Il “Saggio” del mese
SETTEMBRE 2019
L’ecosofia
(nostra
“parola del mese” di Agosto 2019), in
tutte le sue diverse declinazioni, ma soprattutto l’attuale concreta corsa che
rischia di diventare davvero inarrestabile verso il disastro ambientale, ci
invitano a riconsiderare il rapporto antropocentrico (nostra
“parola del mese” di Marzo 2018) con il pianeta Terra
e tutte le forme di vita che lo abitano. Una svolta che richiede scelte
concrete e coraggiose nell’immediato, ma che può essere preparata e il più
possibile condivisa non soltanto guardando al presente, ed ai suoi tantissimi
problemi, ma anche ripercorrendo il percorso che l’umanità ha sin qui fatto.
Uno sguardo rivolto ad un passato che, per essere coerente alle intenzioni e
fecondo nei risultati, non deve però avere come protagoniste soltanto le
vicende umane, anche se da queste è comunque impossibile prescindere, ma deve
saper conoscere, e capire, l’evoluzione di tutte le altre componenti del
pianeta Terra. Un interessante contributo in questo senso lo fornisce il saggio
di Hansjorg Kùster “Storia dei boschi”.
P.S. = A
sintesi del saggio completata sono arrivate le sconvolgenti immagini
dell’Amazzonia in fiamme per mano dell’uomo. L’umanità è ancora molto lontana
dall’aver compreso la lezione che la storia del nostro pianeta da tempo sta
impartendo. Continuiamo a correre verso l’autodistruzione. Il mondo vegetale, e
quello boschivo in particolare, sono sempre di più la nostra ultima speranza.
Questo saggio ci ricorda anche questo.
Hansjorg Kùster (1956, docente di geobotanica presso
l’Università Leibniz di Hannover, autore di numerosi saggi di ecologia
ambientale) ci
offre con questo suo recente volume l’opportunità di seguire l’affascinante
evoluzione, dalle origini ad oggi, di una delle componenti fondamentali
dell’ecosistema terrestre. Lo fa con un
racconto molto accurato sia dal punto di vista scientifico, vista la sua
specifica competenza in materia, sia come ricostruzione storica. La mole della
dettagliata esposizione ha reso impossibile una sintesi più accurata, Ci siamo
quindi limitati a ripercorrere il racconto di Kùster riassumendolo a grandi
linee. Ci siano pertanto perdonate eventuali eccessive semplificazioni.
1 - Dalle
origini alla fine delle grandi glaciazioni (preistoria)
Sul nostro pianeta Terra, che ha 4,5 miliardi di anni, le prime evidenze
incontrovertibili della presenza di forme di vita, vale dire semplicissimi
organismi unicellulari, risalgono a 2,7
miliardi di anni fa, ma è opinione condivisa che la vita terrestre abbia
avuto origine molto prima e che possa essere retrodatata a circa a 3,9 miliardi di anni fa. L’evoluzione a
forme di vita pluricellulari, via via sempre più complesse, è pertanto proceduta
con estrema lentezza per circa due
miliardi di anni a causa della grande instabilità geologica e di una
atmosfera, in piena formazione, ancora priva di significative quote di ossigeno.
Quasi tutti i primi organismi viventi con struttura cellulare complessa rientrano
certamente nel regno vegetale, ad essi va riconosciuto un merito straordinario:
quello di aver contribuito in modo decisivo alla successiva evoluzione della
vita sulla terra. Grazie alla loro caratteristica di vivere mediante il processo
di fotosintesi, con il quale consumano anidride carbonica e producono ossigeno,
essi hanno modificato la composizione della atmosfera terrestre arricchendola
di ossigeno e consentendo così la successiva comparsa delle forme di vita
animali, uomo compreso. Con le “piante”, in senso lato, abbiamo quindi un primo
formidabile debito, senza di loro tutti noi semplicemente non esisteremmo.
Queste prime forme già più complesse di vita vegetale, prevedibilmente comparse
circa 700 milioni di anni fa, necessitavano
di un apporto continuo e costante di acqua, erano quindi piante completamente
acquatiche, assimilabili tanto per intenderci ad alghe. Il loro passo verso la
terraferma è stato un processo altrettanto lento e tormentato, tant’è che le
prime evidenze di piante terrestri risalgono solamente a circa 400 milioni di anni fa. Si tratta di
piante ancora solo erbacee, ma che già contenevano alcune tracce di “lignina”
la sostanza che costituisce il legno di tronchi e rami, lo “scheletro” dei
futuri veri alberi, che crescevano in stretta prossimità con l’acqua, ad
esempio in zone paludose. Per quanto limitate a questi areali queste primissime
piante conoscono da subito una crescita molto rigogliosa che innesca, seppure sempre
con una progressione lenta e complicata, la base per la successiva evoluzione
verso forme vegetali non solo più erbacee. Questi primi antenati dei boschi terrestri
erano una sorta di fittissima giungla ancora quasi esclusivamente verde, non
esistevano tronchi, rami e neppure fiori, e quindi non molto sviluppata in
altezza. L’evolutivo gioco incrociato di acqua, luce solare, formazione di
terreni adatti, con l’affermarsi di alberi più robusti con foglie più grandi in
grado di assicurare una maggiore e migliore fotosintesi, e la dispersione
sempre più ampia delle spore, riesce a “creare” i primi veri boschi finalmente
costituiti dai primi veri alberi. E’ una evoluzione che si realizza in circa
ottanta milioni di anni, 320 milioni di
anni fa queste tipologie di bosco, del tutto differenti da quelli attuali
come composizione arborea, fanno così la loro comparsa per quanto ancora
limitata a determinati ambiti, quelli dove l’incrocio di tutti quegli elementi
costitutivi poteva meglio realizzarsi. Solo nel pieno del periodo carbonifero (circa
300 milioni di anni fa), si
realizzano condizioni geologiche e climatiche che consentono una vera e propria
colonizzazione vegetale di buona parte delle terre emerse. La conformazione
della Terra è però ancora completamente diversa da quella attuale, la deriva
dei continenti è molto lontana dal completare la formazione di quelli oggi
esistenti. Questi continenti primordiali erano soggetti a lenti ma sconvolgenti
processi di allontanamento e di riavvicinamento. Nella fase di allontanamento
lo sviluppo delle forme vegetali, quello consentito dalle condizioni
ambientali, procedeva in maggior misura per specifiche specializzazioni, la
seconda, quella di riavvicinamento, consentiva invece una maggiore promiscuità
di specie. Certo è che le foreste del Carbonifero, “produttrici” di buona parte
degli enormi giacimenti di carbone, erano davvero un tripudio vegetale, che
nella nostra fantasia “cinematografica” tendiamo ad associare ai grandi
dinosauri, commettendo però un errore di datazione di svariati milioni di anni.
