mercoledì 15 maggio 2024

Il "Saggio" del mese - Maggio 2024

 

Il “Saggio” del mese

 MAGGIO 2024

Buona parte dei timori che la presenza maggioritaria nella coalizione vincitrice delle elezioni politiche del 2022 di un partito diretto erede della storia della destra fascista italiana potesse rappresentare un inaccettabile rigurgito nostalgico non sembrano, al momento, aver superato un limite di guardia. Tuttavia ciò nulla toglie all’evidenza che sia stata comunque avviata una svolta autoritaria che apertamente mira a ridisegnare il quadro democratico fissato dalla attuale Costituzione. Su questo tema abbiamo avviato una prima riflessione con la “parola del mese” di Marzo 2024 “Capocrazia” ed anche il Saggio di questo mese offre una stimolante analisi sul senso ultimo delle trasformazioni in atto.

i cui autori sono: Gabriele Pedullà (1972, Docente di Letteratura Italiana contemporanea presso l’’Università Roma Tre)


e Nadia Urbinati (1955 politologa italiana naturalizzata statunitense, Docente di Teoria politica presso la Columbia University) 

Il saggio si apre con una non casuale citazione che rammenta il dovere di guardare ai fenomeni politici in corso con la massima attenzione per evitare che essi giungano a compimento, magari nefasto, senza che se ne abbia a tempo debito la giusta contezza.

Il fascismo ha vinte le democrazie senza combatterle. Non si può dare più grave insulto per la democrazia italiana di una certa terminologia prevalsa in questi anni la quale enumera e classifica democratici filo-fascisti e fascisti democratici. Che non si avverta nell’aria una repugnanza per tali accoppiamenti sembra significare la legittimità di una inesorabile bocciatura:  la democrazia italiana non ha avuto uomini che studiassero sul serio - Piero Gobetti (1901/1926, morto per le conseguenze di una aggressione subita da una squadraccia fascista) - “Democrazia” (1924)

1 – Democrazia antifascista

Per raccogliere l’esortazione di Gobetti e “studiare” quali rischi di trasformazione stia attualmente correndo la democrazia italiana è necessario ritornare alle ragioni storiche e ideali alla base della sua nascita all’indomani della liberazione dal fascismo. La democrazia italiana, così come è stata concepita dalla Costituzione del 1948, non solo definisce istituzioni e procedure, ma al tempo stesso indica precisi valori ed obiettivi di valenza sociale (il pieno sviluppo della persona umana dell’Art. 3) tenendo così insieme le due forme che danno identità ad ogni democrazia, quella di disegnare una forma di governo e quella di agire sulla società che la esprime. E’ stata questa una precisa scelta dei Padri Costituenti (i 556 membri dell’Assemblea Costituente, eletti nel 1946 da tutti i partiti antifascisti, che diede vita alla Costituzione) che trova le sue spiegazioni nella necessità storica di operare una netta rottura con il precedente regime fascista. Tutte le Costituzioni contengono questa valenza, da sempre nascono in contrapposizione ad un “altro che le precedeva per smarcarsi in direzione diversa. Alla fine della Seconda guerra, in Italia come in tutta l’Europa, questo “altro” era il nazifascismo, la sua spietata negazione delle libertà, la sua gerarchica concezione sociale, la sua riduzione di ogni spazio politico alla pura acclamazione del capo. E’ questa la chiave fondamentale di lettura della Costituzione e dell’idea di democrazia che intende rappresentare. La distanza totale e definitiva dall’ “altro”, dal fascismo della ventennale dittatura, è stata poi rafforzata  dal divieto di ricostituzione del partito fascista (XII disposizione finale)  che, in piena coerenza, completa le libertà previste all’Art. 21 (Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione) e all’Art. 49 (Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale). E’ una visione del tutto indigesta alla estrema destra che, riformatasi ma senza potersi apertamente richiamare al fascismo, ha però continuato, godendo degli spazi democratici a tutti concessi, a riproporre la sua opposta idea di “altro” che non poteva che coincidere con la democrazia antifascista, parlamentare e pluralista.

Lo confermano in modo esemplare due libri “Processo al Parlamento” del 1969 e “Processo alla Repubblica” del 1980 di Giorgio Almirante, il primo segretario del Movimento Sociale, che per la sua concreta vicenda personale (redattore capo della rivista fascista “Difesa della razza” e poi Capo Gabinetto del Ministero per la cultura della Repubblica di Salò) ha testimoniato l’anello di congiunzione fra il fascismo mussoliniano e quello postfascista. In questi testi è sintetizzata l’idea di democrazia, se di vera democrazia si può parlare, che ispirerà la successiva storia della destra italiana: la democrazia parlamentare nata con la Costituzione del 1948 è una patologia incurabile, quella sana è soltanto quella plebiscitaria, espressa da iper-maggioranze, di sostegno al “Capo”

La successiva storia repubblicana ha tuttavia confermato che la democrazia difficilmente può sconfiggere completamente l’ “altro” da cui si è formata per contrapposizione, per quanto adotti i ragionevoli limiti di cui si è detto sempre concede ad esso, per coerenza con i propri principi,  la possibilità di acquistare rilevanza elettorale fino ad essere maggioritario. Ed è esattamente questa la questione che si pone oggi per la prima volta dall’entrata in vigore della Costituzione, le elezioni politiche del 2022 hanno visto prevalere una coalizione di centrodestra la cui componente di gran lunga maggioritaria è rappresentata dagli eredi di quell’idea di democrazia radicalmente critica della forma parlamentare e dei modi di costruzione delle maggioranze per la guida del paese, cresciuta lungo due direttrici, una più nazionale, a lungo  interessata innanzitutto a sdoganare il fascismo, ed una più internazionale legata all’idea di una democrazia “decidente” fondata cioè sulla governabilità. Si tratta di una scuola di pensiero politico le cui radici sono rintracciabili nel convergere di elaborazioni ideologiche (in particolare quelle di Joseph Schumpeter, 1883/1950, economista austriaco naturalizzato statunitense e di Zbigniew Brezinski, 1928/2017, politologo polacco anch’egli naturalizzato statunitense) e di pragmatiche strategie politiche (quelle scientificamente messe a punto dalla “Trilateral Commission”, gruppo di studio privato fondato nel 1973 da David Rockefeller e Henry Kissinger tuttora molto attivo che raggruppa rappresentanze nazionali europee, americane ed asiatiche) costantemente aggiornate all’evoluzione del quadro geopolitico globale. L’idea di fondo che tutt’oggi ispira questa potente corrente di pensiero consiste nel ritenere che la crisi della democrazia, evoluta in un eccesso di politiche sociali progressiste (appare evidente il legame con le ideologie neoliberiste), si spieghi con la sua incapacità di rispondere efficacemente al suo vero scopo: la governabilità del sistema garantita da un adeguato potere esecutivo. E’ un bagaglio ideologico e politico condiviso dalle destre conservatrici che ha ispirato anche le nostrane declinazioni, peraltro decisamente “caserecce”, negli attacchi al Parlamento come sede di inciuci, di compromessi, di perdite di tempo. Si è cioè di fronte ad un percorso che si è articolato dall’indomani della fine del fascismo fino ai giorni nostri in cui si sono sovrapposti elementi di continuità nostalgica con altri di recepimento di nuove suggestioni provenienti dal retroterra neoliberista e conservatore internazionale, che si è infine sistematizzato in una idea di democrazia definibile “afascista

