La Parola del mese
Una parola in grado
di offrirci nuovi spunti di riflessione
APRILE
2025
La scorsa Parola del mese, un invito alla
migliore conoscenza e buon uso delle parole, ha messo in luce come particolari
interessi possano modificare a proprio vantaggio il loro vero significato.
Quella di questo mese riprende questa considerazione concentrando la sua
attenzione su un termine che, come richiamato nel sottotitolo del testo che ci
guiderà ad approfondirlo, è “una parola in ostaggio”.
Sarà anche un’occasione per affrontare il controverso dramma che sta segnando la scena geopolitica ed umanitaria del
Medio Oriente: il conflitto Israele-Palestina. Per molti la condanna della
disumana guerra che ha martoriato la striscia di Gaza, che seguiva quella,
altrettanto ferma, dell’orribile attacco di Hamas nel sud di Israele, ha
comportato più attenzione nella scelta delle giuste parole per esprimerla.
Il testo in questione aiuta a fare
chiarezza attorno a questo necessario scrupolo così come alla
strumentalizzazione che, a giudizio di molti, è stata costruita attorno ad
essa. La parola che lega questi due temi è….
ANTISEMITA
Il testo di cui si è detto è……
e la sua autrice è Valentina Pisanty (docente di semiotica presso l’Università
di Bergamo)
che, nell’introduzione a questo suo
interessante libro, già fissa alcuni concetti che bene si collegano ai due temi
che qui affronteremo ……. ogni guerra è anche
una guerra di parole. Forse prima di tutto una guerra di parole …. Ogni parte in causa infatti spende tutte le
sue risorse retoriche per raccontare il conflitto e le sue cause in termini a
sé favorevoli. Ma un salto di qualità peggiorativo avviene
quando si innesca la pretesa di assumere il controllo delle parole per
modificare a proprio vantaggio il loro significato.
Come si è avuto modo di vedere nella
nostra precedente Parola del mese, “etimologia”, le lingue sono soggette a
continui processi di trasformazione che di norma si innescano in modo per lo
più spontaneo e si concretizzano su tempi relativamente lunghi, tutt’altra cosa
sono però questo tipo di trasformazioni mirate a ben precisi fini. Quando ciò
avviene (e
nell’era della comunicazione di massa e dei social purtroppo ciò avviene
frequentemente) se
la comunità parlante non si rende conto della strumentale ingerenza il principio di libertà di parola è gravemente
compromesso e possono innescarsi pericolose
dinamiche.
Ed è esattamente questo il caso della
Parola di questo mese. Dopo che per più di un secolo la sua storia, già quanto
mai complessa, è comunque proceduta secondo i naturali meccanismi di
trasformazione lessicale, antisemita è diventata oggetto di una deliberata
e preoccupante modificazione a strumentale servizio di specifiche finalità.
Da lì in poi, come vedremo, i due temi si intrecciano strettamente
N.B.
= Antisemitismo è già stata la nostra “Parola del mese” di Agosto 2020,
declinata però come ricostruzione, sulla base del libro “Riflessioni sulla
questione antisemita” in cui la sua autrice, la rabbina Delphine Horvilleur,
ripercorre i testi sacri ebraici per individuare le possibili cause dell’odio
antico verso gli Ebrei
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Storia di una parola
Quella di
antisemita non è una storia lunghissima, questa parola compare nelle varie
lingue europee solamente verso la fine dell’Ottocento introdotta per la prima
volta nel 1879, come neologismo tedesco “antisemiten”, ìn una pubblicazione di
un movimento che in Germania si opponeva a leggi di recente introduzione che
riconoscevano pari diritti civili agli ebrei. Questo stesso primigenio nome
antisemiten già conteneva in sè una forzatura etimologica che molto dice sulle
vere ragioni alla base della sua scelta.
Antisemita (sostantivo e aggettivo, maschile e femminile) è parola composta da “anti”, dalla omonima parola greca traducibile
in “contro” e da “semita”, un termine nato [assecondando il
mitologico racconto biblico (Genesi 10) dei tre figli di Noè: Sem, Cam, Jafet] per indicare con il nome “semitico”, derivato da Sem, popoli legati da un unico ceppo linguistico (fra i quali Ebrei, Arabi,
Assiri, Cananeo-Fenici, persino Abissini). Quella che
era quindi una indicazione di natura linguistica nella versione di antisemiten
passa ad indicare, con evidente forzatura di stampo razzista, “chi è contrario,
avverso agli Ebrei”. Non a caso il termine
trova immediato successo nei vari movimenti antiebraici del tempo (in Austria, in Francia,
in Ungheria) che non esitano a
orgogliosamente definirsi antisemiti.
