Il “Saggio” del mese
OTTOBRE
2023
Anche per il “Saggio” di questo mese ci
siamo fatti guidare da un approccio antropologico per affrontare, da una
angolatura diversa e particolare, un tema, quello del “cibo”,
già preso in esame da CircolarMente con una specifica conferenza e più volte in
questo stesso blog
Il
12 Febbraio 2020 si è tenuta la conferenza del geografo Giacomo Pettenati e
dell’agronomo Federico Borrelli con titolo “Sistemi
del cibo, globalizzazione, sostenibilità e sovranità alimentare nel Sud del
mondo”. I temi che ne sono derivati sono stati poi approfonditi nel
“Saggio del mese” di Febbraio 2020 con il testo “Storia
del cibo” di Felipe Armesto nel quale si è seguita l’evoluzione storica
delle forme di alimentazione umana, in quello di Marzo 2020 “I padroni del cibo” di Roy Patel è stato esaminato
il crescente prevalere della produzione alimentare di tipo industriale,
concentrata nelle mani di poche multinazionali, su quella tradizionale
parcellizzata in produzioni locali, ed infine in quello di Novembre 2020 “Presi per la gola” di Tim Spector le distorsioni
alimentari che tale situazione sta creando nei modi standardizzati di mangiare
e bere
Le prime frasi di questo Saggio bene e
subito chiariscono le sue del tutto diverse finalità di analisi antropologica
…… L’uomo è ciò che mangia, ma Dio non è da meno.
Perché da che mondo è mondo attraverso le scelte alimentari ogni popolo
costruisce simultaneamente l’immagine di sé e quella della divinità …..
i suoi autori sono: Elisabetta Moro
Insegna
Antropologia culturale all’Università di Napoli. Presiede il “Comitato Unesco
di cultura intangibile”
e Marino Niola
Insegna
Antropologia del simboli all’Università di Napoli. Segue in particolare il tema
dei risvolti culturali dei sistemi e delle forme di alimentazione, argomento
che spesso presenta con articoli su La Repubblica
La tesi sulla quale Elisabetta Moro e
Marino Niola hanno costruito questo saggio, a tutti gli effetti una ampia ricostruzione
antropologica, consiste nel ritenere che il cibo
rappresenti una delle componenti culturali sulle quali poggia il
rispecchiamento tra l’essere supremo ed i suoi fedeli. Sono infatti
convinti che all’origine di quello che comunemente viene definito gusto
alimentare non vi sia la semplice somma di un gioco delle papille gustative e
delle disponibilità di risorse commestibili, ma un
intreccio complesso e avvincente tra piacere, desiderio, paura, accessibilità,
immaginazione, imposizione, sentimento, comandamento. Il gusto, se così
inteso, concorre quindi in modo decisivo a definire l’identità complessiva di
un popolo, di una cultura. Il suo legame con la divinità, ed il suo essere al
tempo stesso spiegazione ultima e modello da imitare, trova cioè spiegazione, e
ragione d’essere, nel costituire una importante base identitaria. Ed allora “mangiare come Dio comanda” (ovvero
per dirla con la famosa espressione coniata dal filosofo Ludwig Feuerbach: “siamo quello che mangiamo”) non è più una semplice espressione
proverbiale, ma diventa una fondamentale chiave di lettura per individuare e
capire come ogni cultura sia divenuta quella che è. In questo senso il cibo,
proprio in quanto carburante della storia umana, è anche materia prima dello
stesso sentire religioso, e le norme alimentari sono il fondamento di quelle
morali, non la loro conseguenza. Ogni decalogo
religioso è in effetti un menù sottotraccia …. nel senso che l’uomo ha,
universalmente, attribuito al volere divino norme, usi e costumi (quel che è lecito o proibito mangiare, tempi e modalità della sua
produzione, del suo commercio, della sua preparazione, le forme per consumarlo,
e tutto poggia sull’antefatto mitico della conquista del fuoco) in realtà da lui stesso creati, ma che
acquistano una autorità superiore, indiscutibile, nel momento in cui sono
sacralizzati.
Ovviamente a
tavola è lecito fare come si crede, ma è utile sapere che ogni fede
nutrizionale ha quasi sempre alle spalle una fede religiosa, in fondo,
consapevoli o meno, ogni volta che ci mettiamo a tavola cerchiamo di mangiare
come Dio comanda
Questa tesi rappresenta quindi la
chiave di lettura per seguire l’accurata ricostruzione (che
qui percorreremo in estrema sintesi)
che Elisabetta Moro e Marino Niola, in questo saggio, hanno fatto del connubio
cibo-religione in alcune culture umane, quelle più popolate, con la sola, inspiegabile,
assenza di quella cinese. E’ invece comprensibile che le dimensioni del saggio
non abbiano consentito di esaminare l’incredibile varietà di situazioni rappresentate dalle numerose culture di popoli e etnia non meno presenti nella
storia dell’umanità
1 - Teologia della dieta
mediterranea
E’
opinione condivisa che la dieta alimentare più soddisfacente per un corretto
fabbisogno energetico sia quella definita, non a caso, “mediterranea” essendo la moderna
sintesi di millenarie usanze alimentari di alcuni popoli che si affacciano sul
Mare Mediterraneo. La cultura della Grecia classica, con il suo variegato
politeismo, è quella che meglio ha canonizzato le implicazioni di un rapporto
cibo-religione comunque comunemente rintracciabile all’origine di ogni sua
variegata evoluzione. E’ quindi di notevole interesse la constatazione che
questo rapporto sia nato da un autentico “non rapporto”, da una evidente
separazione. Parafrasando la frase di Feuerbach testé richiamata si può infatti
sostenere che “dimmi
come mangi e ti dirò se sei un immortale”, gli dei dell’Olimpo greco
godono di una alimentazione del tutto diversa da quella dei mortali umani a
marcare una differenza di status non valicabile. Non solo gli dei consumano
cibi esclusivi (nettare ed ambrosia,
elisir di immortalità) ma, in quanto tali, si arrogano il
diritto di essere i generosi dispensatori di tutti quelli di rango ben
inferiore che nutrono i comuni mortali, a partire dai tre alimenti che
costituiscono la cosiddetta “triade
mediterranea” che, composta da “pane
– olio – vino”, da millenni rappresenta la comune base delle
cucine del Mare Nostrum.
