lunedì 3 marzo 2025

Video della conferenza del 26 Febbraio - Prof. Adriano Favole

 

Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali) ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della partecipata conferenza tenuta, Mercoledì 26 Febbraio 2025 presso l’auditorium D.Bertotto, dal prof. Adriano Favole (professore ordinario di Antropologia culturale  presso l’Università di Torino) con titolo:

Diversità o disuguaglianza?

note dal campo dell’antropologia 

Per accedere al video cliccare qui

sabato 1 marzo 2025

La Parola del mese - Marzo 2025

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

MARZO 2025

Prima o poi doveva succedere. Che lo spazio di questo artigianale blog utilizzato per esplorare le suggestioni offerte da una parola fosse  destinato alla parola in quanto tale. Nel corso di questi anni ne abbiamo prese in esame un buon numero, centoventicinque con questa, alcune complicate, altre all’apparenza più comuni, tutte, perlomeno è questa la nostra speranza, hanno svolto bene il loro ruolo di provocazione “a fin di curiosità”. Questo nostro omaggio alla parola passa attraverso la scienza che, riconoscendone l’importanza, la studia.

ETIMOLOGIA

Etimologìa = voce dotta, dal latino etymolŏgia, a sua volta derivata dal greco etymología, composta da étymon (intimo significato della parola) e da logía (studio, trattazione, teoria, dottrina) = Scienza che studia le parole, indagandone l’origine, ossia la forma più antica cui si possa risalire percorrendone a ritroso la storia, e seguendone la successiva evoluzione

Quella che avete appena letto è quindi un’etimologia, in questo caso della parola etimologia, e l’idea di usarla come parola del mese, che da tempo in qualche modo già era nell’aria, è stata rafforzata dall’incontro con un volumetto e con il suo titolo

il cui autore è Marco Balzano (1978, scrittore, poeta, italianista)

Il testo di Balzano, non avendo seriosa ambizione di saggio, richiama bene ed in modo lieve al corretto uso delle parole che una loro buona conoscenza etimologica può sicuramente consentire (Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!» citazione dal film “Palombella rossa” di Nanni Moretti).

Lo fa analizzando, nelle ottanta paginette di questo volume, dieci vocaboli di uso comune che politica, pubblicità e media alterano, semplificano, e quindi impoveriscono, proprio per dimostrare quanta ricchezza culturale ed esistenziale rischia di andare persa se alle parole, alla storia loro e di chi le ha inventate, non viene prestata la giusta attenzione.

E’ evidente la finalità divulgativa, persino didattica (d’altronde Balzano è professore di lettere in un liceo milanese) che peraltro riprende ed amplia in altre sue opere (è autore di un podcast con titolo La storia delle storie. Le avventure della parola”). Come traino della nuova edizione del dizionario Zingarelli, ha scritto la definizione di cinquanta lemmi il cui significato è cambiato negli anni.

Percorreremo questi dieci vocaboli esemplificativi come (auto)omaggio alla nostra ben più modesta “Parola del mese” ma soprattutto come vivida testimonianza del valore di una giusta attenzione alla pratica costante della etimologia, che per Balzano ben meriterebbe di divenire, purchè declinata in modo non pedante e pedissequo, materia scolastica.

E’ infatti convinto che, se ben insegnata in stretto collegamento con altre materie, etimologia è per definizione una disciplina trasversale che, meglio ancora se integrata con la linguistica, ossia lo studio del linguaggio e delle modalità di comunicazione, potrebbe fungere da ponte con storia, filosofia, sociologia, religione

Lo dimostra citando alcuni simpatici ma pertinenti aneddoti: quello del suo professore di filosofia al liceo che per far meglio comprendere il rapporto uomo/morte/divino puntualizzò che la parola latina “homo, uomo” ha la stessa radice di “humus, terreno”, questo perché l’uomo sta sulla terra, mentre i morti stanno sotto e gli dei sopra, ottenendo così una inaspettata attenzione. Piuttosto di un’analoga vicenda raccontata dal filosofo Hans-Georg Gadamer che per coinvolgere il suo uditorio (era un lezione su Parmenide, il filosofo greco dell’unicità di essere e pensare) ricorda che la parola “nothing, niente” altro non è che la contrazione di “no thing, nessuna cosa”, piccolo accorgimento che però ha consentito alla platea di mettere meglio a fuoco il concetto che “l’essere non è una cosa”.

Ma una buona frequentazione dell’etimologia farebbe bene a tutti, non solo agli studenti. Padroneggiare meglio una lingua aiuta a capire che attribuire a qualsiasi parola solo il significato più usuale, più comune, è nel migliore dei casi limitativo (un esempio fra i tanti è quello della parola “economia”, quando la si pronuncia vengono in mente numeri, cifre, i dati del PIL. Ma la sua etimologia deriva dal mettere insieme “oikos, casa” e “nomos, legge/norma”, economia quindi è l’insieme delle regole che servono per mandare avanti la casa).