2 – Afascista, storia di una parola

Afascista è un termine, costruito “alla greca” con l’alfa privativo davanti che nega il nome che segue, che indica l’essere “non fascista”, usato ufficialmente per la prima volta da Mussolini in persona per indicare quella parte degli italiani che non si schierava, per indifferenza o per convenienza, nello scontro tra fascisti e antifascisti dei primi anni Venti. E’ stato poi ripreso proprio nel corso del dibattito dell’Assemblea Costituente dal liberale monarchico Roberto Lucifero (su questa figura anticipatrice di un certo sentire politico si tornerà successivamente) per suggerire che la nuova Italia democratica dovesse proclamarsi tale, e non antifascista, per non restare prigioniera del passato (l’esatto opposto cioè del vedere nel fascismo l’ “altro” da cui distinguersi). Ma è stato soprattutto lo scrittore Giuseppe Berto (1914/1978, il suo libro più famoso è “Il male oscuro”) ad usarlo con provocatoria valenza per indicare, siamo nel 1973, il suo essere né fascista (lo era stato in gioventù) né antifascista, perché (sue testuali parole): esprime un’avversione al fascismo così completa da non poter tollerare l’antifascismo. Nella pratica Berto aveva in sostanza ben capito che definirsi afascista dava copertura e dignità al rifiuto degli ideali alla base della neonata democrazia italiana (non poco conta il fatto che Berto si sia sempre sentito escluso da quella che definiva l’intellighenzia culturale di sinistra italiana).

Il nome di Berto non va sottovalutato, nelle pagine del Web sono molti i siti che inneggiano alle sue posizioni per esaltare l’avversione alla retorica antifascista ed al “diritto all’oblio”. Il richiamo a queste sue posizioni è importante per meglio capire l’ostinazione con la quale tutti i rappresentanti di “Fratelli d’Italia” e dalla sua leader Giorgia Meloni, si rifiutano di definirsi antifascisti.

3 – Il 25 Aprile di Giorgia Meloni

Afascista bene si presta per indicare la consapevole affermazione di un preciso pensiero politico che è fondamentale conoscere per meglio capire la posta oggi in palio. La lettera spedita da Giorgia Meloni al Corriere della Sera in occasione del 25 Aprile 2023 sintetizza perfettamente questo pensiero nel suo rivendicare di essere nell’ordine: democratica – non nostalgica del fascismo – esentata dal doversi dire antifascista. Si è di fronte ad una dichiarazione che da una parte dovrebbe rassicurare che non è suo obiettivo ricostruire il fascismo originario, ma che dall’altra mira apertamente a far apparire l’antifascismo anacronistico, inutile, se non una vera “arma di esclusione” usata dalla sinistra. E’ quindi una affermazione molto netta: il fascismo è morto e nessuno lo vuole resuscitare, ma con la sua morte, certificata dai suoi stessi eredi, muore anche l’ “altro” su cui poggiava l’intera costruzione democratica italiana, oggi: si può, anzi si deve, essere democratici senza essere e quindi senza dirsi antifascisti. Suonano allora inutili le pur giuste e comprensibili richieste di proclamarsi tali, non volerlo fare non è celare sentimenti nostalgici, ma la sintesi celebrativa di una nuova idea di democrazia, per l’appunto afascista. Peccato che, neppure tanto velatamente, riemerga tra le righe di quella lettera l’eterno nervo scoperto del fascismo originario: l’avversione piena e totale verso la sinistra, la sua cultura, la sua idea di società, la sua storia, e cioè verso quel sentire politico che da sempre ha rappresentato il corrispondente opposto “altro” del fascismo mantenuto tale senza a davanti. L’identificazione fra antifascismo e sinistra è così pulsante nei geni dell’estrema destra da renderle impossibile comprendere che l’antifascismo è stato fin dalla sua nascita patrimonio dell’intero schieramento politico italiano, certamente lo è stato per socialisti e comunisti, ma non di meno per liberali, cattolici, repubblicani, azionisti. Tutte queste culture politiche si sono fatte patriottiche comunemente condividendo un’idea di patria fondata proprio sulla pregiudiziale antifascista. Eppure la Meloni prosegue imperterrita e completa la sua dichiarazione d’intenti e, ribaltando ogni logica, afferma che i veri antidemocratici sarebbero quindi proprio coloro (la sinistra ovviamente) che, esigendo una superata fedeltà all’antifascismo, escludono quella parte che, proclamatasi ormai afascista, altro obiettivo non ha se non quello della difesa di una idea di patria non più basata su ideologie, ma unificata e rafforzata da un nuovo patriottismo. E soprattutto che da tutto ciò non può non derivare l’obbligo di reinterpretare e riformare la Costituzione del 1948, proprio perché espressione di un superato scontro ideologico, mettendo concretamente mano alla sua seconda parte, quella dedicata all’ordinamento della Repubblica (riducendo così la prima parte a puro orpello). Una democrazia senza radici ideali è il concetto di fondo che emerge da questa lettera (un testo troppo frettolosamente trascurato dal vuoto dibattito politico mediatico) peraltro basata su una ricostruzione storica ed una analisi valoriale del tutto arbitrarie.

4 – L’ordine della gerarchia

E’ infatti una forzatura strumentale ritenere che il fascismo mussoliniano abbia avuto come unico avversario il movimento socialista e comunista. La storia insegna qualcosa di molto diverso, di sicuro nella parte finale della dittatura fascista quando, come già evidenziato, tutte le culture politiche italiane hanno assunto una chiara posizione, concretizzata nella stessa lotta di resistenza armata, ma anche già nella fase iniziale di ascesa al potere del fascismo. Se è vero che nel confuso primo dopoguerra, in particolare nel corso del “biennio rosso(il periodo compreso tra il 1919 ed il 1920 caratterizzato da intense lotte operaie e contadine che ebbe il suo culmine nella occupazione delle fabbriche del Settembre 1920) non pochi rappresentanti del liberalismo classico ebbero un atteggiamento tollerante verso le squadracce fasciste nell’idea di utilizzarle per ripristinare l’ordine pubblico, non è meno vero che, man mano che il fascismo andava consolidando la sua conquista violenta e totale del potere, furono nette e trasversali le prese di distanza e le aperte condanne

la vicenda di Benedetto Croce, 1866/1952, filosofo e storico politicamente di ispirazione liberale è esemplare, da una iniziale compiacenza passò nel 1925 ad una aperta condanna promuovendo il “Manifesto degli intellettuali antifascisti” che raccolse le firme di molti intellettuali italiani lontanissimi dal socialismo e dal comunismo (lo era lo stesso Piero Gobetti). La vittoriosa ascesa del fascismo evidenzia piuttosto la bancarotta morale e politica di una parte della classe dirigente del tempo che, pur di preservare le proprie posizioni di privilegio, si dimostra davvero afascista

