venerdì 1 novembre 2019

La parola del mese - Noveembre 2019


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

NOVEMBRE 2019

E’ più volte successo che un termine, di nuovo conio e spesso composto come in questo caso, riassuma situazioni o processi anche molto complessi e articolati. Ed altrettanto spesso di tali termini, si pensi ad esempio alle varie versioni di Internet o a Industria 4.0, pur entrati nel linguaggio comune, non si ha una esatta padronanza e conoscenza. Si sa in linea di massima a che cosa esso si riferisca ma se chiamati a precisarne il significato un poco si va in crisi. E’ il caso del termine, composto ed inglese ma ormai entrato a pieno titolo nel vocabolario italiano, che abbiamo scelto come “parola del mese” per Novembre 2019. Stiamo parlando di ………

GREEN ECONOMY

Molti ormai sanno che questo termine si riferisce ad un modo diverso di produrre, meno inquinante e più attento agli aspetti ecologici dei processi economici, ma per meglio comprendere a che cosa ci si riferisce quando viene richiamato, sovente con un eccesso di enfasi propagandistica, può essere utile la seguente definizione tratta da Wikipedia, quella che fra le tante presenti in Rete ci è sembrata la più abbordabile e la meno specialistica……..
Si definisce green economy (economia verde) o più propriamente economia ecologica, un modello teorico di sviluppo economico che prende origine da un'analisi bioeconomica del sistema economico dove oltre ai benefici (aumento del Prodotto Interno Lordo) di un certo regime di produzione si prende in considerazione anche l'impatto ambientale cioè i potenziali danni ambientali prodotti dall'intero ciclo di trasformazione delle materie prime a partire dalla loro estrazione, passando per il loro trasporto e trasformazione in energia e prodotti finiti, fino ai possibili danni ambientali che produce la loro definitiva eliminazione o smaltimento. Tali danni spesso si ripercuotono, in un meccanismo tipico di retroazione negativa, sul PIL stesso diminuendolo a causa della riduzione di resa di attività economiche che traggono vantaggio da una buona qualità dell'ambiente come agricoltura, pesca, turismo, salute pubblica, soccorsi e ricostruzione in disastri naturali. Questa analisi propone come soluzione misure economiche, legislative, tecnologiche e di educazione pubblica in grado di ridurre il consumo d'energia, di rifiuti, di risorse naturali (acqua, cibo, combustibili, metalli, ecc.) e i danni ambientali promuovendo al contempo un modello di sviluppo sostenibile attraverso l'aumento dell'efficienza energetica e di produzione che produca a sua volta una diminuzione della dipendenza dall'estero, l'abbattimento delle emissioni di gas serra, la riduzione dell'inquinamento locale e globale, compreso quello elettromagnetico, fino all'istituzione di una vera e propria economia sostenibile a scala globale e duratura servendosi prevalentemente di risorse rinnovabili (come le biomasse, l'energia eolica, l'energia solare, l'energia idraulica), la promozione/adozione di misure di efficientamento energetico e procedendo al più profondo riciclaggio di ogni tipo di scarto domestico o industriale evitando il più possibile sprechi di risorse. Si tratta dunque di un modello fortemente ottimizzato dell'attuale economia di mercato almeno nei suoi intenti originari.