Ma soprattutto (rientra in scena Nanni Moretti) conoscere meglio i significati (sempre parlare al plurale) delle parole ha una importante funzione sociale proprio perché l’etimologia, con la sua richiesta di ascolto e cura, spinge ad una maggiore etica della lingua perché permette di individuare usi impropri e mistificatori. Conoscere l’origine e la storia delle parole diventa così anche un modo per relazionarci al presente e per non restarne ostaggi. Viviamo, purtroppo, un’epoca in cui la lingua viene banalizzata e semplificata, le parole si sono fatte tronche se non ridotte in faccine o assurdi caratteri, uscire fuori da questa gabbia farebbe bene alle menti e alle relazioni.

Ed in più, aspetto che non nuoce perché è di per sé intrigante, etimologia ha un che di seducente perché consente di verificare quanti incroci si possono stabilire fra le tantissime lingue che si sono formate nel lungo viaggio dell’umanità (ad Aprile 2022 il nostro “Saggio del mese” fu “Storia universale delle lingue” di Harald Haarman) a testimoniare l’affascinante ampiezza, geografica e storica, del loro percorso evolutivo. E poi perché rimanda sempre all’affascinante mistero della nascita di ogni parola (perché mai proprio quella?) e del suo ancestrale rapporto con la cosa che, proprio perché da essa nominata, ha trovato da quel momento vita e condivisione. Lo svela magistralmente la frase con la quale Umberto Eco chiude il suo “Il nome della rosa”: Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus ….. “la rosa primigenia esiste nel suo nome, possediamo solo nudi nomi.

Ma è tempo di passare ai dieci omaggi (che, come presto si scoprirà ne contengono molti altri): quelli di Balzano alla etimologia e quelli nostri (a lui rubati) alla nostra “Parola del mese”.

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ancora una necessaria premessa: Balzano ha scelto parole abitualmente pronunciate nel collettivo discorrere quotidiano, alcune in particolare appartengono al suo lavoro di professore, ma tutte (mala tempora currunt!!!!) si sono di recente prestate a pericolose semplificazioni o distorsioni, recuperarne l’origine etimologica ha quindi quel significato etico di cui si è in precedenza detto. Sono presentate in ordine sparso, i collegamenti fra di loro sono lasciati alla libera scelta del lettore, il quale è libero di percorrerle come meglio crede

DIVERTENTE = comunemente si intende tale qualcuno o qualcosa che induce al sorriso, che offre una parentesi dilettevole, che regala una simpatica emozione. Normale che prevalga questa interpretazione in tempi che del divertimento hanno fatto una sorta di obbligo, di regola di vita, di misura quasi obbligatoria della quotidianità. L’etimologia ci dice che in effetti “divertente” indica un atteggiamento mentale un pochino più complesso ed interessante.

Divertire deriva dal latino “de-verto”, dove “de” propone un allontanamento e “vertere” significa girare/volgere, messi insieme indicano quindi “volgersi altrove” e, in senso più ampio anche figurato, cambiare (ad es. percorso, vita, “divorziare” deriva da qui). Divertente, inteso in senso letterale, è allora colui che sa cambiare strada e quindi, per farlo, ha uno sguardo critico, predisposto a vie alternative.

Insomma un individuo che sa essere diverso e che ha l’ingegno per trovare alternative (ad-vertere, girarsi verso) a ciò che ha davanti, che si mette in movimento perché trova il coraggio di abbandonare il proprio posto per dirigersi verso un posto nuovo. Non proprio quindi un semplice mattacchione, anche se a ben vedere l’umorismo nasce anche dalla capacità di ribaltare le situazioni, di invertire i ruoli, di spiazzare ciò che sembra acquisito. Schopenauer (1788/1860, filosofo tedesco) sosteneva che a farci ridere è la discrepanza tra “il concetto e la percezione effettiva delle cose”.

Allo stesso modo per Italo Calvino (nella raccolta delle sue “Lezioni americane”) la funzione di divertire è sempre quella di “sottrarre peso”, di dare leggerezza, di riuscire così facendo “a far girare la testa” da ciò, magari non proprio piacevole, che abbiamo davanti. Di-vertire ha pertanto molto a che fare con di-strarre (de/di aggiunto al verbo trahere, tirare/trainare). Ma solo in parte induce all’allegria, chi/ciò che diverte può essere che renda anche allegri, ma il suo fine ultimo è quello di una presa di coscienza per un cambio di prospettiva.

CONFINE = E’ sicuramente una delle parole più enfaticamente presenti nell’attuale, preoccupante, dibattito politico, dove viene usata per indicare una barriera invalicabile che può essere superata solo da chi ha determinate carte in regola.

