A proposito di
“opera d’arte”
Note a margine della lettura
di un saggio di Giorgio Agamben
N.B. = L’idea iniziale era di
pubblicare un commento in calce alla sintesi del seminario sul movimento
Bauhaus, ma la lettura del saggio di Agamben ha talmente arricchito le scarne
impressioni personali originali da rendere le dimensioni di queste note
incompatibili con lo spazio di un commento. Preciso che le parti in corsivo blu sono estratti testuali dal testo di Agamben
Nel corso dell’ottima relazione tenuta da
Valter Alovisio sulla esperienza artistica del movimento Bauhaus, e del
successivo dibattito, è stato giustamente richiamato il saggio di Walter
Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica”. Un saggio
che a molti decenni dalla sua pubblicazione ancora mantiene la capacità di
offrire una importante chiave di lettura sul concetto di “opera d’arte” così
come è radicalmente evoluto nella nostra epoca.
E’ con evidente richiamo all’opera di Benjamin
che Giorgio Agamben (A) ha intitolato
il suo ultimo, breve ma come sempre molto denso, saggio “Creazione ed anarchia – l’opera nell’età
della religione capitalistica”.
A differenza di Benjamin A. pur
partendo dallo specifico dell’ “opera d’arte” - il primo capitolo del saggio è infatti
intitolato “Archeologia
dell’opera d’arte” - allarga la
sua riflessione, va da sé prettamente di ordine filosofico, al più generale
concetto di “opera” (umana).
Ne presento qui una sintesi limitata però sulle
sue riflessioni attorno al concetto di “opera d’arte” per dare seguito agli
stimoli di approfondimento sicuramente sorti nei presenti al seminario “Tutto
in una sola forma” in particolare proprio
sulla diffusa (?) difficoltà, sicuramente mia, nel realizzare cosa oggi si
possa e si debba intendere per “opera d’arte”.
Si è detto del titolo del primo capitolo “Archeologia
dell’opera d’arte”; colpisce l’uso del termine “archeologia”, ma la
spiegazione viene fornita già nelle primissime righe ……..l’idea che guida queste mie riflessioni sul
concetto di opera d’arte è che l’archeologia è la sola via di accesso al
presente…….
Rafforzano questa considerazione la ripresa
di una affermazione di Michel Foucault: l’indagine sul passato non è che l’ombra portata di una
interrogazione rivolta al presente (in fondo è, molto
immodestamente, la ragione che ha fatto intitolare l’attuale programma di
Circolarmente “memoria ed emergenze”!) ed il richiamo che A, fa all’Europa dei nostri giorni….l’uomo europeo
può accedere alla sua verità solo attraverso un confronto con il suo passato,
solo facendo i conti con la sua storia……
Poco più avanti rafforza questo richiamo
portandolo proprio nell’ambito artistico…..e se l’arte è diventata oggi per noi una figura, forse LA
figura, eminente di questo passato allora la domanda è: qual è il luogo
dell’arte nel presente?......
Lo stile di A. è basato sull’uso sapiente del
porre domande, del seminare dubbi, introdotti con lucida logica ad crescendum
per costruire le proprie tesi. Non a caso quindi arriva un interrogarsi sul
senso stesso della denominazione di “opera d’arte”……persino da un punto di vista grammaticale
il sintagma “opera d’arte” non è facile da intendere, perché non è affatto
chiaro se si tratta di un genitivo soggettivo (l’opera è fatta dall’arte e ad
essa appartiene) o oggettivo ( l’arte dipende dall’opera e riceve da essa il
suo senso)……
Domanda più che legittima specie in
un’epoca, come quella attuale, che ha visto l’opera d’arte spostarsi dalle
forme nelle quali era tradizionalmente considerata nei territori della
“performance”, dell’attività concettuale, al punto che sempre più spesso appare
possibile sostenere che….oggi l’arte si presenta come una attività senza opera……
Secondo A. questa trasformazione si è potuta realizzare
(in aggiunta ai meccanismi ed alle logiche evidenziate da Benjamin nel suo
saggio) proprio perché non è mai stato affrontato, e quindi sciolto, il nodo di
cosa si debba, in ultima essenza, intendere con “opera d’arte”.
In questo senso A. propone un percorso storico
dell’evoluzione di questo concetto articolato su tre passaggi a suo avviso
determinanti.
Il primo si colloca nella Grecia del V
secolo a.C.. al tempo di Aristotele.
Siamo in un’epoca nella quale l’artista
viene considerato, alla stregua di un qualsiasi artigiano, ……fra coloro che
praticando una tecnica producono cose…..