La green economy, in questa sua accezione, sembra ormai essere stata adottata, se si fa riferimento al suo quotidiano richiamo da parte di uno schieramento trasversale e internazionale, come la “soluzione” sulla quale puntare per fronteggiare l’emergenza ambientale, ed in particolare quella climatica, senza al contempo compromettere l’andamento dell’economia, puntando quindi ad una sua radicale trasformazione “green”. Nulla da eccepire sulle buone intenzioni, che, per essere realmente coerenti, dovrebbero essere tradotte in orizzonti temporali di applicazione molto precisi e vincolanti visti i drammatici e incalzanti scenari che devono inderogabilmente essere affrontati nei prossimi decenni. Proprio la portata della posta in palio impone però al tempo stesso uno sforzo di maggiore conoscenza e comprensione della reale possibilità che quanto si è fin qui inteso come green economy sia davvero in grado di produrre la tanto attesa svolta, radicale ed efficace, sul rapporto fra attività umane ed ambiente, fra economia, intesa in senso lato, e pianeta Terra. Uno sforzo che, per ragioni qui di seguito precisate, DEVE davvero coinvolgere tutti i soggetti chiamati a concorrere ad ogni livello. Questo è, nel nostro piccolo, un primo contributo in questo senso da parte di CircolarMente. Il primo dato utile per questa conoscenza e comprensione è quello relativo alla “breve” storia della green economy ed alla sua capacità di aver inciso, anche se solo come primo impatto verificabile, sulle dinamiche del degrado ambientale
Dalla rivista on-line Jacobin Italia,
 ……… La strategia del «capitalismo verde» è stata adottata dal Vertice della Terra di Rio, nel 1992. Ma la storia parla chiaro: le emissioni hanno continuato ad aumentare (sono addirittura aumentate più rapidamente che nel periodo precedente al 1992. In 25 anni, da Rio in poi, le emissioni sono diminuite solo nel 2008-2009 e peraltro come risultato della recessione economica, le cui conseguenze sociali sono state molto gravi……
Dato confermato da questo diagramma, relativo all’andamento delle emissioni di CO2 in atmosfera,  tratto dal sito qualEnergia.it e 
Emerge con evidenza una curva in costante crescita con una ulteriore impennata proprio a partire dal nuovo millennio in evidente contrasto con la “buona volontà” di Rio 1992 di adottare politiche di green economy. Un ulteriore aiuto a meglio capire può venire dai seguenti dati tratti dal sito on-line valori.it

Emissioni CO2 2018: mai così alte grazie a Cina e USA

Le emissioni mondiali di CO2 registreranno un nuovo record nel 2018. A dirlo è uno studio condotto dai ricercatori del Global Carbon Project e dell’università dell’East Anglia, secondo cui le emissioni generate dall’uso dei combustibili fossili cresceranno del 2,7% raggiungendo nel 2018 i 37,1 miliardi di tonnellate. Se si aggiungono i 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica che derivano dalla deforestazione e da altre attività umane, il totale per l’anno in corso è di 41,5 miliardi di tonnellate. Stando alla ricerca, pubblicata sulla rivista Nature nei giorni in cui in Polonia si sta svolgendo la conferenza Onu sul clima, l’incremento è determinato da «una solida crescita del consumo di carbone per il secondo anno consecutivo, e da una crescita sostenuta del consumo di petrolio e gas». Le emissioni di CO2 erano aumentate anche nel 2017 sebbene in misura inferiore (+1,6%), mentre erano rimaste stabili nei tre anni precedenti, dal 2014 al 2016. A crescere di pari passo con le emissioni è la concentrazione di CO2 in atmosfera. Per 2018 è stimata in 407 parti per milione, 2,3 parti in più del 2017. Il livello è del 45% superiore rispetto al periodo preindustriale. La maglia nera delle emissioni 2018 va nuovamente alla Cina, che registra una crescita del 4,7% e da sola genera il 27% della CO2 mondiale. Seguono Usa (15% del totale), India, Russia, Giappone, Germania, Iran, Arabia Saudita, Corea del Sud e Canada. L’Unione Europea, se considerata nel suo complesso, si piazza al terzo posto, con il 10% delle emissioni globali.