Non regge quindi la ricostruzione storica e ancor meno quella valoriale: il fascismo si è fondato su una idea globale della società che vale come autentico spartiacque fra chi ritiene, seppur declinandolo con diverse accentuazioni, che alla politica sia assegnato il compito di costruire uno spazio ideale dove chiunque possa essere riconosciuto eguale a prescindere da sesso, razza, lingua, religione, opinione politiche, condizioni personali e sociali (Articolo 3 della Costituzione), un patrimonio che è comune a tutte le culture politiche democratiche, e chi invece, come il fascismo, propugna un’idea di società fortemente gerarchica ispirata da un’unica scala di valori espressa dal gruppo dominante che esclude chiunque non possieda determinate qualità. Ed è proprio questo discrimine a far capire quanto sia strumentale e falsa l’affermazione della Meloni che il fascismo abbia avuto come soli nemici il socialismo ed il comunismo, (non si spiegherebbe fra l’altro perché abbia poi abbattuto anche lo Stato liberale e l’embrione di democrazia di allora). L’idea fascista di società era allora e ancora oggi resta l’ “altro” per tutte le culture politiche ed i movimenti e partiti che queste hanno espresso

5 – Costituenti antifascisti 

Ed è proprio il percorso di costruzione ed approvazione del testo costituzionale del 1948 la più significativa evidenza in questo senso, in particolare nei suoi passaggi dedicati a fissare nelle norme costituzionali la natura antifascista della nascente democrazia repubblicana italiana e la sua volontà di indirizzare in coerenza a ciò l’evoluzione della società. Il dibattito avvenuto nell’Assemblea Costituente nel Marzo 1947 vide una netta polarizzazione fra il fronte ampio dei partiti a favore della bozza di testo costituzionale predisposta dal preliminare gruppo di lavoro e le minoritarie componenti di destra estrema (in nome delle quali ebbe un ruolo importante il liberale monarchico Roberto Lucifero, già citato in precedenza).

Unitamente al voto per il referendum monarchia/repubblica il 2 giugno 1946 venne votata l’Assemblea Costituente sulla base di liste proposte dai singoli partiti. L’esito vide assegnati alla Democrazia Cristiana 207 seggi, 115 al Partito Socialista, 104 al Partito Comunista, 41 al Partito Liberale, 23 al Partito Repubblicano, tutti a favore, contrari invece i 30 dell’Uomo Qualunque (un partito nato attorno all’omonimo giornale espressione di una forte antipolitica trasversale) ed i 16 della Destra Monarchica (fra i quali Roberto Lucifero). L’MSI non era presente perché fondato soltanto a Dicembre 1946

Le critiche da destra alla bozza furono sostanzialmente due: l’aver delineato una Carta Costituzionale troppo ampia e ambiziosa (Lucifero proponeva la semplice ripresa dello Statuto Albertino) e troppo interventista sulla società, da queste discendeva poi l’invito a separare il più possibile la Costituzione dalla storia ed in particolare dall’esperienza fascista. E’ in questo ambito che Lucifero ricorre al termine “afascista” per rimarcare l’opportunità di una minore politicizzazione ideologica della carta. La risposta condivisa da tutto il fronte favorevole al testo fu quella di ritenere l’antifascismo un fondamentale elemento costitutivo della nuova democrazia italiana (spiccano fra gli altri gli interventi di Togliatti che ritiene indispensabile tale carattere per evitare che nasca un sistema politico analogo a quello che fu incapace, se non complice, di fermare l’avvento del fascismo, e quello di Aldo Moro, al tempo giovanissimo trentenne, che ribadì la necessità di una Carta fortemente ideologizzata in senso antifascista per evitare il suo ridursi ad un compromesso al ribasso). Già allora quindi fu evidente che l’alternativa fra antifascismo e afascismo delineava due idee opposte di democrazia e che la sola condanna (spesso di comodo) del regime mussoliniano non poteva costituire una adeguata base di comune condivisione. L’avvento al potere nel 2022 di un erede diretto di quella componente afascista deve quindi essere visto come un nuovo tentativo (ben evidenziato dalla citata lettera della Meloni) di rimodulare la Costituzione antifascista per creare una nuova e diversa democrazia. Vale la pena di capire la forma che questa potrebbe avere nelle idee di chi la propone

6 – Democrazia afascista: avaloriale 

Come sottolineato nel Capitolo 1 la democrazia è un valore che si articola in due dimensioni: quella delle regole e quella delle aspirazioni, la sua validità emerge quindi dal loro rapporto ottimale. Non vi è dubbio che la democrazia afascista di fatto si identifichi con una soltanto di queste due dimensioni, quelle delle regole contraendola alla sola governabilità. Di tutt’altro segno come si è visto è stata la scelta dei Padri Costituenti consapevoli che una democrazia per quanto basata sulle libertà di parola e di espressione, su libere elezioni, sulla pacifica transizione da una maggioranza all’altra, resta monca se non mira a realizzare condivisi valori sociali ……. la democrazia non vive, ma tutt’al più vivacchia o sopravvive se rinnega la sua originaria pulsione a liberare i cittadini da condizioni di sudditanza e a conferire ad ognuno le stesse opportunità …… L’idea che di fatto sta ispirando l’azione dell’attuale  destra governativa è invece quella di puntare esclusivamente alla governabilità, in un vuoto valoriale che è l’inevitabile e logica conseguenza dell’immaginare una Costituzione, ed un democrazia, slegata da quella idea di antifascismo che tiene invece insieme regole e aspirazioni. Con un’ulteriore rilevante aggravante: lo stretto legame che questa destra mantiene (proprio attraverso il refrain della governabilità, della democrazia decidente) con la corrente di pensiero avviata dalla citata Trilaterale lascia intendere che se una aspirazione c’è, altra non è che quella della conservazione dell’attuale sbilanciato status quo sociale all’insegna della vuota triade di Dio, Patria e Famiglia.

7 – Democrazia afascista: ipermaggioritaria  

Ma anche solo restando al piano delle regole non sono poche le ragioni per diffidare e per respingere l’idea di una democrazia afascista basata sulla governabilità (nella migliore delle ipotesi fine a sé stessa). Immaginare che per ottenerla siano previsti meccanismi elettorali che premiano la coalizione/partito vincente con un consistente premio di maggioranza stravolge alla base una corretta idea di democrazia parlamentare. Se è comprensibile che ogni maggioranza confidi di governare il più a lungo e con il maggior agio possibili, prevedere che ciò avvenga stravolgendo oltre misura l’esito elettorale (grazie al premio di maggioranza) ed immaginando (grazie ad un sistema di regole che blocca ogni cambiamento di governo/primo ministro in corso d’opera) che tra un’elezione e l’altra ci sia posto solo per il governo e la sua iper-maggioritaria opinione (riducendo quindi le opposizioni a mere spettatrici) lascia intendere, dietro la facciata afascista, un nostalgico rimando alla legge fascista (Riforma Acerbo) che nel 1924 consentì a Mussolini di conquistare una maggioranza tale da segnare la fine del governo parlamentare e della stessa democrazia