La
sacralità di questi macronutrienti è in effetti rintracciabile, con locali
variazioni di lieve entità, in tutte le culture dell’area mediterranea. Quella
greco-romana in particolare ha costruito attorno ad essi un imponente apparato
di regole religiose, narrazioni mitologiche, pratiche rituali, credenze
superstiziose. A ben vedere è proprio questa sacralizzazione che, non
casualmente, ha anche definito un regime dietetico considerato, nella pratica
quotidiana, quello più sostenibile e più nutriente. Molto prima degli attuali DOC (Denominazione di Origine Controllata), e per
millenni, è valsa una diversa DOC (Denominazione di
Origine Consacrata)
Prima
ancora del pane, il risultato finale di
un lungo lavorio che inizia con l’aratura e la semina, è già attestata, e
tutelata, l’origine divina delle “messi” (tutti i vari tipi di
cereali che vengono “mietuti”). E
non a caso già per questo aspetto preliminare al vero cibo nella cultura greca
compare nelle vesti di nume tutelare una dea: Demetra (da
Demeter letteralmente “dea madre”), che in quella latina
diventa Cerere
(da
cui il termine “cereali”),
nonché sua figlia Kore (altrimenti detta Persefone)
che in latino ha nome Proserpina. Non dissimili dai riti e dai
sacrifici ad esse dedicati sono quelli tributati ad un’altra divinità, quella
della vegetazione: Adone, figlio di Afrodite/Venere (nelle
culture mesopotamiche un analogo dio prende il nome di Attis
o Tamuz) festeggiato ogni
anno verso primavera per celebrare il continuo rinnovarsi del ciclo di morte e
rinascita nel ciclo stagionale delle piante.
sono
riti ancestrali molto interessanti perché presenti con identiche
caratteristiche in molte culture: tutti questi Dei spesso nascono da vergini,
muoiono per un breve periodo per rinnovarsi in una successiva resurrezione e hanno, con queste caratteristiche, un forte legame soprattutto con il ciclo di
vita dei cereali. Questa figura mitica, e le usanze ad essa collegate, erano
presenti anche nella cultura ebraica arcaica che ne accentuava in particolare
il rapporto con il pane. Non è forse un caso quindi che Gesù, il pane della
vita, sia fatto nascere in Betlemme, che significa “la casa del pane”, dove
sorgeva un ombroso bosco dedicato proprio alla figura mitologica di Adone
E
d’altronde il pane, in tutte le culture collegabili a quelle mediterranee, ha la
valenza di simbolo di un potere divino che va oltre il suo valore di cibo, di
alimento per antonomasia. La panificazione, e la conservazione del pane, sono
state a lungo pratiche, non dissimili da quelle del fuoco, in grado di spiegare
la stessa struttura di potere della comunità.