La diffidenza
verso l’Ebreo era peraltro riesplosa verso la fine dell’Ottocento come
testimoniano non solo il fiorire di
movimenti e comitati che in gran parte dell’Europa si opponevano, con una
martellante campagna diffamatoria [che da lì a breve avrebbe trovato il suo apice nel famoso “Protocollo dei Savi di
Sion (un nome che ritornerà successivamente)”, un clamoroso falso elaborato dalla
polizia zarista proprio con l’intento di diffondere odio verso gli Ebrei
accusandoli di inesistenti cospirazioni], ad una maggiore integrazione ebraica, ma anche l’incontrollata
tragica esplosione di vere e proprie violenze di massa (i cosiddetti “pogrom”) avvenute in questo stesso periodo in Ucraina, Polonia, Russia. (fra i due fenomeni
esistono evidenti punti di contatto, ma anche diversità significative: i pogrom
colpivano comunità povere e ghettizzate di cultura e lingua yiddish, le
persecuzioni in Europa prendevano di mira comunità integrate che chiedevano un
riconoscimento formale del loro inserimento di fatto nella società civile).
Il successo di antisemita nelle variegate fila
degli persecutori degli Ebrei è comunque così diffuso da innescare una
corrispondente reazione nel mondo ebraico che, a cavallo di Ottocento e
Novecento, inizia ad utilizzarlo, con spirito opposto, per dare un nome alle
manifestazioni di odio anti ebraico.
In questo gioco di specchi la parola antisemita
assume così, di fatto fin dalla sua nascita, la valenza di una definizione
assoluta, di un sorta di concetto culturale, a prescindere dal valore positivo
o negativo che le due parti in causa associavano ad essa.
Vale a dire che
l’oggettivo successo dell’appellativo antisemita è tale da riuscire in breve tempo a condensare in sè tutti i
tratti che avevano sin lì costruito lo stereotipato personaggio dell’ “Eterno Ebreo”, una figura idealizzata con forti tratti negativi nella quale,
nel corso di millenni, si erano catalizzate
le ragioni, quanto mai complesse e diversificate, di razzistica condanna
dell’ebraismo: diffidenza verso la sua propensione a mantenere una separata
identità di popolo, il patologico bisogno di scaricare tensioni di massa su
facili capri espiatori, le assurde attribuzioni di deicidio a lungo
ufficialmente coltivate in ambito cristiano, autentiche pulsioni razziste, a
formare un informe insieme di atteggiamenti che non di rado hanno assunto autentici
connotati psicopatologici.
Antisemita è cioè diventata una
parola capace di sintetizzare l’ancestrale pulsione a trasformare gli ebrei in
“Ebrei”.
Lo scopo
di Valentina Pisanty non è sicuramente quello di ricostruire ed approfondire il
tema della “questione ebraica”, la sua attenzione in questo testo resta concentrata
sulla parola antisemita,
sulla sua origine, sulla sua evoluzione, sulla sua attuale declinazione e, come
si vedrà, sulle conseguenze strumentali da questa innescate. Si limita pertanto
in questa prima parte del suo testo a recuperarne brevemente alcuni essenziali
tratti raggruppandoli in alcune poche pagine intitolate “il mito dell’Eterno
Ebreo”. Un
mito che trascina con sé, da millenni, pesanti ricadute perché da sempre ed
ovunque esiste una sorta di meccanismo culturale in base al quale ogni epoca
eredita i pregiudizi di quelle precedenti per rielaborarli in nuove
configurazioni. Non a caso quindi l’antisemitismo coltiva in sé molto
dell’antigiudaismo cristiano che a sua volta è legato alle persecuzioni
faraoniche ed a quelle assiro-babilonesi. Un unico filo rosso che indubbiamente
lega più epoche, ma che giustamente non impedisce agli storici di dare pari importanza
ai singoli contesti (Hitler e i faraoni non sono di sicuro la stessa cosa). E
d’altronde gli stessi ebrei non sono un popolo monolitico ed immobile, ciascuna
comunità ebraica, nel luogo e nel tempo in cui si è mossa, ha avuto ed ha
sviluppato proprie specifiche caratteristiche. Tutto ciò non ha tuttavia
impedito che lungo i secoli si sia universalmente creata la figura retorica
dell’Ebreo entro la quale sono via via confluite tutte le strumentali semplificazioni
dell’antropologia ebraica, che hanno impedito di vedere negli ebrei, come
individui e come popolo, le stesse virtù e gli stessi difetti di tutti gli
umani
L’immane
tragedia dell’Olocausto (preceduta su scala infinitamente più piccola da vicende comunque
non meno paradigmatiche, come quella del caso Dreyfus, che ben testimoniano
come nell’intera prima metà del Novecento la questione ebraica si sia
trascinata lungo i fuorvianti canoni di un antisemitismo strisciante), un invalicabile spartiacque, ha poi inevitabilmente caricato la
parola antisemita di una valenza troppo
atroce per consentirne una sua qualche pubblica rivendicazione, un cambio di
registro che non ha comunque impedito che il mito dell’Eterno Ebreo continuasse
a sopravvivere negli ambienti di destra estrema, in alcuni discorsi politici, negli
stereotipi di una parte della cultura popolare di base.