8 – Democrazia afascista: notabiliare 

L’idea di democrazia afascista è nata è si è via via consolidata su un retroterra di cultura antipolitica cresciuto in modo esponenziale negli ultimi decenni. Le ragioni storiche che lo spiegano hanno lontana origine nel tappo geopolitico (la divisione in blocchi della Guerra Fredda) che ha tenuto bloccato il normale avvicendamento delle maggioranze consentendo così il formarsi di un potere clientelare e corruttivo troppo schematicamente fatto coincidere con la definizione di “partitocrazia(termine coniato dall’onnipresente Roberto Lucifero). La fine indecorosa per via giudiziaria della Prima Repubblica (unitamente al più complesso tramonto delle ideologie novecentesche) non ha però innescato un percorso virtuoso di rifondazione del sistema dei partiti, ma al contrario è stata strumentalmente utilizzata dalla vicenda berlusconiana che ha sostituito la scelta del “partito” con quella del “leader”. La retorica antipolitica e populista che alla fine del secolo scorso identificava il discorso pubblico con il disprezzato “politichese” ed il fisiologico gioco delle alleanze e del compromesso con il famigerato “inciucio” ha (senza adeguata consapevolezza del trapasso) messo in crisi irreversibile il modello di democrazia antifascista nato con la Costituzione attaccando alla base la sua idea di democrazia parlamentare (un attacco che non è venuto solo da destra, non poco ha inciso il referendum del 2020 sulla riduzione del numero dei parlamentari indetto dai Cinque Stelle e strumentalmente sostenuto dal PD per far nascere il governo giallo-rosso). L’esito (tanto prevedibile quanto sottovalutato) è in effetti consistito nella legittimazione di una nuova casta, ben più distante di quelle precedenti dal popolo elettore. E’ triste e preoccupante constatare che il ciclo aperto nel 1992 sia oggi culminato nella nascita di un vero e proprio notabilato

9 – Democrazia afascista: aconflittuale  

L’ultima delle componenti che stanno caratterizzando l’evoluzione dell’idea di democrazia afascista le sintetizza tutte in particolare collegandosi strettamente all’ipermaggioritario. Si tratta dell’insofferenza, per nulla celata, e dell’avversione radicale verso ogni espressione di dissenso, di critica, ed ancor di più verso la possibilità di un aperto conflitto sociale e politico. La distanza dalla democrazia antifascista così come delineata dalla Costituzione non potrebbe essere più evidente. La scelta dei Padri Costituenti di prevedere nella Carta ampie possibilità al manifestarsi del conflitto, al suo libero esprimersi e organizzarsi, non è stata dettata da una teorica adesione alla corrente di pensiero politico che, a partire dalla Rivoluzione Francese, ha visto in esso un fondamentale fattore di progresso e di crescita degli spazi di libertà ed uguaglianza, ma si spiega soprattutto con la loro attenzione al concreto contesto storico in cui la nuova democrazia stava nascendo. Vent’anni di feroce dittatura e di violenta soppressione di ogni dissenso non potevano non indurre a far sì che la svolta democratica garantisse il più possibile l’esatto opposto, inoltre la stessa esperienza dell’opposizione al fascismo e della lotta partigiana testimoniavano che la comune avversione verso il fascismo non cancellava la fisiologica esistenza, al suo interno, di differenti punti di vista anche radicalmente opposti. Sono state queste due concrete evidenze a far considerare impossibile che la riconquistata libertà soffocasse i possibili conflitti sociali e politici, per i quali venne giustamente previsto un loro equilibrato e tollerante contenimento, allineando in tal modo la democrazia italiana al comune sentire di tutte le vere democrazie. In meno di due anni di governo appare invece evidente che la nascente democrazia afascista rubrica come caos e disordine ogni forma di contestazione e di dissenso. Ogni critica è vista come una pugnalata alle spalle, un complotto, come un inaccettabile intralcio nella gestione del potere. Ogni forma di conflitto anche soltanto quella di contestare, nelle aule del parlamento piuttosto che sui media o negli spazi sociali, viene vista come una interferenza fastidiosa e disfattista. Palazzo Ghigi rischia di avere sulla porta lo stesso cartello degli autobus di una volta: “si prega di non disturbare il conducente”.

10 – Prometeo scatenato   

Si è citata in precedenza la provocatoria rivendicazione di afascista lanciata dallo scrittore Giuseppe Berto per molti versi anticipatrice di attuali identiche proclamazioni. Pochi mesi dopo, 1974/1975, irrompe sulla scena culturale e politica un’altra provocazione: in successivi articoli Pier Paolo Pasolini critica l’antifascismo retorico e cerimoniale reo, a suo avviso, di non sapersi ri-coniugare adattandosi ai tempi nuovi segnati dall’esplosione del consumismo di massa e del collegato oblio di valori sociali e politici. A ben vedere sono state entrambe delle prese di posizione che, con sentire diverso, rispondevano all’invito di Gobetti a “studiare il fascismo” per capire la sua capacità di intercettare umori presenti nel popolo e di usarla per imporre soluzioni autoritarie ed una visione gerarchica della società. Quanto è stato fin qui ripercorso attorno al concretizzarsi di una nuova destra capace di proporre (e di iniziare ad attuare) un’idea di democrazia afascista ripropone la stessa urgenza di comprensione. Un dato va coraggiosamente riconosciuto: il fascismo è un fenomeno culturale e politico pienamente inserito nella modernità europea che si è dimostrato vincente là dove e quando è stato capace di intercettare tensioni, paure, nostalgie, rivendicazioni diffuse (le “passioni tristi” di Baruch Spinoza). In questa veste non è mai stato debellato del tutto ed è rimasto sottotraccia aspettando l’occasione per riprendersi il centro della scena, seppure sotto mutate insegne, intercettando le nuove tensioni, paure, nostalgie, rivendicazioni diffuse. L’antifascismo è stato e resta, di conseguenza, il valore essenziale per combatterlo, oggi come allora, ma solo se si dimostra capace di difendere le libertà coniugandole con una visione alternativa di società non meno adattata ai tempi nuovi. Occorre ripartire da qui andando oltre la sola denuncia del pericolo del ritorno al fascismo-regime per combattere, avendola studiata in tutte le sue molteplici articolazioni, la sua nuova versione sintetizzata nella democrazia afascista ed il suo connesso progetto di una nuova società gerarchica, il cui nemico principale resta l’uguaglianza sociale e politica declinata nel nuovo contesto storico. In questo senso denunce come quella di Pasolini (di ben cinquant’anni fa!) non devono spaventare, possono anzi essere un utile pungolo ad avere coscienza che il percorso virtuoso  avviato con la Costituzione, con la sua idea di democrazia antifascista, e durato qualche decennio sembra aver segnato il passo. Il richiamo di Gobetti resta tutt’oggi esemplare: sarebbe davvero un dramma se l’afascismo, come il fascismo di un secolo fa, vincesse soprattutto grazie ai demeriti di chi ad esso deve opporsi.


giovedì 2 maggio 2024

La Parola del mese - Maggio 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

MAGGIO 2024

Non si tratta certo di un termine sconosciuto, d’altronde indica un tratto della natura umana da sempre presente e molto diffuso. Ma ci è sembrato interessante recuperarlo per proporlo come ”Parola del mese” perché a ben vedere ignoriamo molti suoi aspetti: il suo significato ultimo, le sue declinazioni, le sue ricadute che investono tutti gli aspetti del nostro vivere. Ebbene sì: al di là delle apparenze è decisamente grande la nostra ignoranza dell’

IGNORANZA

La sua scelta è stata inoltre suggerita dalla lettura di un saggio, tanto corposo e articolato quanto scorrevole ed intrigante

opera di Peter Burke

(storico inglese, professore di Storia Moderna presso l’Università di Cambridge, propugnatore della dimensione culturale della storia) Un curriculum che suona come esatto opposto di questa Parola, eppure è lo stesso Burke a mettere in evidenza come l’ignoranza presenti così tante articolazioni da coinvolgere, seppure con gradazione diversa, tutti quanti. Così sollecitati abbiamo recuperato, molto sinteticamente, alcune delle tante suggestioni che questo saggio offre per colmare almeno un po’ della nostra ignoranza dell’ignoranza

