domenica 23 febbraio 2020

“Sistemi del cibo, globalizzazione, sostenibilità e sovranità alimentare nel Sud del Mondo” – Avigliana 12 Febbraio 2020”

Giacomo Pettenati , Geografo, insegna attualmente Geografia del cibo presso l’Università di Parma dopo un periodo di ricerca e specializzazione presso l’Università di Torino.
Federico Borrelli, Agronomo, ha partecipato a diverse iniziative di cooperazione, sostenute dal Ministero degli Esteri in centro Africa e successivamente, in Haiti, su un progetto supportato dalla Banca Mondiale. Attualmente opera presso ENI  nella divisione che si occupa della costruzione di rapporti con la Cooperazione.

Introduce i lavori G.Pettenati con una panoramica sugli scenari globali dei sistemi del cibo in cui si evidenziano alcuni fenomeni rilevanti. “Mangiare è un atto globalizzato e globalizzante”  questa affermazione di partenza  sottolinea come oggi ogni cibo che poniamo sui nostri piatti e nella nostra dieta contiene ingredienti provenienti da luoghi molto distanti dal nostro paese, e di ciò il più delle volte non ne siamo direttamente consapevoli. Nello stesso tempo ogni scelta alimentare che noi compiamo contribuisce a sviluppare processi di globalizzazione. Più nello specifico osserviamo un articolarsi del fenomeno attraverso questi vettori:
·       Provenienza delle materie prime
·       Catene del valore globali
·       Influenze culturali
·       Impatti ambientali e sociali
Pensiamo, a titolo di esempio, a come scelte legate al cambiamento di trend alimentari legati a fenomeni socio-culturali (alimenti ritenuti più salutistici come la Quinoa ) possano avere effetti rilevanti sulle zone di produzione, dove tali alimenti venivano prodotti in logiche di sostenibilità circolare per la popolazione locale e che, spinte da tali cambiamenti di domanda, si trasformano in monoculture problematiche per le aree produttrici.
“Antichità dello spostamento delle pratiche alimentari” Dalle culle alimentari più storiche, dove si sono sviluppati spontaneamente o sono stati selezionati dalle primordiali pratiche agricole, le sette culle del cibo individuate dagli antropologi si sono nel corso dei millenni via via spostate nel mondo a sostegno delle necessità alimentari dell’umanità in rapido sviluppo. Anche storicamente la conquista di nuovi territori si è spesso accompagnata con la diffusione di pratiche agricole non autoctone (pensiamo alla politica di diffusione della coltivazione del grano in area mediterranea conseguente allo sviluppo dell’impero Romano). O altresì la ricerca di approvvigionamento di peculiari alimenti ha condizionato e sviluppato la scoperta del mondo (La ricerca di nuove rotte per il commercio delle SPEZIE apre la strada all’età delle grandi scoperte geografiche e del mercantilismo (XV-XVIII secolo).
“Il commercio di alcuni prodotti è alla base della globalizzazione economica” Con la scoperta di nuovi mondi, dall’Africa,all’America, alle Indie nei secoli che vanno dal XVI al XIX , si producono vasti fenomeni di globalizzazione economica secondo un modello “Coloniale” che tende alla produzione e commercializzazione di alcuni specifici alimenti con enormi stravolgimenti socio-politici. Ad esempio la produzione di zucchero (piantagioni) sostiene la struttura socio-economica e politica del primo colonialismo in America Latina (XVI secolo) con pesanti conseguenze in termini di: Schiavismo, Trasformazione territoriale, Saccarocrazia (Eduardo Galeano). Da queste premesse deriva l’idea occidentale dello sviluppo economico dei paesi del sud del mondo, dove l’equazione lineare “maggiore globalizzazione = maggiore sviluppo” , ha permeato anni di intervento delle politiche internazionali nella fase di post e decolonizzazione. Ciò si è rivelato a distanza di diversi decenni pesantemente errato, in quanto al crescere della globalizzazione non si è parimenti ridotta la differenza tra Nord e Sud del mondo, mantenendo alta la disparità di reddito, di sviluppo, di condizioni sociali e più in generale di distribuzione di ricchezza tra paesi e all’interno dei paesi stessi, non contribuendo, se non in modo insufficiente, a ridurre le disuguaglianze. Di ciò si trae immediata consapevolezza da un grafico mostrato, detto a “Coppa di Champagne”, dove si evidenzia come il 20% della popolazione mondiale più ricca, detiene l’82,7 % della ricchezza globale, mentre il 20% più povero dispone di solo l’1,4 % del reddito globale.