Aristotele, riflettendo proprio
sull’attività del produrre, pone le basi per la prima interpretazione del
sintagma “opera d’arte”.
L’attività di “produzione” è per Aristotele
di norma costituita dall’insieme di due componenti che in essa si unificano: il
momento in sè della produzione (l’atto del produrre) e il prodotto finale (l’’opera prodotta)….. in tutti i casi
in cui viene prodotto qualcosa altro oltre all’uso (l’atto del
produrre) l’energeia
(termine aristotelico che indica qualcosa che è in opera, in
attività, ossia l’atto, e che raggiunge il suo fine proprio, la finalità per
cui si è messa in moto, ossia il risultato dell’atto) risiede nella cosa fatta, come l’atto del
costruire è nella casa costruita, e quello del tessere nel tessuto …….
Solo nelle attività che non producono opere,
quali il vedere, l’udire, il meditare, l’intera essenza della produzione resta in capo al soggetto che la sta
compiendo…..quando
non vi è opera allora l’energeia, l’essere in opera, risiederà nei soggetti (che la compiono) come ad esempio
la visione nel vedente……
Tornando allo specifico della produzione
artistica non sorprende quindi sapere che, anche sulla base di queste
interpretazioni aristoteliche, per i Greci …….l’attività produttiva (artistica) non risiede nell’artista ma nell’opera e comprendiamo
quindi perché i Greci non tenessero in molta stima l’artista (considerato come si è detto alla stregua di
qualsiasi artigiano)…………ciò non significa ovviamente che essi non vedessero la
differenza fra un calzolaio e Fidia ma, ai loro occhi, entrambi avevano il loro
fine fuori di sé stessi, nella scarpa il primo nelle statue del Partenone il
secondo….
L’artista non poteva di conseguenza vantare
la perfezione di coloro, quali ad esempio i pensatori, i filosofi, che, contrariamente al suo realizzarsi
nell’opera, possedevano in sé stessi, incorporavano in sé stessi, il proprio
fine…..l’energeia
perfetta è senza opera e ha il suo luogo in chi la pone in atto…..Non
a caso erano considerata superiori le attività artistiche senza opera, quali la
danza, la musica, la rappresentazione teatrale, rispetto a quelle che sfociano
in un’opera (ovviamente da intendersi come “manufatto”), come la pittura e la
scultura
Appare però evidente che la concezione di
consegnare l’essenza della “produzione” all’agente, incorporandola cioè
nell’autore dell’atto e slegandola dal risultato dell’agire, dall’opera
realizzata, implica l’insorgere di una possibile contraddizione, peraltro intuita
dallo stesso Aristotele.
Se, come si è visto l’artigiano e l’artista,
produttori di manufatti, stanno, come conseguenza di questa concezione, un
gradino al di sotto di quelle figure di agenti, musicisti e pensatori, che
trattengono in sé stessi l’essenza della energeia, si chiede Aristotele,……esiste qualcosa
che definisca (l’energeia) dell’uomo come tale…oppure l’uomo come tale è privo di energeia….?
Aristotele lascia però cadere questa domanda ovvero fornisce una risposta…..l’opera
dell’uomo (in quanto tale) è l’energeia
dell’anima secondo il logos……che riporta in capo ad una “attività
senza opera” la possibile via d’uscita, di fatto non sciogliendo l’aporia, la
contraddizione.
Appare infatti evidente che il calzolaio, e
l’artista, sarebbero condannati in questo modo a vivere una sorta di
scissione…….perchè
vi sarebbero in lui due opere diverse una, interiore, che compie in quanto uomo
e un’altra, esteriore, che gli compete in quanto produttore…..
(N.B.
= le idee aristoteliche sul rapporto fra artista ed opera, al di là dellae loro
condivisione o critica, forniscono vari e notevoli spunti di riflessione: Per
restare nello specifico della produzione artistica, in particolare quella di
manufatti artistici ancora attuata in forme più o meno tradizionali, si possono
utilizzare per comprendere il rapporto, soggettivamente intimo, fra artista ed
opera? Il suo separarsene da essa dopo la produzione? E quindi, in ultima
istanza, il senso dello stesso mercato dell’arte? E cioè la produzione
artistica finalizzata al e regolata dal gioco di domanda ed offerta? E qui
scatterebbe immediato il collegamento con il saggio di Benjamin sulle
trasformazioni indotte dalla “riproducibilità tecnica” dell’opera d’arte. Ma in
senso molto più ampio, operazione che per molti versi compie lo stesso Agamben
negli altri capitoli del saggio, possiamo utilizzarle per analizzare il senso
dell’intera produzione di opere? Delle logiche sottostanti l’atto del creare?