un
esempio viene dall’antico inglese dove i termini che sono poi evoluti in Lord e Lady letteralmente
significavano “guardiano del pane” e “colei che impasta il pane”
Ed in effetti i miti e le leggende sull’invenzione e sulla conservazione del fuoco
hanno tratti molto simili a quelli che riguardano un ingrediente fondamentale
del pane: il
lievito. Nell’immaginario mediterraneo la sostanza magica che gonfia
il pane è sempre il dono di un essere soprannaturale, spesso femminile,
depositario dei saperi utili alla sopravvivenza della comunità. La pasta madre,
essendo spesso un bene comune, è essa stessa un simbolo ed un fattore di
coesione sociale, fino ad essere considerato in alcune culture una sorta di
tabù, non essendo umanamente spiegabile il mistero della lievitazione. Si può allora
affermare che il pane, l’alimento ideale della comunità, implica scambio
solidale divenendo, anche grazie alla sua investitura divina, la
metafora della vita e del lavoro umani. Altri dei intervengono anche per
l’altro cibo della triade mediterranea: l’olio e l’ulivo ricadono sotto il segno di Atena, figlia di Zeus, (Minerva nella cultura latina),
che dona agli uomini il primo ulivo, quello “sacro”, attorno al quale sorge la
capitale dell’Attica, chiamata in suo onore: Atene. L’identificazione tra ulivo
e l’intera polis è totale nella cultura greca, quello ritenuto il dono di Atena
è protetto con la pena di morte per chi lo danneggia
Guido
Ceronetti evidenzia con acume questo aspetto là dover afferma “è l’interdetto
sacro che protegge la natura, non la buona educazione, non la legge civile “se l’ulivo è sacro ad un dio l’ulivo non sarà tagliato”
Se
la Grecia antica sacralizza l’olivicultura le altre culture mediterranee non
sono da meno, nella tradizione ebraica, ad esempio, l’ulivo cade dal Paradiso e
cresce sulla tomba di Adamo, a significare che la storia dell’intera umanità e
quella dell’ulivo sono la stessa cosa. A spiegare questo suo ruolo centrale,
andando oltre la sua celebrazione mitologica, concorre la caratteristica dell’olio
di “ungere”,
di essere cioè al tempo stesso capace di “legare gli alimenti” e di “impedire ad
altri alimenti di legarsi”. Unisce e insieme divide. L’olio è cioè un
potentissimo connettivo, sia naturale che soprannaturale. Il terzo elemento
della triade è il vino, il dono di Dionisio
(per
i Romani Bacco),
ma se quelli del pane e dell’olio hanno un rassicurante carattere di coesione
comunitaria questo del vino presenta elementi squilibrati. L’intensità del
rapporto con Dionisio/Bacco deve essere accuratamente calibrata, il vino
implica, proprio per le sue caratteristiche inebrianti, il forte rischio di non
controllare la magica forza vitale del succo della vite. In questo senso il suo
temperato uso è al tempo stesso raccomandato per il beneficio personale, ma è
anche condizione necessaria per buone relazioni comunitarie. In questo senso se
la civiltà si misura anche per il dono divino del vino, questo a sua volta
misura il grado di civiltà. Dionisio/Bacco sono dei con poco e strano senso del
limite, questo compete a chi si accosta alla coppa di vino (l’uso
tradizionale greco prevede di mescolare una tazza di vino con venti di acqua!)
Va
precisato che le caratteristiche organolettiche del vino dei tempi antichi sono
del tutto dissimili da quelle attuali. Si tratta infatti di un prodotto
ottenuto da una spremitura raffazzonata, non filtrato, non fermentato a
sufficienza, e quindi una sorta di spesso mosto così ricco di etanolo da
richiedere una sua forte diluizione
Se
quindi è bene non seguire ciecamente il carro di Dionisio/Bacco (raffigurato
come un carro coperto di foglie e pampini, su cui viaggiano baccanti a satiri,
trainato da tigri e pantere) il suo dono è però anche un
prezioso viatico per la socializzazione e la conoscenza, che trova nel “simposio”
della mitologia mediterranea il suo paradigma (il termine che ancora
oggi indica una riunione conviviale deriva dal greco symposion il cui
significato letterale è “con bevanda”).
Ed è con questo carattere di comunanza che il vino viene poi assunto, come
vedremo, dal cristianesimo fino a divenire sostanza sacra dell’eucarestia. Non
sono però attribuibili a numi tutelari le raccomandazioni che caratterizzano la
dieta mediterranea, ma alle riflessioni di filosofi, a partire da Pitagora e
Platone. Certo il regime alimentare assurto a universale regola aurea della
corretta alimentazione si spiega innanzitutto con le condizioni materiali di
esistenza dei popoli mediterranei (di sicuro non improntate
all’abbondanza e alla ricchezza) ma l’antica diffusa
pratica alimentare basata sul prevalere di verdure e vegetali (antesignana
del vegetarianismo) racchiude anche una saggezza esistenziale
che va oltre l’essere un sano regime alimentare
2 – La tavola di Mosè
Sarà
che secondo il Vecchio Testamento la storia dell’uomo, sulla terra, inizia con
un morso di troppo, quello di Adamo ed Eva al frutto proibito, e sarà che da
allora in fatto di cibo l’uomo ha parecchio da farsi perdonare dal Dio del
popolo eletto, ma un filo doppio ed indissolubile lega cibo e religione nel mondo
ebraico. Lungo gli stessi millenni nei quali l’Olimpo politeista
offriva in dono all’uomo i cibi della triade mediterranea in quella che diverrà
la Terra Santa dietro ad ogni alimento, ad ogni ricetta, vengono fissate
rigorosissimi precetti e divieti che fissano scrupolosamente cosa mangiare,
cosa non mangiare, come cucinare, quando, quanto e come mangiare. E
d’altronde per meritarsi il proclamato status di “popolo eletto” corre
l’obbligo per le dodici tribù di Israele di obbedire scrupolosamente ogni qual
volta Dio fa sentire la sua voce che in fatto di cibo è quanto mai perentoria.
