venerdì 1 luglio 2022

La Parola del mese - Luglio 2022

 

La parola del mese

A turno si propone una parola evocativa di pensieri fra di loro collegabili in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

LUGLIO 2022

Inizialmente l’idea era quella di destinare questo testo a “Saggio” del mese. Si tratta infatti di un’opera di valore che analizza alcune delle più importanti tematiche filosofico-politiche del presente. Poi la sua lunghezza e la sua dettagliata complessità si sono rivelate inconciliabili con il formato standard dei nostri post ed hanno quindi consigliato, per non disperderlo, di usarlo come spunto per una “parola del mese”, quella che meglio ci è sembrata collegabile alle tematiche affrontate. Al di là di ciò si impone però una considerazione: anche questo saggio ci è sembrato una delle tante opere di innegabile valore, in grado di fornire importanti spunti di riflessione, ma strutturate in modo così complesso e di così difficile approccio da risultare davvero poco accessibili ad una sua diffusa lettura. E’ con un certo rammarico che lo constatiamo perché viviamo tempi che al contrario sempre più imporrebbero di colmare il più possibile la distanza fra la dimensione dell’approfondimento “alto” e quella del dibattito culturale “normale”. La parola scelta per riprenderlo almeno in parte ha comunque, al di là di questo scopo, una sua valenza provocatoria che ben esprime la necessità di scelte “forti” e adeguate alle attuali temperie

Rivoluzione

rivoluzióne dal latino revolutio -onis “rivolgimento, ritorno” = Mutamento radicale di un ordine statuale e sociale, nei suoi aspetti economici e politici. In senso stretto, il processo rapido, e per lo più violento, attraverso il quale ceti, classi o gruppi sociali, ovvero intere popolazioni, sentendosi non sufficientemente rappresentate dalle vigenti istituzioni, limitate nei diritti o nella distribuzione della ricchezza che hanno concorso a produrre, sovvertono tali istituzioni al fine di modificarle profondamente e di stabilire un nuovo ordinamento. In senso più ampio, qualsiasi processo storico o movimento, anche non violento e protratto nel tempo, attraverso il quale si determini un radicale mutamento di fatto delle strutture economico-sociali e politiche, o di particolari settori di attività

Vocabolario online Treccani

E’ sicuramente una parola da maneggiare “con cura”, sembra infatti ancora troppo ingombrante il suo significato più politico. Le grandi rivoluzioni di fine Settecento, di gran parte dell’Ottocento, per non dire di quella russa e di altre novecentesche, l’hanno in qualche modo condannata ad essere oggetto di diffidenza per il suo carattere “violento”. Eppure, come da rigorosa definizione da vocabolario, “rivoluzione” resta il termine più appropriato per definire una svolta radicale capace di modificare in profondità il corso degli eventi. In particolare, venendo alle specifiche problematiche affrontate nel saggio che l’ha ispirata, “rivoluzione” sintetizza perfettamente due processi storici fra di loro collegati: quello globalmente già avvenuto negli ultimi decenni del secolo che, come vedremo, ha assunto il carattere di una “rivoluzione passiva” , e quello auspicato per affrontare, e concretamente risolvere,  l’insieme delle svolte epocali necessarie per risolvere le questioni di fondo – emergenza ambientale e climatica, giustizia sociale, equilibri geo-politici e loro riflessi su pace/guerra, diritti individuali, collettivi e di genere -  che agitano l’attuale  scena politica globale in questo nuovo millennio. Sulla rivoluzione (passiva) già avvenuta e su quella (positiva) che dovrebbe avvenire riflette Roberto Ciccarelli

[filosofo, blogger, giornalista del Manifesto, autore di numerosi saggi (fra i quali spiccano “Primo Levi: l’atopia letteraria” e “Immanenza e politica in Spinoza”) i più recenti dei quali compongono una trilogia, sempre edita da “Derive/Approdi”: “Forza lavoro: il lato oscuro della rivoluzione digitale” (2018) – “Capitale disumano – la vita in alternanza scuola e lavoro” (2022)] e  questo ultimo appena pubblicato