Ed ancora, entrando nello specifico della produzione capitalistica, in che
rapporto potremmo immaginarle con i concetti marxiani del lavoro alienato?
Dell’espropriazione dei mezzi di produzione e del prodotto finale del lavoro?
Ovviamente impossibile affrontare, anche solo marginalmente, temi così
complessi qui nello spazio di un semplice post già sovraccarico del suo)
La concezione aristotelica dell’opera
d’arte, per quanto opinabile, mantiene a lungo una sua egemonia, certamente per
tutta l’epoca classica.
L’irruzione rivoluzionaria del Dio
cristiano, del legame fra l’unico Dio e l’uomo sua creatura, pongono lentamente
le basi per una svolta radicale, fino al suo completo affermarsi nel tardo
Medioevo e nel Rinascimento: l’artista vale in quanto tale, finalmente si
prende il centro della scena……nella teologia medioevale si fa strada la concezione
secondo cui l’arte non risiede nell’opera ma nella mente dell’artista, e più
precisamente nell’idea guardando la quale egli realizza la sua opera….
La forza di questa concezione, che pare
capovolgere l’idea di opera d’arte, sta nel suo stretto parallelo con la stessa
creazione divina. San Tommaso lo spiega ricorrendo a questo esempio ……..come la casa
preesiste in forma di idea nella mente dell’architetto così Dio ha creato il
mondo secondo l’idea che stava nella sua mente…..
Immediato scatta il collegamento con il
ruolo che l’architettura ha avuto nell’esperienza Bauhaus!
Ma,ben al di là di questa considerazione a
margine, la raggiunta indipendenza dell’artista
dalla sua opera, il superamento della concezione aristotelica, hanno un prezzo,
una ricaduta non meno vincolante.
L’avvenuta separazione fra artista ed opera,
con l’energeia che risiede compiutamente nella sua mente, rende paradossalmente
l’opera una conseguenza accidentale della sua arte, una semplice testimonianza,
per quanto ammirevole ed ammirata, del suo genio creativo ……mentre in Grecia
l’artista è un residuo imbarazzante dell’opera nella modernità è l’opera che
diventa un residuo imbarazzante dell’attività creativa……
Ma qual è allora il significato di opera
d’arte che risulta dalla sua prima interpretazione presa in esame? cosa resta
al termine di questo percorso iniziato con Aristotele e concluso da San
Tommaso? Secondo A. questa concezione, che ha improntato l’idea di opera d’arte
dall’antichità fino agli inizi del Novecento, e che continua a persistere nelle
forme tradizionale di produzione artistica, ci consegna un’idea di opera d’arte
nella quale, indipendentemente dall’inversione dei fattori, il connubio fra
artista, operazione di produzione artistica, opera prodotta resta
indissolubile, non smembrabile; l’opera d’arte diventa cioè un unico insieme
nel quale….non
è possibile svincolare uno dei tre elementi che la compongono senza rompere
irrevocabilmente (l’insieme)
Il secondo passaggio si realizza nella
Germania degli anni Venti (quelli del Bauhaus e di Benjamin).
Nel 1923 un oscuro monaco pubblica un’opera,
“La liturgia come festa misterica”, destinata a creare il cosiddetto “movimento
liturgico”.
La prima parte del Novecento è stata non a
caso definita “l’età dei movimenti”. Ad esempio così si autodefiniscono, o sono
stati definiti, il movimento fascista e quello nazista, il movimento operaio,
quello socialista, sindacale, piuttosto che quello psicoanalitico (definito
tale da Feud in persona). Lo è anche in campo artistico, come abbiamo visto,
c’è il movimento Bauhaus, e “movimento” sono tutte le correnti che si agitano
sulla scena.
Il movimento liturgico si muove in ambito strettamente
religioso, ecclesiastico, ma ha un provato rapporto con molte avanguardie
artistiche. Esso si propone di recuperare l’intima spiritualità del primo
cristianesimo alleggerendolo del peso delle costruzioni dogmatiche e
permeandolo del coinvolgimento vitale che avevano i “misteri” antichi, quali
quelli eleusini che si celebravano nell’antica Grecia.
Ad esempio secondo Casel, così come scrive
nella sua opera, il sacrificio eucaristico nella messa ha il suo significato
non nella commemorazione della morte di Cristo ma nel fatto stesso di
rappresentarla, di riviverla………per questo l’azione liturgica agisce per il fatto stesso
di essere compiuta in quel momento e in quel luogo indipendentemente dalle
qualità morali del celebrante…..
