La parola del mese
A
turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di
aprirsi verso nuove riflessioni
NOVEMBRE
2019
E’
più volte successo che un termine, di nuovo conio e spesso composto come in
questo caso, riassuma situazioni o processi anche molto complessi e articolati.
Ed altrettanto spesso di tali termini, si pensi ad esempio alle varie versioni
di Internet o a Industria 4.0, pur entrati nel linguaggio comune, non si ha una
esatta padronanza e conoscenza. Si sa in linea di massima a che cosa esso si
riferisca ma se chiamati a precisarne il significato un poco si va in crisi. E’
il caso del termine, composto ed inglese ma ormai entrato a pieno titolo nel
vocabolario italiano, che abbiamo scelto come “parola del mese” per Novembre
2019. Stiamo parlando di ………
GREEN ECONOMY
Molti
ormai sanno che questo termine si riferisce ad un modo diverso di produrre,
meno inquinante e più attento agli aspetti ecologici dei processi economici, ma
per meglio comprendere a che cosa ci si riferisce quando viene richiamato, sovente
con un eccesso di enfasi propagandistica, può essere utile la seguente
definizione tratta da Wikipedia, quella che fra le tante presenti in Rete ci è
sembrata la più abbordabile e la meno specialistica……..
Si definisce green
economy (economia verde) o più propriamente economia ecologica,
un modello teorico di sviluppo economico che prende origine da un'analisi bioeconomica
del sistema economico dove oltre ai benefici (aumento del Prodotto Interno Lordo) di un certo regime di produzione si prende in
considerazione anche l'impatto ambientale cioè i potenziali danni ambientali prodotti dall'intero
ciclo di trasformazione delle materie prime a partire dalla loro
estrazione, passando per il loro trasporto e trasformazione in energia e prodotti finiti,
fino ai possibili danni ambientali che produce la loro definitiva eliminazione
o smaltimento. Tali danni spesso si ripercuotono, in un meccanismo tipico di retroazione negativa, sul PIL stesso diminuendolo a causa della riduzione di resa di attività economiche che traggono vantaggio da una buona qualità dell'ambiente
come agricoltura, pesca, turismo, salute pubblica, soccorsi e ricostruzione in disastri naturali. Questa analisi
propone come soluzione misure economiche, legislative, tecnologiche e di
educazione pubblica in grado di ridurre il consumo d'energia, di rifiuti, di risorse naturali (acqua, cibo, combustibili,
metalli, ecc.) e i danni ambientali promuovendo al contempo un modello di sviluppo sostenibile attraverso l'aumento dell'efficienza energetica e di produzione che produca a sua volta una diminuzione
della dipendenza dall'estero, l'abbattimento delle emissioni di gas serra, la riduzione dell'inquinamento locale e globale,
compreso quello elettromagnetico, fino all'istituzione di una vera e propria economia sostenibile a scala globale e duratura servendosi prevalentemente di risorse rinnovabili (come le biomasse, l'energia eolica, l'energia solare, l'energia idraulica), la
promozione/adozione di misure di efficientamento
energetico e procedendo al più profondo riciclaggio di ogni tipo di scarto domestico o industriale evitando il
più possibile sprechi di risorse. Si tratta dunque di un modello fortemente
ottimizzato dell'attuale economia di mercato almeno nei suoi intenti originari.