Per quanto questa interpretazione sia, da tempo, quella corrente l’etimologia attesta che la parola confine non è quella più giusta per indicare un confine se così inteso. Confine è infatti un termine che nasce dal latino dalla congiunzione di “cum(preposizione che vuol dire “con” che cancella unicità e solitudine perché compare qualcosa o qualcun altro) e di “finis”.

E’ questo un vocabolo molto antico che indica di norma la “fine, intesa in senso ampio (è un termine, ma anche una finalità). Letteralmente quindi il confine sarebbe “un luogo dove si finisce insieme, un punto dove ci si incontra.  Arrivando magari da direzioni diverse diventa quindi il luogo dove “ci si trova di fronte qualcun’altro” e dove, per capire il da farsi, lo si guarda negli occhi (Valter Benjamin, 1892/1940, filosofo tedesco di origine ebrea, diceva che “nello sguardo è implicita l’attesa di essere ricambiato).

Se pertanto da una parte il confine segna una delimitazione (l’individuazione di una linea) dall’altra non la segnala come inevitabile limitazione (l’apposizione di una invalicabilità su quella linea), nega cioè il muro non la soglia. E’ nella natura umana l’istinto (divenuto cultura nella classicità greco-romana) di avere dei confini che aiutino a fissare chi siamo, a cosa apparteniamo, ma non di meno lo è quello, avendone consapevolezza, di andare oltre (homo sapiens ha colonizzato la Terra superando continuamente confini).

Il confine segna quindi, a ben vedere, lo spazio del viaggiatore, di colui che va, che emigra (la divisione tra chi “e-migra” e chi “im-migra” non ha valore in sé, ogni spostamento, al di là della sua direzione, è semplicemente un cambiamento, non per nulla il verbo latino “migro” è un’espansione della radice “mig” che si ricollega al verbo “cambiare”).

Forse il termine italiano che meglio può rendere il concetto di “cum-finis” è “varco”, parola che esplicita l’idea di un attraversamento, che è legittimazione di uno spostamento. Non esattamente quello che intendono i vari difensori dei confini, i quali in effetti nella loro interpretazione andrebbero associati ad un altro vocabolo latino: “limes(in origine indicava il sentiero che fa da confine fra due campi ma si è poi, in età imperiale, esteso in ambito militare per indicare una “frontiera”, un posto di blocco presidiato da soldati lungo una strada). Solo se inteso come limes il confine è in effetti una linea da non superare

FELICITA’ = Una parola fra le più complesse e delicate del vocabolario, una parola di cristallo che da sempre ha occupato pensieri e speranze trovando infinite declinazioni. Anche solo restando nell’ampio ambito culturale europeo a cui apparteniamo sarebbe infinito l’elenco delle definizioni che di felicità hanno dato poeti, scrittori, filosofi, ma anche politici, costituzionalisti, economisti, conservatori piuttosto che rivoluzionari, sociologi e statistici.

Limitando la nostra curiosità a ciò che di felicità può raccontarci la sua etimologia si scopre però che tutte queste sue interpretazioni, per quanto fascinose ed interessanti, non condividono nulla (inspiegabilmente nulla!)  con l’origine della parola.

L’aggettivo latino “felix” ha la stessa radice di “fecundus”, è cioè un termine che si riferisce alla capacità di generare. Per i Romani infatti “Felicitas era una dea che portava frutti, ovvero fortuna ed abbondanza (sulle monete era rappresentata come una cornucopia (un vaso a forma di corno, riempito di frutti e coronato d'erbe e di fiori). Scavando nell’etimologia di felicitas e di felix si scopre anche, ma a questo punto non è più una sorpresa, che la loro radice è “fela”, la mammella (da cui anche il verbo “felo”, succhiare, da cui a loro volta derivano numerose varianti, anche molto piccanti).

Insomma felicitas, la felicità nelle sue origini, è una parola seminale che evoca la creazione ed il nutrimento, è la fertile pienezza (femminile!) di chi, avendo dato vita, gode nel nutrirla e nel farla crescere. Racconta cioè il piacere che si riceve quando si dà.

Il campo semantico è femminile e più precisamente materno, oltre che per “fela”, anche per l’infisso “ic” che la segue, il quale ha uso soprattutto in parole non a caso di genere femminile (nutr-ic-e, levatr-ic-e ad es.), e d’altronde “femina, femmina/donna” ha la stessa radice di “fecundus”, cosa che vale anche per “feto” e per alcuni anche per “figlio”.

Qualcosa deve poi essere successo se questo significato è andato perso, se felicità è progressivamente passata ad indicare una associazione, oltretutto interpretata in mille modi, con il generico benessere individuale. La perdita della felicità intesa come dono, come cura per l’altro, sostituiti da una escludente dimensione individuale non è solo etimologicamente una forzatura, ma persino una stortura esistenziale, non a caso già Aristotele sosteneva che …. si può essere ricchi da soli, ma per essere felici bisogna essere almeno in due ….