Questo testo analizza le accezioni di ignoranza ritenute le più significative sulla base di una nutrita raccolta di avvenimenti storici. Impossibile citarli in questo spazio che si limita a riportare, molto sinteticamente, i giudizi di fondo di Burke più utili allo scopo illustrativo di questa “Parola del mese”

Cos’è davvero l’ignoranza? = Il termine deriva dal latino ignorantiala cui traduzione letterale “mancanza di conoscenza”, completata da Burke come “assenza o privazione di conoscenza”, sembra a suo stesso giudizio troppo ampia e generica. Dedica quindi numerose pagine a declinare, con aggettivi che la specificano, alcune delle sue interpretazioni (raggruppandole, in coda al saggio, in una sorta di glossario che ne contiene ben cinquantanove!)  Ne abbiamo scelte solo alcune, quelle che di più ci sembra aiutino a capire come l’ignoranza non sia quasi mai un puro dato di fatto, ma sempre il risultato, la conseguenza, di scelte, più o meno consapevoli, di condizioni ed interessi esterni, del contesto storico, sociale e culturale. L’ignoranza, iniziando da quella individuale, può quindi essere:

*   genuina = la semplice assenza di conoscenza, già citata

*   attiva = genericamente il non voler sapere, che può evolvere in volontaria,  quando deliberata e intenzionale, fino a divenire, se ostinata, deliberata

*   passiva = il non sapere accettato supinamente

*   cosciente = sapere (e quindi già una forma di conoscenza) di non sapere. Esprime un sapere parziale che si arresta ad un limite percepito come non superabile

*   inconscia = non sapere di non sapere e quindi anche inavvertita. Se vista dalla parte della conoscenza diventa conoscenza tacita

*   colpevole = il rifiuto, più o meno consapevole, della conoscenza

*   inattesa = la scoperta di non sapere

*   incolpevole = non poter sapere

*   inevitabile = quella incolpevole ed anche insuperabile

*   pratica = il non saper fare

*   razionale = l’astenersi, per scelta deliberata, dal sapere, fino a divenire risoluta

*   selettiva = scegliere di ignorare ovvero scegliere cosa ignorare, diventa specifica quando si ignora, magari in buona fede, ciò che si ritiene irrilevante

*   intenzionale = quando deliberata e volontaria

*   utile = spesso inconscia, aiuta a non misurarsi con un sapere problematico

*   condivisa = tutte le precedenti forme di ignoranza quando sono comuni con altre persone

Quest’ultima chiama in causa l’ignoranza collettiva che, oltre ad esprimersi nelle stesse forme di quella individuale, può in aggiunta assumerne altre specifiche:

*   di classe = il non conoscere, per superficialità ma anche deliberatamente ed in modi stereotipati, la vera vita di altri ceti sociali

*   di razza = come quella di classe, ma rivolta verso altri popoli, altre etnie, altre culture

*   femminile = da intendere in un duplice modo: l’accusa di ignoranza degli uomini alle donne, storicamente maturata per la maschile incapacità e indisponibilità a misurarsi con un diverso modo di intendere la vita, e quella oggettiva del mondo femminile a lungo escluso dai saperi

*   maschile = quella precedente capovolta dal punto di vista femminile: l’accusa agli uomini di ignorare, deliberatamente e strumentalmente, il sapere delle donne

*   organizzativa = la mancanza di conoscenza presente in una data organizzazione (sociale, politica, economica, istituzionale, culturale, religiosa) che investe le relazioni tra i suoi diversi membri e livelli, per oggettiva mancanza  di adeguate comunicazioni, coinvolgimenti, per eccessi di burocrazia e formalismi

Tutte queste forme, individuali e collettive (sono quelle prevalentemente utilizzate da Burke per definire le specifiche ignoranze esaminate nel saggio) condividono un terreno comune, che le rende possibili, in buona misura costituito da atteggiamenti e comportamenti quali: ostacoli (fisici e culturali), dimenticanze, segretezze, negazioni, incertezze, pregiudizi, fraintendimenti e credulità. Burke dedica buona parte del suo saggio a far emergere questo retroterra al fine di evidenziare come l’ignoranza spesso non sia un dato di partenza, un gap superabile con il crescere delle conoscenze, ma piuttosto una condizione di arrivo che si è venuta a creare per ragioni tutt’altro che casuali e quindi più difficilmente risolvibili. A questa considerazione affianca una seconda constatazione: l’errata convinzione che il livello di ignoranza sia direttamente proporzionale alla scarsa disponibilità di dati, di informazioni, di conoscenze, (di norma quello che ogni epoca storica attribuisce a quelle precedenti). Lo attesta, a suo avviso, proprio l’epoca attuale giustamente ritenuta quella con la maggiore disponibilità di conoscenze, ma nella quale si constata che al contrario il livello di ignoranza è sempre più determinato non dal poco sapere, ma al contrario dal tanto sapere: via via che si accumulano montagne di conoscenza ci sono sempre più cose che ciascuno di noi non sa. Ciò premesso Burke è consapevole dell’impossibilità di una vera e propria storia dell’ignoranza, una disciplina che per essere minimamente credibile richiederebbe una ricostruzione completa dell’intera storia umana. E’ però possibile estrarre dal lungo percorso dell’umanità alcuni passaggi che di più aiutano a individuare le ragioni specifiche che l’hanno determinata e le conseguenze che da essa sono derivate, guidati dalla consapevolezza che l’ignoranza, così come la conoscenza, hanno una imprescindibile connotazione sociale, per la semplice ragione che il possesso, o la mancanza, di saperi non incide solo su specifiche abilità, ma determina l’intera qualità del rapporti sociali. La domanda di fondo per esplorarla diventa allora “chi ignora cosa, quando, dove e con quali conseguenze”, ed una prima risposta consiste nell’evidenza che ignoranza e conoscenza devono essere declinati al plurale, definirle al singolare rischia di essere troppo generico, riduttivo, preconcetto. Burke inizia, con questo spirito, il suo viaggio prendendo in esame tre fondamentali saperi ed esplorando quanto l’ignoranza abbia storicamente inciso su di essi. Il primo sapere preso in esame è la religione, intesa come costruzione culturale di una fede (non viene quindi preso in esame il puro coinvolgimento in una fede), come elaborata risposta all’ignoranza umana attorno al mistero del creato, della vita e della morte. Si impone una prima distinzione: un conto è l’ignoranza dei comuni fedeli, altro è quella dei depositari del credo religioso. Guardando ai primi dalla ricostruzione storica emerge con evidenza che in generale è molto profondo il solco fra sentimento della fede e conoscenza della dottrina, al sincero e sentito coinvolgimento quasi mai corrisponde una buona conoscenza del sapere dottrinale. Una forma di ignoranza che per quanto concerne in particolare la fede cristiana (la maggior parte delle testimonianze citate consistono in documenti ecclesiastici che amaramente denunciano, dall’interno, la disarmante ignoranza dei fedeli) ha attraversato l’intero scorso millennio per giungere, ben poco mutata, fino ai nostri giorni.