Una situazione,
di incerta e fragile gestione, che ha progressivamente dovuto fare i conti con
le tensioni che in tutto il mondo, non solo occidentale, si sono manifestate in
relazione alla tormentata nascita dello Stato di Israele ed al suo conflittuale
rapporto con le vicine popolazioni arabo-palestinesi. E’ infatti innegabile
che in occasione dei momenti di maggiore tensione di questa irrisolta questione,
si siano, in complesso e contraddittorio rapporto con legittime prese di
posizione politiche, ripresentate evidenze di una qualche forma di antisemitismo,
una sorta di veleno sociale e culturale che oggettivamente continua a fare
presa in alcune parti della pubblica opinione.
La confusa e
quindi diversamente interpretabile relazione tra antisemitismo e politiche
israeliane è stata inoltre ulteriormente complicata dal peso assunto da un
altro aspetto confusamente connesso allo Stato d’Israele: l’incidenza del
movimento sionista.
Per
agevolare la comprensione delle successive considerazioni sviluppate da
Valentina Pisanty inseriamo qui un sintetico ragguaglio sul “sionismo” e
sul suo intreccio con lo Stato d’Israele. Con il termine sionismo
(dal nome del Monte Sion, già comparso in precedenza, il primitivo
nucleo della città di Gerusalemme) si è autodefinito, in ambito ebraico, il movimento culturale
e politico che ha propugnato, mettendo così fine alla loro diaspora, l’autodeterminazione
del popolo ebraico e la collegata creazione di una nuova patria degli Ebrei da
collocarsi nei luoghi originari dell’ebraismo. Il sionismo prende forma a fine Ottocento (in
non casuale coincidenza con l’emergere dell’antisemitismo) raccogliendo
significative adesioni tali da consentire già nel primo decennio del Novecento alcuni
primi sporadici insediamenti in Palestina (inizialmente tollerati dalle
popolazioni locali per la loro ridotta consistenza). Insediamenti che crescono nel
primo dopoguerra per poi accentuarsi con il crescere dell’intolleranza
nazifascista (e di quella stalinista) innescando le prime manifeste reazioni
arabo-palestinesi. Le quali esplodono con la formale nascita, nel 1948, dello Stato di Israele
sancito dalla risoluzione ONU 181 del 1947 che prevedeva la nascita di due
Stati uno ebraico e uno arabo-palestinese (questa mai avvenuta per la netta opposizione israeliana). Il sionismo è
quindi la base ideologica dello Stato di Israele (per quanto non unanimemente
condivisa e da alcune frange persino osteggiata) dove viene comunque declinata
con diverse accentuazioni (la più radicale è quella che prevede la
realizzazione del “Grande Israele” , l’idea di uno Stato unicamente ebraico che
ricomprende tutte le regioni storicamente attribuibili all’originario ebraismo).
L’esasperata sovrapposizione di sionismo e Stato di Israele ha implicato che l’opposizione
alle tesi sioniste (al di là della loro evidente differenziazione),
sintetizzata nel termine “antisionismo” (altrettanto variamente declinato) si sia
di fatto per molti condensata nel suo esatto opposto: nella negazione tout
court all’esistenza dello Stato di Israele.
Questo
complesso incrocio tra antisemitismo, antisionismo ed opposizione (internazionale) alle
politiche israeliane verso le popolazioni arabo-palestinesi trova, nei primi
due decenni del nuovo millennio, una incontrollabile cassa di risonanza nel
mondo delle Rete e dei social che alimenta, spesso distorcendolo, un confronto
cultural-politico sempre più guastato, al limite dell’incomunicabilità, da
preconcetti e strumentali falsità.
Ed è però
questo il contesto (nel testo della Pisanty, è bene ribadirlo, ricostruito a grandi
linee unicamente per fissare il quadro entro il quale stanno le ragioni che
spiegano una eventuale evoluzione dell’antisemitismo) in cui si inseriscono, con tutta la loro distruttiva valenza, l’attacco
terroristico di Hamas del 7 Ottobre 2023 e la successiva guerra nella striscia
di Gaza, ed in cui, da lì in poi, anche la parola antisemita sembra per l’appunto aver acquisito una diversa valenza. Alcuni commentatori, non solo all’interno del
mondo ebraico, ritengono infatti che in questa mutata situazione sussistano
elementi sufficienti per poter parlare di un “nuovo antisemitismo”.
