La
parola del mese
A turno si propone una parola evocativa di pensieri fra di loro
collegabili in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione
FEBBRAIO 2022
Ebbene si: per la prima volta la “Parola del mese” non risulta esistere,
perlomeno in tutti i dizionari/vocabolari di Italiano che abbiamo consultato.
Digitandola nel motore di ricerca immancabilmente compare questa risposta “La tua
ricerca non ha prodotto risultati”. Eppure, confortati da un
parere autorevole, insistiamo nel presentarla come quella di questo Febbraio
2022
ANTIQUATEZZA
Con un piccolo aggiustamento potremmo
azzardarci a definirla come “la proprietà che caratterizza l’essere antiquati” e per “antiquato”
la definizione da vocabolario cita “derivato dal verbo latino antiquare, mettere
fuori d’uso, limitato ad un uso
antico, disusato, non più sentito come vivo”. Dicevamo di un parere autorevole, quello di Costanzo Preve (1943-2013, filosofo accademico, politologo, saggista) che nella sua
splendida prefazione all’edizione italiana del più importante saggio di Günther Anders (1902-1992, pseudonimo di Günther Siegmund Stern, filosofo e
scrittore tedesco. Si laurea a Marburgo con Heidegger, qui conosce e poi sposa Hannah
Arendt, da cui divorzierà pochi anni dopo. Capisce sin da subito il pericolo
costituito da Hitler e dal nazismo riuscendo ad emigrare in tempo, prima in
Francia e poi negli USA; gli anni dell’esilio sono anni tristissimi, passati in
estrema povertà; sopravvive con lavori occasionali finché entra in una fabbrica
californiana come operaio addetto alla catena di montaggio. Questa è
l’esperienza che segna la sua vita e la sua riflessione tanto da arrivare a
dire anni dopo che “senza il periodo in fabbrica, in effetti, io non sarei mai
stato in grado di scrivere la mia critica all’era della tecnica”. Rientrato in
Europa nel 1950 svolge una feconda attività di saggista filosofico, senza
incarichi accademici, e di attivista politico nei movimenti antinucleari e per
la pace)
così giustifica la
traduzione in italiano (sicuramente dovuta proprio alla
mancanza del corrispondente termine in italiano) del
suo titolo originale “Die Antiquiertheit
des Menschen”, letteralmente “L’antiquatezza
dell’uomo” in “L’uomo è
antiquato”: …….. con il soggetto tedesco
divenuto predicato si ribadisce una sorta di centralità umanistica, in cui
l’umanesimo è certamente pessimistico, mentre “antiquiertheit/antiquatezza”
meglio esprime il concetto filosofico della inadeguatezza
dell’umanità verso le sue stesse conquiste prometeiche, innanzitutto quelle
tecnologiche ……. Questa considerazione ci offre lo spunto per
entrare, attraverso la chiave della antiquatezza e
per una veloce escursione, nel
ponderoso e significativo saggio di Anders
articolato
su due distinti volumi, a comporre un’unicum, così dettagliato, complesso, ed
al tempo stesso così originale nella forma espositiva, da rendere impossibile
la sua sintesi, che pure ben meriterebbe, negli standard abituali del “Saggio
del mese”. In questo ambito quindi ci limitiamo a recuperare velocemente gli
aspetti più significativi di una riflessione che Anders, sulla scia lunga
aperta da “Essere
e tempo” di Martin Heidegger (ripreso
nel nostro Saggio del mese di Maggio 2021), dedica all’uomo contemporaneo,
segnato dalle tragedie del Novecento, e al suo rapporto con tecnica e
tecnologia. Le parole che usa in apertura già delineano con esattezza il tema
centrale dell’intera opera: …… credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo
pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per
il momento, per mio uso, “vergogna prometeica”, e intendo con ciò la “vergogna
che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da
noi stessi” …… “Della vergogna prometeica” - ossia la vergogna che un novecentesco
Prometeo prova nel constatare che ciò che al tempo ebbe l’ardire di rubare agli
Dei, il fuoco della tecnica, vive oramai di una vita propria così vincente da