La green economy, in
questa sua accezione, sembra ormai essere stata adottata, se si fa riferimento
al suo quotidiano richiamo da parte di uno schieramento trasversale e
internazionale, come la “soluzione” sulla quale puntare per fronteggiare
l’emergenza ambientale, ed in particolare quella climatica, senza al contempo
compromettere l’andamento dell’economia, puntando quindi ad una sua radicale
trasformazione “green”. Nulla da eccepire sulle buone intenzioni, che, per
essere realmente coerenti, dovrebbero essere tradotte in orizzonti temporali di
applicazione molto precisi e vincolanti visti i drammatici e incalzanti scenari
che devono inderogabilmente essere affrontati nei prossimi decenni. Proprio la
portata della posta in palio impone però al tempo stesso uno sforzo di maggiore
conoscenza e comprensione della reale possibilità che quanto si è fin qui
inteso come green economy sia davvero in grado di produrre la tanto attesa
svolta, radicale ed efficace, sul rapporto fra attività umane ed ambiente, fra
economia, intesa in senso lato, e pianeta Terra. Uno sforzo che, per ragioni
qui di seguito precisate, DEVE davvero coinvolgere tutti i soggetti chiamati a
concorrere ad ogni livello. Questo è, nel nostro piccolo, un primo contributo
in questo senso da parte di CircolarMente. Il primo dato utile per questa
conoscenza e comprensione è quello relativo alla “breve” storia della green
economy ed alla sua capacità di aver inciso, anche se solo come primo impatto
verificabile, sulle dinamiche del degrado ambientale
Dalla
rivista on-line Jacobin Italia,
……… La strategia del «capitalismo verde» è
stata adottata dal Vertice della Terra di Rio, nel 1992. Ma la storia parla
chiaro: le emissioni hanno continuato ad aumentare (sono addirittura aumentate
più rapidamente che nel periodo precedente al 1992. In 25 anni, da Rio in poi,
le emissioni sono diminuite solo nel 2008-2009 e peraltro come risultato della
recessione economica, le cui conseguenze sociali sono state molto gravi……
Dato confermato da questo diagramma, relativo all’andamento delle emissioni
di CO2 in atmosfera, tratto dal sito qualEnergia.it e
Emerge con evidenza una curva in costante crescita con una ulteriore
impennata proprio a partire dal nuovo millennio in evidente contrasto con la
“buona volontà” di Rio 1992 di adottare politiche di green economy. Un ulteriore
aiuto a meglio capire può venire dai seguenti dati tratti dal sito on-line valori.it
Emissioni CO2 2018: mai così alte grazie a Cina e USA
Le emissioni mondiali di CO2 registreranno un nuovo record
nel 2018. A dirlo è uno studio condotto dai ricercatori del Global Carbon Project e dell’università dell’East Anglia, secondo cui le
emissioni generate dall’uso dei combustibili fossili cresceranno del 2,7% raggiungendo
nel 2018 i 37,1 miliardi di tonnellate. Se si aggiungono i 5 miliardi di
tonnellate di anidride carbonica che derivano dalla deforestazione e da altre
attività umane, il totale per l’anno in corso è di 41,5 miliardi di tonnellate.
Stando alla ricerca, pubblicata sulla rivista Nature nei giorni in cui in
Polonia si sta svolgendo la conferenza Onu sul clima, l’incremento è
determinato da «una solida crescita del consumo di carbone per il secondo anno
consecutivo, e da una crescita sostenuta del consumo di petrolio e gas». Le
emissioni di CO2 erano aumentate anche nel 2017 sebbene in misura inferiore
(+1,6%), mentre erano rimaste stabili nei tre anni precedenti, dal 2014 al
2016. A crescere di pari passo con le emissioni è la concentrazione di CO2 in
atmosfera. Per 2018 è stimata in 407 parti per milione, 2,3 parti in più del
2017. Il livello è del 45% superiore rispetto al periodo preindustriale. La
maglia nera delle emissioni 2018 va nuovamente alla Cina, che registra una crescita del 4,7% e da sola genera il 27%
della CO2 mondiale. Seguono Usa (15%
del totale), India, Russia, Giappone,
Germania, Iran, Arabia Saudita, Corea del Sud e Canada. L’Unione Europea,
se considerata nel suo complesso, si
piazza al terzo posto, con il 10% delle emissioni globali.