SOCIAL = si entra con questa parola inglese, ma con una evidente etimologia di origine latina così come l’italiano “sociale”, nella dimensione delle relazioni interpersonali. Che fino ad alcuni decenni addietro avevano la “piazza”, la greca “agorà”, come luogo principale di incontro, in gran misura ormai sostituito da questa sua virtuale corrispondente: la “piattaforma”.

Ed è qui infatti che ormai hanno luogo tre azioni che, non diversamente dal passato ma con forme e spirito molto diversi, costruiscono l’attuale sfera delle relazioni sociali: “amicizia”, “condividere”, “consultare”. Per meglio capire la differenza tra piazza e piattaforma è utile ripercorrerle etimologicamente partendo però prima da “social”.

Come “sociale” deriva dal latino “socius” che letteralmente indica “colui che accompagna, con cui si fa strada insieme(un buon sinonimo di socius è “comes, colui che viene con noi” dunque un “companio, compagno, che è colui con cui si divide il pane” il cibo essenziale per eccellenza) condividendo il piacere del cammino, così come i possibili rischi e problemi (magari nel campo degli affari, da cui “societas, compagnia” e “socius in quanto socio”). Emerge da questo insieme di termini una dimensione esistenziale che non sembra valere con pari consistenza nello spazio delle piattaforme social in cui, anche se immersi in tante relazioni (contarne tante, al di là della loro reale validità, è motivo di vanto), ognuno comunque fa strada per proprio conto.

E d’altronde “l’amicizia” (che condivide con “amore”  la stessa radice “am” che indica in senso ampio il concetto di amare), che prima dei social si avverava perché “la si faceva(l’apparentemente banale “farsi un amico” indica al contrario qualcosa di complesso, di articolato, che con il tempo si “costruisce”, dal latino “ cum struo, letteralmente “sovrapporre degli strati”),  adesso nel web “la si dà”, ha cioè smesso di essere la faticosa costruzione in comune di una relazione ed è diventata una sorta di concessione, che colloca chi la dà in una posizione di superiorità rispetto a chi la richiede. Ed allora non è certo un caso se molto spesso il “dare l’amicizia” non si concretizzi in un vero “fare amicizia”.

Anche perché la stessa essenza dell’amicizia, che consiste in ultima istanza nel “condividere, dividere con ……”, raramente trova spazio sui social. Tutto quello che si condivide su di essi – file, immagini, link, storie, testi – non rappresenta mai il pane che si divide con qualcuno, (con un com-pagno) non è qualcosa di cui ci si priva per celebrare, costruendolo, un rapporto di unione, ma un’amorfa appendice, più o meno virtuale, che si distribuisce, si diffonde, si propaga, quasi sempre senza nemmeno chiedere il permesso ai destinatari. In questa forma di “con-divisione” non c’è il “cum” e neppure il “dividere”.

E non va meglio per l’altra frequente azione che si compie nel mondo social: la “consultazione”. Parola che deriva dal latino “consulo”, che vuol dire “riunirsi per decidere, per deliberare”, e che indicava anche il “console”, o meglio ancora i “consoli”, coloro che decidono insieme, i due eletti dal popolo romano per esercitare il ruolo di comando e di potere. Un modo di governare che richiede, per essere efficace, sicuramente di rappresentare la parte del popolo da cui si è stati eletti (patrizi e plebei) ma anche di riconoscere i propri limiti di conoscenza superabili proprio grazie al sapere dell’altro.

Purtroppo nel mare magnum delle fonti presenti nel web è davvero difficile individuare questo “altro”, questo qualcuno che davvero ne sa di più. Per farlo si dovrebbero già possedere preliminari criteri di valutazione e selezione che si alzano di livello quanto più complesso è il tema. La realtà è che il singolo utente, per quanto accorto e diffidente, è quasi sempre in balia degli interessi, espliciti ma non di rado mascherati, che costruiscono gli archivi e le modalità per il loro accesso. E’ un rischio reale per la stessa tenuta delle attuali democrazie, anche perché investe direttamente la sfera della memoria collettiva

MEMORIA = è lo strumento, la procedura mentale con la quale si instaura il rapporto con il passato attraverso il recupero di ricordi. Passato, memoria, ricordo, formano così una fondamentale triade che, esplorata etimologicamente, presenta alcuni interessanti aspetti.