Ciccarelli evidenzia da subito (nel Capitolo 1/Introduzione “La rivoluzione in tempi non rivoluzionari”) che la necessità di questa autentica “rivoluzione” si sta manifestando, e trova ragion d’essere, in tempi al contrario difficilmente definibili come quelli più favorevoli a cambiamenti radicali, per quanto questi siano sempre più indispensabili.  E’ infatti dagli anni Ottanta del secolo scorso che l’egemonia economica, sociale, culturale, ideologica e politica, del neo-liberismo globalizzato sembra aver anestetizzato ogni sussulto realmente antagonista. Non a caso già a fine anni Ottanta, con la definitiva dissoluzione del blocco sovietico, Francis Fukuyama (storico e politologo statunitense) poteva parlare di “fine della storia” aggiungendola come ultimo tassello a quella “della società e della politica” che unitamente celebravano la definitiva vittoria delle logiche del mercato capitalistico. Si è in effetti consolidato una sorta di muro all’apparenza invalicabile per ogni possibile alternativa, peraltro mai adeguatamente sostenuta da una classe politica, anche di sinistra, in buona misura così schiacciata sul pensiero “mainstream” da sottovalutare il diffuso disagio sociale colpevolmente consegnandolo a populismi e sovranismi tanto sterili quanto pericolosi. Roberto Ciccarelli invita a reagire, a leggere a fondo il presente per riprendere, nelle sue pieghe, “il filo della storia”. Il suo contributo, da filosofo della politica, in questo saggio consiste, sulla base delle numerose e approfondite considerazioni analitiche di cui si è già detto, in due particolari proposte:

*                 il recupero, e l’adattamento al tempo presente, dell’idea gramsciana dirivoluzione passiva

e

*                 consapevole che l’idea di “rivoluzione” nel contesto specifico del nuovo millennio non può certo più essere quella “classica” dell’assalto al Palazzo d’Inverno, una sorta di azzardo teorico: “l’interpretazione spinozista del marxismo della forza-lavoro e una lettura marxista dell’antropologia spinozista alla base della sua Etica(l’interesse verso questo saggio è consistito anche in questo suo recupero del pensiero di Spinoza, al quale come Circolarmente abbiamo dedicato due riusciti seminari di approfondimento proprio perché già del nostro convinti della sua persistente attualità).