Appare evidente che
TUTTE le maggiori economie si comportano in modo esattamente contrario non
soltanto alle buone intenzioni di Rio 1992 ma anche degli impegni solennemente
presi alla COP 21 di Parigi 2015. La spiegazione di questa, tanto evidente
quanto drammatica, contraddizione può essere una sola: l’economia mondiale
continua ad essere inflessibilmente governata dalle logiche di mercato e del
profitto e dal mito della crescita “costi quel che costi”. Queste logiche
impongono che le modalità di produzione restino tali fin tanto che sono in
grado di generare margini convenienti di profitto e che “eventuali” cambiamenti
possano essere adottati solamente quando saranno in grado di generarne altri
più attrattivi. Al di là quindi di ogni richiamo ad una diversa etica ambientale
appare evidente che i soggetti economici, privati e pubblici, potranno
orientarsi verso una green economy solo sulla base di valutazioni di
redditività e solo se in grado di gestirla sulla base delle irrinunciabili
logiche di profitto. Questa considerazione di forte critica, e di conseguente
perplessità sulla retorica della green economy, è sempre più diffusa e non
soltanto in ambiti tradizionalmente sensibili alle tematiche ambientali. Può
valere come esempio significativo ed interessante questo articolo, tratto dal
sito on-line Cosmopolis, Rivista di
filosofia e teoria politica che aggancia a queste considerazioni altre, non
meno decisive per meglio capire e valutare la green economy, più legate proprio
al suo aspetto ecologico……..
Green economy: tattica o strategia?
Green economy, economia verde, Ecological
economics… addirittura Green New Deal: chi frequenta i mondi,
virtuali e fisici, vicini all'ambientalismo e più in generale all'area
progressista non può fare a meno di imbattersi quotidianamente e spesso più
volte al giorno in citazioni e dissertazioni sul tema. Una ricerca per Green
economy ristretta ai soli siti "italiani" rintraccia in Internet
oltre 160.000 citazioni. L'inflazione di
interventi e discussioni in proposito è senza dubbio ben motivata. La contemporaneità
tra la peggiore crisi economica della storia moderna e l'esplodere
dell'emergenza climatica chiaramente giustifica da sola l'enfasi data a quella
che appare come la soluzione in un colpo solo di due problemi: uscire dalla
recessione, e affrontare alla radice le cause del riscaldamento globale dovuto
ai combustibili fossili. La prospettiva di disporre di una tale "bacchetta
magica" è talmente suggestiva da lasciare poco spazio ad approfondimenti
su due aspetti, uno operativo e l'altro concettuale, che appaiono invece
cruciali per meglio comprendere la portata e i limiti delle soluzioni offerte
dalla Green economy::
- cosa caratterizza un'attività economica come effettivamente "verde", al di là dell'inevitabile sfruttamento commerciale di una terminologia in voga?
- come si inquadra la Green economy in una strategia più ampia di ripensamento dei modelli economici tuttora dominanti?
Questo approccio si guarda bene dal mettere in discussione l'equivalenza
sviluppo = crescita e assegna alla Green economy esclusivamente il ruolo
di volano per rimettere in moto la macchina economica, sostituendo o
affiancando a produzioni tradizionali in crisi, nuove attività classificabili
come ecologiche, in modo da tener stabile o meglio ancora aumentare il
tradizionale e unico indicatore del benessere economico nazionale: la crescita
del Prodotto interno lordo. Peraltro, questa impostazione – che dovrebbe
condurre ad un rilancio della produzione – malauguratamente non è associata ad
azioni conseguenti e coerenti e quindi rischia di non condurre neanche ai
risultati macroeconomici che si propone. Infatti come su molti altri temi, si enunciano
principi ed obiettivi per poi contraddirli con scelte operative di segno
completamente opposto. Qualche riflessione sui criteri per la classificazione