Queste prime foreste, questi primi boschi, erano infatti, stanti i tempi
evolutivi, incredibilmente silenziosi, solo il rumore del vento e di qualche
albero che cadeva interrompeva la quiete che i pochi anfibi di piccolissime
dimensioni ed i primi rettili striscianti certo non disturbavano. Queste foreste del Carbonifero, un fittissimo intrico
di piante molto lontane progenitrici di quelle attuali, scompaiono completamente
circa 270 milioni di anni fa. Sopravvivono
invece, in contemporanea alla fine del Carbonifero, altri boschi che avevano
caratteristiche diverse dalle sue rigogliose foreste. Concentrati in aree molto
limitate su un continente primordiale il Gondwana, comprendente porzioni delle
attuali Sudamerica, Africa, India, Australia e Antartico e destinato nel gioco
di allontanamento e riavvicinamento a scomparire del tutto, erano boschi diversi
perché, a differenza delle foreste carbonifere cresciute in ambienti molto umidi
e con clima annuale costante di tipo tropicale, erano costretti a fare i conti
con un clima stagionale da zona temperata che non consentiva una crescita
costante per tutto l’anno. Sono pertanto boschi fatti di alberi che
conseguentemente si sviluppano nei mesi caldi e si fermano in quelli freddi. Sono
da considerare gli antenati delle attuali specie di piante che ne hanno
ereditato, sviluppandola, la caratteristica di crescita stagionale. Le ormai
scomparse foreste del Carbonifero vengono progressivamente sostituite da boschi
e foreste che, coerentemente con la deriva dei continenti e le collegate
variazioni climatiche, accentuano il processo di specializzazione e di
variazione. Iniziano così a comparire specie arboree che, a seconda dell’areale
climatico, iniziano ad avere le principali caratteristiche costitutive delle
conifere (sono i primi stretti antenati di pini, abeti, larici, cipressi,
sequoie) piuttosto che delle attuali piante tropicali. Anche questi processi
evolutivi si sviluppano lungo archi temporali lunghissimi: nel Triassico
inferiore, circa duecento milioni di
anni fa, e quindi settanta milioni di anni dopo la scomparsa delle foreste
carbonifere, la vegetazione boschiva, così specializzatasi, è ormai in grado di
colonizzare buona parte degli habitat ambientali: dai terreni umidi alle zone secche,
da quelli a caldo tropicale a quelli più temperati. Ed ogni habitat ha un suo
specifico patrimonio boschivo fatto di specie evoluzionisticamente sempre più
vicine a quelle attuali. Solo in questa fase evolutiva ha senso immaginare la
presenza dei grandi dinosauri in foreste ormai piene di rumori e frastuoni
animali! A metà del Cretaceo, iniziato 150
milioni di anni fa e terminato 70
milioni di anni fa, si ha una ulteriore importante evoluzione della flora:
compaiono le prime piante “angiosperme”, ossia piante con fiori, le dirette antenate
di numerosi alberi odierni: fra i tanti platani, querce, castagni, salici,
noci, aceri. Un complesso percorso evolutivo che, sempre in relazione alle
turbolenze geologiche, vede boschi e foreste, di diverse tipologie, comparire,
sparire, riformarsi, spostarsi, modificarsi, con tempi relativamente molto
lunghi, almeno di diverse migliaia di anni per ogni singola fase di crescita
piuttosto che di arresto e regressione. Un arco temporale significativo, ma che
in una percorso complessivo di circa 80 milioni di anni diventano provvisorie parentesi.
E’ durante il Terziario (da circa 70
milioni a circa 2 milioni di anni fa) che questo intenso processo di
specializzazione vegetale vede un suo, seppur sempre parziale e provvisorio, compimento.
Ed è sempre nel corso del Terziario che i continenti assumono l’attuale
posizione, anche se è ben noto che la deriva dei continenti è un processo in
costante evoluzione! Nel Terziario ha però comportato che le intervenute distanze
fra i singoli continenti hanno limitato enormemente lo scambio botanico
accentuando di conseguenza le specifiche specializzazioni del patrimonio
vegetale. Si completa inoltre anche la conformazione della crosta terrestre; si
creano cioè le barriere fisiche, catene montuose in primis, che concorrono in
modo importante alla specializzazione del patrimonio boschivo. Se prosegue
costante il processo evolutivo verso le attuali tipologie arboree la loro
dislocazione geografica, in particolare in Europa ed nell’America del Nord, è
lontana dall’assumere l’attuale conformazione che sarà frutto del successivo
periodo glaciale. Per una ancora lunga fase, prima che i processi di
specializzazione si completino, convivono a stretto contatto nello stesso bosco
piante diversissime: pioppi e salici accanto ad aceri e magnolie, tigli vicini
a corbezzoli, fichi assieme a faggi, querce, olmi e carpini. Il campionario
boschivo è ormai di fatto completo ma è lungi dall’essere disposto in via
definita. Si entra così, con queste
caratteristiche boschive, nella decisiva era geologica del Quaternario (da circa due milioni/due milioni e mezzo di
anni fa ai giorni nostri) quella che
vede il sempre più consistente affacciarsi sulla scena dei primi ominidi, nel
pieno di un processo evolutivo iniziato due milioni di anni prima, e che è
caratterizzata da un clima estremamente mutevole con lunghi periodi di
temperature straordinariamente rigide, le cosiddette “fasi glaciali”. Non si sa
con precisione quante siano state le glaciazioni, le ipotesi variano da un
minimo di sei fino ad un massimo di diciannove, ovviamente non tutte della
stessa intensità e durata. Certo è che questa ’alternanza di periodi caldi e periodi
molto freddi incide moltissimo sulla vita delle piante e dei boschi. Nei limiti
imposti dalla conformazione geologica ormai assestata di cui si è detto, della
disponibilità di terreni più o meno umidi e più o meno pianeggianti, quando il
clima migliorava le piante amanti del calore avanzavano e colonizzavano il
territorio resosi disponibile, così obbligando quelle più amanti del freddo ad
arretrare e a consolidarsi negli areali a loro più adatti provvisoriamente
lasciati liberi dai ghiacci. Si ipotizza che queste alterne fasi di
avvicendamento, di intervallo più stabile tra un periodo glaciale e l’altro, potessero
mediamente durare dai diecimila ai quindicimila anni. Nei periodi di
glaciazione l’intero patrimonio vegetale, boschivo e forestale, soffriva,
scomparendo, a discendere dalle regioni polari, sotto spessi strati di
ghiaccio, ovvero diradandosi moltissimo in quelle più a ridosso del fronte dei
ghiacciai, oppure adattandosi, anche a costo di sostanziali modifiche, nelle residue
fasce tropicali. Molte specie non sono riuscite a superare gli stress termici e
sono definitivamente scomparse dalla scena vegetale. L’ultima glaciazione,
denominata Wurm, ha avuto inizio circa ottantamila
anni fa, la sua fase più fredda si è realizzata circa ventimila anni fa per poi terminare definitivamente, all’incirca diecimila anni fa, con una lenta e
contrastata discesa, fatta di alternanze ormai molto limitate e di breve durata
e quindi sostanzialmente stabile, che ci ha portato all’attuale condizione
climatica, quella, ahi noi!!!, del global warming! Ovviamente il ritiro dei
ghiacciai, che lasciavano a ricordo del limite del loro avanzamento le catene
collinari moreniche, quella valsusina compresa, si realizzava con tempistiche
relativamente lunghe. In questa fasi di “interregno” avvenivano, condizionati
da fattori locali di diverso genere, i processi di nascita, consolidamento e
composizione, dei boschi. L’incidenza dei fattori locali è tale che, fatte salve
alcune caratteristiche di valore generale: ad esempio piante che amano o non
amano il freddo e l’altitudine, i singoli boschi, le singole foreste, magari
confinanti l’uno con l’altra, hanno sviluppato, con estrema varietà di
situazioni, le loro caratteristiche compositive. Il manto boschivo ha così
visto una crescita rapida e rigogliosa in tutto il pianeta- In Europa prima
nelle regioni più meridionali e successivamente verso Nord inseguendo il fronte
del ritiro dei ghiacciai. Lo sviluppo della copertura boschiva si è innestato
sulle porzioni di territorio lasciate libere dai ghiacci in una prima fase
colonizzate da forme di vegetazione bassa, erbe e arbusti, che, a seconda della
composizione dell’humus, aveva le caratteristiche di prato, di steppa o di
tundra. Ed è in questo contesto che si è realizzata la prima “interferenza” fra
piante, animali, e l’uomo. Le zone a vegetazione bassa erano l’habitat
preferito dagli animali erbivori che però non brucavano solo erba e cespugli
bassi ma anche i giovani germogli delle piante che tendevano ad allargare il
bosco. Ovviamente non su scale ampissime ma, secondo molti studiosi, è possibile
che la caccia sempre più tecnicamente raffinata dei nostri antenati abbia,
limitando in misura crescente la popolazione di erbivori (si pensi allo sterminio
dei grandi mammuth), contribuito in misura significativa all’espansione del
bosco. Questo è valso, probabilmente per la maggiore presenza umana,
soprattutto per l’Europa continentale, molto meno ad esempio, per America del
Nord, là dove un rapporto squilibrato tra cacciatori e prede ha consentito che
in vastissime aree ila prateria sia rimasta l’habitat prevalente. Si tratta
comunque, al di là della significativa suggestione di un rapporto uomo-bosco a
favore di quest’ultimo, di uno scenario da lì in poi mai più ripetuto, di un
fattore evolutivo fra i tanti che spiegano l’avanzare della copertura boschiva.