Una idea di percorso, e dei suoi possibili protagonisti, che guarda quindi non a una impraticabile, e velleitaria, presa violenta del potere (il Palazzo d’Inverno non esiste più, si è frammentato e moltiplicato come un’Idra  dalle mille teste, molte delle quali si sono installate nelle stesse menti degli sfruttati e degli oppressi) ma ad una radicale trasformazione collettiva, una vera liberazione dalle gabbie che imprigionano l’umanità intera (da qui il titolo del saggio “Una vita liberata”), che parte innanzitutto dalla riscoperta e dalla valorizzazione delle profonde differenze e contraddizioni presenti nella società. Quelle che il neo-liberismo cinicamente nega ed organicamente tenta di annullare nella sua idea dell’uomo “imprenditore di sé stesso”. Per recuperare il senso e la fattibilità di questa diversa idea di “rivoluzione”, di questa autentica “liberazione”, è infatti a suo avviso necessario uscire dalla collegata idea generica di “umanità”, come quella chiamata strumentalmente in causa nel dibattito sull’emergenza ambientale e climatica: l’umanità non è un soggetto indifferenziato coinvolto allo stesso modo dalle tante emergenze dei tempi attuali, ma resta divisa tra governanti e governati, tra oppressi ed oppressori, tra sfruttati e sfruttatori. Il suo primo importante contributo analitico (che sviluppa nel Capitolo 2 “Come siamo arrivati qui”) ricostruisce pertanto le modalità, e le basi teoriche, con le quali il “neo-liberismo” si è così compiutamente affermato, da dare l’idea di un compatto monolite ideologico. In effetti uno sguardo appena più attento evidenzia invece al suo interno non poche contraddizioni e diversità frutto di un processo di costruzione tutt’altro che lineare avvenuto nel campo largo del “neo-liberalismo”. La natura più economicistica del neo-liberismo è infatti solo una parte del più ampio filone neo-liberalista che, per quanto non meno contraddistinto da rilevanti differenze fra diverse scuole di pensiero e diverse concrete esperienze nazionali, mantiene al suo centro un’idea di società ancora fondata sui valori “classici” della proprietà privata, del libero commercio, delle libertà individuali, interpretati e declinati in un senso decisamente conservatore. Questo complesso percorso, duplice ed intrecciato, presenta quindi a suo avviso un chiaro carattere di “rivoluzione passiva” nell’accezione che di essa ha dato Antonio Gramsci (che ha recuperato quella precedente proposta da Vincenzo Cuoco, 1770-1823 scrittore e storico, nella sua riflessione sul fallimento dei moti rivoluzionari napoletani del 1799) nella parte dei suoi “Quaderni dal carcere” in cui analizza alcuni caratteri specifici della ottocentesca rivoluzione borghese in Italia, e allo stesso modo della presa del potere da parte del fascismo mussoliniano. Vale a dire, in estrema sintesi, quelli di una trasformazione così radicale, per quanto conservatrice, delle strutture politiche, istituzionali, economiche e sociali da meritare la definizione di “rivoluzione”, ma messa in atto come strategia difensiva per contrastare un contrapposto processo di radicale cambiamento progressista. Quella passiva neo-liberista si è rivelata vincente anche grazie alla realizzata congiunzione di due presupposti all’apparenza contrastanti: da una parte il rifiuto di ogni forma di interventismo dello Stato in campo economico, stante la sua esaltazione della totale libertà di mercato, e dall’altra invece un forte interventismo statale in difesa dei valori tradizionali di ordine, sicurezza, famiglia, considerati la vera base della società. Una congiunzione vincente perché capace di rappresentare gli interessi dei cosiddetti “poteri forti”, ma anche di coinvolgere parti estese delle classi medie e popolari proprio perché capace di offrire l’illusione del benessere coniugato con la certezza della stabilità e della sicurezza.  In Italia, ad esempio, ha raccolto non a caso  il totale consenso del vasto mondo del capitalismo delle piccole e medie imprese familiari. E’ in questa visione di insieme conservatrice neo-liberalista, con l’individuo in totale contrapposizione ad ogni visione sociale, che la strategia economica del neo-liberismo della libertà di mercato e di impresa ha, in stretta analogia, posto al suo centro l’esaltazione di un nuovo indistinto protagonista: l’individuo “imprenditore di sé stesso, del proprio capitale umano, un “capitalista umano”. Questo protagonista (analizzato nel dettaglio nel Capitolo 4 “La società dei capitalisti umani”) vive nel mito della piena “affermazione di sé” giudicando inutile, ed anzi dannosa, ogni relazione collettiva con gli “altri” visti solo come concorrenti sul mercato. Si tratta del totale capovolgimento delle visioni di collettiva liberazione dallo sfruttamento, che al di là