Per meglio
capire la sussistenza di questa opinione è quindi necessario recuperare ed
analizzare nel merito gli elementi di novità che possano spiegare il termine di
“nuovo”. Un primo spunto di riflessione
è offerto dall’interessante rapporto “Studenti universitari, ebrei e Israele prima e dopo il 07/10/2023” pubblicato dall’Istituto Cattaneo di Bologna immediatamente dopo
tale tragedia e nel pieno dei bombardamenti su Gaza
Si
tratta di un rapporto che riassume le risultanze di una indagine/sondaggio che
ha coinvolto più di 2.500 studenti fra i 19 e i 21 anni iscritti a tre grandi
atenei italiani, suddivisi in base alla loro dichiarata collocazione politica,
ai quali è stato chiesto se ritenevano di condividere tredici affermazioni, suddivise
in tre blocchi, alcune delle quali contenenti i presupposti su cui si basa
l’antisemitismo classico (ad es. gli
ebrei hanno il controllo dei mezzi di comunicazione nel mondo - padroneggiano
la finanza mondiale - non sono italiani fino in fondo - sono un gruppo separato
nella società - di loro non ci si può fidare - hanno un potere politico globale
spropositato - parlano troppo delle loro tragedie e trascurano quelle degli
altri) integrate da altre, relative alla valutazione degli avvenimenti in corso
dopo la data del 07/10/2023, fra le
quali “gli ebrei si approfittano dell’Olocausto per giustificare le politiche
dello Stato di Israele” ed ancora “ Il governo israeliano si comporta con i palestinesi come i nazisti si
comportavano con gli ebrei”
Il Rapporto (che ha raccolto un
diffuso interesse) ha evidenziato che è
emersa una
netta correlazione tra la collocazione a destra e gli elementi che hanno
costituito l’arsenale dell’antisemitismo classico., rispetto ai quali gli studenti di sinistra/centro-sinistra mantengono
invece un evidente distacco, al contrario però se si passa alle domande
relative all’attuale situazione in Gaza (con un enunciato che ha però per soggetto il governo israeliano e
non gli ebrei in quanto tali) la situazione si rovescia: a grande maggioranza (60%) sono gli studenti di
sinistra a dichiararsi d’accordo, un dato che
supera quello pur rilevante del 47% degli studenti di destra.
Per quanto
possa valere un sondaggio, il cui esito sembra comunque in linea con le
adesioni alle tante e partecipate manifestazioni di protesta (non di rado purtroppo
segnate da episodi violenti), appare
innegabile che tra i giovani di sinistra l’attuale governo israeliano (più o meno
consapevolmente assimilato tout court al sionismo) è decisamente inviso, al limite della condanna di comportamento
nazista. La domanda che però si pone è se è legittimo ritenere che questa
sentita e diffusa condanna contenga in sé un antisemitismo “nuovo” rispetto a
quello storicamente conosciuto (analoghe situazioni si sono presentate negli USA ed in altri
paesi europei, in questo novero non è però corretto inserire la Francia nella
quale il “nuovo antisemitismo” è immediatamente collegabile con la difficile
integrazione di giovani mussulmani francesi di terza e quarta generazione).
Lo snodo
attorno al quale si deve capire se davvero questo contesto stia delineando una nuova
figura di antisemita è quindi costituito dal rapporto tra
opposizione radicale al governo israeliano, antisionismo e antisemitismo, e più in particolare se nella prima siano rintracciabili
evidenze di un consolidato antisionismo e se questa identificazione abbia a sua
volta innescato l’equazione “antisionismo=antisemitismo”. Si è peraltro di fronte ad una ipotetica
duplice concatenazione che il dramma di Gaza (e quello connesso della Cisgiordania) sta indubbiamente enfatizzando, ma che a ben vedere, con
oscillazioni più o meno accentuate, ha accompagnato l’intera vicenda storica dello Stato d’Israele, snodandosi in alcune tappe fondamentali che vale la pena ricostruire,
seppure sommariamente.
Per i primi
vent’anni della sua esistenza Israele ha ricevuto (fatte salve alcune contenute sacche di antisemitismo classico ed
una più diffusa solidarietà, a sinistra, per le ricadute sulla popolazione
arabo-palestinese) un diffuso sostegno da
parte della stragrande maggioranza degli Stati e dell’opinione pubblica
internazionale, un appoggio che inizia però ad incrinarsi già nel 1967 per la
decisione di Israele di annettere i territori conquistati nella vittoriosa
Guerra dei Sei Giorni. La successiva guerra dello Yom Kippur del 1973 contro
Siria ed Egitto vinta soprattutto grazie al decisivo aiuto sul campo degli USA
accentua una crescente ostilità verso Israele vista da molti come uno Stato satellite
americano (sono gli anni
in cui l’opposizione palestinese si consolida attorno all’OLP di Yasser Arafat,
figura carismatica capace di coagulare nell’intero Occidente le più diffuse
critiche anti Israele in movimenti e partiti di sinistra).