I boschi si sono allargati indipendentemente dall’azione di uomini e animali,
con una espansione durata circa cinque/seimila anni e con una progressione che
vedeva, in linea di massima, l’iniziale prevalenza di conifere, e il successivo
insediarsi di alberi e foglie larghe e di angiosperme. La storia dei boschi
prosegue infatti lungo linee di sviluppo interne, non condizionate cioè da
fattori esterni diversi da quelli ambientali. fino al neolitico. I nostri
antenati del paleolitico non pare proprio che avessero una particolare
attenzione verso il bosco, meno ricco di selvaggina rispetto alle praterie
aperte, meno facilmente percorribile, più pericoloso in generale. Ma
l’evoluzione delle tecniche di costruzione di utensili, seppure ancora in
pietra, stava per modificare tale rapporto
1 – Da
diecimila anni fa ai nostri giorni (storia)
Dalla fine dell’ultima glaciazione la storia dei boschi diventa in effetti
strettamente intrecciata, in forma crescente, con quella degli uomini. Alle
“normali” difficoltà di crescita e sopravvivenza legate ai fattori ambientali
si aggiungono, come vedremo, quelle di un rapporto con la specie animale più
invadente ed aggressiva. Va ricordato che la normale espansione del bosco,
della foresta, è già di per sé stesso un processo lento e laborioso. Le usuali
“tecniche” di diffusione dei semi (vento, trasporto animale) hanno di norma
bassissime percentuali di successo, legate in prevalenza alla “quantità” dei
semi impiegati ed alla possibilità di non trovare nell’areale circostante
ostacoli troppo difficili da superare. Solitamente il bosco, la foresta, si
espandono con un processo progressivo di allargamento che vede alberi giovani
iniziare a crescere ai margini del nucleo di partenza creando una zona di
transizione molto graduale. Le difficoltà di colonizzare il terreno quasi
sempre consentono che in una fase iniziale più specie legnose si giochino il
primato nella partita dell’espansione. Il processo di specializzazione
interviene successivamente ed è quasi sempre determinato dalle caratteristiche
ambientali del contesto interessato. Le stesse che sostanzialmente determinano
i limiti invalicabili dell’espansione. Nel contesto europeo, ad esempio, le
variazioni climatiche di lungo periodo sono il fattore decisivo per il
prevalere di boschi di latifoglie piuttosto che di aghiformi. I primi periodi
post glaciali vedono in molte aree una accanita concorrenza tra abeti rossi e
noccioli, con frequenti cambi di scena dovuti proprio al variare del clima. Nel
complesso, sempre restando al contesto europeo, nel periodo compreso tra i novemila ed i settemila anni fa si sono
in questo modo differenziati diversi tipi di bosco, che potevano convivere
anche con relazioni di vicinato. Una anche minima differenza di composizione
dell’humus, piuttosto che di esposizione ai venti, poteva decidere il prevalere
di una specifica specie. E’ molto interessante notare che, all’interno di
questo complesso, tormentato e differenziato processo di colonizzazione del
territorio da parte dei boschi, intervengono fattori collaterali che svolgono
un ruolo speso decisivo. Uno in particolare è indicativo di come il mondo
vegetale, le piante, siano in grado di sviluppare vere e proprie tecniche di
alleanza, di cooperazione che rimandano ad una capacità vitale tutt’altro che
banale. Diverse specie di piante, ad esempio betulle, pini e larici, crescono
bene, ed i loro boschi riescono ad allargarsi, solo se le loro radici riescono
ad instaurare un rapporto di simbiosi con i funghi. Una particolare forma di
convivenza chiamata “micorizia” in cui entrambi i partner traggono un
vantaggio: i funghi assicurano all’albero acqua, sali, azoto e fosforo ed in
cambio ricevono i carboidrati indispensabili per la loro struttura che non
attiva il processo di fotosintesi. Se ne evince l’ulteriore conferma che la
storia del boschi, anche quelli “moderni” si basa su processi molto delicati,
complessi e variegati, che si sviluppano in modo tenace ma che richiedono tempi
molto lunghi per completarsi. L’irruzione in questo contesto dell’uomo non
poteva non avere un impatto molto significativo
Si sono visti i nostri antenati
cacciatori/raccoglitori nelle vesti di “alleati” del bosco nel ridurre con la
caccia la popolazione di erbivori, ma quello che si realizza progressivamente a
partire da diecimila anni fa, con
l’avvento dell’agricoltura ed i primi insediamenti umani stanziali è un impatto
di tutt’altro segno. L’avvento della agricoltura, e della collegata pastorizia,
è stato un passaggio decisivo nella storia dell’uomo segnando di fatto l’avvio
della “civiltà” umana intesa in senso lato. L’affermarsi delle prime
rudimentali attività agricole è avvenuto pressochè in contemporanea in più zone
del pianeta, seppure con caratteristiche diverse da luogo a luogo e lasciando
“scoperte” parti significative, ad esempio l’Africa ed il Nord America.
Ovviamente Kùster non affronta il tema in modo analitico limitandosi a
ripercorrere le modalità con cui i primi agricoltori/pastori si sono
relazionati con il bosco, la foresta, e la successiva evoluzione di questo
rapporto. Giustamente la “civiltà dei fiumi” del Medio Oriente è considerata la
culla dell’agricoltura che qui, da
diecimila ad ottomila anni fa, ha conosciuto estensioni significative
proprio grazie al fatto di svilupparsi in spazi aperti già del loro, ovvero non
occupati più di tanto da boschi. Diverso è stata l’avvio di coltivazioni in
Europa là dove, salvo limitatissime zone già predisposte del loro alla
destinazione agricola, boschi e foreste avevano ormai colonizzato tutti gli
spazi che si prestavano ad esserlo. Qui la messa a coltura, e pascolo, di pezzi
del territorio ha richiesto, come primo passaggio, di “liberarli” dalle piante,
di “arretrare” il bosco. I protagonisti di questa faticosissima “conquista”,
realizzata con laboriosi lavori di disboscamento realizzati con strumenti per
tutta una lunga prima fase di pietra, sono piccoli gruppi di cacciatori/raccoglitori
che, a partire da settemila anni fa,
lentamente ma progressivamente si convertono all’agricoltura ed
all’allevamento, le attività che potevano garantire una maggiore e più costante
fonte di alimentazione. Le ricerche archeologiche hanno consentito di
ipotizzare che la struttura media di questi gruppi, disseminati in modo
crescente lungo le direttrici da sud verso nord e da ovest verso est,
consisteva in circa un centinaio di membri le cui esigenze alimentari
richiedevano di aprire nella foresta una radura di circa trentacinque ettari
(un ettaro vale 10.000 metri quadri, si tratta quindi di un “campo” di circa
tre chilometri e mezzo per lato). Siamo quindi ancora in presenza di vere e
proprie isole in un mare verde, ma sono isole che si moltiplicano nel corso dei
millenni e che hanno sul bosco, sulla foresta, diversi impatti. Si creano ad
esempio margini più netti del bosco: là dove prima questo diradava in modo
graduale ora esiste una linea di demarcazione netta. Questa mescolanza di boschi,
la “zona esterna”, e terreni agricoli, la “zona interna”, comincia a costituire
il paesaggio culturale dell’uomo europeo. Ma era al contempo necessario
mantenere il più fitto possibile il bosco non toccato per conservare la sua
capacità di esercitare, anche sulla adiacente zona messa a coltivazione, un
effetto calmieratore sul clima e sugli sbalzi termici. Così come era
conveniente e comodo far pascolare nel bosco il bestiame della comunità. Ma
soprattutto era indispensabile “prendere” nel bosco, confinante l’area
liberata, il legname necessario per il fuoco, gli strumenti e per le stesse
“abitazioni”. Per una lunghissima fase, prima dell’avvento della casa mono-familiare
con un solo fuoco, l’abitazione dei primi contadini è consistita in una sola
grande casa, la cosiddetta “casalunga”, una sorta di grande capanna lunga anche
trenta metri, con una intelaiatura di grossi travi di sostegno e di
intelaiatura del tetto, con pareti di rami piccoli intrecciati e ricoperti di
fango ed argilla, tetto di grosse fascine di rami secchi, e con all’interno più
fuochi. La crescente abilità costruttiva ha implicato la sempre più ottimale
scelta delle essenze legnose più adatte a questi scopi, in particolare per gli attrezzi
e le caselunghe veniva utilizzato il legno di querce. Con una conseguenza
importante sulla composizione arborea di porzioni crescenti di bosco: la
progressiva scomparsa delle querce è stata spontaneamente compensata dalla
crescita di altre essenze quali ad esempio faggio e frassino. L’ammirevole
abilità costruttiva non impediva però il naturale deterioramento delle
caselunghe che si calcola avessero una durata media non superiore a trent’anni.