Alla generosa concessione sancita nel libro della Genesi (Gen
9,3)
“quanto si
muove e ha vita vi servirà da cibo” fa subito seguito un lungo ed
articolato elenco di divieti, di tabù. Ad esempio:
non mangiare carne contenente sangue [“la
vita di ogni essere è il suo sangue perciò vi ordino di non mangiare sangue di
alcuna specie vivente” (Lv 17,10)] e
quindi la macellazione deve seguire un vero e proprio rito di purificazione
la sola carne mangiabile è quella di animali che siano ruminanti
e dotati di unghia dipartita (e quindi bovini e ovini si, maiali, cavalli e cammelli no)
volatili si,
ma con moltissime eccezioni
pesci si ma solo quelli con pinne e squame, vietati quindi
molluschi, frutti di mare e crostacei
Una delle regole più
importanti fissa il divieto di associare carne e latte nello stesso piatto (e quindi, tuttora, nelle case e nei
ristoranti ebraici si usano servizi di piatti e pentole distinti per l’una e l’altro, e
anche lavastoviglie e comparti frigo diversi) e la consumazione
dei pasti è punteggiata di preghiere e gesti rituali. Ognuna di queste regole (qui
ne sono citate solo alcune) trova una sua ragione d’essere in
sottili considerazioni teologiche che puntano a confermare e rafforzare lo
status di popolo eletto dividendo l’intero creato tra ciò che è “puro, ossia
kasher o kosher” e ciò che è “impuro ossia taref”. Questi precetti della Torah
(la
Bibbia ebraica) non sono quindi incorporei dettami
teologici, ma sanno tradursi in un preciso e vincolante complesso di
comportamenti concreti riguardo al cibo, la cui finalità ultima è quella di
creare, anche attraverso tali pratiche, quella consolidata identità collettiva
che ha da sempre, attraversando millenni e le tante diaspore subite, consentito
all’antico popolo di Israele di mantenersi unito, vicino, anche se disperso per
il mondo intero. Va poi detto che tale sistema di divieti non ha certi impedito
alla cucina ebraica di essere ricca di sapori, umori, odori, anzi paradossalmente
tali ostacoli hanno incentivato la migliore valorizzazione di tutti i cibi kosher,
creando così una cultura del cibo sana e variegata. Tale da aver recentemente
conquistato, in quest’epoca di salutismo alimentare, anche il palato di chi
ebreo non è, e non a caso quindi gli alimenti prodotti secondo le regole
ebraiche (rigorosamente certificati da rabbini),
sono sempre più presenti sulle tavole di mezzo mondo con un numero crescente di
consumatori rassicurati dal fatto che uno dei comandamenti kosher fissa la regola che “il cibo non deve contenere nulla che sia dannoso
alla salute”.
Per
esempio il rigore delle modalità di macellazione e trasformazione delle carni,
attestata dal marchio kosher, è sinonimo di grande attenzione alla qualità del
prodotto, non stupisce allora che nei soli USA il cibo ebraico sia arrivato a
rappresentare il 40% del food businnes. Kosher is
better
3 - I cristiani mangiano
di tutto
E’
molto forte il rapporto culturale e religioso del cristianesimo con le preesistenti
culture e religioni mediterranee, quelle classiche e a maggior ragione con
quella ebraica, e questo legame vale sicuramente anche per la cultura del cibo.
Ma è altrettanto vero che il cristianesimo rappresenta una straordinaria svolta
nel rapporto tra divino e cibo: scompaiono i gaudenti dei dell’Olimpo generosi
dispensatori dei doni della triade mediterranea e soprattutto scompare
l’ebraica discriminazione tra alimenti puri ed impuri, tra cibi leciti e
illeciti, il
buon cristiano può mangiare di tutto, purchè rispetti il precetto della temperanza,
restando il suo unico comandamento la condivisione del cibo. Stiamo
parlando di una svolta che accompagna quella più generale del progressivo,
perché durato diversi decenni, distacco del cristianesimo dalla sua matrice più
strettamente ebraica. Non è stata, come è noto, una evoluzione semplice e
indolore, ma al termine del primo secolo dopo Cristo la scelta è compiuta (ben
testimoniata dall’ultimo dei Vangeli, quello di Giovanni):
il messaggio di Gesù non parla ai soli ebrei, ma ha valenza universale, si
rivolge a tutte le genti, a tutti gli uomini. Ed anche il cibo viene chiamato a
testimoniare questo decisivo cambio di paradigma: scompaiono i precetti ebraici
così rigorosi proprio perché così rivolti al solo popolo eletto, se il nuovo
Verbo si rivolge a tutti deve accettare tutte le diversità alimentari, tutti i
cibi, tutti i modi di cucinare e mangiare …. tutto quel che si trova sui banchi del
mercato è buono per i cristiani perché viene da Dio e tutto quel che viene da
Dio non può essere impuro ….. Non possono cioè esistere separazioni fra
uomini e genti in base a quel che mangiano e bevono, ma, in sintonia con il
messaggio cristiano di redenzione, questa apertura, questa inclusione, viene
completata con un nuovo credo alimentare: quello della moderazione (e
della giustizia distributiva). Le prime comunità
cristiane adottano quindi con convinto rigore il vero nuovo comandamento sul
cibo: la
ricerca della temperanza. Da allora se smette di essere rilevante “cosa si mangia”
diventano fondamentali “il quanto, il quando, il come” (banalmente
ha qui origine il detto “di tutto un po’”).