Ed è questo il
quadro politico globale che nel 1975 (su iniziativa dell’URSS con il coinvolgimento degli Stati non
allineati) vede l’Assemblea dell’ONU votare la
risoluzione 3379 nella quale drasticamente si afferma che “il Sionismo è una
forma di razzismo e di discriminazione razziale” (nasce qui la mai sopita diatriba fra ONU ed Israele che si è quanto mai
accentuata proprio con la guerra di Gaza).
Per quanto poi
cancellata nel 1991 (con solo il voto contrario di 25 Stati Arabi) questa risoluzione, al di là della sua opinabile sostenibilità (va infatti collocata
nelle logiche della contrapposizione in due blocchi, al tempo ancora fortemente
presente), ha rappresentato una innegabile svolta
nel mondo ebraico: per la prima volta veniva con diffusa preoccupazione
percepito che l’ostilità verso Israele potesse tradursi una più ampia animosità
anti ebraica, che taluni già definivano “nuovo antisemitismo”, preponderante perché
declinata su un piano diverso dal classico antiebraismo di destra.
Negli anni
Ottanta diversi significativi avvenimenti (fra gli altri lo spostamento a destra dei governi israeliani,
attentati terroristici in Israele, il massacro di Sabra e Shatila, la prima
Intifada del 1987) accentuano l’opposizione
verso Israele e le sue politiche e conseguentemente accrescono tali
preoccupazioni tanto da imporre la scelta di dare vita ad appositi gruppi di raccolta
dati e di studio espressamente dedicati a capire se sia davvero possibile parlare
di nuovo antisemitismo e da quali elementi esso sia composto. E’ una scelta che
produrrà nel primo decennio del nuovo secolo, specifici orientamenti fondamentali
per comprendere il presente della tematica antisemita.
A
tali risultati si perviene dopo l’illusoria parentesi di relativa tranquillità
dei primi anni Novanta segnata dall’abrogazione della risoluzione 3379 nel 1991,
da rinnovate trattative israeliano-palestinesi che culminano con gli Accordi di
Oslo del 1993 (è un cambio di registro politico e culturale con una nuova forte
attenzione verso l’Olocausto, è il decennio di “Schindler’s List”, “La vita è
bella”, partono le discussioni preliminari che porteranno nel 2005
all’istituzione del “Giorno della Memoria”). E’ purtroppo una brevissima
parentesi, i contrasti rimasti per breve tempo sotterranei riesplodono
apertamente (gli insediamenti israeliani tornano ad espandersi, avvengono massacri
terroristici da ambedue le parti, nel 1995 l’ex primo Ministro Rabin viene
assassinato da un giovane estremista israeliano contrario agli accordi di pace,
sul piano politico si registra nel 1996 la prima elezione di Netanyahu, nuovo
leader della destra israeliana)
Le tensioni accumulate nel corso degli anni Novanta bene spiegano l’accelerazione delle riflessioni che in ambito ebraico portano ad alcuni orientamenti che danno consistenza alla convinzione dell’emergere di una nuova forma di antisemitismo che ha al suo centro una figura capace di sintetizzarlo e di spiegarlo: quella dell’ “Ebreo Collettivo”, vale a dire la constatazione che quell’antisemitismo classico che ovunque nel mondo negava diritti ad ogni singolo ebreo ed alle sue sparse comunità si è ora trasformato, nelle forme dell’antisionismo esasperato, nella negazione del diritto di esistere dello Stato di Israele….. Oggi Israele è “l’Ebreo Collettivo tra le nazioni”.
A supporto di
questa concezione, giustificata dalla crescita esponenziale di una
intransigente opposizione ad Israele, tale da lasciar presuppore, dal punto di
vista ebraico, una sua aprioristica condanna in quanto Stato degli Ebrei, tali
elaborazioni, che presto escono dal campo degli studi per tradursi in precisi
orientamenti politici ed istituzionali, sintetizzano una sorta di decalogo che
minuziosamente descrive i tratti comportamentali caratteristici del nuovo antisemita.
i
gruppi di lavoro chiamati a definire i tratti costitutivi del nuovo antisemita hanno elaborato una sua articolata
definizione, denominata Working Definition of Antisemitism, che viene licenziata in una prima stesura informale
nel 2005 per essere poi ripresa e approvata formalmente nel 2016 dall’
International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), un forum internazionale a
cui aderiscono 34 paesi (Italia compresa) e che ha come partner l’ONU, l’UNECO,
la UE con il Consiglio d’Europa.