di limiti e contraddizioni a lungo hanno segnato la storia dei movimenti di opposizione al capitalismo, in una vita individuale che, con la piena accettazione “del rischio (di mercato)” si riduce ad un inevitabile esclusivo arricchimento di ’”. Ruolo nella società, benessere consumistico e costruzione della propria identità diventano in questo individuo “self ownership = proprietario di sé stesso” un unico percorso di vita. E’ così tramontata la “coscienza di classe”, la coscienza di condividere con altri lo stesso posto nella società, ed è sparita la “lotta di classe” sostituita dalla concorrenza fra singoli. Questa duplice cancellazione rappresenta il primo e più importante ostacolo nella individuazione di soggetti sociali capaci di essere protagonisti di una autentica “liberazione” rivoluzionaria. Ed al contempo certifica, nei concreti processi sociali, la vittoria dell’ideologia neo-liberista/neo-liberalista: quella di una rivoluzione passiva così vincente da occupare l’intero spazio politico di una possibile diversa liberazione rovesciandolo nel suo opposto dell’autosfruttamento. Un processo lento e graduale, governato scientificamente, che ha pienamente assunto il carattere culturale ed ideologico di una “sociodicea”, di un fenomeno politico che si presenta al primo sguardo in forma di rivoluzione mentre a tutti gli effetti è una “restaurazione”. E nulla cambia, e non deve quindi trarre in inganno, se questa sociodicea sia avvenuta, ed ancora avvenga, in abbaglianti tempi di innovative trasformazioni tecnologiche e comunicative che non poco hanno contribuito a rafforzare l’illusione dell’affermazione di sè. Al culmine di questo percorso di conformazione ideologica due fattori hanno però infranto questo alone di definitiva vittoria: una crisi di sistema che ha messo a nudo, nel 2008, l’insostenibilità dell’intero modello economico e soprattutto il pieno manifestarsi degli effetti della non più occultabile crisi ambientale e climatica. Come cita il sottotitolo del saggio, “Oltre l’apocalisse capitalistica” si è quindi aperta una nuova fase, che ha tutte le caratteristiche della resa finale dei conti (quella che Ciccarelli analizza nel Capitolo 3 – Il tempo della fine). Alla quale il neo-liberismo sembra reagire, dopo averne a lungo ed ostinatamente negata l’evidenza, amplificandone, per certi versi in modo all’apparenza paradossale, i caratteri più apocalittici, riadottando e riadattando in modo strumentale, teorie della “fine del mondo” peraltro da sempre presenti nella storia umana. Lo scopo è chiaro: si accentua il carattere autonomo ed incontrollabile dei fenomeni per impedire di individuarne le cause, si usa il registro terroristico di paure collettive per “serrare le fila” attorno alle logiche di sistema, che devono restare intoccabili, e per accrescere la confortante conservazione dello status quo magari appena un poco verniciato di “green”. Diventa allora indispensabile operare affinché  “l’apocalisse”, non più negata ma semmai strumentalmente esasperata, sia vissuta nel suo autentico significato etimologico di “rivelazione” (dal greco apokalypsis, apo=da + kalypto=nascosto). E’ questa la giusta lettura dei processi in corso per far si che quanto si profila all’orizzonte come una minaccia sistemica sia posto in relazione ai rapporti sociali ed economici che l’hanno provocata. In questo quadro si riaffaccia nel discorso di Ciccarelli la critica alla chiamata in causa, come responsabile della crisi, di una indistinta “umanità”, come si può cogliere dalla stessa denominazione usata per definirla: “antropocene”, l’era dell’uomo. Non mancano in questa definizione innegabili spunti di riflessione sul rapporto uomo-natura, e soprattutto sullo strumento “tecnologia” che così tanto ormai lo media, ma non può essere negato che l’apocalisse ambientale è in primo luogo il risultato di azioni prolungate sul pianeta intraprese sulla base delle logiche capitalistiche di crescita infinita. L’uomo, l’Anthropos dell’Antropocene, non è un generico “homo sapiens”, ma l’individuo creato dalla cultura e dalle logiche capitalistiche che, a partire dal 1700, ha cristallizzato una insostenibile gerarchia fra umano e non umano, così come tra gli stessi umani. L’Antropocene è, se inteso in questi termini, una questione tutta politica. La mania di classificare un processo complesso definendolo con un semplice nome ha ben poco senso, ma se proprio fosse necessario battezzare quanto è, ambientalmente – economicamente – socialmente, successo su questo pianeta negli ultimi duecento/trecento anni il termine più adatto è sicuramente “Capitalocene”. Evitando però al tempo stesso una sua interpretazione “costrittiva”: se tutto è dentro il Capitalismo, se nulla è dato al di fuori di esso, allora anche le possibili