Fatto salvo, nella sua sostanza, questo decisivo passaggio è però altrettanto
vero che il rapporto del cristianesimo con il cibo si è da San Paolo in poi (il
vero protagonista di questa svolta) fatto non poco complicato,
peraltro non diversamente da tutte le questioni dottrinali che per secoli e
secoli hanno caratterizzato la vita delle Chiese cristiane. Una montagna di
controversie, puntualizzazioni, cambiamenti, aggiustamenti, eresie, divisioni
che hanno investito anche la sfera del cibo tant’è che, molto spesso, si sono
espresse proprio con il linguaggio dell’alimentazione. D’altronde lo stesso
messaggio evangelico si è fin dal suo inizio basato proprio sulla
identificazione teologica tra “verbo e cibo”, in particolare sulla stretta
associazione tra “la figura di Gesù Cristo e la (prontamente recuperata) classica
triade mediterranea” del pane, del vino, dell’olio. Ma a
differenza delle blande implicazioni teologiche della cultura classica questa
associazione assume un fondamentale valore, Gesù inteso come Cristo offre
all’umanità, nel rito eucaristico che celebra la piena adesione al divino, il
suo corpo umano transustanziato in pane e vino: questo è il pane che è disceso dal cielo,
non come quello che i padri mangiarono, chi mangia questo pane vivrà in eterno (Vangelo
di Giovanni 6,58). Ed è proprio “panificandosi” che Gesù
Cristo ristabilisce l’equilibrio spezzato dal peccato originale
Come
già richiamato in precedenza l’accostamento con il pane è già insito nella
scelta del luogo di nascita di Gesù: Betlemme,
in ebraico “casa del pane”. Ed il nome
“ostia”, la particella consumata nella Comunione, ha derivazione dal latino
“hostia” che indicava la vittima offerta in sacrificio
Non
meno significativo, in questa associazione divino-cibo, è il fatto che il pane
fosse all’epoca il risultato del lavoro dell’intera comunità, il frutto di un
lavoro cooperativo, averla scelta esalta quindi anche la dimensione comunitaria
del cristianesimo (dal pane, non a caso, derivano
parole come “compagno” dal latino “cum panis, con pane”).
Con queste premesse meglio si comprende perché la preghiera principale del
cristianesimo, il Padrenostro, citi
esplicamente “dacci
oggi il nostro pane quotidiano”. E se la parte corporea del Figlio
di Dio è rappresentata dal pane, non sorprende che la parte liquida sia
rappresentata dal dono di Dionisio, a sancire il recupero del secondo cibo
della triade, e che sia l’olio, il suo terzo componente, a definire la sua
natura divina, visto che “christòs”
in greco significa “unto”, esattamente come la parola ebraica “masiakh”,
da cui deriva “messia”,
Gesù Cristo è “il
Messia” che porta la salvezza essendo “l’unto del Signore” (altrettanto
significativi sono altri due passaggi dei Vangeli: Gesù dopo l’ultima cena si
ritira in preghiera nel “Getsemani”, che in
aramaico significa frantoio, che si trova ai piedi del Monte
degli Ulivi). Il Cristianesimo quindi recupera nel suo
strettissimo rapporto con il cibo tutti e tre gli alimenti della triade
mediterranea usandoli però, in modo totalmente diverso, proprio per definire il
nuovo carattere di salvezza divina ….. si può allora dire che con il sacramento della comunione
i cristiani chiudono il cerchio aperto dalle religioni precedenti arrivando
simbolicamente a mangiare Dio ….. L’apertura del cristianesimo verso
ogni tipo di cibo si accompagna però con un forte richiamo alla temperanza,
alla moderazione nel cibarsi, che bene si spiega proprio con il significato
salvifico, sancito dalla Comunione, dell’unione con il divino attraverso il
cibo. Ciò che è sacro e salvifico non può essere svilito dall’eccesso smodato,
nella visione etica cristiana i “peccati di gola” sono quindi allo stesso livello
dei “peccati
della carne, della lussuria”. Ed ecco perché la pratica del digiuno,
purchè praticato senza vanagloriosi eccessi, è così incoraggiata dal cristianesimo,
rivelando anche in questo caso una stretta relazione con le preesistenti
culture classica ed ebraica.
I
quaranta giorni Quaresimali che precedono la Pasqua sono i quaranta giorni
fissati da Pitagora per completare il suo rito purificatore, sono i quaranta
giorni di digiuno seguiti da Mosè prima di ricevere le Tavole della Legge. Un
principio quaresimale è peraltro presente in tutte le culture e le religioni
che, seppure con diverse declinazioni, hanno sempre avvertito l’esigenza di un
periodo di purificazione, di controllo dei corpi
Lo
stesso culto della magrezza, per quanto oggi declinato in senso estetico e
salutista, bene si collega alla cristiana visione originaria della temperanza e
della moderazione che non condannava il sovrappeso in sé, ma come peccaminoso
accaparramento di risorse alimentari a scapito della condivisione comunitaria.