L’etimologia di “passato” è semplice, deriva dalla parola latina “passus, il passo”, inteso in particolare come misura di lunghezza (il passus latino valeva 1,479 mt). Segna quindi, lungo l’unica direzione temporale concessa all’uomo (dalla nascita alla morte), tutto ciò che ogni individuo, e l’umanità intera, lascia alle proprie spalle man mano che compie dei passus. E’ un contenitore immenso, impossibile recuperare tutti i fatti che continuamente lo compongono (non a caso la mente si è attrezzata per rimuoverne una gran parte), ma per tentare di farlo occorre una precisa scelta: quella di “attivare la memoria”.

Lo sforzo richiesto per farlo è tutto descritto nell’etimologia della parola memoria che deriva dal verbo latino “memini” e dal suo corrispondente greco “mimnèsko” che indicano più ancora che l’atto in sé del ricordare la capacità di rappresentare un evento accaduto [i derivati di memini, inteso in questo senso, sono vari, ad esempio lo è “mens, la mente”, il verbo “moneo, ammonire per far tornare alla mente”, “dementicare, dimenticare ossia far uscire dalla mente” fino a “monumentum, la memoria che si fissa in un artefatto (di solito di pietra)”].

Vale a dire che dal punto di vista etimologico il passato è una parola statica, passiva, mentre memoria al contrario è parola dinamica, attiva. Questa funzione, che inevitabilmente assume anche una valenza etica (si ricorda ciò che si ritiene giusto ricordare), vale nella sfera individuale, ma non di meno, seppure con qualche complicazione in più legata alla sua “con-divisione(vedi il precedente Social), in quella collettiva.

In accordo con quanto le neuroscienze hanno da tempo accertato l’attivazione della memoria riesce meglio quando questa è rafforzata dai sentimenti, dalle emozioni, quando cioè si entra, etimologicamente, nel campo del “ricordo” che, derivando dal latino “re-cor"(dove il prefisso re indica un movimento all’indietro e cor il cuore”), chiama in causa qualcosa che non è solo uno sforzo della mente. In questo senso i ricordi, che sono sicuramente più soggettivi, “non escono dalla mente”, non si “di-menticano”, ma si “s-scordano” quando cioè “escono dal cuore”.

In entrambi i casi, memoria o ricordo, l’uomo è ciò che ricorda, sia quello che recupera attivando la prima, sia quello che l’inconscio emotivo ripresenta. Quando ciò avviene anche il corso del tempo muta, il passato ritorna in scena ed il tempo cronologico, il “chronos greco” che sempre scorrendo in avanti lo crea, si trasforma in “kairòs, il tempo giusto, opportuno” che coinvolge il soggetto e lo proietta fuori dal suo passato.

Si riaffacciano le precedenti preoccupazioni sul mondo del social, sulla particolare memoria che li supporta, quella degli spazi di archiviazione dei dispositivi elettronici. Dove tutto, ma proprio tutto, viene raccolto, immagazzinato, archiviato, e da dove diventa possibile tutto recuperare. Senza entrare più di tanto nel merito di problemi inter disciplinari quanto mai complessi, va però detto che la memoria non è soltanto un accumulo di informazioni, ma, come si è etimologicamente evidenziato, la capacità di selezionarle e di metterle in relazione. Una prerogativa dell’uomo che sarebbe bene non perdere consegnandola ad un irrecuperabile passato.

SCUOLA = Si entra con quest’ultima considerazione in una tematica nella quale è fondamentale il ruolo di quell’istituzione che va sotto il nome di “scuola”. Cosa ci dice al suo riguardo l’etimologia? che la sua origine si trova nella parola greca “scholè” che, udite udite, vuol dire “vacanza, riposo, tempo libero”. Un concetto che nella cultura romana si è più organicamente associato all’idea di “educazione” intesa come “e-ducere, condurre fuori da una condizione ad un’altra(il grammatico Sesto Pompeo Festo, autore di un enciclopedico volume intitolato “De verborum significatu (sul significato delle parole)” pioneristico dizionario etimologico, scrive che “la scuola è così detta perché i fanciulli, lasciate tutte le altre occupazioni (ecco la vacanza) possono dedicarsi agli studi umanistici”).

Questa idea riprende quella greca di educazione (“paidèia) basata sulla conoscenza della parola e sulla capacità di usarla pubblicamente. La finalità è quella di poter imparare senza però dover faticare, perché come per tutti i cuccioli anche quello di uomo “impara giocando”. Se il lavoro è inevitabilmente “negotium(attività, occupazione, incombenza, incarico) la scuola, perché sia tale, richiede al contrario l’ otium(tempo libero dal negotium).

Dal punto di vista etimologico le attuali impostazioni didattiche, che hanno evidenti finalità “imprenditoriali”, sono all’esatto opposto del concetto greco e romano di scuola la cui finalità non era una preparazione al lavoro, ma quella di “e-ducere” i fanciulli al traguardo di divenire adulti in grado di partecipare alla vita sociale (e politica).