Basti pensare che ancora nel 2010 il sondaggio Pew Forum svolto fra i fedeli cattolici americani, che già evitava domande complesse, ad es. sulla Trinità o sulla Transustanziazione, ha rilevato che meno del 5% del campione era in grado di citare con esattezza anche solo tutti i dieci Comandamenti

Quel che potrebbe di più sorprendere è il fatto, evidenziato da altri dati storici, che non molto diverso è stato a lungo il livello medio di conoscenza dello stesso clero soprattutto ai suoi livelli più bassi. Per molti secoli alla raffinatezza delle riflessioni dei Padri della Chiesa ha corrisposto un sapere, scarso e stereotipato, di gran parte dei sacerdoti.  Non deve allora stupire che alla già scarsa conoscenza della propria abbia sempre corrisposto una del tutto inadeguata conoscenza delle altre religioni, conseguentemente non poco venata da chiusure, preconcetti e discriminazioni (basti pensare al difficile rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, alle secolari guerre fra cristianità e Islam, o al lacerante attuale conflitto indiano  fra Indù e Mussulmani) L’ignoranza nel campo delle religioni non ha quindi soltanto condizionato una migliore pratica della specifica religione di appartenenza, rivelando una sconcertante distanza tra fede e dottrina, ma ha anche contribuito, per la sua chiusura preconcetta verso le altre religioni, a rafforzare visioni suprematiste e razziste. Se in buona misura ci troviamo di fronte ad una ignoranza organizzativa, l’ampia gamma delle ragioni che intervengono per spiegarla la colloca in un ampio ventaglio delle forme di ignoranza in precedenza elencate.  Un secondo sapere, che da sempre vive un rapporto problematico con l’ignoranza, è sicuramente quello scientifico. La storia dell’ignoranza è infatti strettamente connessa a quella della conoscenza che, a sua volta, è emersa dalla storia della scienza. Burke riflette sul rapporto ignoranza-scienza partendo da quello, tutt’altro che paradossale, tra scienziati e ignoranza. Il filosofo della scienza Jerome Ravetz (1929, epistemologo statunitense) ha definito il tratto fondativo della scienza “ignoranza dell’ignoranza” per evidenziare che è proprio la consapevolezza dei limiti della conoscenza la molla per ogni progresso scientifico (lo storico israeliano Yuval Noah Harari nel suo famoso libro “Sapiens, da animali a dei” descrive la scienza come “scoperta dell’ignoranza” e come “disponibilità ad ammettere l’ignoranza”). Si è allora di fronte ad un illuminante esempio di “ignoranza selettiva e specifica” capace però di trasformarsi in “intenzionale” ossia nel rifiuto di rassegnarsi ai propri limiti ed errori a fronte di nuove evidenze. Va tuttavia detto che non sempre questo è valso in ambito scientifico.

la storia della scienza è purtroppo ricca di situazioni opposte, basti pensare alla cieca opposizione da parte delle élite accademiche al tempo delle nuove scoperte di Galileo e Copernico, di Darwin, alle resistenze di Einstein verso la meccanica quantistica  e, peggio ancora, al rifiuto a confrontarsi con le evidenze del riscaldamento climatico, piuttosto che ai danni da fumo passivo, di alcuni scienziati anche di notevole fama, peraltro ben finanziati dai gruppi di interesse di turno