L’apertura del cristianesimo verso ogni tipo di cibo è confermata dall’assenza
di particolari divieti, anche se è riscontrabile una qualche diffidenza per l’eccesso
di consumo di carne. Si tratta di un cibo che a lungo è stato un impossibile
lusso per le tavole dei poveri, così come lo era per quelle delle prime
comunità cristiane, ma che, in quanto tale, non è mai stato oggetto di
particolari divieti. Semmai nel cristianesimo non ha mai goduto di particolare
simpatia per il suo inevitabile accostamento alla crudità, alla crudeltà,
all’uccisione, al versamento di sangue, ben testimoniato dalla stessa origine
etimologica della parola “carne” che alcuni fanno derivare da due radici
indoeuropee: *kru,
che indica proprio la morte, la violenza, piuttosto che *ker
che indica il taglio, il tagliare, il ferire.
a
conferma della incostante, se non contradditoria, evoluzione della dottrina
cristiana lo stesso obbligo del “mangiare di magro
il Venerdì” è sempre stato declinato con rigore variabile. Nel 1994 la
CEI, la Conferenza Episcopale Italiana, riprendendo una precedente indicazione
di papa Paolo VI ha chiarito che non esiste alcun obbligo in tal senso, che
ogni fedele può decidere autonomamente magari sostituendolo con un’opera di
bene, di carità, se non con una preghiera
4 – L’Islam tra purezza e
pericolo
L’altra
grande religione monoteista sembra segnare un ritorno ad una visione del
rapporto tra divino e cibo contrassegnata da divieti e proibizioni: …. sono vietati gli
animali morti, il sangue, la carne di porco e ciò su cui sia stato invocato
altro nome che quello di Allah …..
(Quinta
sura del Corano). L’islamismo in effetti sembra collocarsi a
metà strada tra i due grandi monoteismi che storicamente lo precedono e con i
quali ha riconosciute relazioni: fa proprio l’universalismo del messaggio
cristiano pensando ad una analoga diffusione globale, ma al tempo stesso
introduce nella sua dottrina, analogamente all’ebraismo, una linea netta di
demarcazione tra infedeli e propri fedeli, i quali sono tenuti a marcare questa
separazione anche nel cibo che il Corano conseguentemente suddivide tra quelli
“halal”,
ossia i cibi consentiti, e quelli “haram”, cioè i cibi impuri e quindi proibiti.
La lista dettagliata di ciò che si può mangiare e di ciò che è vietato è molto
simile a quella ebraica, ad esempio sono halal le carni ovine e bovine purchè
macellate ritualmente per evitare il sangue, sono invece haram le carni di
maiale, conigli, uccelli, cavalli, muli, asini e di tutti gli animali che
strisciano. Sono halal i pesci con spine a squame, vietati molluschi,
crostacei. Una proibizione specifica dell’Islam (sulla quale si
tornerà) è, come è noto, quella del vino e di tutte le sostanze
inebrianti.
questa
sostanziale omogeneità con i divieti ebraici viene spiegata da alcuni storici
con la comune discendenza da culture tribali del MedioOriente preislamico che
prescrivevano specifiche alimentazioni per ragioni insieme etiche e dietetiche, ritualiste e salutiste
Allo
stesso modo della cucina ebraica l’insieme di queste regole vincolanti ha
sollecitato l’uso migliore e più fantasioso di tutti i cibi halal dando così
origine ad una cucina ricca e variegata (ad es. il kebab, il
couscous, i falafel) che inoltre, incrociandosi lungo i secoli
con quella delle altre tradizioni mediterranea, ha creato piatti universali (ad
es. dolci preparati senza uso di grassi animali e quindi a base di miele e
ricotta, il pane con semi di sesamo, le varie farinate di ceci, una delle
quali, tipica del Monferrato, è chiamata “belecauda”).
In generale il rapporto del divino con il cibo è nell’Islam rigorosamente
fissato dalla interpretazione delle varie sure del Corano che regolano ogni
aspetto del vivere individuale e collettivo dei mussulmani.
in
effetti il Corano non è opera rigorosamente omogenea, le sue sure vengono di
norma suddivise tra quelle denominate “meccane”,
ossia rivelate da Maometto nella sua permanenza alla Mecca, il cui scopo
primario era quello di costruire un primo impianto dottrinale e che quindi appaiono
meno stringenti e rigide, e quelle successive all’Egira
(il trasferimento di Maometto a Medina) chiamate “medinesi”, quando prevale lo scopo di fissare
regole molto più severe per meglio gestire l’eterogeneità della crescente
diffusione dell’Islam
A
differenza del Cristianesimo che, come si è visto, ha consentito, proprio per
la sua sostanziale mancanza di un definito impianto di regole alimentari, una
ben più ampia elasticità nel rapporto con il cibo, nel mondo mussulmano - pur
tenendo conto delle sue significative divisioni (in particolare fra
sunniti e sciiti) - la necessità di omogeneizzare la pratica
di una fede che si è diffusa globalmente con grande rapidità ha di fatto
accentuato l’applicazione rigorosa dei divieti alimentari. Ad esempio la
pratica della macellazione degli animali halal è persino più rigorosa e rituale
di quella ebraica kosher, l’osservanza del digiuno rituale, il Ramadàn,
è molto più diffusamente rispettata.