A questa visione di uno sviluppo lineare per i paesi del sud del mondo, legato al modello di globalizzazione, si contrappongono teorie economiche diffusesi a partire dagli anni settanta del novecento, che dimostrano come questo squilibrio tra economie sviluppate e sottosviluppate, sia invece funzionale al mantenimento di “privilegi” per i paesi più evoluti, dopo il superamento del modello coloniale. Quella che oggi noi chiamiamo globalizzazione è di fatto la diffusione a livello globale di un modello economico. Questo riportato al settore della produzione di cibo è di fatto l’esportazione del modello Agro-Industriale capitalistico ed in senso più ampio del neoliberismo. Sicuramente portatore di alcuni elementi positivi come la crescita della produttività, ma che a fronte del fallimento di altri modelli legati all’economia pianificata, viene ora presentato come l’unico modello possibile. (C’è una frase molto famosa di Margaret Thatcher degli anni ‘80 che dice: “There is no alternative”, non c’è alternativa).
Questi i cinque elementi chiave della globalizzazione contemporanea:
·       Il capitale è sempre più mobile (ricerca di profitti e di mercati su scala globale)
·       Innovazioni organizzative delle imprese (multinazionali)
·       Riduzione dei costi e dei tempi di trasporto e comunicazione
·       Aumento dei flussi di capitale finanziario
·       Diffusione di politiche e programmi che favoriscono tutto questo.
Questo come si riflette sul sistema di produzione del cibo su scala globale?
Queste le principali caratteristiche del consumo e post consumo( sprechi, distruzioni,etc) del cibo globalizzato:
·       globalizzazione degli scambi commerciali a livello internazionale
o    Valore delle esportazioni agroalimentari italiane: da 5.500 mln $ (1980) a 41.000 mln $ (2016)
o   Valore delle importazioni agroalimentari italiane: da 13.000 mln $ (1980) a 45.000 mln $ (2016)
·       ruolo delle grandi imprese multinazionali
o   Le 10 principali aziende multinazionali del food (Big Food) possiedono centinaia di marchi di cui siamo abitualmente consumatori, ed attraverso tale concentrazione determinano le politiche di prezzo e di approvvigionamento. (fonte OxFam – ONG Inglese)
·       Divisione internazionale del lavoro e le global value chain
o   Nei prodotti al consumo la catena del valore della filiera delle materie prime è sempre più globale e distribuita in varie parti del mondo, parte per necessità ( tipicità delle produzione) parte per scelta economica di costi di produzione, incidendo sulle scelte di sviluppo di intere aree geografiche.
La filiera agro alimentare mondiale è rappresentabile dal modello a clessidra. Dove ai due estremi ( i lati più ampi della clessidra) troviamo una pluralità di soggetti dediti alla produzione del cibo / materie prime e dall’altro lato la massa dei consumatori. I punti di strozzatura della clessidra sono rappresentati dal sistema di aziende di trasformazione e dal sistema distributivo sempre più rappresentato dalla grande distribuzione organizzata, con caratteristiche sempre più internazionali ( Multinazionali di Food Producers e Multinazionali GDO).Questa strozzatura fatalmente determina il concentrarsi del potere di determinazione del prezzo di remunerazione ai produttori agricoli ed il prezzo di vendita al consumo, concentrando in queste organizzazioni un potere enorme. Per provare a superare questo modello, una delle linee di cambiamento è rappresentato dal passaggio da una produzione su larga scala a qualità indistinta o non peculiare, a produzioni su medio-piccola scala ad alta impronta qualitativa. In questo secondo caso sarà più agevole ottenere remunerazioni più significative del prodotto all’origine caratterizzato da qualità alta e peculiare. Il lato oscuro della medaglia è che ancora non è dato conoscere come si potranno soddisfare le esigenze alimentari di una popolazione mondiale che raggiungerà i 10 miliardi di abitanti a metà di questo secolo, con produzioni di nicchia su scala ridotta. (da commodity a specialty) Ambienti diseguali caratterizzano da un punto di vista geografico il panorama dei sistemi di produzione del cibo globalizzati. Vi troveremo:
·       Centri urbani dove si prendono le decisioni e si consuma
·       Spazi della produzione agroindustriale globalizzata