Appare evidente che TUTTE le maggiori economie si comportano in modo esattamente contrario non soltanto alle buone intenzioni di Rio 1992 ma anche degli impegni solennemente presi alla COP 21 di Parigi 2015. La spiegazione di questa, tanto evidente quanto drammatica, contraddizione può essere una sola: l’economia mondiale continua ad essere inflessibilmente governata dalle logiche di mercato e del profitto e dal mito della crescita “costi quel che costi”. Queste logiche impongono che le modalità di produzione restino tali fin tanto che sono in grado di generare margini convenienti di profitto e che “eventuali” cambiamenti possano essere adottati solamente quando saranno in grado di generarne altri più attrattivi. Al di là quindi di ogni richiamo ad una diversa etica ambientale appare evidente che i soggetti economici, privati e pubblici, potranno orientarsi verso una green economy solo sulla base di valutazioni di redditività e solo se in grado di gestirla sulla base delle irrinunciabili logiche di profitto. Questa considerazione di forte critica, e di conseguente perplessità sulla retorica della green economy, è sempre più diffusa e non soltanto in ambiti tradizionalmente sensibili alle tematiche ambientali. Può valere come esempio significativo ed interessante questo articolo, tratto dal sito on-line Cosmopolis, Rivista di filosofia e teoria politica che aggancia a queste considerazioni altre, non meno decisive per meglio capire e valutare la green economy, più legate proprio al suo aspetto ecologico……..
Green economy: tattica o strategia?
Green economy, economia verde, Ecological economics… addirittura Green New Deal: chi frequenta i mondi, virtuali e fisici, vicini all'ambientalismo e più in generale all'area progressista non può fare a meno di imbattersi quotidianamente e spesso più volte al giorno in citazioni e dissertazioni sul tema. Una ricerca per Green economy ristretta ai soli siti "italiani" rintraccia in Internet oltre 160.000 citazioni.  L'inflazione di interventi e discussioni in proposito è senza dubbio ben motivata. La contemporaneità tra la peggiore crisi economica della storia moderna e l'esplodere dell'emergenza climatica chiaramente giustifica da sola l'enfasi data a quella che appare come la soluzione in un colpo solo di due problemi: uscire dalla recessione, e affrontare alla radice le cause del riscaldamento globale dovuto ai combustibili fossili. La prospettiva di disporre di una tale "bacchetta magica" è talmente suggestiva da lasciare poco spazio ad approfondimenti su due aspetti, uno operativo e l'altro concettuale, che appaiono invece cruciali per meglio comprendere la portata e i limiti delle soluzioni offerte dalla Green economy::
  • cosa caratterizza un'attività economica come effettivamente "verde", al di là dell'inevitabile sfruttamento commerciale di una terminologia in voga?
  • come si inquadra la Green economy in una strategia più ampia di ripensamento dei modelli economici tuttora dominanti?
Questo approccio si guarda bene dal mettere in discussione l'equivalenza sviluppo = crescita e assegna alla Green economy esclusivamente il ruolo di volano per rimettere in moto la macchina economica, sostituendo o affiancando a produzioni tradizionali in crisi, nuove attività classificabili come ecologiche, in modo da tener stabile o meglio ancora aumentare il tradizionale e unico indicatore del benessere economico nazionale: la crescita del Prodotto interno lordo. Peraltro, questa impostazione – che dovrebbe condurre ad un rilancio della produzione – malauguratamente non è associata ad azioni conseguenti e coerenti e quindi rischia di non condurre neanche ai risultati macroeconomici che si propone. Infatti come su molti altri temi, si enunciano principi ed obiettivi per poi contraddirli con scelte operative di segno completamente opposto. Qualche riflessione sui criteri per la classificazione delle attività economiche che vengono prospettate come eco-compatibili appare importante come strumento per evitare le insidie