soluzioni devono avvenire al suo interno. Il primo passo resta comunque quello, ferma restando la diffusa consapevolezza della drammatica portata di quanto sta avvenendo, di rifuggire da accentuazioni apocalittiche, inutili e strumentali (che non poco spiegano, per la loro presunta ineluttabilità, la stessa apatia, lo stesso disincanto, la stessa inerzia di gran parte della società verso le problematiche ambientali) e quindi di ricondurre il tutto all’interno delle dinamiche politiche che lo hanno determinato, creando così il presupposto inaggirabile per individuare le vere cause, per intervenire su di esse e virare il modello di sviluppo e di società verso opposte direzioni. In sostanza la “rivoluzione” auspicata. Ed appare evidente, sottolinea Ciccarelli, che questa inderogabile svolta deve innanzitutto sgombrare il campo dalla sottomissione ideologica di massa che il neo-liberalismo/neo-liberismo è riuscito a realizzare con la sua rivoluzione passiva ……. oggettivamente oggi il capitalismo è convintamente sostenuto se non desiderato da molti …… Diventa allora urgente individuare chi, e come, possa divenire il nuovo soggetto politico capace di realizzare questa liberazione, questo superamento dell’apocalisse capitalista. Occorre cioè operare, nella teoria e nella prassi, per costruire e far emergere un nuovo concetto di “popolo”, composto però da concrete e diffuse figure sociali. In questo senso  Ciccarelli ritiene necessaria (nel Capitolo 5 “Classe”)  una revisione del concetto di “classe”, e di quello collegato di “forza lavoro”, alla base dello storico percorso dei movimenti di opposizione anticapitalista. Lo fa innanzitutto sottoponendo a critica l’interpretazione meccanicistica, troppo a lungo quella prevalente, di questi concetti nella loro presunta versione originale marxista. Marx non ha mai ridotto la sua idea di “classe” alla sola collocazione nel processo produttivo, alla mera condizione di “produttore senza mezzi di produzione”. Ad essa ha invece consegnato, lungo l’intero arco della sua elaborazione, la prefigurazione dinamica di un diverso ordine sociale che nasce e si forma all’interno di quello, ingiusto, esistente. Quello di “classe” deve quindi essere interpretato non riducendolo ad una tecnicistica fotografia di soggetti sociali all’interno di processi produttivi - aspetto che comunque mantiene una sua precisa valenza, ma riconsegnandogli quello ben più ampio, e comprensivo di più soggetti sociali, del soggetto politico al quale affidare il ruolo di protagonista del processo di superamento della società capitalistica. Marx lo ha fatto già nella sua fase giovanile in cui opera una distinzione fra l’idea di “classe in sé” e di “classe per sé”, con la prima ad indicare la semplice collocazione nel sistema socio-produttivo, e con la seconda che invece, grazie alla “presa di coscienza della propria condizione”, prefigura la sua evoluzione in questo soggetto politico che si fa carico della propria liberazione. Un concetto che poi rafforza ulteriormente nella sua fase più matura di elaborazione quando lo completa arricchendolo dell’insieme dei rapporti interpersonali, anche morali e culturali in senso ampio, ad esso ascrivibili. E’ in questo quadro che resta ferma la centralità del concetto di “forza lavoro”, per indicare al tempo stesso l’unica proprietà esistenziale spendibile nel mercato del lavoro - tale da costituire pertanto un primo legame fondativo dell’appartenenza di classe - e l’insieme delle caratteristiche di genere, di ruolo familiare, di appartenenza etnica e nazionale, di credenze morali e religiose, generazionali e culturali, che non di meno concorrono a completare l’idea complessiva di “classe”. La quale quindi non definisce solo un rapporto “di produzione”, bensì un “rapporto generale di potere”, nelle sua varie articolazioni che, caratterizzate da contraddizioni e limiti, attraversano in senso verticale, ma anche orizzontale, il popolo intero. In sostanza, per Ciccarelli, la “forza lavoro” non è riducibile al solo “lavoro”, essa è una più ampia “facoltà umana”, la facoltà del possesso di tutte le sua facoltà, quelle in cui è oggetto oppresso e sfruttato, ma anche quelle in cui può essere soggetto che discrimina, che opprime, che divide. Questo recupero della concezione più autentica di classe, di forza lavoro e dell’insieme dei rapporti sociali che la completano, è quello che va calato nel contesto storico attuale per meglio individuare i componenti del soggetto politico protagonista della “rivoluzione/liberazione”, possibile nell’attuale società neoliberalista/neoliberista. In questa idea di “classe” confluiscono allora figure sociali molto più articolate, diffuse, trasversali, globali, che, accomunate dall’essere “forza lavoro”, in questa sua più ampia accezione