La fine del loro utilizzo implicava di fatto la necessità di spostarsi altrove
in parti del bosco ancora ricche di alberi grandi a adatti alle esigenze
costruttive senza ricorrere ad impossibili loro trasporti. Un’altra porzione
del bosco veniva quindi liberata per ricavarne una radura coltivabile, si
costruiva una nuova casalunga e si riavviava un nuovo identico processo di
utilizzo del bosco, con analoghe conseguenze su di esso. Piccole conseguenze di
per sé stesse se si vuole ma in grado, nell’arco di millenni - in alcune zone
questa pratica è durata, come meglio si vedrà successivamente, fino al
Medioevo! - di incidere in modo considerevole sulla storia dei boschi europei
che, seppure in grado di riconquistare la radura abbandonata, vedevano così
modificata la loro natura e composizione. Questa prima lunga fase di utilizzo
umano della foresta ne ha di fatto implicato la fine dell’evoluzione naturale,
spontanea. Se ne ricava una indicazione fondamentale che mantiene inalterato il
suo valore anche ai giorni nostri: là dove l’attività antropica è intervenuta
sul bosco, sulla foresta, originari, “davvero naturali”, ha comunque inciso
sulla loro natura in modo irreversibile al punto che, anche lasciando libero
corso, come non pochi attualmente sostengono, al loro rimboschimento quello che
si avrà sarà comunque un “bosco di seconda mano”. E di bosco di seconda mano è
quindi corretto parlare, per buona parte dell’Europa, già a partire perlomeno da settemila anni fa.
Successivamente, nell’arco temporale che va dalla fine del neolitico all’età del ferro,
si consolidano due processi che accentuano ulteriormente l’impatto antropico
sul bosco: l’utilizzo di metalli e la formazione di “città”. Ambedue questi
fattori, fra di loro connessi e collegabili all’aumento della popolazione
umana, accentuano di molto il fabbisogno di legname, sia per la lavorazione di
fusione sia per le accresciute necessità legate alle nuove modalità di vita
“urbana”. La loro incidenza sulla storia dei boschi non si concretizza
solamente in una maggiore deforestazione ma anche nel fatto che si accentua il
peso delle attività umane sulla composizione del bosco. La nascita delle
“città”, e dei villaggi stabili, implica una definitiva stanzialità, la fine
degli spostamenti verso nuove aree da sfruttare e la possibilità per il bosco,
a parziale compenso del crescente disboscamento, di ripossedere, seppure mutandole,
le vecchie aree abbandonate. Al contrario attorno ai nuovi insediamenti
“civilizzati” il bosco non poteva più ricrescere ed anzi il fabbisogno urbano
di legna ha iniziato a richiedere lo sfruttamento di boschi “lontani” e la
collegata nascita di un “sistema di trasporti” del legname prevalentemente
basato su quello fluviale. In contemporanea la necessità di combustibili
legnosi sempre più energetici, in grado cioè di assicurare le temperature di
fusione sempre più alte richieste dal mutare dei metalli utilizzati, incide
sulla selezione delle essenze legnose. Ad esempio il faggio, che nell’epoca
precedente aveva ampliato di molto il suo areale in sostituzione delle querce,
inizia ad arretrare proprio per la sua ottimale resa termica. Se quindi è
innegabile che le prime relativamente grandi concentrazioni urbane stanziali
hanno azzerato, nelle aree a loro più prossime, la presenza del bosco, è
interessante notare che esso, quasi ovunque, è stato sostituito da un
particolare tipo di vegetazione arborea: attorno a città e villaggi, a
soddisfare le esigenze alimentari, sorgono frutteti ed uliveti spesso di
rilevanti estensioni. L’ulivo porta con sé un preciso significato simbolico: da
sempre considerato l’albero della stabilità, della capacità di vivere a lungo,
e come tale citato in tutti i racconti dell’antichità, esso simboleggia la
volontà di durare nel tempo degli stessi insediamenti ormai stanziali. Piantare
ulivi non era solo ottenere una preziosa fonte alimentare, era un impegno verso
un futuro duraturo di stanzialità. Allo stesso modo la presenza in località
prossime alle “città” dei “boschi sacri”, resi tali dalle “divinità” che li
abitavano, e quindi intoccabili, testimonia del rispetto, della gratitudine che
al bosco, alla foresta, l’uomo sentiva di dovere. A questo sentimento se ne
accompagna uno di segno opposto ben sintetizzato da Tacito nei suoi resoconti
sui Germani là dove, per descrivere il territorio da loro occupato, ricorre al
significativo termine di “selve orride”. Il bosco, la foresta, quando ancora
inviolati, incutono nell’uomo, per quanto ormai postosi al centro del creato,
paura, timore, panico, sicuramente generati dalla sensazione di forza, di potenza
che da essi emana. Ma Tacito è anche un acuto osservatore perché è vero che, al
termine di un ciclo di millenni che vedono la storia dei boschi definitivamente
segnata dalla presenza dell’uomo, la loro presenza si è ormai di molto
diversificata. Nel Medio Oriente, già naturalmente povero di vegetazione
boschiva, l’agricoltura e lo sfruttamento umano iniziano ad amplificare il
processo di desertificazione, nell’area mediterranea, quella più investita
dallo sviluppo delle civiltà umane, il bosco resta progressivamente confinato
nelle parti del territorio meno adatte agli usi agricoli e di allevamento, per
quanto esse siano, soprattutto lungo le dorsali montuose, di rilevanti
dimensioni. Al di là delle Alpi, dei Pirenei, dei Carpazi, addentrandoci nel cuore
dell’Europa continentale fino a raggiungere le aree del Baltico e della
penisola Scandinava un colpo d’occhio dall’alto coglie ancora, fino alle soglie
dell’Anno Mille, la presenza di vaste aree forestali, le “selve orride” di
Tacito, che si estendono fin dove il terreno lo consente lasciando poi spazio
alla bassa vegetazione delle brughiere e delle steppe. Restando nello specifico
europeo la fine dell’Impero romano ha segnato per alcuni secoli un periodo di
incertezze, di crisi economica e sociale. Che ha comportato anche una fase
transitoria, quella di maggiore incertezza, di ritorno alle pratiche dei
disboscamenti mobili, con villaggi di poche centinaia di abitanti che
sfruttavano, con le modalità già descritte, il bosco per poi, dopo alcuni
decenni, spostarsi in un’area di nuovo sfruttamento. Una fase quindi di
relativa “tranquillità”, dal punto di vista del bosco, che gli ha consentito di
rioccupare parte del territorio.