Esiste una connessione fra questa concezione
“misterica” e le avanguardie artistiche che in quegli stessi anni Venti stanno per
stravolgere il concetto di “opera d’arte”? Secondo A. questo
legame esiste e non solo per le conoscenza e la vicinanza di alcuni artisti
verso di esso.
Lo era già in nuce qualche decennio prima
nella scelta stessa del nome che alcuni movimenti si sono dati, scegliendo per
l’appunto nomi alquanto vaghi quali “simbolismo”, “ estetismo”, “
decadentismo”.
Ma nel momento storico in cui, Benjamin
docet, la produzione artistica assume i caratteri di “serialità”, di
riproducibilità tecnica, si afferma una sorta di reazione che porta artisti
(non solo pittori e scultori, ma anche poeti, A, cita ad es. Mallarmè) a vedere la
loro pratica artistica……come la celebrazione di una liturgia…in quanto comporta
una dimensione in cui sembra essere in questione la salvezza spirituale
dell’artista….in .quanto (rappresenta) una dimensione performativa in cui
l’attività creativa assume la forma di un vero e proprio rituale…..
Così come per il movimento liturgico la
liturgia vale per sé stessa in quanto rappresentazione del movimento salvifico
del cristianesimo così l’azione dell’artista, e conseguentemente il concetto di
opera d’arte, inizia ad assumere i caratteri di una liturgia che coincide con
la propria celebrazione.
Ancora una volta A. fa
comparire in scena Aristotele, il quale aveva distinto il fare, che mira alla
produzione, all’opera, dal fare che ha in sè stesso il suo fine (la praxi); fra
questi due idee del fare, il movimento liturgico e le avanguardie che puntano
alla performance ….insinuano un ibrido terzo in cui l’azione
stessa (il fare stesso) pretende di
presentarsi come opera…..
Il terzo momento si presenta non in ordine
cronologico, ma come sviluppo logico: occorre infatti tornare alla New York del 1916.
E’ qui, ed in questo anno, che Marcel
Duchamp inventa il ready-made (presto-fatto).
……cosa fa Duchamp per far esplodere la macchina
opera-artista-operazione?......ossia quella idea di opera d’arte che
a suo avviso stava bloccando la stessa creazione artistica? Quella…..macchina
artistica che (stava per
raggiungere) nella
liturgia delle avanguardie la sua massa critica (il suo limite
esplosivo)…..?
Conosciamo l’operazione compiuta da Duchamp:
prendere un qualsiasi oggetto, una qualsiasi opera, della quotidianità (il
famoso orinatoio) e attribuirgli, esponendolo in un museo, il rango di “opera
d’arte”.
Come legge A., attraverso
i suoi filtri filosofici, questa operazione di ulteriore, definitiva,
ridefinizione del concetto di “opera d’arte”?
…..Duchamp non
agisce come artista, ma come filosofo, come
(così si autodefiniva) uno che respira…..l’opera d’arte così
reinterpretata non sta più né nell’opera, né nell’artista, nel nell’atto di
realizzarla, ma soltanto nella sua istituzionalizzazione, nel collocarla in un
luogo che del suo le conferisce un tale rango, l’’opera d’arte è quindi un
luogo…..il
museo che acquista a questo punto un rango ed un valore decisivi…..
Era inevitabile che questa radicale
trasformazione si prestasse, per le sue stesse caratteristiche, a
stravolgimenti di scarso valore, tanto consapevoli dei fini mercantilistici di
guadagno, quanto inconsapevoli del significato vero dell’operazione. Per
realizzare, in un modo piacevolmente ironico e divertente, il senso di questa
definizione di “opera d’arte” si consiglia la visione del film “The square”,
recentemente uscito dopo aver meritatamente vinto la Palma d’Oro a Cannes.
Quale considerazione finale ci consegna a
chiusura Agamben?
Quella di…… abbandonare la macchina artistica al suo
destino…..e con essa l’idea che vi sia una suprema attività umana
(la produzione artistica) che tramite un soggetto (l’artista) si realizza in un’opera (l’opera d’arte) in una energeia
che traggono da essa un incomparabile valore……
In parole povere, quelle però di un
filosofo, l’arte, l’’opera d’arte, intesa come “atto straordinario”, di fatto
non esiste!!!!!
Spogliata della sua “aura” (concetto che
Benjamin abbina a quella tradizionale) l’opera
d’arte recupera forse una sua “umanità” più accessibile e più comprensibile.
Perlomeno per me.
Fagiano Giancarlo