di un eccessivo e indiscriminato entusiasmo. Indubbiamente è verde un business che sia incentrato su prodotti o servizi intrinsecamente sostenibili, la cui realizzazione richiede esclusivamente risorse rinnovabili. In questa categoria si possono classificare senz'altro esempi come la generazione di energia da fonti rinnovabili, la produzione di imballaggi riutilizzabili o rigenerabili, il turismo a basso impatto in strutture ricettive combinate ad aziende agricole. Attività di questo tipo appaiono teoricamente replicabili a piacere senza arrecare danni all'ambiente e senza porre questioni di sostenibilità, a meno di ipotizzare il raggiungimento di un livello tale di produzione da incontrare i limiti della capacità rigenerativa di una risorsa rinnovabile utilizzata (acqua, biomassa…), o della disponibilità di un elemento accessorio alla produzione non considerato in prima approssimazione (per esempio l'utilizzo di suolo per la installazione di pannelli fotovoltaici). Cautela è comunque necessaria nella valutazione della sostenibilità dell'intera catena del valore coinvolta. Produzioni che ad una prima analisi possono apparire ambientalmente convenienti possono implicare effetti secondari disastrosi. Un esempio clamoroso è l'utilizzo di olio di palma per la produzione di biodiesel, inizialmente accolto con entusiasmo come fonte di energia rinnovabile caratterizzata da un bilancio del ciclo CO2 favorevole e al tempo stesso capace di consentire sviluppo economico in zone del sud-est asiatico fino ad allora arretrate. La successiva impennata della produzione (con punte del 400% in 10 anni in alcuni paesi) ha rapidamente mostrato la sostanziale insostenibilità dello sfruttamento di questa risorsa, a seguito del sistematico disboscamento di foresta tropicale praticato per ricavare nuove aree coltivabili, la drastica distruzione di biodiversità che ne consegue e, secondo le ultime valutazioni, persino un bilancio di CO2 sfavorevole a causa del rilascio di quella precedentemente intrappolata nel sottosuolo dei terreni disboscati Una seconda categoria più ampia e sfumata è quella in cui la caratteristica green del prodotto o servizio consiste in un minore impatto ambientale rispetto a prodotti già esistenti. In questo caso si ragiona "per sottrazione", permettendo di definire (spesso a fini di promozione commerciale) come "eco" ad esempio un'automobile con motore a combustione interna, perché consuma significativamente meno carburante delle concorrenti, oppure un tipo di batteria perché ha un ridotto tenore di sostanze pericolose per l'ambiente .Poiché lo sviluppo di nuovi prodotti o la modifica di quelli esistenti per ridurne l'impronta ecologica, richiede spesso una rivisitazione dei processi aziendali e delle tecniche produttive, questa classe di attività ha un forte potenziale di traino rispetto ad attività correlate che costituiscono in un certo senso l'indotto della Green economy e sono fortemente connesse ad innovazione e ricerca: ottimizzazione e rinnovo delle tecnologie di processo utilizzate, riuso o riciclo di materiali, risparmio e recupero energetico, persino adozione di sistemi software che supportino la minimizzazione dell'impatto ambientale sin dalla fase di design.  Attività di questo tipo hanno sicuramente un effetto benefico sull'impronta ecologica del sistema economico di un paese e al tempo stesso possono dare realmente impulso all'economia nazionale. Si deve però riflettere sui limiti che i meccanismi appena descritti hanno in una prospettiva di più lungo termine. Come discusso, infatti, i benefici ambientali ottenuti con l'economia verde rientrano in gran parte in una logica di "riduzione del danno". Si producono beni nuovi o migliorati, in modo da utilizzare minori quantità di materie prime e di energia e con maggiore attenzione agli impatti sull'ecosistema dell'intero ciclo di vita dei prodotti. Ma fintanto che l'obiettivo dal punto di vista economico resta quello di aumentare indefinitamente la quantità dei manufatti e il loro valore aggiunto, questo approccio può solo spostare in avanti il limite temporale al quale l'intero sistema risulterà comunque insostenibile……..(prosegue)