Inizia, con la successiva ripresa ed il
progressivo consolidamento del sistema di potere feudale, una più accurata
storiografia, attenta anche a questi aspetti naturali, che, da qui in poi,
consente di incrociare le fonti storiche con i risultati delle analisi
dell’evoluzione dei diagrammi pollinici, della composizione dei terreni, dell’archeologia
forestale, ossia i dati sui quali poggiano tutte le osservazioni sin qui svolte
da Kùster. Sono fonti scritte che accrescono sicuramente la conoscenza ma che,
stanti le loro caratteristiche di “cronache” non appaiono sempre affidabili
come resoconto storico scientifico, devono pertanto essere sempre incrociate
con le altre modalità di ricostruzione storica. Vale come esempio l’incerta
attribuzione del termine “barbari” a situazioni diverse di gruppi umani con
attitudini “nomadi”. In effetti una componente significativa di questi gruppi
era costituita proprio da quelle comunità locali che, nei tempi difficili
all’indomani della fine dell’Impero con il connesso crollo del sistema dei
trasporti e del commercio, furono costrette a riprendere le antiche modalità
agricole di sfruttamento del bosco. Non necessariamente quindi il termine
“barbari” si deve riferire in modo esclusivo alle popolazioni nomadi
provenienti dall’Est europeo. La nascita del Sacro Romano Impero segna una
svolta importante. Soprattutto in Francia il consolidamento di un nuovo potere
“centrale” dà l’avvio ad una ripresa dei commerci che si sviluppano lungo vie
fortificate che poco alla volta tornano a riattraversare l’intera Europa. I
castelli e le case fortificate che costituiscono l’ossatura di questa ripresa
delle vie e dei commerci sono al tempo stesso la base del sistema di potere
feudale locale e la presenza di un potere attento a garantire sicurezza e
protezione. Le comunità, i villaggi ora hanno un “signore” che, come garante
della sicurezza, ottiene una quota rilevante da ogni attività economia, a
partire da quella agricola. L’impatto sul bosco di questo nuovo ordine è
immediato ed evidente. Carlo Magno, nel suo editto “Capitulare de villis” del
795 stabilisce che uno dei compiti delle signorie locali fosse proprio quello
di “impedire che le foreste tornino a occupare i terreni resi agricoli”. Gli
insediamenti riprendono una maggiore e più diffusa stanzialità, il bosco viene
nuovamente utilizzato con le modalità che si erano precedentemente affermate
con l’avvento delle città e dei metalli. Con una significativa novità: il ruolo
del signore locale consentiva a questi di considerarsi padrone del bosco e del
diritto di deciderne l’uso, molto spesso in netto contrasto con l’utilizzo
“comunitario” che di esso si era sin lì consolidato. Se quindi non sono
dissimili le “tecniche” di utilizzo del bosco, ossia pascolo, taglio delle
piante alte per ricavarne legnami e combustibili, cambiano, anche con forti
contrasti, i protagonisti delle scelte e delle decisioni e le modalità di
ripartizione dei suoi frutti. Per tutta una lunga fase del Medioevo la pratica
del pascolo non si è basata, in continuità con quanto prima, su prati e aree esclusivamente
destinate a ciò. Il pascolo, come in precedenza, avveniva nella parte del bosco
nella quale si era avviato il disboscamento e l’utilizzo intensivo del
patrimonio boschivo. Il ritorno alla stanzialità, l’impossibilità di usare il
bosco senza il benestare del signore locale, hanno così implicato una forte
accentuazione dello sfruttamento boschivo. Aree sempre più vaste del bosco
erano di conseguenza “sfruttate” fino alla sostanziale loro “morte”, non
essendo neppure più destinate ad una immediata destinazione agricola. Il
paesaggio si stava mutando: nei dintorni dei villaggi iniziano a formarsi vaste
aree di territorio ridotto ad una sorta di brughiera, di prateria: nascono così
i moderni pascoli. Se da una parte si tentava di proteggere gli alberi di
maggior valore, quali le querce, l bosco residuo, sottoposto a questo
sfruttamento intensivo, progressivamente si trasformava in “boscaglia”, quella
conformazione boschiva che tecnicamente viene definita “bosco ceduo semplice”.
La composizione boschiva era ovviamente modificata in modo drastico. Là dove lo
sfruttamento era in qualche modo tenuto sotto controllo si affermava, sempre
con il beneplacito del signore, un’altra tipologia di bosco ceduo, quello
“composto”, perché basato su più tipologie di piante. In quasi tutti i boschi
europei si consolida, anche grazie a questo impatto, la presenza degli stessi
tipi di alberi: querce, carpino, nocciolo, betulle, olmi, tigli, frassini,
pioppi, quelli cioè meglio in grado di fornire la legna destinata agli usi
diversi della comunità. Si collega a questo tipo di utilizzo “selezionato” del
bosco l’inizio della pratica agricola della rotazione. Lle aree rese libere dal
bosco vedevano infatti una rotazione, pluriennale, basata sull’alternanza,
sulla stessa area, di: coltivazione, pascolo, piantumazione di nuovi alberi da
taglio precoce. Non era invece utilizzato il dissodamento mediante incendio, se
non per esigenze molto particolari, al contrario di quanto, all’incirca nello
stesso periodo, inizia ad avvenire in alcune zone tropicali. In questi
territori il recupero ad area coltivabile richiedeva il ricorso all’incendio
controllato della foresta perché la vegetazione, oltremodo rigogliosa, che la
componeva assorbiva completamente le sostanze del terreno; l’incendio
costituiva quindi una efficace forma di concimazione. La rinascita di un forte
potere centrale, ossia la struttura di comando e controllo del territorio, ha
comunque consentito, al di là delle evidenti ingiustizie sociali, una reale
ripresa dei traffici commerciali. Le comunità rurali, i villaggi, iniziano, in
aggiunta al fabbisogno di sopravvivenza locale, a produrre eccedenze, lentamente
quindi prendono forma attività locali sempre più specialistiche, con
conseguenti più specifiche modalità di utilizzo del bosco. Una tendenza alla
ricrescita economica che implica anche la ripresa della fondazione di città, della
crescita demografica, e, conseguentemente, della costante domanda di legno e
legnami. Questo quadro in movimento deve però fare i conti con le forme di
potere ed i collegati diritti di proprietà su boschi e foreste in capo al
sovrano ed ai suoi feudatari. E’ interessante rilevare quanto questo stato di
cose abbia inciso sulla stessa denominazione di bosco e foresta. Il “bosco
padronale” assume sempre più frequentemente il nome di “foresta”. I nomi
“forèt” in francese, “forst” in tedesco, “forest” in inglese, derivano tutti
dal latino “forestis”, derivazione da “foris”, la cui più probabile etimologia
è traducibile in “all’esterno”. Ossia il territorio, tutto il territorio,
composto da alberi che sta al di fuori delle aree agricole. E che, nella sua
completezza, rientra nella proprietà regale e feudale. Non a caso il territorio
boschivo in questo modo denominato “foresta” veniva anche definito “riserva di
caccia”, una pratica di esclusivo diritto della nobiltà, con tutti i ben noti
conflitti sociali che ne sono drammaticamente derivati. Spettava comunque in
via esclusiva al “potere” decidere le modalità di utilizzo del bosco che sempre
più viene considerato una preziosa fonte economica. La crescente domanda che la
ripresa della concentrazione urbana, la nascita di nuove città, l’ampliamento
di quelle ancora esistenti, implica da una parte la crescita esponenziale del
disboscamento ma dall’altra anche l’avvio di fenomeni sempre più importanti di
rimboschimento mirato, ovviamente, alle tipologie di alberi più richiesti dal
“mercato”. Un mercato che non può più essere soddisfatto solo con il patrimonio
boschivo immediatamente limitrofo alle città ma che ormai richiede “forniture”
costanti da altri luoghi anche molto distanti. Non a caso quasi tutte le città
medioevali in tutta Europa sorgono vicino a fiumi, a corsi d’acqua, in grado di
garantire, come meglio si vedrà, la forma di trasporto più efficiente
all’epoca. Nello specifico europeo la ripresa del ruolo delle città, del
commercio, la progressiva introduzione di lavorazioni sempre più raffinate,
l’altalenante ma costante crescita demografica segnano, a partire dall’Alto Medioevo
la fase di maggior utilizzo del patrimonio boschivo.