non
mancano in questo complesso di rigide regole alcune che possono di più
sorprendere chi segue altre concezioni del rapporto del divino con il cibo. Il
mussulmano deve seguire a tavola un rigoroso galateo che prevede in particolare
che il cibo sia sempre preso con la mano destra, che l’Islam giudica quella
“pura”, quella che fa il bene
Ma
non mancano ricadute positive sotto diversi punti di vista: il buon mussulmano deve
sì essere sempre grato ad Allah per il cibo che mangia, ringraziandolo
scrupolosamente prima di cibarsi, ma deve essere moderato e sempre disponibile
a condividere il suo cibo con altri. Dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati è pratica molto più seguita nell’Islam che
nell’ormai secolarizzato mondo cristiano. La scelta degli alimenti vegetali
deve rigorosamente seguire la loro stagionalità, una regola che, di norma
altrettanto scrupolosamente seguita, bene abbina buone ricadute nutrizionali e
rispetto di produzioni sostenibili. Si è detto in precedenza della diversa
modulazione delle norme alimentari islamiche fra le sure meccani e medinesi, un
aspetto che investe in particolare il rapporto con il vino, ed in generale con
le sostanze inebrianti. Mentre nelle prime il loro divieto era molto blando e
tollerante, nelle secondo questo si è fatto molto più severo arrivando a
interdire non solo il succo d’uva, ma anche quello ottenuto dalla fermentazione
di cereali (liquori e birre). Ed i mussulmani più
rigorosi non si azzardano nemmeno a toccare le bottiglie che le contengono, e
quindi anche a servirle ad altri, perché la loro impurità è simbolica prima
ancora che materiale.
5 – Il dilemma Indù,
Buddha, Jina, Gandhi
Lo
sguardo ora si volge dal bacino mediterraneo, dalla cultura del cibo della sua
classicità e dei suoi tre grandi monoteismi, verso Oriente, verso quel crogiolo
di divinità e di usanze alimentari rappresentato dal subcontinente indiano. Il
primo grande ceppo religioso esplorato da Elisabetta Moro e Marino Niola è
quello, politeista e poliforme, della religione Indù, considerata da molti
quella più antica, le sue radici infatti risalgono a più di quattromila anni.
Una recente ricerca (effettuata nel 2021 dall’istituto
Pew Center di Washington specializzato in indagini sociali) ha
sondato le attuali forme della religiosità induista (con 900 milioni di
seguaci è la terza religione più diffusa dopo il cristianesimo e l’Islam), la
risposta alla domanda su quale sia il comportamento che di più e meglio
rappresenta la fede in Bhrama, Vishnu e Shiva (le tre principali divinità,
la sacra Trimurti, del pantheon induista) è
quanto meno sorprendente: a fare la differenza fra un credente e un non credente è
prima di tutto l’osservanza delle regole e dei precetti alimentari.
Come a dire che “mangiare
come Dio comanda è più importante che credere al Dio che comanda”. E
la prima fondamentale regola è quella di digiunare un giorno a settimana
dedicandolo al nume che si intende celebrare per ingraziarselo (il
pantheon induista è non poco numeroso, accanto ai tre dei principali siedono
numerose altre divinità ognuna delle quali, non diversamente dall’Olimpo greco,
presiede ad una qualche virtù o potenza). Il digiuno per gli
induisti assume una straordinaria valenza: purifica il corpo, eleva l’anima,
libera dal ciclo delle reincarnazioni (che gli indiani vivono
come un castigo divino). Non a caso la parola che indica il
digiuno è “upvas”
che letteralmente vuol dire “sedere vicino a Dio”. Questa dedizione
ascetica, seguita con totale devozione, non significa che per l’induismo il
cibo non sia centrale, al contrario le regole che disciplinano la scelta, la
cottura ed il consumo di cibo rappresentano, in positivo, la base della stessa
pratica religiosa, al punto che il cuoco per eccellenza è il brahmino/brahmano,
il sacerdote induista. Esiste infatti un forte parallelismo tra l’amalgama dei
tanti incrociati riti religiosi che un pantheon così variegato in qualche modo
impone e quella dei gusti, dei sapori, delle combinazioni. Il cibo è cioè
considerato il veicolo principale del contatto con il divino, e per fare ciò
deve essere totalmente puro, e considerato che l’impurità è trasmessa proprio
da chi cucina ben si comprende perché la casta più pura sia quella dei
brahmini, mentre quello più impuro è il cibo dei paria, la casta più in basso.
Il
cibo più puro in assoluto è il “ghi”, il
burro chiarificato prodotto con il latte delle mucche sacre, anche bruciato
nelle lampade votive ed usato per ungere le statue degli dei
La ricerca della purezza assoluta implica anche che il cibo avanzato, ormai impuro, debba essere buttato via, non prestandosi come avanzo ad ulteriori manipolazioni, e che i cibi crudi siano preferiti a quelli cotti proprio per evitare le impurità della manipolazione. Se il cibo così considerato è l’elemento fondamentale dell’identità e dell’unità induista l’esaltazione esasperata della sua purezza diventa però il motivo dell’astio verso le abitudini alimentari delle altre religioni. La stessa ostilità spesso molto violenta degli induisti verso i mussulmani nasce (ovviamente oltre che da motivazioni politico-religiose) da ragioni legate al mancato rispetto della purezza dei cibi. E quasi sempre il pretesto per questa violenta ostilità è legata al consumo di carne di mucca, di manzo. Il rapporto con il cibo “carne”, e con l’animale suo maggior fornitore, rappresenta sicuramente l’aspetto più rilevante non solo per la religione indù essendo comune a tutte le culture che con essa hanno storicamente avuto una stretta relazione. Nello stesso periodo storico (VI secolo a.C.) in cui Pitagora elabora la sua idea di un’alimentazione non violenta, escludendo quindi ogni consumo di carne (e dando così forma ad una idea compiuta di vegetarianismo) il Buddha (Siddhārtha Gautama, 564-480 a.C., Buddha è il participio passato del sanscrito budh, prendere conoscenza, svegliarsi. Buddha significa quindi "risvegliato") predica nella regione indiana una identica filosofia sulla vita e sul rapporto tra l’uomo e le altre creature. Entrambi condannano apertamente i sacrifici animali indistintamente presenti in tutte le culture sin qui esaminate. Il loro vegetarianismo filosofico non è quindi riducibile ad una mera dieta per essere una cosciente presa di posizione in nome dei diritti del vivente.