Accanto al peso contraddittorio delle logiche di profitto, che rallentano o accelerano la green economy esclusivamente su ragioni di ritorno economico, si apre quindi, viste alcune illuminanti osservazioni del precedente articolo, una finestra sulla stessa “validità ambientale” di molti dei fattori che la costituiscono. Molto polemico e critico in questo senso è il seguente articolo tratto dal sito ilconformistaonline ………
Bugie Verdi. La green economy che distrugge l’ambiente
La green economy nuoce all’ambiente. Dai pannelli fotovoltaici alle auto elettriche, le tecnologie “pulite” consumano troppe risorse naturali, e per questo sono ”veleno per l’ecosistema” (p.19).  E’ la tesi, provocatoria, che Friedrich Schmidt-Bleek –  fondatore del Wuppertal Institute für Umwelt, Energie und Klima presenta nel suo ultimo saggio Bugie Verdi. Nulla per l’ambiente, tutto per il commercio – come politica e economia mandano in rovina il mondo). La riflessione di Bleek muove dalla critica alle politiche ambientali del governo tedesco, concentrate esclusivamente su efficienza energetica e lotta alle emissioni di CO2, e cieche di fronte alla causa precipua del “degrado ambientale”: il consumo eccessivo di risorse naturali che la nostra economia richiede. Schmidt-Bleek introduce i concetti di “zaino ecologico” e di “MIPS“, (intensità materiale e energetica del prodotto per unità di servizio), termini chiave del suo lavoro. Ogni bene, nel tragitto che percorre dalla “miniera” alla vendita, consuma una determinata quantità di Natura (acqua, suolo, materie prime biotiche e abiotiche, energia), non computata nel prezzo finale di mercato. Si parla, in proposito, di “zaino ecologico” delle merci, pari alla differenza tra kg di risorse naturali utilizzate per la sua produzione e peso del prodotto (in kg).  L’intensità materiale va calcolata considerando tutte le fasi di vita del prodotto – estrazione, produzione, distribuzione, uso, riciclo/smaltimento – e rapportata alla durata del servizio offerto dal bene. L’impronta ecologica di una merce sarà quindi tanto più bassa quanto minore è il suo zaino ecologico e quanto maggiore è la durata della sua vita utile e più intenso il suo utilizzo. Nella nuova prospettiva delle “risorse”, tecnologie che appaiono eco-compatibili secondo il parametro delle emissioni di carbonio e del consumo di combustibili fossili, risultano dannose per l’ambiente. Prendiamo l’auto elettrica e quella a motore ibrido. In generale, nel Material Input complessivo di un’autovettura il consumo di carburante incide solo per il 15-20%. Concentrandoci solo sulle emissioni nocive di CO2 riconducibili a questo, ci si dimentica del restante 80%, responsabile dei maggiori danni all’ambiente.  Schmidt Bleek può affermare a ragione che “Il prezzo ecologico dell’auto elettrica è notevolmente più elevato di quello delle vetture che vanno a benzina e diesel” perché la sua produzione richiede materiali rari come rame e litio, che portano “sulle proprie spalle”, secondo le tabelle inserite in appendice al libro (pp. 260-287), zaini ecologici molto pesanti. Per ogni kilogrammo di rame prelevato, per esempio, vengono “disturbati” 500 kg di altri materiali. L’estrazione massiva di litio dai laghi salati di Cina e Sudamerica sconvolge inoltre l’equilibro di quegli ecosistemi, con effetti sistemici imprevedibili. Ampie controindicazioni presentano anche l’utilizzo di biomassa come combustibile “pulito” e i pannelli fotovoltaici. La produzione di biocarburanti sottrae terreni per l’autosufficienza alimentare delle popolazioni del Sud America, mentre i pannelli fotovoltaici hanno ancora un’efficienza ecologica molto bassa: 1,8 kg di materiali naturali per kilowattora prodotto . Schmidt Bleek critica l’ottimismo naive di chi ritiene che la maggior incidenza dei servizi sul PIL nelle economie avanzate si traduca automaticamente in una de-materializzazione delle merci, tale da disaccoppiare la crescita economica dal consumo di risorse.  