Fino a tutto il Settecento la storia dei
boschi vive la fase storica di maggior arretramento e impoverimento
direttamente legata all’impressionante fabbisogno umano di legna, di legname.
Fino all’avvio della vera e propria industrializzazione, prima del subentro di
altre fonti energetiche, il bosco rappresenta la materia prima essenziale per
tutte le attività umane. Al punto che è la scarsità di legno a rappresentare il
maggior limite allo sviluppo economico e urbanistico. Scomparsi ormai i boschi
e le foreste a ridosso delle città è l’intera copertura boschiva europea ad
essere trasformata in risorsa utilizzabile. Il legno è essenziale per
l’edilizia, lo è per tutti questi secoli in molte parti d’Europa in crescente
combinazione con la pietra e materiali laterizi, e lo è in particolare per
tutte le città che, come si è visto, sorgono, proprio per essere meglio
approvvigionate, vicino ai corsi d’acqua ed al mare. Basti pensare a Venezia,
città splendida per i suoi marmi e le sue case di pietra ma interamente
poggiante su una foresta di palafitte. O al castello di Amsterdam costruito su
fondamenta formate da quattordicimila conifere ad emblematico esempio
dell’intera situazione dei Paesi Bassi le cui città poggiavano quasi tutte su
palafitte. Ancora ai nostri giorni nella Foresta Nera della Baviera, da cui
proveniva buona parte di questo legname, si chiamano “abeti olandesi” quelli
che crescano più grandi e più dritti! Lo è per la crescente industria dei
cantieri navali che devono mettere a disposizione delle pressanti necessità di
navigazione commerciale, ormai transcontinentali, e delle strategiche flotte
militari. Un numero impressionante di navi sempre più grandi e capaci, la cui
costruzione richiede legnami pregiato sia dritto che curvo. E lo è per i
collegati porti, con pontili e bacini di carenaggio a lungo fatti dii soli
legnami. Lo è come combustibile per il ciclo della lavorazione dei metalli,
dall’estrazione alla fusione e forgiatura. Lo è per la produzione di vetro e
per quella della ceramica e del gres, e per i forni della calce. Lo è, in forma
di cellulosa, per la crescente industria della carta. Lo è per la costruzione
di botti ed imballaggi indispensabili al trasporto di liquidi e prodotti
solidi. Lo è ovviamente per l’industria e l’artigianato in legno. Non c’è
attività, per tutti questi secoli, che sfugga al fabbisogno di legname. E non c’è bosco, non c’è foresta, che conseguentemente
sfugga al taglio intensivo e molto spesso distruttivo. Questa impressionante
quantità di legno che per cinquecento anni almeno ha attraversato l’intera
Europa ha implicato la costruzione, ovviamente in legno, di una rete di
canalizzazioni utile a convogliare sui grandi fiumi europei, le vere vie
europee di trasporto legnami.
Sfruttandone la corrente si è trasportato legname
con modalità perfezionate nel tempo basate su due tecniche di base: la
flottazione, una sorta di “zattera” fatta legando insieme i diversi tronchi, e
la fluitazione, lasciando viaggiare a sé stanti i singoli tronchi. Le “zattere”
più grandi potevano raggiungere i trecento metri di lunghezza e i trenta di
larghezza, su di esse per tutto il tempo di viaggio, spesso di settimane,
viveva, mangiando e dormendo in apposite baracche, un centinaio di lavoranti,
ed erano precedute da una imbarcazione di preavviso per far sgomberare il fiume
e consentire il passaggio senza pericoli. Questo frenetico processo di
deforestazione durato così tanti secoli ha implicato inoltre una legislazione
specifica per tentare di trovare un equilibrio fra le varie esigenze di
rifornimento. Le “leggi forestali” europee rappresentano in effetti la prima
forma, seppur primitiva, di pianificazione territoriale. Nonostante questo sforzo per regolamentare lo
sfruttamento intensivo del bosco, tanto distruttivo quanto formidabile fonte di
profitto, i conflitti per godere dei suoi proventi sono stati ovviamente
moltissimi, coinvolgendo Stato contro Stato, poteri locali, e tutti quanti a
discapito dei contadini ai quali restavano le briciole di un disboscamento che
spesso azzerava l’unica loro fonte di sostentamento. Sforzi normativi peraltro
incapaci di una reale inversione di tendenza: boschi e foreste arretrano in
tutta Europa, in poche aree sostituiti da una boscaglia fatta di pochi ed
incerti alberi, nella quale emergono rarissimi esemplari di querce e faggi che
crescono isolati assumendo forme bizzarre e imponenti. Alcuni di questi alberi
sono sopravvissuti fino ai nostri giorni tanto da essere considerati monumenti
naturali e sottoposti a vincoli conservativi.
Lo stato di degrado boschivo è così
accentuato da iniziare a colpire alcune sensibilità, una fra le altre è quella
del Conte di Buffon che nella sua “Histoire naturelle” del 1764 così scrive …….la natura è ormai orrenda e agonizzante,
solo noi possiamo darle amenità e vita…… In questo quadro emergono tuttavia
alcune isole felici nell’Europa Centrale là dove i residui del potere feudale,
più forti negli Stati tedeschi basati su numerosi principati, consentono di
salvaguardare alcuni boschi di esclusiva proprietà dedicati alla pratica della
caccia. Isole felici che, per mantenersi tali, richiedono però di chiuderle
all’accesso esterno con muri e recinzioni.