Appare però
evidente, agli stessi estensori della definizione, che si è di fronte ad una tematica
quanto mai complessa difficilmente riconducibile a semplificazioni riduttive come
quella di far rientrare in un unico concetto affermazioni e comportamenti fra
di loro differenti per contesto, motivazioni e finalità, e che quindi sia azzardato
sostenere che l’antisionismo, a sua volta differenziato in una variegata gamma di posizioni,
sia un atteggiamento sempre e ovunque uniforme. Parrebbe quindi logico essere
cauti nel sostenere una automatica equazione “antisionismo = antisemitismo”, nel ritenere
che tutte le diverse declinazioni, più o meno accentuate, di sionismo, siano tutte riconducibili ad una consapevole espressione di antisemitismo.
Questi
oggettivi ostacoli logici vengono tuttavia superati accentuando
il ruolo della centralità assegnata alla figura dell’Ebreo Collettivo, al suo
rappresentare, al di là delle contingenti politiche israeliane, l’intero
ebraismo, i suoi valori, il sospirato culmine della sua lunga e tormentata
storia. Chi si pone contro lo Stato di Israele, con qualunque intensità e
finalità, non può che essere percepito, a prescindere, come una minaccia
aggressiva verso l’Ebreo Collettivo, verso l’ebraismo intero. Questa granitica considerazione
ha di fatto ispirato la Working Definition of Antisemitism che, già nella sua
prima versione, è stata tradotta in specifici tratti e comportamenti. E’ antisemita colui (o coloro) che:
1. accusa cittadini ebrei di essere più leali a Israele che alla
nazione in cui vivono
2. nega a Israele il diritto di esistere
3. valuta le politiche di Israele con molto più rigore di quello
usato per altri Stati
4. usa simboli e immagini dell’antisemitismo classico per
caratterizzare Israele e gli israeliani
5. paragona le politiche israeliane verso i palestinesi a quelle del
nazismo verso gli ebrei
6. considera indistintamente tutti gli ebrei responsabili delle
azioni dello Stato d’Israele
Non è chiaro
nella formulazione usata se la sostenibilità di una accusa di antisemitismo
possa valere anche solo se basata su un singolo tratto o su una più articolata
combinazione, sembra però evidente che, se su alcuni punti (2 – 4 - 6) può
sussistere una certa unanime convergenza, su altri il giudizio appare più
opinabile: è antisemita, sempre e comunque, chi imputa agli ebrei
del proprio paese di preoccuparsi più del destino di Israele che di quello
abitato? chi, guardando alle
modalità della sua nascita, pretende da Israele un più alto livello di eticità? Ma il punto che si è concretamente rivelato il più controverso è
ovviamente il paragone tra sionismo e nazismo, se è infatti certo che l’equiparazione
tra la stella di David e le svastiche è fatta, nella migliore delle ipotesi,
per ferire nel profondo l’intero mondo ebraico, è altrettanto vero che l’accusa
di nazismo ha un uso esteso e ricorrente, rientra cioè, pur non essendo sempre così
giustificata, nel truce armamentario di esasperate polemiche politiche, e
quindi davvero chi la utilizza esprime, senza dubbio alcuno, un atteggiamento di odio nei
confronti degli ebrei in quanto Ebrei, seppure nella forma dell’Ebreo Collettivo?
A
margine di queste considerazioni Valentina Pisanty inserisce una constatazione di
ordine semantico che aiuta a comprendere l’oggettiva difficoltà di classificare
in schemi precostituiti dichiarazioni e comportamenti, specie se fra loro molto
differenziati. Precisa infatti che ogni definizione è un atto linguistico complesso che non si esaurisce nella
descrizione/spiegazione ma che si completa nel suo inserirsi all’interno di un
quadro concettuale (filosofico, politico, fattuale, ma anche strettamente giuridico) che cataloga l’azione.
Ma a chi, e con quali modalità, può spettare l’autorità di valutare in quale
quadro concettuale un determinato fatto o dichiarazione deve essere collocato?