delle attività economiche che vengono prospettate come eco-compatibili appare
importante come strumento per evitare le insidie di un eccessivo e
indiscriminato entusiasmo. Indubbiamente è verde un business che sia
incentrato su prodotti o servizi intrinsecamente sostenibili, la cui
realizzazione richiede esclusivamente risorse rinnovabili. In questa categoria
si possono classificare senz'altro esempi come la generazione di energia da
fonti rinnovabili, la produzione di imballaggi riutilizzabili o rigenerabili,
il turismo a basso impatto in strutture ricettive combinate ad aziende
agricole. Attività di questo tipo appaiono teoricamente replicabili a piacere
senza arrecare danni all'ambiente e senza porre questioni di sostenibilità, a
meno di ipotizzare il raggiungimento di un livello tale di produzione da
incontrare i limiti della capacità rigenerativa di una risorsa rinnovabile
utilizzata (acqua, biomassa…), o della disponibilità di un elemento accessorio
alla produzione non considerato in prima approssimazione (per esempio
l'utilizzo di suolo per la installazione di pannelli fotovoltaici). Cautela è
comunque necessaria nella valutazione della sostenibilità dell'intera catena
del valore coinvolta. Produzioni che ad una prima analisi possono apparire
ambientalmente convenienti possono implicare effetti secondari disastrosi. Un
esempio clamoroso è l'utilizzo di olio di palma per la produzione di biodiesel,
inizialmente accolto con entusiasmo come fonte di energia rinnovabile caratterizzata
da un bilancio del ciclo CO2 favorevole e al tempo stesso capace di
consentire sviluppo economico in zone del sud-est asiatico fino ad allora
arretrate. La successiva impennata della produzione (con punte del 400% in 10
anni in alcuni paesi) ha rapidamente mostrato la sostanziale insostenibilità
dello sfruttamento di questa risorsa, a seguito del sistematico disboscamento
di foresta tropicale praticato per ricavare nuove aree coltivabili, la drastica
distruzione di biodiversità che ne consegue e, secondo le ultime valutazioni,
persino un bilancio di CO2 sfavorevole a causa del rilascio di
quella precedentemente intrappolata nel sottosuolo dei terreni disboscati Una
seconda categoria più ampia e sfumata è quella in cui la caratteristica green
del prodotto o servizio consiste in un minore impatto ambientale rispetto a
prodotti già esistenti. In questo caso si ragiona "per sottrazione",
permettendo di definire (spesso a fini di promozione commerciale) come
"eco" ad esempio un'automobile con motore a combustione interna,
perché consuma significativamente meno carburante delle concorrenti, oppure un
tipo di batteria perché ha un ridotto tenore di sostanze pericolose per
l'ambiente .Poiché lo sviluppo di nuovi prodotti o la modifica di quelli
esistenti per ridurne l'impronta ecologica, richiede spesso una rivisitazione
dei processi aziendali e delle tecniche produttive, questa classe di attività
ha un forte potenziale di traino rispetto ad attività correlate che
costituiscono in un certo senso l'indotto della Green economy e sono
fortemente connesse ad innovazione e ricerca: ottimizzazione e rinnovo delle
tecnologie di processo utilizzate, riuso o riciclo di materiali, risparmio e
recupero energetico, persino adozione di sistemi software che supportino la minimizzazione
dell'impatto ambientale sin dalla fase di design. Attività di questo tipo
hanno sicuramente un effetto benefico sull'impronta ecologica del sistema
economico di un paese e al tempo stesso possono dare realmente impulso
all'economia nazionale. Si deve però riflettere sui limiti che i meccanismi
appena descritti hanno in una prospettiva di più lungo termine. Come discusso,
infatti, i benefici ambientali ottenuti con l'economia verde rientrano in gran
parte in una logica di "riduzione del danno". Si producono beni nuovi
o migliorati, in modo da utilizzare minori quantità di materie prime e di