E’ un’illusione: le tecnologie dell’informazione e comunicazione sono tutte estremamente material intensive: la produzione di un computer richiede circa 1500 kg di materiali naturali, uno smartphone di circa 150 grammi, 70 kg. Una politica che punti seriamente a preservare le essenziali funzioni dell’ecosistema dovrebbe, per Schmidt Bleek, impegnarsi su due fronti: migliorare la produttività delle risorse (minimizzando l’input di materia-energia impiegato nell’intero ciclo di vita del prodotto)  di un fattore 10 nell’arco dei prossimi 30 anni da un lato, e ridurre il flusso di merci prodotte, aumentandone nel contempo la durata e l’intensità d’utilizzo, dall’altro. Ciò è fondamentale, perché se “si riducesse l’intensità materiale ed energetica di auto e telefonini, ma nello stesso tempo si aumentasse del doppio la loro produzione, l’effetto positivo di un minor zaino ecologico per unità di prodotto si annullerebbe. Per conseguire il primo obiettivo andrebbe reso decisamente più caro per le imprese l’utilizzo del fattore di produzione “natura”, oggi praticamente gratuito, a differenza del fattore “lavoro”, sul quale ricade un abnorme fardello fiscale. Una riforma fiscale ecologica tale da rendere più costoso il consumo di risorse naturali e più economico il lavoro, spingerebbe – attraverso il potere segnaletico dei prezzi – gli attori economici a orientare in senso sostenibile il sistema dell’estrazione delle risorse e della produzione, quello della logistica, dello smaltimento e del riciclo; oltre a combattere la piaga della disoccupazione……..(prosegue)
Queste ulteriori osservazioni consentono di capire quanto la prospettiva di una svolta ecologica della produzione e dell’economia sia un processo complesso ad iniziare dalle stesse caratteristiche “tecniche” che dovrebbero caratterizzarla. Considerazioni quanto mai complicate che in questo nostro primo approccio al tema possono essere solamente accennate. Vale invece la pena di riprendere le valutazioni sulla reale e veritiera “filosofia” che dovrebbe animare la green economy, collegandoci in questo senso al saggio di Razmig Keucheryan “La natura è un campo di battaglia” sintetizzato come “Saggio del mese” di Agosto 2019 e ad alcuni spunti alla discussione nel merito offerti dal seguente articolo tratto dal sito on-line decrescita.com
La favola della green economy come panacea di tutti i mali
…………Adesso è il turno della green economy, una versione aggiornata dello sviluppo sostenibile, anche se non necessariamente sostitutiva di quella più “datata”, anche perchè i due concetti non solo possono convivere ma l’ultima si inserisce perfettamente nella prospettiva della prima. I paesi potenti e i grandi “poteri” non hanno alcun interesse a modificare le cause strutturali del disastro climatico. Al contrario tutti sembrano ormai convinti, al Nord come al Sud, che la soluzione alla crisi mondiale passi per il rilancio della crescita, dell’economia di mercato, ma di colore verde (automobile verde, energia verde, abitazione verde…). ……… Di fatto continuano le logiche economiche, soprattutto finanziarie, per risolvere il disastro ecologico mantenendo intatto il mito, il primato del consumo. Consumo sempre energivoro, ma verde! Insomma, quello che serve per “rinverdire” la fiducia in questo modello di sviluppo e di società senza discuterne le fondamenta. Un “correttivo” improntato su possibili alternative alla produzione di energia che certo rappresenta un bel problema ma non è l’unico. Non si tratta solo di scegliere la bicicletta all’automobile, il biologico o la “filiera corta” ai prodotti della grande distribuzione, la verdura all’hamburger, il sole al nucleare, il riciclo all’usa e getta. Bensì di applicare un principio guida trasversale e sistemico ad ogni settore “merceologico” e prescrivere delle specifiche tecniche e modalità concretamente misurabili (con indicatori diversi e alternativi