aver ormai sopraffatto il suo presunto possessore – è il titolo della “Parte
prima” del “Primo Capitolo” che già contiene, analizzandola in tutte le sue
articolazioni individuali e collettive, le ragioni che spiegano l’antiquatezza dell’uomo del XX secolo. Un
tratto che ormai caratterizza in forma definitiva l’intera umanità e che è
entrato nella dimensione finale della tragedia storica con l’avvento della
potenza annientatrice delle armi nucleari. Anders ritiene infatti che la tecnologia
abbia completato nel secolo scorso un percorso, tanto formidabile quanto
invasivo, capace di rendere antiquato
l’uomo e antiquata la sua capacità
culturale ed esistenziale di comprendere e governare le trasformazioni della
modernità. Il progresso tecnologico è infatti tale da capovolgere completamente
il rapporto tra bisogni (umani), mezzi e fini ……. la storia ora si svolge nella condizione
del mondo chiamata “tecnica”, la quale è ormai divenuta il soggetto della
storia con l’uomo ridotto a spettatore se non oggetto …….. E’ bene
precisare che la tecnica per Anders non è solamente l’universo, già del suo
capace di una incredibile potenza invasiva, degli strumenti tecnologici, ma è
la razionalità che presiede alla loro progettazione ed impiego, una razionalità
che, coerentemente con l’insieme delle sue considerazioni, è ormai divenuta una
vero e proprio soggetto culturale, economico e sociale, a sé stante, esterno
all’uomo stesso ormai ridotto ad esserne attivo, ed inconsapevole, complice e
strumento. Anders dedica molte parti del saggio ad analizzare situazioni
specifiche che testimoniano l’antiquatezza
dell’uomo, la sua definitiva perdita del ruolo di produttore (l’homo faber) per assumere quello del consumatore, privo di
qualsiasi autonomia e di vera capacità di giudizio, inserito in un sistema dei
bisogni che emana da un potere intrinseco delle merci tale da ridurlo ad essere
…… una
riproduzione dei bisogni delle merci stesse
….. Non di sola antiquatezza
si tratta quindi, ma di una totale alienazione, di una reificazione, che va persino oltre
l’idea marxista della conversione della forza lavoro in merce. Per
meglio comprendere queste considerazioni di Anders è utile recuperare la sua
idea delle successioni di rivoluzione industriale. I due volumi (i cui sottotitoli sono purtroppo poco leggibili nelle
nostre riproduzioni delle copertine) che compongono questo saggio, comunque
unitario, sono stati elaborati e pubblicati con notevole intervallo fra di
loro: il Volume Primo esce nel 1956, in Italia solo nel 1963, con sottotitolo “Considerazioni
sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione
industriale”, il secondo esce nel
1980, in Italia nel 1992, con sottotitolo “Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale”.
Se la prima, sostanzialmente consistita nell’avvento della produzione mediante
macchine, vede ancora l’uomo suo regista e finalizzatore, la seconda, che copre
buona parte del Novecento, è già quella del progressivo manifestarsi dell’antiquatezza, della vergogna prometeica, in cui il macchinismo
raggiunge una potenza tale da imporre all’uomo “i bisogni”. La terza infine, che
si delinea verso la fine del secolo, è quella in cui la tecnocrazia (intesa non come potere dei tecnocrati, ma come vera e
propria dittatura della tecnica/tecnologia) è ormai padrona del mondo e
dell’umanità al punto da aver avviato, seguendo le proprie immutabili logiche,
l’alterazione irreversibile dell’ambiente mettendo a rischio la stessa
sopravvivenza dell’uomo. Il secondo volume, quello per l’appunto dedicato alla
terza rivoluzione industriale, si apre infatti con questa annotazione che
riprende, capovolgendola, la celebre massima di Marx sul rapporto fra filosofia
e mondo (i filosofi hanno soltanto diversamente
interpretato il mondo, si tratta di trasformarlo) , …….. cambiare il
mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento
avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche di interpretarlo.