E questo quadro concettuale a sua volta di quale elementi realmente oggettivi può
essere costituito? (ad esempio la stessa equiparazione antisemitismo = odio
verso gli ebrei può sembrare ad un primo esame ovvia, ma non è sempre così
esatta: si può non provare vero odio ed al tempo stesso, per inerzia culturale
o per inconsapevole emulazione, utilizzare tutti i luoghi comuni alla base del
vero odio antisemitico)
Per quanto siano
state, fin da subito, forti e diffuse le perplessità e obiezioni (non a caso fatte proprie anche
da numerosi ed importanti esponenti del mondo culturale ebraico) l’elaborazione concettuale del nuovo antisemitismo è però presto
assurta a metro di giudizio di tutte le manifestazioni critiche verso le
politiche israeliane. Per molteplici ragioni che si sono via via sovrapposte (che vanno dal senso di
colpa tedesco, su cui si tornerà in seguito, che non poco ha influito
sull’atteggiamento dell’intera UE, dalle deliberate finalità israeliane di dare
giustificazione e aprioristico consenso alle proprie politiche, all’ostinato e
irrazionale pregiudizio antiebraico di parte del mondo mussulmano troppo spesso
sfociato in violente aggressioni, all’emergere occasionale ma costante di
autentiche manifestazioni antisemite), si è
innescato, ed in molti casi scientemente indirizzato, un consolidamento attorno
ad essa, soprattutto in Occidente, che si è tradotto nella sua sottoscrizione e
nella sua progressiva rigorosa applicazione troppo spesso sconfinata, con il
recente crescere delle tensioni nell’area israeliana - palestinese, in autentiche forzature repressive.
Nel corso degli
ultimi anni infatti, proprio con riferimento
al suo collegato decalogo, sono state, nell’intero Occidente, aprioristicamente
condannate come antisemite, prese di posizione ed iniziative pro-palestinesi
indipendentemente dalla loro virulenza e provenienza. In molte occasioni, con una inevitabile
accelerazione dopo il tragico 07 Ottobre 2023, il concetto di nuovo
antisemitismo messo a punto nella Working Definition of Antisemitism è stato
utilizzato (non solo da
parte di Israele e delle varie comunità ebraiche) per negare legittimità e spazio di espressione a tesi e collegate
iniziative anche solo minimamente non allineate alle politiche israeliane dello
Stato di Israele. Si è così venuto a determinare, al culmine di un sotterraneo
processo di allineamento, un clima culturale e politico in cui la parola antisemita ha in effetti perso un suo
specifico valore analitico-denotativo per trasformarsi in una sorta di anatema
da usare ogniqualvolta qualcuno osi manifestare critiche verso lo Stato di Israele e le sue
politiche.
L’elenco
delle iniziative messe in atto, sulla base della Working Definition of
Antisemitism, per soffocare, screditare e contrastare, prese di posizione
critiche nei confronti delle politiche israeliane, soprattutto quelle verso la
popolazione palestinese, raccolto da Valentina Pisanty è molto lungo ed
articolato, il quadro che ne emerge, difficilmente contestabile, è davvero
preoccupante. La più indicativa, da un certo punto di vista, è rappresentata
dall’ostilità non meno intransigente ed accesa verso le numerose personalità
israeliane ed ebree che hanno, dall’interno, mosso critiche pesanti verso tale
deriva fino a presentare ufficialmente, nel 2021, due documenti (“Nexus document” e la
“Jerusalem Declaration on Antisemitism”, ambedue consultabili in Rete) per ristabilire un più condivisibile confine
tra antisionismo e antisemitismo. Fra i proponenti spicca il nome di Kenneth S. Stern coordinatore
del lavoro di predisposizione della prima versione (2005) della Working
Definition of Antisemitism, decisamente contrario all’uso improprio messo in
atto successivamente. L’elenco dei firmatari dei due documenti include la
maggior parte degli accademici ebrei che si sono distinti nello studio
dell’antisemitismo, fra gli altri segnaliamo i nomi di Carlo Ginzburg, storico
italiano, di Michael Walzer, famoso filosofo statunitense, e di Abraham
Yeoshuha, scrittore israeliano tradotto in tutto il mondo. Nell’elenco sono
inoltre richiamati molti casi di boicottaggio di iniziative pubbliche
pro-palestinesi, in Europa e negli Usa, di pressione sui governi di tutto il
mondo per ripulire programmi di studio accademici sulla questione palestinese
(così come fatto nel 2019 da Donald Trump firmando un decreto che tagliava
fondi federali alle università che li prevedevano), di pubblicazione di
comunicati stampa ed articoli che attaccavano personalità della cultura e della
società che avevano assunto posizioni di critica anti Israele, e per finire di
interventi diretti sui governi per accelerare l’adozione formale della Working
Definition of Antisemitism (non di rado ricorrendo ad ulteriori forzature, ad