Che sia stato davvero un modo completamente diverso di e-ducare lo dimostrano anche le materie insegnate, che nella scuola greca e romana erano di fatto solo tre: la memorizzazione, la ginnastica e la musica. Senza forse le tre attività più cadute in disgrazia nell’odierna idea di scuola, ed in particolare proprio quella dell’esercizio della memoria (vedi appena prima) (non è meno curioso notare come lo studio della musica altro non fosse che   l’abilità di tradurre le parole in suoni poeticamente musicali, il poeta greco e romano è stato sempre raffigurato con una cetra in mano, strumento solo più tardi sostituito dalla piuma, dalla penna).

CONTENTO = per ricostruirne l’etimologia è necessario fare un passo indietro per tornare a quella di “felicità” recuperando in primis l’idea che di essa aveva Giacomo Leopardi, il quale associandola senza mezza termini al “piacere” così la definiva: felicità altro non è che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse pur anco il più spregevole”. Peccato però che per lo stesso Leopardi la felicità, la contentezza del proprio essere, si ha solo se i desideri che lo animano sono realizzati e ciò non avviene perché i desideri dell’uomo sono infiniti.

Constatazione che impone per conoscere etimologicamente la contentezza di iniziare dall’etimologia di “desiderio, una delle parole più affascinanti delle lingue romanze (quelle che derivano dal latino). Che nasce da quella latina composta dal prefisso “de”. che indica una mancanza, e dal sostantivo “sidus, stella, ” il cui plurale è “sidera”. Letteralmente quindi “de-sidera” vuol dire “mancanza della stella”, assenza cioè dell’elemento astrale che, per i greci prima e per i romani poi, conteneva l’indicazione del nostro futuro, del nostro destino. Dunque il desiderio altro non è che l’impossibilità di leggere il nostro destino.

E’ cioè l’espressione dell’inquietudine che coglie l’uomo quando non sa capire quale sia la sua rotta (le stelle sono la bussola dei naviganti) e che cerca di riempire agognando dei porti, dei traguardi, da raggiungere.

Leopardi, in molte sue opere ed in molti passaggi del suo “Zibaldone”, riflette proprio su questo snodo esistenziale, su questa dinamica che, seppure può regalare solo parziali e provvisori momenti di felicità, di contentezza, l’uomo non può non seguire. Ed etimologicamente ragiona allora sull’etimologia di quest’ultima che giustamente individua nella parola latina “continere, contenere” che all’indicativo presente prima persona fa “contineo”, il quale è composto da “cum, con” e da “teneo, tengo” a significare “mantenere unito, racchiudere, portare dentro con sé”. Vale a dire che in sostanza è contento “colui che sa essere appagato di quello che ha, di ciò che possiede nel suo spazio (esistenziale)”.

Peccato però, è questa è l’amara constatazione di Leopardi, che l’uomo, incapace di sottrarsi al desiderio, sia allora tra tutti “l’essere meno capace di contentezza”. Per sperare di esserlo egli dovrebbe “apprezzare(dare il giusto prezzo) quello che ha, ciò che già possiede.

Se come si è visto “felicità” è tutt’altra cosa, la contentezza potrebbe manifestarsi solo smontando etimologicamente il “de-siderio”, consapevolmente passando dal “de-siderare” al suo esatto contrario “con-siderare” guardando cioè a ciò che si ha con sé (cum) e non a quello che manca (de).

Va però detto che la contentezza così intesa non è priva di pericoli, il contento rischia di essere colui “che si accontenta”, che si limita a vivere “sine cura, senza preoccupazione”, che si fa bastare il poco che ha spacciandolo per un tutto, che vive il suo spazio delimitandolo di “limes” di cui si è detto.

C’è poi un’ultima possibilità per essere contenti e questa sì richiama la felicità nella sua vera etimologia: come si può essere felici nel nutrire colui a cui si è data la vita allo stesso modo si può essere contenti “accontentando” qualcuno con-dividendo con lui ciò che possediamo, che abbiamo. Realizzando in questo modo un desiderio che può ridare una giusta rotta al nostro vivere

FIDUCIA = Esiste uno stretto legame tra due parole, fede e credere, che non appare etimologicamente giustificato, la prima deriva infatti dalla parola latina “fides” e la seconda dal verbo latino “credo”. Questa differenza si spiega con la forzata traduzione nel tardo latino medioevale dei corrispondenti vocaboli greci, questi sì etimologicamente uniti, “pistis, fede” e “pisteu, credere”.

Poco male, in ambito religioso la “pistis, fides” tutto spiega e giustifica, quello che qui interessa recuperare è il significato che fides ha parallelamente assunto nel diritto, quello di “fedeltà alla parola data”. Al di là del diverso contesto in cui fides è stata declinata è pur vero che “avere fede, credere” e “avere fiducia” esprimono due concetti fra di loro differenti. La fede è assoluta, persino dogmatica, si ha o non si ha, la fiducia al contrario è un atto sempre sospeso e reversibile, il cui esito è incerto perché dipende in gran misura dall’altro a cui viene concessa.