(non
sfuggono a questa versione della riserva di caccia le stesse residenze dei
Savoia che a noi vicine). In collegamento con ciò quasi in contemporanea si
accentua in tutta Europa il vezzo della costruzione dei “giardini”, vezzo
sempre riservato ai soli sovrani e nobili. E’ interessante l’etimologia del
termine giardino che in origine non definiva aree particolari con fiori ed
alberi, ma semplicemente un terreno delimitato da muri e recinzioni. Dalla
parola “gart/grad” sono derivati nelle varie lingue nazionali termini come “gorod”
e “grad”, usati nelle lingue slave per indicare “città”, al tempo contate da
mura, piuttosto che “garden”, “jardin” e “giardino”, tutti quanti salvaguardati
da recinzioni. Kùster offre una loro breve ma esauriente descrizione qui non
riportata per restare meglio concentrati sul tema. Il Conte di Buffon non è
stato isolato nel evidenziare il degrado ambientale dovuto al disboscamento
intensivo. Nel 1700 si concretizzano due presupposti decisivi per una svolta
significativa. Il primo, esaminato meglio in seguito, è legato alla rivoluzione
del vapore ed alla collegata miglioria delle attività estrattive che consentono
l’utilizzo intensivo del carbon fossile. Il secondo ha un carattere più
culturale. Già nel 1713 Carl von Carlowitz, sovrintendente alle miniere della
Sassonia, pubblica un importante volume considerato il primo vero e proprio
trattato di selvicoltura. Certo mosso da particolari sensibilità ambientali
quanto piuttosto dallo scrupolo di salvaguardare una risorsa essenziale per
l’intera economia, compresa quella mineraria, a von Carlowitz va il merito di
aver codificato la norma, da lì a breve assunta da tutti gli Stati europei, che
fissava l’obbligo di ripiantare esattamente la quantità di alberi tagliati nel
corso dell’anno. Nasce da questo obbligo la consuetudine, successivamente a
carattere simbolico, di piantare nuovi alberi in occasione di matrimoni o
nascite di figli. Ma soprattutto la sua applicazione su larga scala da origine
alla nascita della pratica dei “vivai”. Nel corso del Settecento la
ri-piantumazione assume via via consistenza creando una sorta di forma mentis
positiva. Nasce in questo secolo, ad esempio, l’uso di delimitare le vie più
importanti con filari di alberi, e quindi la creazione dei viali alberati che
ben presto si impongono come elemento fondante l’arredo urbano di moltissime
città. Ed è sempre nel Settecento, e sempre con lo scopo di favorire la
ricrescita di alberi, che viene vietato il pascolo nel bosco, ovvero in quelle
residue boscaglie rimaste dopo il grande disboscamento. Questa forma di pascolo
era di grave danno per la ricrescita del bosco, il bestiame infatti si ciba
anche delle tenere pianticelle appena nate. Sorgono di conseguenza i veri e
propri pascoli, ovvero campi coltivati ad erba sui quali far pascolare il
bestiame piuttosto che usati per produrre fieno. Rinasce di conseguenza una più
netta linea di demarcazione fra il bosco ed il territorio circostante. Là dove
ripiantato o salvaguardato non si crea più quella zona intermedia di alberi
radi, la boscaglia, ma il bosco inizia subito nella sua conformazione più
fitta. Ma a fronte di una evoluzione più cauta e positiva non mancano tuttavia nello
stesso secolo episodi, seppur guidati da altre logiche, di segno opposto. E’
sempre nel 700 che in Gran Bretagna avviene il fenomeno delle “enclosures”,
ossia la chiusura all’uso collettivo dei boschi e dei campi “comuni” per
destinarli all’esclusivo utilizzo della nobiltà e della borghesia, condannando così
buona parte della forza lavoro agricola alla perdita dell’unica fonte di
sostentamento e a divenire manodopera a basso costo nelle nascenti industrie.
Il clima “culturale” che agevola questa inversione nel rapporto con il bosco
diventa fecondo anche per altre evoluzioni. La “Germania” di Tacito torna ad
essere citata, ma ora quelle “selve oscure” acquistano una inaspettata valenza
di identità nazionale. Il recupero che
molte opere letterarie del periodo fanno della forza mitologica dello spirito
delle “foreste”, e delle querce in particolare, diventa la base sulla quale si
innesta, già ai primi dell’Ottocento, in chiara chiave anti-napoleonica, il
nascente orgoglio nazionalistico tedesco, Una patria al tempo ancora di là a
venire, ma la cui costruzione potrà contare anche su questo mito dello spirito
tedesco legato indissolubilmente alla foresta ed alla quercia come “albero dei
tedeschi”. La svolta avviata da von Carlowitz era sicuramente sollecitata da
considerazioni di ordine economico, dal timore che con gli esasperati ritmi di
utilizzo del bosco si esaurisse una fonte molto significativa di introito per
le casse pubbliche e private. Ma l’abbinamento con il filone letterario di
celebrazione dell’intimo rapporto fra spirito tedesco e bosco apre la strada ad
una vera sensibilità ecologica ante litteram, che si concretizza con l’idea di
una “gestione duratura dei boschi”. Scontato ormai il fatto che il bosco, la
foresta, sono del tutto dipendenti dalle scelte umane si dà avvio con questa
idea ad un organico complesso di attività umane mirate a gestire il bosco in
una logica di lungo periodo. Nascono da qui le “scienze forestali”, che
diventano corso specifico di studi in tutta l’area tedesca già verso la fine
del 700, e il corpo delle “guardie forestali” al quale viene affidato il
compite di gestire, controllare, proteggere il patrimonio boschivo.
Il bosco diventa una parte del territorio
nettamente separata da tutto il resto, ed in particolare da pascoli e campi
agricoli, un mondo a sé stante che viene “governato” in modo mirato. Da qui
quella divisione netta, visivamente percepibile, che caratterizza il paesaggio
extra urbano di tutta l’area germanica, e che ha, di riflesso, interessato ad
esempio anche alcune regioni italiane: il Trentino Alto Adige, l’alto Veneto e
parte della Lombardia. Il rimboschimento, inserito in questo quadro, persegue
al tempo stesso logiche economiche - ovunque possibile si pianta l’abete rosso,
albero di rapida crescita, di ottimo legno ed inoltre facilmente galleggiabile
e quindi trasportabile - ma anche finalità estetiche, il bosco assume forme che
accompagnano armoniosamente la conformazione del territorio.
Non stupisce che questi boschi del tutto
artificiali siano progressivamente visti come naturali, come l’essenza stessa
della natura. Sono però occorsi diversi decenni perché questo nuovo rapporto
uomo bosco, inizialmente limitato alla sola area germanica, producesse i suoi
frutti. La vera ripresa della copertura boschiva europea si ha solamente quando
il progresso tecnologico mette a punto tecniche e strumenti che eliminano di
fatto il ruolo centrale del legno come combustibile primario. E’ l’avvento del
motore a vapore a rappresentare la vera svolta. Progressivamente perfezionato
ed utilizzato su ampia scala a partire da 700 da una parte consente di
migliorare enormemente le capacità estrattive minerarie, di carbon fossile
innanzitutto, dall’altra permette che questo diventi la fonte energetica per
eccellenza sostituendo totalmente il legno. Nel corso dell’Ottocento i boschi
sono utilizzati solamente più per le cartiere, per l’industria e l’artigianato
dei mobili, e per limitate esigenze locali. Il rapporto uomo/bosco che nel
corso del 1700/1800 si crea nell’area germanica non ha corrispondenze negli
altri paesi europei. In Inghilterra, dove il disboscamento fu non meno
intensivo, la penuria di legname, che iniziò a manifestarsi in modo pesante
prima dei cambiamenti tecnologici di cui si è detto, venne in buona misura
colmata con il ricorso a massicce importazioni dai paesi che componevano
l’esteso impero coloniale inglese. Le foreste pluviali tropicali dell’India,
quelle del Sudafrica, dell’Australia e della nuova Zelanda furono il polmone di
soccorso per le crescenti necessità di legname per tutti gli usi visti in
precedenza. Non meno intensa fu l’importazione dalla ex colonia dell’America
del Nord. Si importavano alberi di tipologia indistinta, molti dei quali erano
essenze del tutto sconosciute in Europa. La scoperta che alcune di esse, mogano
e tek ad esempio, avevano una ottima qualità per diventare mobili di pregio non
avvenne subito, ma quando avviata diede in fretta origine ad una sorta di “moda”
che, durando nel tempo fino ai nostri giorni, ha contribuito non poco alla
deforestazione in molti paesi extra-europei. La Francia ed i Paesi Bassi
restarono a lungo “clienti” delle foreste tedesche, ed in parte russe, seppur
attraverso passaggi talvolta complicati dalle turbolenze belliche del 1800.