a quelli del PIL e simili): ad esempio la decrescita dei flussi di energia e delle materie prime impegnati nei cicli produttivi e di consumo. Non contestiamo l’importanza e l’urgenza di ‘mettere al verde’ le nostre economie, tuttavia colorare di verde il sistema economico senza modificarne i principi e le modalità di funzionamento che sono all’origine della crisi, ha poco senso. Abbiamo davvero bisogno di altre centinaia di milioni di automobili e di camion, anche se verdi? Milioni di case “passive” non risolveranno niente per miliardi di persone povere, senz’acqua potabile né servizi sanitari, senza abitazione decente, senza accesso alla sanità e all’istruzione base. Oggi ci confrontiamo con tanti “ambientalisti” che credono di poter arrestare il collasso degli ecosistemi affidandosi al “green business”, di fatto identificando il problema ambiente soltanto con il mutamento climatico; il quale certo, nell’impazzimento delle stagioni e nel moltiplicarsi di fenomeni meteorologici “estremi”, ne costituisce la conseguenza più grave, ma non può essere considerata la sola, col rischio di mancare l’intero obiettivo. ………. Facciamo l’ipotesi che le grandi multinazionali del petrolio, della chimica, dell’agricoltura riconvertano le loro produzioni in senso ambientale, così da avere grandi benefici sull’inquinamento, sull’effetto serra, sui cambiamenti climatici ecc. Però rimarrebbero salde le logiche del profitto, le differenze e le ingiustizie sociali, lo sfruttamento dei popoli (specie quelli dei sud del mondo) le guerra e altro.
Esattamente quelle che hanno prodotto l’attuale stato delle cose e che rendono, come logica conseguenza, molto problematica la reale efficacia di una green economy se con esse non ci si misura in modo radicale. Riprendiamo dalla rivista on-line Jacobin Italia, un secondo estratto da un articolo di Daniel Tanuro
………. Dobbiamo rompere con il modello della crescita, ma se è vero che «un capitalismo senza crescita è una contraddizione in termini», (Schumpeter), allora è necessario tracciare una via d’uscita dal capitalismo perché, come ha detto Einstein, «non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato». Dobbiamo adottare due principi molto chiari: produrre di meno e condividere di più; produrre per reali bisogni umani, democraticamente determinati nel rispetto degli ecosistemi e non a scopo di lucro …….
Posizioni condivisibili o no ma che quantomeno, a nostro modesto avviso, aiutano a capire che dietro la facciata propagandistica la green economy può raggiungere risultati concreti solo se diventa, nella fisiologica diversità di accenti, l’occasione per un coinvolgimento veramente democratico dell’intera società nell’affrontare scelte drammaticamente decisive per il nostro futuro all’interno di un quadro che realmente metta in rapporto tra di loro ……..
La green-economy, anche per le problematiche qui viste, si presenta quindi, proprio per dare sostanza alla sua condivisibilissima ambizione di fronteggiare l’emergenza ambientale, come una occasione straordinaria per riflettere ed agire sulle logiche che questa emergenza hanno creato. Una occasione che va colta ad ogni livello. CircolarMente è convinta che l’ambito locale possa, proiettandosi verso il contesto globale, giocare un ruolo fondamentale in questo senso. Più che mai una vera svolta a livello globale, se non si vuole restare ancorati a messianiche attese salvifiche, va costruita e concretamente avviata proprio partendo dagli ambiti locali, i quali vanno, per essere coerenti con questi obiettivi, ridefiniti superano antistorici localismi. Nel nostro piccolissimo contesto l’esperienza della costituzione dell’area di salvaguardia della Dora, alla quale abbiamo dedicato la nostra prima iniziativa del programma 2019-2020 e che, come abbiamo visto, coinvolge diversi comuni, può davvero rappresentare una occasione di riflessione su questi temi ed un concreto volano per avviare cambiamenti reali ed efficaci






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