E d’altronde la fiducia nasce dalla consapevolezza di un limite, di una mancanza di conoscenza, che obbliga a supplirla ricorrendo all’altrui sapere ed agire [un istinto che Freud fa risalire alla primissima infanzia, a suo avviso infatti il pianto del neonato che chiama la madre ad allattarlo (vedi “felicità”) altro non è che una espressione di fiducia sul suo buon esito] aspetto che non esiste nella certezza delle fede.

Ma questo istinto, che trova origine nella caratteristica di “animale sociale” propria dell’uomo, necessità di riscontro, di concreta verifica dell’altrui capacità e lealtà. Per fidarsi l’uomo deve superare la diffidenza dell’ “homo hominis lupo, l’uomo è un lupo per l’uomo” per giungere a considerare l’altro il “socius” di cui si è detto. Ma sempre resta, salvo quando la fiducia è tale da divenire “cieca”, un granello di paura, di timore, che bene spiega il suo essere un “atto sospeso, di scoprirsi deluso, tradito.

Non per nulla per i Romani la Fides, nel senso di fiducia, era una dea (come per i Greci lo era la “Pistis”), tradirla equivaleva ad infrangere una norma divina. Eppure non sono purtroppo mai mancati i tradimenti della fiducia ricevuta, e non a caso quindi è persino subentrata una sorta di rassegnazione che di fatto ha accentuata la fisiologica diffidenza iniziale.

A maggior ragione in tempi, come quelli attuali, in cui la velocità e la superficialità sono regola per quasi tutte le relazioni umane, mentre la fides ha un gran bisogno di tempo, di conoscenza, di intimità. Eppure, altro paradosso dei giorni nostri, la fiducia che sempre meno sembra essere praticata nella sfera privata viene invocata in quella pubblica come indispensabile requisito per il buon funzionamento della società. E’ diventata cioè fondamentale la fiducia nei mercati, nell’azione di governo (che spesso sopravvivono ricorrendo allo strumento parlamentare della fiducia), nella scienza, nella tecnologia, e via discorrendo.

Ma questa è un’altra fiducia, non è il legame che con un altro abbiamo stabilito dopo reciproca conoscenza ed esplorazione, non chiama in causa la nostra razionalità e tanto la nostra emotività, al punto che persino il suo tradimento non ci scuote più di tanto, e diventa troppo spesso l’esito ormai dato per scontato. A voler giocare con le parole si potrebbe allora dire che, nella sfera pubblica, non si ha più fiducia nella fiducia.

PAROLA = Per completare questo nostro omaggio alla “parola” è giusto recuperare la sua etimologia, ed anche in questo caso non mancano sorprese. E’ sempre alle radici linguistiche romane che bisogna risalire per scoprire che inizialmente veniva usato il termine “verbum” che tutto comprende non solo il nome in sé, ossia ilvocabulum, (da verbum derivano parole come “verbale”, “verboso”, “diverbio”, ed altre ancora).

Il Cristianesimo ha però poi monopolizzato il termine (et verbum caro factum est ….. ed il verbo si fece carne) lasciando spazio a “parabola” che, nella lunga fase di passaggio al volgare, è poi definitivamente evoluta in “parola” che, riferendosi all’atto del parlare in tutta la su ampiezza, implica un suono che  sempre va da chi lo pronuncia a chi lo ascolta. Una comunicazione (dal greco koinòs che significa comune, di tutti) che per realizzarsi compiutamente richiede “ascolto” (da auris, orecchio) e “comprensione” (dal latino cum, con prehendere, prendere, ossia prendere con sé, appropriarsi, contenere), quando l’ascolto è vero ed attento e la comprensione si realizza nasce il “dialogo(dal latino “dialogus”, composto da “dia, attraverso” e “logos, parola” e quindi parola che attraversa due o più persone).

Si entra qui in un terreno quanto mai complesso, alla base dell’intera cultura sociale, limitandoci, per curiosità etimologica, agli atti principali del dialogare, si scopre che “domandare(dal latino “de-mandare”, letteralmente “mandare fuori”) di fatto significa “affidarsi, confidare”, ossia un’azione che presuppone una certa fiducia (vedi sopra) in colui a cui domandiamo. La parola che indica l’azione che si mette in atto per accogliere la domanda, e quindi contraccambiare la fiducia ricevuta, ha un che di solenne nella sua etimologia: “rispondere” deriva infatti dal latino “re-spondeo(composto da “re”, indica un movimento indietro, di rimando, e “spondeo”, promettere) che nasce con una valenza sacra, associabile al “responso” dell’oracolo piuttosto che per accettare una proposta di matrimonio (da cui “sponsa, sposa”).