La
svolta decisiva in questo senso è poi avvenuta con l’avvento del Cristianesimo
che ha abolito il sacrificio animale reso ormai superfluo da quello universale
di Cristo, l’agnello sacrificale per eccellenza. A cascata in tutte le culture
religiose sono state, per emulazione, progressivamente cancellati riti
sacrificali di animali. La macellazione è quindi divenuta una modalità non più
sacrale per quanto, come si è visto, ancora regolata in alcune culture da
precise prescrizioni religiose
Nello
specifico della cultura induista – che ha considerato il Buddha un induista
tanto da inglobarlo nella sua area religiosa (del resto l’induismo
pretende, in base ad un principio di annichilazione, di contenere per
definizione tutto e tutti) – il suo insegnamento vegetariano ha
vieppiù rafforzato il rispetto sacrale verso le vacche.
denominate
nei testi sacri “kamdhenu” una figura divina con le corna che simboleggiano gli
dei, le zampe che indicano le antiche scritture e le mammelle che richiamano
gli obiettivi dell’esistenza umana: giustizia, salvezza, desiderio e ricchezza.
La mucca è sempre stata considerata il regalo più appropriato per i brahmani/brahmini
e quindi ucciderne una equivaleva ad uccidere un sacerdote, il crimine più
empio
Un’altra
costola del mondo religioso induista è rappresentata dal “jainismo’giainismo” (da
Jina, il nome di Dio, che in sanscrito
significa “il Vittorioso”) che,
basato sugli insegnamenti di Mahavira (soprannome di
Varhamàna 599-527 a.C.) ed ispirato da un accentuato
ascetismo, eleva il divieto del consumo di carne, e a maggior ragione quello di
mucca, a dogma assoluto.
l’alimentazione
dei giainisti si è progressivamente radicalizzata fino a divenire la religione
vegana per eccellenza, bandendo dalla tavola non solo la carne ma tutti i
prodotti ottenuti da animali arrecando loro sofferenze
Il
jainismo ha peraltro avuto nella storia recente indiana un ruolo particolare
perché ad esso si ispirava il padre dell’India moderna e indipendente: Mahatma (la grande anima) Gandhi. Il suo non è certo un insegnamento
religioso, ma al pari di una religione “laica” ha elevato a valore fondante
della società il totale rispetto per ogni essere vivente (tanto
da immaginare un’India non più basata sulle caste ed essere proprio per questo
assassinato da un fondamentalista indu) animali pienamente
compresi. Non più di precetto religioso si deve parlare ma di una convinzione
fondante il vivere in comunità in armonia con il creato
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Lo scopo dichiarato di questo breve
saggio, esplicitato da Elisabetta Moro e Marino Niola nell’Epilogo che lo
chiude, è anche quello di denunciare una esasperata ideologia del cibo che
negli ultimi decenni ha investito la parte ricca del mondo. Mentre un numero
inaccettabile di donne, uomini, bambini, non può contare su una adeguata
alimentazione, essendo il loro problema non quello di “cosa mangiare” ma quello
di avere “qualcosa da mangiare”, pressochè in tutte le società, ed in particolare
la loro parte più benestante, si è innescato un paradossale cambiamento: si è cioè passati dalla condizione (in
questo saggio illustrata) in cui la religione era il grande codice dei
comportamenti alimentari a quella attuale in cui si è affermata una vera e
propria “religione del cibo”. Un
culto della tavola che va ben al di là
della semplice nutrizione per assumere forme rigorose di osservanza alimentare
che si suddivide in due opposte “chiese”:
quella della “cibomania” e quella della “cibofobia”. La prima, con i vari cuochi elevati al
rango di sacerdoti del cibo, propone una autentica esaltazione del piacere a
tavola, della conoscenza specialistica di gusti, aromi, luoghi di produzione,
di una gastronomia esclusiva e narcisistica. La seconda, con i suoi guru
influencer, è all’opposto la negazione del piacere a tavola in nome di un
salutismo estremo, della santificazione di cibi presunti salvavita, in cui la
tavola viene vista come una potenziale fabbrica di malattie e di malsano
invecchiamento. Dietro ad entrambe si muovono settori che, nella società di
mercato, realizzano straordinari profitti. Il cielo divino si è così capovolto:
se le
religioni hanno sempre cercato di tenere a freno l’eccesso di piacere
promettendo premi e minacciando castighi, ora che gli dei sono in esilio i
nuovi controllori del piacere siamo semplicemente noi, la nostra cultura
consumistica, le nostre filosofie di vita