energia e con maggiore attenzione agli impatti sull'ecosistema dell'intero
ciclo di vita dei prodotti. Ma fintanto che l'obiettivo dal punto di vista
economico resta quello di aumentare indefinitamente la quantità dei manufatti e
il loro valore aggiunto, questo approccio può solo spostare in avanti il limite
temporale al quale l'intero sistema risulterà comunque insostenibile……..(prosegue)
Accanto al peso contraddittorio delle logiche di profitto, che rallentano o
accelerano la green economy esclusivamente su ragioni di ritorno economico, si
apre quindi, viste alcune illuminanti osservazioni del precedente articolo, una
finestra sulla stessa “validità ambientale” di molti dei fattori che la
costituiscono. Molto polemico e critico in questo senso è il seguente articolo tratto
dal sito ilconformistaonline ………
Bugie Verdi. La
green economy che distrugge l’ambiente
La green economy nuoce all’ambiente. Dai pannelli fotovoltaici alle auto
elettriche, le tecnologie “pulite” consumano troppe risorse naturali, e per
questo sono ”veleno per l’ecosistema” (p.19). E’ la tesi, provocatoria,
che Friedrich Schmidt-Bleek – fondatore del Wuppertal Institute für
Umwelt, Energie und Klima presenta nel suo ultimo saggio Bugie
Verdi. Nulla per l’ambiente, tutto per il commercio – come politica e economia
mandano in rovina il mondo). La riflessione di Bleek muove dalla critica
alle politiche ambientali del governo tedesco, concentrate esclusivamente su
efficienza energetica e lotta alle emissioni di CO2, e cieche di fronte alla
causa precipua del “degrado ambientale”: il consumo eccessivo di risorse naturali che la nostra economia
richiede. Schmidt-Bleek introduce i
concetti di “zaino ecologico” e di “MIPS“, (intensità materiale e energetica del prodotto per unità di servizio), termini chiave del suo lavoro. Ogni
bene, nel tragitto che percorre dalla “miniera” alla vendita, consuma una
determinata quantità di Natura (acqua, suolo, materie prime biotiche e
abiotiche, energia), non computata nel prezzo finale di mercato. Si parla, in
proposito, di “zaino ecologico” delle merci, pari alla differenza tra kg di
risorse naturali utilizzate per la sua produzione e peso del prodotto (in kg).
L’intensità materiale va calcolata considerando tutte le fasi di vita del
prodotto – estrazione, produzione, distribuzione, uso, riciclo/smaltimento – e
rapportata alla durata del servizio offerto dal bene. L’impronta ecologica di una merce sarà quindi tanto più bassa
quanto minore è il suo zaino ecologico e quanto maggiore è la durata della sua
vita utile e più intenso il suo utilizzo. Nella nuova prospettiva delle
“risorse”, tecnologie che appaiono
eco-compatibili secondo il parametro delle emissioni di carbonio e del
consumo di combustibili fossili, risultano dannose per l’ambiente.
Prendiamo l’auto elettrica e quella a motore ibrido. In generale, nel Material
Input complessivo di un’autovettura il consumo di carburante incide solo
per il 15-20%. Concentrandoci solo sulle emissioni nocive di CO2 riconducibili
a questo, ci si dimentica del restante
80%, responsabile dei maggiori danni all’ambiente. Schmidt Bleek
può affermare a ragione che “Il prezzo ecologico dell’auto elettrica è
notevolmente più elevato di quello delle vetture che vanno a benzina e diesel”
perché la sua produzione richiede materiali rari come rame e litio, che portano
“sulle proprie spalle”, secondo le tabelle inserite in appendice al libro (pp.
260-287), zaini ecologici molto pesanti. Per ogni kilogrammo di rame prelevato,
per esempio, vengono “disturbati” 500 kg di altri materiali. L’estrazione
massiva di litio dai laghi salati di Cina e Sudamerica sconvolge inoltre
l’equilibro di quegli ecosistemi, con effetti sistemici imprevedibili. Ampie
controindicazioni presentano anche l’utilizzo di biomassa come combustibile “pulito” e i pannelli fotovoltaici.