Detto del ruolo positivo e negativo, degli scienziati il buco nero del rapporto ignoranza/scienza storicamente è sempre consistito nell’impossibilità della gente comune di fare davvero proprie scoperte e rivelazioni specie se in contrasto con il senso comune e con credenze consolidate. La rilevanza di questo distacco, guardando alla cultura occidentale, a lungo non è sembrata così rilevante semplicemente perché, per quanto scarsa se non inesistente fosse l’istruzione diffusa, altrettanto irrilevante era il grado di conoscenza scientifica. Peraltro i pochi scienziati dei primi secoli del secondo millennio ben poco se ne preoccupavano se scrivevano i loro studi esclusivamente in latino (una norma interrotta, con gran scandalo del mondo accademico di allora, solo nel 1500 prima dal medico e alchimista Paracelso e poi, pochi decenni dopo, da Galileo). Il quadro è mutato radicalmente con la rivoluzione delle conoscenze avviata dall’adozione del metodo scientifico (con ancora protagonista Galileo), per diversi secoli però conoscenze scientifiche e sapere diffuso sono stati due mondi del tutto separati. Neppure la progressiva introduzione dell’istruzione di massa, ispirata da ben altre priorità, è riuscita a colmare questo gap, anche perché nel momento in cui (mediamente nel secolo scorso)  il livello medio di conoscenza scientifica è risalito di alcuni scalini, il progresso scientifico è letteralmente esploso ricreando un distacco che ai nostri giorni appare ormai incolmabile (basti pensare che l’iper-specializzazione in campo scientifico non solo ha definitivamente cancellato la figura dello studioso a tutto campo, ma ha reso ormai inevitabile l’ignoranza degli stessi scienziati nei campi e  sotto campi che non seguono direttamente). Un contributo al contenimento di questa forma di ignoranza diffusa e per molti versi incolpevole viene dalla diffusione di riviste scientifiche e dalle figure, spesso di grande successo mediatico, dei divulgatori, mentre, anche in questo caso, appare molto più aleatorio, ed in molti casi persino dannoso e fuorviante, l’accesso via Internet alla giungla di dati ed informazioni presenti in Rete. Non a caso il neuroscienziato Stuart Firestein ha recentemente dichiarato che “oggi la scienza è così inaccessibile per il pubblico da sembrare (di nuovo) scritta in latino”. Il terzo sapere preso in considerazione da Burke è rappresentato dalla conoscenza dei luoghi della Terra, dalla geografia. Non stupisce il fatto che per millenni l’umanità intera sia stata del tutto all’oscuro delle parti della Terra diverse da quella abitata e persino di quelle confinanti. I luoghi appena più lontani, per non dire di quelli di cui a malapena si conosceva l’esistenza, molto a lungo sono rimasti avvolti nel mistero, nel mito, non di poco accentuati dai racconti (quasi sempre una raccolta di impressioni fugaci se non di autentiche invenzioni) dei rari temerari viaggiatori. Una conoscenza più approfondita è stata possibile solo per la parti che hanno composto vasti imperi come quello romano e quello cinese, i cui confini esterni hanno però segnato una sorta di invalicabile finis terrae, tutt’al più violata da improvvise incursioni di misteriosi popoli guerrieri provenienti da chissà dove. Per non dire poi dei continenti per millenni irraggiungibili perché oltre oceani insuperabili e dei quali neppure si immaginava l’esistenza. La non conoscenza geografica è stata quindi una forma di ignoranza genuina e collettiva che, durata fino alla svolta attuata dalla modernità occidentale, non poco ha contribuito al formarsi della diffusa “paura dello straniero” (tutt’altro che svanita ancora ai giorni nostri). Questo quadro inizia a mutare con quella che è stata definita l’era delle vele, dei grandi viaggi transoceanici che, a partire dal 1400/1500, hanno segnato una autentica rivoluzione geografica con protagoniste le grandi potenze marittime europee, però fin da subito segnata da evidenti finalità di espansione e di ritorno economico. In pochi secoli le varie parti del mondo si sono rispettivamente conosciute seppure aggiungendo alla congenita diffidenza iniziale una presunzione di superiorità dei paesi colonialisti e di una comprensibile opposizione di quelli ridotti a colonia. Già nella prima parte del Novecento la cartografia era comunque in grado di tracciare con buona precisione mappe di ogni terra emersa, recuperando quell’ignoranza genuina durata per millenni. Va però rilevato che questa disponibilità di conoscenze non ha cancellato del tutto l’ignoranza geografica che resta molto diffusa soprattutto nella sua versione di “geografia politica(Negli USA la National Geographic Society mantiene come scopo principale la lotta contro l’analfabetismo geografico a fronte di evidenze davvero poco confortanti, ad esempio nel 2006, in occasione dell’invasione della coalizione guidata dagli Stati Uniti, un sondaggio ha accertato che due terzi degli americani tra i 18 e i 24 anni non sapevano collocare l’Iraq sulla cartina). Per quanto concerne quindi quella geografica l’iniziale forma di ignoranza genuina sembra essersi evoluta in una passiva e selettiva. I tre saperi presi in esame da Burke testimoniano il persistere della diffusione, della profondità, della gravità dell’ignoranza confermando così che l’innegabile e considerevole procedere della conoscenza solo in parte è sin qui riuscito a scalfirne la presenza nella scena attuale. Lo sintetizza un dato di fatto: se collettivamente l’ignoranza è di molto arretrata, molto meno ciò vale a livello individuale, ed è un dato che, come si è già evidenziato, inevitabilmente cresce con il procedere stesso della conoscenza. Su queste basi Burke passa poi in rassegna alcune specifiche ignoranze, quelle che a suo avviso di più incidono sul percorso dell’umanità. Si parte dal ruolo dell’ignoranza nella guerra. Le pagine dedicate a questo tema non entrano nel merito di un giudizio etico, si limitano - evidenziando come tutte le operazioni militari siano in ultima istanza una battaglia fra ignoranza e conoscenza, fra il mantenere il nemico ignorante dei propri piani e lo scoprire quelli suoi – a rilevare le modalità con cui essa si manifesta. Emerge innanzitutto il tragico peso di una preventiva forma di ignoranza volontaria: quella di non voler conoscere e quindi perseguire le possibili alternative allo scoppio del conflitto, rendendo così impercorribile una possibile pace. A guerra avviata compare poi, testimoniata dai tanti esempi citati da Burke, una distinzione fondamentale fra l’ignoranza incolpevole delle truppe e quella colpevole dei comandanti, una forma di ignoranza organizzativa superata solamente nei rari casi di un reale coinvolgimento motivazionale delle prime. Limitando l’analisi all’aspetto della gestione tattico-militare (Burke lo fa citando numerose storiche battaglie sia antiche sia moderne, a partire da quella di Canne per finire con quelle del Vietnam e dell’Afghanistan), dando sempre per scontato il ruolo determinante del caso (vedi Waterloo) sempre emergono ignoranze tecniche (dotazioni del nemico) geografiche (conoscenza del territorio) culturali e storiche (del nemico) e motivazionali (del nemico ma anche delle proprie truppe). Le guerre si perdono o si vincono per un cumulo di fattori, ma spesso la potenza tecnologica degli armamenti, per quanto componente fondamentale, non è bastata, se per l’appunto resa spuntata da queste forme di ignoranza. Non diversamente dalla guerra anche il mondo degli affari, più in generale la sfera dell’economia, ruota attorno all’eterno scontro tra ignoranza e conoscenza. Anche in questo caso Burke non valuta il mercato da un punto di vista socio-economico e politico, ma concentra la sua attenzione sulla ricaduta che la mancanza di adeguate specifiche competenze ha sugli interessi e le finalità degli operatori e degli stessi consumatori. Il mondo dell’agricoltura è un chiaro esempio in questo senso: a lungo la storia dello sviluppo agricolo è infatti consistita nel progressivo superamento di ignoranze genuine (la resa delle coltivazioni è il risultato della combinazione di numerosi fattori -quali ad es. tempo meteorologico, impollinazioni, parassiti, varietà e qualità delle sementi – la cui conoscenza è quindi determinante). Nell’era della agricoltura industrializzata e informatizzata molti di questi fattori sembrano ormai essere in buona misura adeguatamente conosciuti, ma al tempo stesso si sono innescate nuove ignoranze, persino più critiche perché investono l’intera sfera ambientale, innescate proprio dalle soluzioni industriali delle coltivazioni intensive. Si è cioè di fronte ad una forma di ignoranza, per certi versi volontaria, se non persino colpevole, delle conseguenze sulla salute del suolo causate dall’uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti, non a caso molti esperti del settore stanno da tempo lanciando preoccupati allarmi sull’impoverimento dei suoli e quindi sulla stessa potenzialità produttiva agricola. Passando ai settori dell’industria, della finanza, del consumo, Burke evidenzia innanzitutto il ruolo determinante del possesso di informazioni, da sempre presente ma divenuto quanto mai decisivo in questa epoca globalizzata e informatizzata. In una economia di mercato basata sulla concorrenza fra operatori, e sul gioco di interessi contrapposti fra produttori e consumatori, è fuor di dubbio che un fattore vincente consiste infatti nel possedere adeguate conoscenze sui potenziali sviluppi tecnologi, sulle dinamiche di mercato, sugli scenari geopolitici, la loro ignoranza, per quanto genuina e passiva, inevitabilmente diventa un grave handicap di partenza. Per quanto concerne poi il settore della produzione industriale la costante crescita delle dimensioni aziendali, frutto delle inaggirabili logiche di mercato, ha da tempo visto il collegato, controproducente, affermarsi di una specifica forma di ignoranza organizzativa, sintetizzata nella metafora dell’iceberg dell’ignoranza: più alto è il livello gerarchico, più si sa di grandi strategie, ma al contempo molto meno si sa delle pur essenziali competenze produttive dei livelli bassi. Con una ulteriore ricaduta negativa: questa ignoranza organizzativa ha infatti innescato la crescita esponenziale di un'altra, collegata, forma di ignoranza: quella inconscia dei lavoratori che, vista la trascuratezza delle loro competenze sul campo e ridotti a meri esecutori, sono ormai stabilmente indotti, più o meno consapevolmente, al non sapere di sapere. E’ al contrario un’ignoranza di certo collettiva ed in buona misura incolpevole quella dei consumatori nel loro muoversi, in condizioni di costante incertezza e mancanza di specifiche informazioni, in un mercato fatto di prodotti di cui troppo poco si sa (quelli alimentari), spesso oggettivamente complessi (quelli tecnologici) ed a cui ci si accede troppo influenzati da scientifiche, ma fuorvianti, strategie pubblicitarie. Un’ignoranza subita che raggiunge la sua massima espressione nell’indecifrabile mondo dei prodotti finanziari. Non a caso nei testi di economia finanziaria è da tempo comparso il termine di analfabetismo finanziario, quello degli acquirenti, o utilizzatori forzati (nel caso di mutui e finanziamenti), ma anche degli stessi operatori sempre più ridotti a meri attuatori (quando non del tutto scavalcati) dalle meccaniche competenze affidate ad algoritmi (con sempre sullo sfondo gli immancabili manipolatori e truffatori professionali). Burke passa infine, con medesimo approccio, ad esaminare l’ignoranza in politica, la quale di norma si articola su tre distinti, ma comunque intrecciati, livelli: quella del popolo, di chi è governato, quella dei governanti, ed infine quella organizzativa del sistema politico in quanto tale. La prima, (da alcuni interpretata anche come una istintiva forma di difesa dalla complessità di conoscere, capire e scegliere) è al tempo stesso una risorsa per i regimi autoritari ed un fattore di forte preoccupazione per le democrazie. Non a caso tutte le dittature e le autocrazie dedicano molta cura a coltivare l’ignoranza del popolo, dei sudditi, e non meno a caso la loro caduta è quasi sempre determinata da squarci aperti nella cappa imposta. Il discorso si rovescia (per quanto anche qui non manchino congiure del silenzio e censure) nei sistemi democratici, per i quali l’ignoranza politica del popolo rappresenta, oggettivamente, un serio problema per il loro pieno e corretto funzionamento. Burke si limita, in coerenza con lo scopo del saggio, ad evidenziare che essa (certificata in tutte le democrazie avanzate da specifici sondaggi sulla diffusa deficitaria conoscenza dei dati essenziali della realtà politica e istituzionale, che va dal conoscere competenze e meccanismi della struttura e del funzionamento delle istituzioni ad ignorare persino  nomi e ruoli dei protagonisti più importanti)  può essere in ultima istanza distinta in due forme: quella attiva, più o meno volontaria, di chi ritiene che partecipare al democratico confronto di idee politiche sia uno sforzo troppo impegnativo piuttosto che inutile, e quella passiva ingenerata dalla oggettiva crescente difficoltà alla formazione di opinioni ragionate in società chiamate ad esprimersi su questioni sempre più complesse (alcuni studiosi ritengono che si tratti di una tendenza destinata ad accentuarsi pericolosamente tanto da aver paventato il rischio di una “tirannia dell’ignoranza”) ulteriormente accentuata dall’inondazione di materiale superfluo, se non deliberatamente manipolato (fake news), che circola nella Rete e nel mondo dei media. Altrettanto innegabile e sconfortante è però l’ignoranza dei governanti, esemplare è stata per secoli quella, attiva e selettiva, di sovrani e nobili rinchiusi in un mondo a sé del tutto impermeabile a quello della conoscenza. Una situazione che è sembrata migliorare, almeno in parte, con l’avvento della democrazia e la salita alle posizioni di vertice di membri provenienti dalle élite culturali, per poi tornare a evidenziare limiti e contraddizioni via via accentuati dalla progressiva crisi del sistema dei partiti e dei modi di selezione e formazione del ceto politico (Burke cita al riguardo numerosi casi di leader politici incappati in clamorose gaffe, anche nelle materie più strettamente politiche ed istituzionali, veri e preoccupanti esempi di ignoranza genuina). Nelle attuali società complesse, un buon governante è tale se è consapevole delle proprie inevitabili lacune (ignoranza cosciente) così da concentrarsi sulle strategie politiche sfruttando al meglio le competenze degli ormai indispensabili staff di supporto (possibilmente scelti non solo in base a meriti di parte). La limitata circolazione di informazioni fra l’alto ed il basso, fra l’ignoranza dei governati e quella dei governanti, si collega strettamente con quella propria degli apparati istituzionali e politici: l’ignoranza organizzativa. Un deficit di conoscenza, anch’esso progressivamente accentuatosi con il crescere della generale complessità, che ha prodotto la nascita di specifiche strutture statali preposte proprio alla gestione della conoscenza delle materie di governo. E’ un processo che si è via via consolidato nel corso degli ultimi secoli passando in particolare attraverso due svolte rivoluzionarie: la prima avvenuta in Inghilterra a metà del 1500, durante il regno di Enrico VIII, con la nascita di quello che è passato alla storia come il primo “Governo” inteso nella sua moderna accezione (un Consiglio di Ministri, ognuno dei quali preposto ad una materia ritenuta importante per le sorti dello Stato, diretto da un Primo Ministro che, sulla base di precise regole, risponde del suo operato alla figura simbolo del potere) che ha istituzionalizzato la separazione fra chi detiene il potere e chi lo esercita sulla base di precise competenze fino a divenire il simbolo della prima “burocratizzazione” del potere statale. Su questa scia, circa tre secoli dopo, nasce in Germania il primo corso universitario specificamente destinato alla formazione di alti funzionari di Stato al fine di creare una struttura (resa stabile perché disgiunta dalla mutevole compagine di governo e adottata, con forme diverse, in diversi paesi) preposta alla gestione delle conoscenze, sempre più ampie e articolate, utili all’azione governativa.  E’ una ulteriore separazione nella catena delle conoscenze in capo al governo pubblico finalizzata a compensare la “genuina ignoranza” dei governanti di turno. Ottima intenzione, ma da sola (i molti esempi riportati da Burke lo evidenziano) non sufficiente ad evitare scelte governative errate perché basate su conoscenze inadeguate. Lo attestano in particolare le politiche che, in tutti i paesi per tutti i secoli della modernità fino ai giorni nostri, si sono dimostrate incapaci di fronteggiare fenomeni - quali eventi estremi, carestie, epidemie, crisi economiche, fenomeni naturali – che presuppongono il miglior utilizzo possibile di competenze, informazioni e conoscenze specifiche (quelle fornibili dalle citate strutture statali preposte e, sempre più, direttamente dal mondo scientifico con i suoi specifici istituti e, in particolare ai giorni nostri, da organismi internazionali quali ad esempio ONU, OCSE, FMI) a partire dalle previsioni sugli scenari futuri (emblematiche sono quelle regolarmente fornite dall’IPCC sull’evoluzione del riscaldamento climatico) e dal buon utilizzo degli insegnamenti che il passato offre (a partire a quelli relativi all’inutilità delle guerre e alla follia dei genocidi).