Quello che l’etimologia non può dire è la qualità del dialogo che deriva dalla capacità della parola, di per sé termine generico, di arricchirsi di significato, di salire nella scala espressiva che al suo culmine ha la parola poetica, la parola che si fa “poesia(dal latino “poésis” a sua volta derivato dal greco “poiein”, letteralmente “fare, inventare, creare”, da qui anche “poiesis”, il processo per cui qualcosa che prima non c’era viene all’esistenza).

La parola poetica, che non coincide esclusivamente con un valore estetico, è in effetti quella che, se afferrata nella sua potenza, crea l’interpretazione di sé stessa, e cioè un’appropriazione che si fa sempre più ricca man mano che la parola diventa nostra. E ciò avviene soprattutto quando la parola si fa segno, quando viene scritta, letta, quindi con essa si dialoga (scrivere viene dal latino “scribere”, che equivale al greco “grafo”, entrambi indicano l’incidere, il grattare una superficie per lasciarci dei segni. Leggere ha invece una etimologia complessa, di norma lo si fa derivare dal verbo latino “legere” il cui significato originario è quello di “cogliere, raccogliere” i frutti della terra, è possibile che da qui si sia evoluto per indicare anche il “cogliere il significato dei segni scritti”)

Si chiude con “parola” l’elenco degli omaggi di cui si è detto composto da termini con un significato che, per quanto etimologicamente consolidato, era però necessario recuperare perché troppo spesso erroneamente dato per scontato o peggio ancora manipolato in modo fuorviante. Ne resta ancora uno scelto da Balzano come esempio della eterna vitalità delle parole e della loro capacità di rigenerarsi, di adattarsi a nuove esigenze, di rispondere a nuove domande

RESISTENZA = E’ figlia del verbo latino “stare”, che possiede una gamma infinita di derivati dal suo significato originario che coincide quello italiano (e di altre lingue romanze), che è preceduto dalla particella “re”, altrettanto frequente, che qui ha funzione rafforzativa, intensiva. Dunque “resistenza” intende uno stare denso di volontà, di fermezza, che può indicare uno “stare contro”, un “opporsi”, un “reggere l’urto”. In questo senso le si potrebbe assegnare un ruolo statico di conservazione ad un cambiamento non condiviso (in fisica indica proprio la capacità di reggere una forza d’urto).

Ma nella storia dell’uomo può succedere che si inneschi una dinamica che stravolge l’iniziale etimologia di una parola: in questo caso è successo con la “guerra partigiana che ha cancellato la staticità di “resistenza” facendola divenire dinamica, un termine carico di futuro, tanto da richiedere l’aggiustamento per nulla secondario in “Resistenza”.

I protagonisti di questa evoluzione non ne hanno inizialmente avuto piena coscienza, preferivano definirsi “ribelli”, dal latino “re-bellis (da bellum, guerra)” ossia “colui che torna a fare la guerra, alcuni “patrioti”, “colui che ama la patria e lotta per essa” o meglio ancora “partigiani ossia quelli “che prendono parte, che si schierano (per i tedeschi erano semplicemente dei “banditi, banditen, tant’è che Primo Levi, da loro catturato, preferì dire che era ebreo, come tale sarebbe andato in un campo di concentramento, come partigiano combattente sarebbe stato subito fucilato).

Sono tutte parole, compresa la stessa Resistenza (parola che è stata sistematizzata nelle lezioni dello storico valdostano Federico Chabod e dalla sua prima ricostruzione dettagliata dello storico Roberto Battaglia nel volume “Storia della Resistenza” del 1953), che hanno acquisito senso compiuto “dopo”, lungo tutti i venti mesi di combattimenti di quella che tecnicamente era definibile come “guerra per bande”, spesso disperate per la disparità di forze e risorse. E’ successo quando molti dei suoi protagonisti, al coraggio di opporsi a costo della vita al nazifascismo hanno aggiunto un ruolo determinante nel ricostruire un paese avendo l’idea di mondo, di uomo, di società fissato nella nuova Costituzione.

Chi ha combattuto in quelle bande ha dimostrato, anche dopo la guerra, di essere più di un ribelle perché non era solo “contro”, ma anche “per” una società diversa, più di un patriota perché il nuovo per cui combatteva andava oltre i confini della patria, e la stessa Resistenza non è consistita, come etimologia avrebbe indicato, in un “opporre, ma è evoluta in un “pro-porre”.

Resistenza è quindi una parola che ammonisce e ricorda, che richiede ancora oggi di andare oltre il suo puro significato etimologico, è uno straordinario esempio di come l’etimologia possa trasformarsi in un “sapere militante” che, come diceva il filosofo francese Michel Foucault “non serve solo a conoscere, ma a prendere posizione