La produzione di biocarburanti sottrae terreni per l’autosufficienza alimentare
delle popolazioni del Sud America, mentre i pannelli fotovoltaici hanno ancora
un’efficienza ecologica molto bassa: 1,8 kg di materiali naturali per
kilowattora prodotto . Schmidt Bleek critica l’ottimismo naive di chi
ritiene che la maggior incidenza dei servizi sul PIL nelle economie avanzate si
traduca automaticamente in una de-materializzazione delle merci, tale da
disaccoppiare la crescita economica dal consumo di risorse. E’
un’illusione: le tecnologie
dell’informazione e comunicazione sono tutte estremamente material intensive:
la produzione di un computer richiede circa 1500 kg di materiali
naturali, uno smartphone di circa 150 grammi, 70 kg. Una politica che
punti seriamente a preservare le essenziali funzioni dell’ecosistema dovrebbe,
per Schmidt Bleek, impegnarsi su due fronti: migliorare la produttività delle risorse (minimizzando l’input di
materia-energia impiegato nell’intero ciclo di vita del prodotto) di un fattore 10 nell’arco dei prossimi 30
anni da un lato, e ridurre il flusso di merci prodotte, aumentandone nel
contempo la durata e l’intensità
d’utilizzo, dall’altro. Ciò è fondamentale, perché se “si riducesse
l’intensità materiale ed energetica di auto e telefonini, ma nello stesso tempo
si aumentasse del doppio la loro produzione, l’effetto positivo di un minor
zaino ecologico per unità di prodotto si annullerebbe. Per conseguire il primo
obiettivo andrebbe reso decisamente più caro per le imprese l’utilizzo del
fattore di produzione “natura”, oggi praticamente gratuito, a differenza del
fattore “lavoro”, sul quale ricade un abnorme fardello fiscale. Una riforma fiscale ecologica tale da rendere
più costoso il consumo di risorse naturali e più economico il lavoro,
spingerebbe – attraverso il potere segnaletico dei prezzi – gli attori
economici a orientare in senso sostenibile il sistema dell’estrazione delle
risorse e della produzione, quello della logistica, dello smaltimento e del
riciclo; oltre a combattere la piaga della disoccupazione……..(prosegue)
Queste ulteriori osservazioni consentono di capire quanto la prospettiva di
una svolta ecologica della produzione e dell’economia sia un processo complesso
ad iniziare dalle stesse caratteristiche “tecniche” che dovrebbero
caratterizzarla. Considerazioni quanto mai complicate che in questo nostro
primo approccio al tema possono essere solamente accennate. Vale invece la pena
di riprendere le valutazioni sulla reale e veritiera “filosofia” che dovrebbe
animare la green economy, collegandoci in questo senso al saggio di Razmig
Keucheryan “La natura è un campo di battaglia” sintetizzato come “Saggio del
mese” di Agosto 2019 e ad alcuni spunti alla discussione nel merito offerti dal
seguente articolo tratto dal sito on-line decrescita.com
La favola della green economy come panacea di tutti i mali
…………Adesso è il turno della green economy,
una versione aggiornata dello sviluppo sostenibile, anche se non
necessariamente sostitutiva di quella più “datata”, anche perchè i due concetti
non solo possono convivere ma l’ultima si inserisce perfettamente nella
prospettiva della prima. I paesi potenti e i grandi “poteri” non hanno alcun
interesse a modificare le cause strutturali del disastro climatico. Al
contrario tutti sembrano ormai convinti, al Nord come al Sud, che la soluzione
alla crisi mondiale passi per il rilancio della crescita, dell’economia di
mercato, ma di colore verde (automobile verde, energia verde, abitazione
verde…). ……… Di fatto continuano le logiche economiche, soprattutto
finanziarie, per risolvere il disastro ecologico mantenendo intatto il mito, il
primato del consumo. Consumo sempre energivoro, ma verde! Insomma, quello che
serve per “rinverdire” la fiducia in questo modello di sviluppo e di società
senza discuterne le fondamenta. Un “correttivo” improntato su possibili
alternative alla produzione di energia che certo rappresenta un bel problema ma
non è l’unico. Non si tratta solo di scegliere la bicicletta all’automobile, il
biologico o la “filiera corta” ai prodotti della grande distribuzione, la
verdura all’hamburger, il sole al nucleare, il riciclo all’usa e getta. Bensì