Conclusioni

Burke conclude questo saggio recuperando dalla consistente mole degli esempi raccolti per evidenziare quanto e come l’ignoranza abbia inciso, e tuttora incida sulla storia dell’umanità, alcune indicazioni di sintesi. La prima consiste nella constatazione dell’illusorietà di una idea di storia declinata in termini di costante progresso grazie alla sconfitta dell’ignoranza da parte del progredire delle conoscenza. Se è vero che le nuove conoscenze hanno consentito molti e notevoli passi in avanti in quasi tutti i campi del vivere umano è non meno vero che l’ignoranza cosciente dimostra che quanto più si conosce tanto più si manifesta ciò che ancora non conosciamo. La seconda guarda alla distinzione fra conoscenza pubblica e individuale: se collettivamente è vero che l’umanità sa più di quanto abbia mai saputo prima, un disincantato sguardo ad ampio raggio dice che individualmente non si hanno così tante conoscenze in più dei nostri predecessori. Una terza, a quest’ultima collegata, evidenzia che i nuovi saperi spesso hanno sostituito molti di quelli vecchi ma non sempre ciò ha rappresentato un reale superamento dell’ignoranza individuale e collettiva (non fosse altro che per l’impossibilità di utilizzare, per questa comparazione, parametri oggettivi e onnicomprensivi). Una quarta constatazione è quella relativa alla evidente impossibilità di far divenire conoscenza collettiva le scoperte sempre più specialistiche e analitiche che costantemente si stanno accumulando. Un aspetto che porta all’ultima considerazione: oggi più che mai non ha senso ragionare sull’ignoranza vista come caratteristica individuale, è ormai doveroso ragionare di conoscenze collettive, e non più di conoscenza, e conseguentemente di ignoranze, e non più di ignoranza, altrettanto collettive. Per dirla con Mark Twain (1835/1910, scrittore americano)siamo tutti ignoranti, solo di cose differenti

………… il guaio è che coloro che detengono il potere spesso mancano delle conoscenze di cui avrebbero bisogno, mentre coloro che le possiedono non hanno il potere ………..