Questa diversa necessità di rimboschire il proprio patrimonio forestale fa
peraltro il paio con un rapporto “culturale” con il bosco del tutto diverso.
L’esperienza tedesca è rimasta davvero unica. Un piccolo ma indicativo esempio
lo dimostra molto bene: Santa Claus/Babbo Natale, in quasi tutti i paesi
occidentali, arrivano in slitta dalle lontane foreste boreali dei paesi del
Nord, in Germania arrivano direttamente dal bosco “davanti alla porta di casa”.
Nei paesi di lingua inglese la foresta, il bosco, è rimasta per tutto questo
periodo una realtà separata, selvaggia, oscura, primitiva. Una realtà da proteggere ma separandola dal
contesto “civile”. Nasce da qui la tendenza, in primis americana, dei grandi
Parchi Nazionali. Curiosamente le recinzioni che una volta separavano la città,
il villaggio, dal mondo di fuori sono diventate quelle che “chiudono” il bosco
separandolo dal mondo esterno. A completare questo quadro variegato è utile
ricordare che nel corso del 1800, per soddisfare esigenze crescenti di mercato,
si estende con vigore la piantumazione di vasti frutteti, nata come si è visto
nell’Alto Medioevo. Non pochi villaggi e medie cittadine diventano
letteralmente immersi in questo particolare tipo di bosco. In generale, nel
contesto europeo, si realizzano attraverso questi processi le condizioni che
consentono al bosco di superare, lungo tutto il 1900 e fino ad oggi, lo stress
del disboscamento esasperato dei secoli precedenti. Accanto al mirato prelievo
compensato dalla corrispondente messa a dimora di nuovi piante non mancano
situazioni locali di operazioni di abbattimento anche intenso ed esteso di
alberi ma sono operazioni limitate e contingenti e sempre più spesso avversate
apertamente dall’opinione pubblica. Va subito detto però che il sollievo di cui
possono godere i boschi europei è reso possibile dal disboscamento selvaggio
che, sulla scia dell’esperienza inglese di cui si è detto, avviene ormai in
tutte le restanti aree del pianeta: le foreste africane, amazzoniche, e quelle
dell’estremo oriente sono fortemente minacciate da abbattimenti tanto intensi
quanto del tutto incontrollati. Si sta ripetendo altrove esattamente lo stesso
processo che aveva messo a serio rischio di sopravvivenza i boschi europei. I
quali, al tempo stesso, ritornati ad accettabili livelli di copertura del
territorio sono stati però, lungo tutto il secolo scorso ed ancora attualmente,
oggetto di ripensamenti anche fortemente critici. L’operazione avviata nel 700
e completata, con le modalità viste, nel corso dell’800 ha evidenziato in
effetti serie problematiche. Le nuove foreste europee, per quanto attente, come
si è detto, ad assecondare esteticamente la conformazione del territorio, sono
troppo mono tipologiche. In particolare quelle di conifere, ed in ispecie di
abete rosso, che ne costituiscono la parte in gran misura prevalente, con la
loro disposizione geometrica a file ordinate non consentono una crescita più
naturale dell’ambiente boschivo.
Questi boschi “artificiali” sono troppo
poveri di specie vegetali e di fauna animale; le loro stesse caratteristiche
impediscono che in essi si formino le condizioni di una biodiversità indispensabile alla loro stessa salute.
Rendendoli, in aggiunta, molto meno atti a resistere e controbattere le
pesanti, e progressive, ricadute dell’inquinamento ambientale e del cambiamento
climatico. E’ in corso da molti decenni, e tutt’altro che concluso, un acceso
dibattito fra i sostenitori della “crescita duratura dei boschi” e quelli di
una visione più “naturale” del bosco. Se è innegabile che un eccesso di una sua
progettazione e gestione scientifica può avere ricadute negative è altrettanto
vero però che il ritorno al bosco “originale” sia una sorta di utopia
irrealizzabile. Nel senso che, fatta salva la necessità di creare nel bosco
condizioni di una più ottimale biodiversità e varietà di essenze, ritenere che
vadano ripiantati alberi che si “presuppone” costituissero il bosco “originale”
poggia su basi storiche troppo labili e brevi rispetto alle reali tempistiche
della storia dei boschi. A partire da diecimila anni fa la mano dell’uomo ha
ormai segnato in modo indelebile ed irreversibile la conformazione boschiva
rendendo impossibile anche solo la ricostruzione “vera” del suo aspetto
originario. Le foreste sono un organismo vivente tutt’altro che statico, in
grado quindi di rigenerarsi in modi stupefacenti, ma un vero ritorno ad un
ideale stato originario, al di là dell’impossibilità di individuarlo con
esattezza, è operazione fisiologicamente impossibile.
Il
bosco dal passato al futuro
La storia dei boschi, determinata per
milioni di anni dai soli fattori “naturali”, testimonia quanto sia stata impattante
l’attività dell’uomo sulla loro evoluzione sotto tutti i punti di vista.
Riflettere oggi sul futuro delle foreste significa innanzitutto capire quali
criteri guideranno le future attività umane che, in ogni caso, resteranno
determinanti ed inevitabili. Al centro deve comunque stare la consapevolezza
che le migliaia di anni di impatto umano sul bosco, unite ad una popolazione
mondiale sempre più vicina a dieci miliardi di persone, impediscono
oggettivamente di immaginare un ritorno reale ad un bosco “originario”. Un
condizione che non è neppure evidenziabile in natura. Il bosco, la foresta,
sono elementi naturali in costante e mutevole divenire. Tengono memoria, si
potrebbe dire eterna, di quanto hanno già vissuto e si conformano in continua
relazione con il costante mutare dei fattori, naturali e non, che incidono sul
loro sviluppo. E’ del tutto utopico
immaginare che un totale “ritiro” dell’uomo sia condizione sufficiente per il
ricrearsi dei boschi, e delle foreste, “delle origini”. Non solo, è molto alto
il rischio che l’influenza antropica, in ispecie nelle attuali condizioni di
impatto sull’intero ecosistema terrestre, sia comunque causa di pesanti
problematiche per la stessa loro sopravvivenza. La storia dei boschi, il loro
passato peraltro così complesso da ricostruire, non può quindi indicare uno
stato concreto, stabile, ben definito, di una ottimale condizione boschiva. Può
semmai aiutare a capire quali errori l’uomo non deve più compiere nel suo
rapporto con il patrimonio boschivo, un rapporto che se, da una parte appare del
tutto ineliminabile, dall’altra sempre più deve essere finalizzato ad
“accompagnare” la loro evoluzione spontanea, questa sì “naturale”. Gli errori
non sono solo quelli dell’utilizzo criminale e suicida del mondo vegetale ma
sono anche quelli di una ricostruzione del bosco che non tiene nella giusta
considerazione l tutti i fattori che incidono sulla salute e sullo sviluppo
naturale del bosco. Se in quelle parti del pianeta in cui si stanno, oggi,
commettendo gli stessi crimini che nel mondo occidentale sono stati compiuti
nei secoli scorsi, il primo inderogabile passo è quello di fermare questo
scempio, allo stesso modo vanno rivisti i criteri che hanno in buona misura sin
qui guidato le pur lodevoli operazioni di rimboschimento. I boschi
“artificiali” costituiti da una sola specie arborea impediscono ogni possibilità
di un bosco più naturale. Occorre quindi ritornare ad un bosco “misto” che
agevoli la presenza animale, fattore decisivo per la buona salute del bosco
stesso, che rafforzi le sue “difese” naturali, che progressivamente premi lo
sviluppo delle piante che meglio possono adattarsi “naturalmente” ai vari
contesti specifici, e che sia oggetto di un rapporto da parte dell’uomo sempre
e comunque rispettoso della sua esistenza ed evoluzione.