di applicare un principio guida trasversale e sistemico ad ogni settore
“merceologico” e prescrivere delle specifiche tecniche e modalità concretamente
misurabili (con indicatori diversi e alternativi a quelli del PIL e simili): ad
esempio la decrescita dei flussi di energia e delle materie prime impegnati nei
cicli produttivi e di consumo. Non contestiamo l’importanza e l’urgenza di
‘mettere al verde’ le nostre economie, tuttavia colorare di verde il sistema
economico senza modificarne i principi e le modalità di funzionamento che sono
all’origine della crisi, ha poco senso. Abbiamo davvero bisogno di altre
centinaia di milioni di automobili e di camion, anche se verdi? Milioni di case
“passive” non risolveranno niente per miliardi di persone povere, senz’acqua
potabile né servizi sanitari, senza abitazione decente, senza accesso alla
sanità e all’istruzione base. Oggi ci confrontiamo con tanti “ambientalisti”
che credono di poter arrestare il collasso degli ecosistemi affidandosi al
“green business”, di fatto identificando il problema ambiente soltanto con il
mutamento climatico; il quale certo, nell’impazzimento delle stagioni e nel
moltiplicarsi di fenomeni meteorologici “estremi”, ne costituisce la
conseguenza più grave, ma non può essere considerata la sola, col rischio di
mancare l’intero obiettivo. ………. Facciamo l’ipotesi che le grandi
multinazionali del petrolio, della chimica, dell’agricoltura riconvertano le
loro produzioni in senso ambientale, così da avere grandi benefici
sull’inquinamento, sull’effetto serra, sui cambiamenti climatici ecc. Però
rimarrebbero salde le logiche del profitto, le differenze e le ingiustizie
sociali, lo sfruttamento dei popoli (specie quelli dei sud del mondo) le guerra
e altro.
Esattamente quelle che hanno prodotto
l’attuale stato delle cose e che rendono, come logica conseguenza, molto
problematica la reale efficacia di una green economy se con esse non ci si
misura in modo radicale. Riprendiamo dalla rivista on-line Jacobin Italia, un secondo
estratto da un articolo di Daniel
Tanuro
………. Dobbiamo rompere
con il modello della crescita, ma se è vero che «un capitalismo senza crescita
è una contraddizione in termini», (Schumpeter), allora è necessario tracciare
una via d’uscita dal capitalismo perché, come ha detto Einstein, «non si può
risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato». Dobbiamo adottare due principi molto
chiari: produrre di meno e condividere di più; produrre per reali bisogni
umani, democraticamente determinati nel rispetto degli ecosistemi e non a scopo
di lucro …….
Posizioni condivisibili o no ma che quantomeno, a nostro modesto avviso,
aiutano a capire che dietro la facciata propagandistica la green economy può
raggiungere risultati concreti solo se diventa, nella fisiologica diversità di
accenti, l’occasione per un coinvolgimento veramente democratico dell’intera
società nell’affrontare scelte drammaticamente decisive per il nostro futuro
all’interno di un quadro che realmente metta in rapporto tra di loro ……..
La green-economy, anche per le problematiche qui viste,
si presenta quindi, proprio per dare sostanza alla sua condivisibilissima
ambizione di fronteggiare l’emergenza ambientale, come una occasione
straordinaria per riflettere ed agire sulle logiche che questa emergenza hanno
creato. Una occasione che va colta ad ogni livello. CircolarMente è convinta
che l’ambito locale possa, proiettandosi verso il contesto globale, giocare un
ruolo fondamentale in questo senso. Più che mai una vera svolta a livello
globale, se non si vuole restare ancorati a messianiche attese salvifiche, va costruita
e concretamente avviata proprio partendo dagli ambiti locali, i quali vanno,
per essere coerenti con questi obiettivi, ridefiniti superano antistorici
localismi. Nel nostro piccolissimo contesto l’esperienza della costituzione
dell’area di salvaguardia della Dora, alla quale abbiamo dedicato la nostra
prima iniziativa del programma 2019-2020 e che, come abbiamo visto, coinvolge
diversi comuni, può davvero rappresentare una occasione di riflessione su
questi temi ed un concreto volano per avviare cambiamenti reali ed efficaci
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