e quindi non incatenate alla sola collocazione lavorativa, possono concorrere alla liberazione. Confluiscono ad esempio in esse, restando al solo aspetto socio-economico, sia la disgregazione della “classe media”, la vera controprova del fallimento neoliberista che, con l’idea “dell’imprenditore di sé stesso”, alla sua diffusa estensione invece puntava, sia la correlata spaventosa diffusione del “precariato”, divenuto la forma standard di “lavoro". Ed è in questo stesso quadro, dove la nuova e diversa idea di rivoluzione implica una liberazione al tempo stesso collettiva e individuale, che trova sostanza la proposta di Ciccarelli della interpretazione spinozista del marxismo della forza-lavoro e una lettura marxista dell’antropologia spinozista alla base dell’Etica spinoziana. Due concezioni all’apparenza fra di loro distanti nel tempo e nella visione di fondo, ma che in effetti questa rivisitata idea di “forza lavoro rende strettamente collegabili e capaci di promuovere una autentica liberazione sia collettiva, nell’idea marxista del superamento delle classi, sia individuale, nei concetti spinoziani di “passione” e di “potenza” . Là dove l’ideologia neo-liberista ha ridotto le passioni ad una sorta di analisi di costi e benefici, ispirata dalla ricerca del puro benessere e finalizzata ad una illusoria realizzazione di un “” - così limitato e sottomesso da indurre inevitabilmente alla “tristezza” (uno dei tre affetti primari di Spinoza)  e all’intero catalogo delle spinoziane “passioni tristi” - devono divenire vero patrimonio dell’individuo le contrapposte “azioni indotte dagli affetti positivi”, quelli capaci di ispirare una vera tensione verso una piena liberazione e una vera realizzazione di sè. La passiva accettazione delle regole del gioco, l’obbedienza verso il potere del denaro, possono essere in questo modo cancellate con il compiuto passaggio dalla condizione di “servo” – colui che vive in modo passivo il ruolo che la società gli assegna - a quella piena di “uomo" -  inteso come colui che vive in modo critico ed autonomo tale ruolo -  che realizza così il suo potenziale di “potenza” con la personale declinazione del proprio “conatus” - l’innata inclinazione verso la propria conservazione ed il proprio miglioramento, la forza di esprimere e realizzare la propria essenza vitale dando forma ai propri desideri - che, secondo Spinoza, gli uomini possiedono essendo, come tutte le forme viventi, parte del creato, della potenza divina (Deus sive natura = Dio ovvero la natura). Questo percorso individuale di liberazione ispirato dal raggiungimento della “gioia” (la “letizia” di Spinoza, secondo affetto primario), che investe tutte le “facoltà” umane contenute nella onnicomprensiva facoltà “forza lavoro”, genera al tempo stesso un modo diverso di considerare “l’altro”, visto non più come un competitore sul mercato, ma come compagno di viaggio nel comune cammino liberatorio. E rende così possibile alla visione marxista dei processi storici collettivi di coinvolgere tutte le figure sociali altrettanto connettibili all’idea di “forza lavoro”, chiamate ad essere i protagonisti di una nuova e diversa prospettiva di “rivoluzione/liberazione” che chiama in causa il loro essere, individualmente e collettivamente, soggetti economici, sociali, culturali, politici, ed antropologici (nell’ultima fase della sua vita Marx accentuò il suo interesse verso gli studi etno-antropologici, proprio per dare forma più completa alla sua idea di “rivoluzione” e di soggetto rivoluzionario, senza però poter dare loro forma compiuta per la sua prematura morte). Non esistono modi prestabiliti per avviare un processo di liberazione così inteso, ma sarà sempre necessario, in ogni specifico percorso di lotta – quali da subito possono concretamente essere: la riduzione del tempo di lavoro, l’introduzione di un reale reddito di base, una riforma universale ed omogenea del welfare, un uso sociale e liberatorio della tecnologia, e appena più in là un rovesciamento dei rapporti di proprietà – tentare di coniugare strettamente ricadute individuali e collettive in un percorso rivoluzionario che non può che essere permanente. Si completa con queste ultime considerazioni la ridefinizione dell’idea di “rivoluzione” che Ciccarelli propone. Distante anni luce dalla presa violenta del potere, da un percorso deciso e guidato da presunte avanguardie, da un’idea di cambiamento concentrato alla sola struttura economica, assume il pieno carattere di una “vita liberata”, una liberazione che ……. non si chiede, si crea. Non divide a metà la vita in una sfera pubblica ed una privata, ma congiunge l’individuo e la società in una prassi che attraversa l’esistenza dell’uno e dell’altra …….


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