni dopo l’attestazione teorica della loro supposta esistenza. Ed in questo
gettare la rete, anche grazie ad una maggiore consapevolezza storica del
percorso culturale Mechrì/fino
a qui fatto, bisogna saper meglio cogliere l’imprevisto, il mistero del metodo
scientifico che porta a trovare cose diverse da quelle che inizialmente si
pensava di trovare gettando la rete. La “serendipità” (nostra Parola del mese di Novembre 2017) è tuttora un
fenomeno molto importante, ad esempio l’editing genetico è stato scoperto
studiando come i batteri si difendono dai virus. La natura è sempre in grado di
sorprenderci, di farci scoprire cose che non si cercavano, molto probabilmente non
diversamente da quanto successo ai nostri antenati lungo il processo di nascita
della cultura.
S Questa situazione “dialettica” fra ciò che è “interno ad un nostro progetto” e “ciò che gli è “esterno” richiama in gioco
la matrioska, ma anche la variabilità deduttiva umana. Ogni qual volta nel
processo conoscitivo emerge “qualcosa che stava
sotto”, “l’ousia” dei Greci, subentra la soggettività interpretativa. Platone dice ousia
e pensa “idea”, Aristotele dice anche lui ousia ma intende “individuo”. La verità, così come viene intesa dall’individuo, è sempre connessa
alla sua biografia, è una “relazione”, mai solo una “cosa”. Questo ci conferma nella convinzione che la conoscenza va sempre
storicizzata. Lo stesso logos, il “pensiero”, se vogliamo
l’intera cultura, è in ultima analisi un discorso, un gran racconto, certo non
più mitologico ed ormai in gran misura scientifico, ma pur sempre un discorso,
un misto inestricabile di conoscenze oggettive, di progetti e propositi
pratici, di motivazioni e di speranze, in cui sono confluiti, raccolti nella
matrioska, tutti i precedenti discorsi e saperi
P ed in cui la consapevolezza della storicità dovrebbe aiutare il pensiero
scientifico a riconoscere la sua coincidenza con quello filosofico seppure
detto con altro linguaggio
S tornando, in chiusura, al tema centrale qui affrontato si tratta di
comprendere che quello che noi oggi percepiamo come “cultura” è un insieme di
tracce, di segni, di resti, da ricostruire genealogicamente lungo linee di
ipotetiche mappe, di plausibili racconti. Per cogliere questo insieme, permeato
di casualità ed imperfezione, non basta attestarci a “fatti” rilevabili “dal di fuori”. Occorre misurarsi
con l’evidenza che la loro “verità di fatto” è tanto indubbia
quanto insufficiente e transitoria, perché il nostro valutarli è a sua volta il
frutto della loro stessa evoluzione che ci porta, come si è visto, all’uso di
metafore che sono a loro volta il prodotto di ciò che è stato detto prima. Non
si tratta di auspicare una “nuova scienza o una
scienza nuova”, la scienza fa il suo lavoro e lo fa bene, ciò che deve cambiare è la
sua comprensione del senso più profondo del suo stesso operare, occorre cioè
una cultura, non differentemente da quella a suo tempo nata, più integrata e coerente
P Ottima conclusione che apre altre strade, ad esempio sull’evoluzione del
linguaggio e dell’evoluzione a mosaico, per le quali si stanno aprendo in campo
scientifico nuove possibili connessioni con la filosofia
S …….. tu lo sai che
c’è Mechrì/fino
a qui quando vuoi è casa
tua
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