esempio trasformando i “possono includere” in “includono”). Tutte queste
iniziative sono state assunte in prima persona dai Governi Israeliani e da
numerose istituzioni ebree presenti ed attive nei vari paesi occidentali. In campo più strettamente politico va
segnalata l’esemplare vicenda della guerra aperta dichiarata al leader
laburista Jeremy Corbyn, oggetto di una campagna diffamatoria perché giudicato
colpevole di un aperto supporto alla causa palestinese
Il caso più
rilevante del formarsi di un atteggiamento di supina accettazione della
distorta relazione fra critiche ad Israele, antisionismo e antisemitismo, è
però quello della Germania. Qui le politiche messe in atto per i presunti casi di antisemitismo hanno
assunto i tratti di una autentica religione di Stato. Ciò è avvenuto al culmine di un lungo processo di
metabolizzazione critica, iniziato già negli anni Cinquanta con le modalità di
un vero e proprio esame di coscienza collettivo, della responsabilità tedesca
dell’Olocausto. Una sincera riflessione ispirata da un fine quanto mai nobile (si tenga conto che in
Germania, in questi stessi anni, si sono dovuti fare più volte i conti con
strumentali tentativi di revisionismo storico, il più conosciuto è quello di
Ernst Nolte, che miravano a negare o a fortemente ridimensionare lo stesso Olocausto) che ha portato ad assumere come “ragione di Stato” la responsabilità storica della Germania (dichiarata ufficialmente nel 2008 dall’allora cancelliere Angela
Merkel). Una presa di posizione coraggiosa ed
impegnativa, ma che ha inevitabilmente prodotto una evidente ritrosia ed un
pesante preconcetto verso posizioni non allineate, tali da pregiudicare una
serena ed obiettiva valutazione delle vicende che vedevano protagonista lo
Stato di Israele. E’ una situazione che attesta come una declinazione
monolitica di un concetto quanto mai articolato come quello di antisemita, se assurta ad una sorta
di articolo di fede, diventi di fatto verità indiscutibile, ingiudicabile. Oggi in Germania è
autenticamente impossibile esprimere opinioni pubbliche, e tanto meno
organizzare iniziative ad esse coerenti, che anche lontanamente siano in
sentore di antisionismo, non c’è quindi spazio alcuno per criticare Israele e
per sostenere le vittime delle sue politiche (con il paradosso che il
partito di estrema destra AFD Alternative fur Deutschland, di chiara
ispirazione nazista, usa proprio il loro presunto antisionismo per
criminalizzare gli immigrati mussulmani).
Conclusioni
Appare evidente,
al termine di questo percorso, che antisemita è una parola che ha conosciuto in tempi recenti una profonda trasformazione
dettata (e per certi
versi persino imposta) dall’ingombrante
affacciarsi sulla scena culturale, politica, antropologica del concetto di “Ebreo Collettivo” (alias lo Stato di Israele) e della
collegata equazione “antisionismo-antisemitismo”, fino a
divenire davvero una “parola in ostaggio”.
Come si è visto
questo intreccio ha inevitabilmente innescato pericolose confusioni concettuali
oggettivamente manipolate per creare attorno allo Stato di Israele una sorta di
scudo dalle critiche alle sue politiche quanto meno controverse per quanto
concerne la questione palestinese.
Non solo: sembra
sempre più emergere una seconda conseguenza negativa legata all’evoluzione
concettuale di antisemita: a forza di ribadire che antisionismo e antisemitismo
sono la stessa cosa si è fatto forte il rischio che quest’ultimo perda parte
del suo più complesso significato e quindi che, sempre più sfumando nella sola
versione dell’antisionismo, si perda di vista il peso del bagaglio classico di
luoghi comuni e di autentiche manifestazioni di odio che lo definiva (non a caso la parola “ebreo” è ritornata ad essere un epiteto usato senza una sua minima
consapevolezza). Dovrebbe essere motivo di
condivisa preoccupazione che per molti, soprattutto per i giovani (anche di sinistra come si
è visto in precedenza) che si sono affacciati
alla vita politica molti decenni dopo la tragedia della Shoah, l’equazione
antisionismo-antisemitismo possa evolvere in una sua accentuazione negativa. Che cioè qualcuno possa arrivare a
pensare e ad apertamente dire che se essere dalla parte dei palestinesi vuol dire essere
antisemita, ebbene sì, sono antisemita.
E’ quindi
sempre più urgente liberare la parola antisemita dall’essere ostaggio di un suo uso strumentale. Esserlo davvero è
puro pregiudizio razzista, occorre però, proprio perché questa constatazione
sia ancor più chiara, che sia slegata dal suo esasperato ancoraggio
all’antisionismo, che al contrario è una posizione politica per di più
declinabile in tanti modi.
Chiunque impieghi il termine antisemita
nel senso imposto dalla Working Definition of Antisemitism deve sapere in quale
catena di prepotenze, non solo linguistiche, viene di fatto collocato.