E ciò, precisamente per cambiare il cambiamento. Affinchè il mondo non continui
a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi
..….. Le tre parti che, dopo la prima
dedicata alla “vergogna prometeica”, completano il Volume Primo analizzano le
modalità con le quali nella seconda rivoluzione industriale si è realizzata
l’imposizione dei bisogni artificiali e l’incapacità dell’anima dell’uomo di
reagire e governare questo processo che ha nella antiquatezza
la sua inevitabile conclusione. Nella Parte seconda, “Il mondo come fantasma e come matrice”,
partendo dalla constatazione del ruolo invasivo e magnetico della pubblicità,
ne evidenzia la capacità di conferire ai “prodotti”, agli oggetti realizzati
dalla tecnica/tecnologia, ….. lo statuto ontologico dell’essere (il mondo come
fantasma) …… e al tempo stesso
quello di incentivare la loro costante sostituzione (il mondo come matrice) …… ogni pubblicità è un appello alla distruzione …… Identica attenzione Anders dedica ai due
veicoli per eccellenza, al tempo, del “mondo come fantasma e come matrice”: la
radio e la televisione, due forme di comunicazione che non sono dei semplici
mezzi, ma vere e proprie “macchine” in grado di plasmare e deformare
l’anima umana, riducendola all’incapacità di cogliere ogni differenza tra
essere ed apparire, tra copia ed originale ……. al posto del mondo reale subentra un
profluvio di immagini, che non sono immagini del mondo, ma l’essenza del mondo
nell’immagine ….. Ciò che si riversa sull’uomo, ormai incapace di
una qualche forma di resistenza e di riscatto, possiede quella “umiliante
grandezza” che spiega la “vergogna prometeica” e che sanziona la sua
definitiva antiquatezza. A quasi
settant’anni di distanza queste considerazioni di Anders sul ruolo dei nuovi
media possono sembrare, perlomeno a chi ancora cerca di mantenere una capacità
autonoma di esercizio della critica, acquisite e scontate. Ma è pur vero che i
successivi progressi tecnologici, quelli dell’attuale era della Rete e dei social,
capaci di incidere più a fondo su tutte le forme della quotidianità
esistenziale, hanno prodotto una ulteriore accentuazione dell’antiquatezza. Anders chiude il Volume
Primo con la Parte Quarta, “Della bomba e della nostra cecità sull’Apocalisse”,
dedicata a riflettere sulla potenza distruttrice delle bombe di Hiroshima e
Nagasaki e sulla svolta che da lì in poi si è creata nel rapporto fra uomo,
tecnica, e sopravvivenza del pianeta. Nel successivo Volume secondo, composto
da ben trenta brevi saggi monotematici che riprendono le considerazioni del
Volume Primo aggiornandole ai mutamenti intervenuti, si trovano annotazioni di
stupefacente profondità presentate con uno stile narrativo assimilabile a
quello dei “Minima Moralia” di Theodor Adorno (1903-1969,
filosofo tedesco esponente della Scuola di Francoforte), ma dai quali
trapela però uno stato d’animo che si è fatto più pessimista, più spaventato. Emerge
infatti da questo insieme di considerazioni frammentate, ma non frammentarie,
la sensazione che l’antiquatezza sia divenuta
ormai tale da cancellare le residue possibilità dell’uomo di contrastare le
conseguenze dell’era della tecnica e di cogliere il rischio ultimo della sua
stessa sopravvivenza. Lecito chiedersi cosa direbbe oggi Anders a fronte dell’attuale
emergenza ambientale.
AGGIUNTA
Per
chi fosse interessato ad approfondire, inserendolo nel contesto culturale
novecentesco, il lavoro filosofico di Anders può essere utile l’ottima analisi
svolta da Pier Paolo Portinaro (Professore di
Filosofia Politica presso l’Università di Torino) nel suo saggio “Il principio
disperazione: tre studi su Gunther Anders” (Bollati
Boringhieri, 2003).
Portinaro approfondisce e valorizza i punti cardine della riflessione di Anders
dalla quale a suo avviso emerge però il rischio di un eccesso di rassegnazione
tale da negare la possibilità di una salvifica prassi. Questa tendenza, non a
caso definita “principio
disperazione”, deriva dalla convinzione di Anders che la condizione
a cui l’uomo è oggi arrivato sia sostanzialmente irrecuperabile. La scelta del
termine “principio”
non è occasionale: molte importanti riflessioni filosofiche novecentesche, che
testimoniano la profondità della svolta intervenuta con la definitiva
affermazione della tecnica e della collegata urgenza filosofica di svolte
altrettanto profonde e radicali, sono affidate a questo termine. Lo fa Hans
Jonas (1903-1993, filosofo tedesco) con il suo “principio
responsabilità” (nostra “parola del
mese” di Aprile 2021)
che, muovendosi nel solco tracciato da Max Weber (1964-1920,
sociologo e filosofo tedesco) con la sua “etica delle responsabilità”, e
non meno convinto di Anders, di cui era fraterno amico, della minaccia
rappresentata dal peso della tecnica nel mondo odierno, invita ad adottare nelle scelte e nelle sue azioni
umane un atteggiamento di grande attenzione etica alle conseguenze che da
queste possono derivare sull’umanità tutta e sulla natura. All’opposto di
Anders si muove Ernst Bloch (1885-1977, filosofo
e scrittore tedesco)
con il suo “principio
speranza”: che, spinto dalla
convinzione che ci sia ancora spazio per una inversione di rotta rispetto alla
minaccia rappresentata dal ruolo della tecnica, rilancia un ideale utopico per
eccellenza: quello di dare una direzione al
nostro vivere ritrovandola nella condivisione del senso di comunità.
Nessun commento:
Posta un commento