·       Spazi dell’agricoltura specializzata
·       Spazi della produzione per l’esportazione (eterodiretta)
Uno dei fenomeni emergenti nel contesto prima delineato è quello del “Land Grabbing” (Accaparramento dei terreni), che si sta verificando soprattutto in Africa, dove nazioni straniere stanno comprando o affittando a lunga scadenza, dai governi locali, vaste aree di territorio per impiantare nuove coltivazioni sostanzialmente per le esportazioni verso i loro mercati ( Es. Cina,Paesi Arabi,India ma anche USA,GranBretagna e Germania). Ciò avviene senza tener conto dell’utilizzo tradizionale dei territori per la soddisfazione dei fabbisogni locali, ed in contesti tendenzialmente a bassa capacità di gestione statale o peggio ad alto tasso di corruzione. Elementi che frenano la globalizzazione della produzione di cibo, sono rappresentati in primo luogo dalla rilevanza e peculiarità dei territori ( elemento Naturale) ed in secondo luogo dall’aspetto culturale, in quanto l’adattamento a cibi o abitudini alimentari diverse da quelle tradizionali della propria area, richiedono lunghi tempi di adattamento. Al contrario forze che spingono verso la globalizzazione sono costituite dal Libero Mercato con:
·       Integrazione dell’agricoltura nelle dinamiche globali dell’accumulazione capitalistica
·       Accordi commerciali internazionali (GATT, NAFTA, TTIP, CETA, CEE),
·       Governance globale scambi economici (WTO)
e dalla Lotta alla Fame con:
·       Sforzi internazionali per diritto al cibo hanno esportato un modello economico
·       FAO, World Bank, FMI
·       Rivoluzione verde
·       Passaggio autosufficienza-sicurezza-sovranità
Occorrerà insistere sulla diffusione del concetto di Sovranità Alimentare che si declina nella seguente definizione:
“il diritto dei popoli, delle comunità e dei Paesi di definire le proprie politiche agricole, del lavoro, della pesca, del cibo e della terra che siano appropriate sul piano ecologico, sociale, economico e culturale alla loro realtà unica. Esso comprende il vero diritto al cibo e a produrre cibo, il che significa che tutti hanno il diritto a un cibo sano, nutriente e culturalmente appropriato, alle risorse per produrlo e alla capacità di mantenere se stessi e le loro società”. Via Campesina, 1996

Dal punto di vista dell’agronomo ( F. Borrelli ) viene sottolineato come la discussione sulla produzione di cibo affronti una realtà complessa che fino ad ora ha scontato per lo più un approccio puramente economicistico o, al più basso livello, quello folcloristico, mentre sarà sempre più necessario un approccio scientifico multidisciplinare. Qualche dato sul sistema dei Produttori:
90% della produzione agricola mondiale è in mano ad agricoltori con aziende agricole di carattere familiare (500 milioni di aziende agricole per un numero di circa 2,5 miliardi di addetti)
80% di queste aziende agricole familiari opera su appezzamenti inferiori ad un ettaro (Sostanzialmente deve utilizzare circa la metà di questa produzione per autoconsumo, e con la vendita dell’altra metà ricavare i mezzi per l’azienda agricola stessa e per le necessità di vita non strettamente alimentari come lo studio, la sanità, la casa, etc.)
Risulta evidente che una struttura del genere è fortemente esposta e vulnerabile a qualsiasi stress proveniente dall’esterno, sia di origine economica sia di origine naturale. L’evidenza dei cambiamenti climatici di questi ultimi decenni porta ad un aumento considerevole del  rischio di perdita dei raccolti dovuti a condizioni meteorologiche estreme e sfavorevoli che inducono, in ultima istanza, ad un aumento consistente della malnutrizione.  La sfida posta dall’agenda dell’ONU al 2030 è quella di ridurre a zero la Fame nel mondo. Tale obiettivo, se si considerano le proiezioni disponibili ad oggi, resta purtroppo ancora una utopia, in quanto vengono previsti in base all’evoluzione delle dinamiche attuali, al 2050 ancora 600 milioni di persone che soffriranno la fame. Questo della malnutrizione è un carattere endemico che porta al sottosviluppo di interi paesi, in quanto risulta l’origine di un circolo vizioso che collega la fame alla carenza di cultura/istruzione ed alla fine alla incapacità culturale ed oggettiva di migliorare le condizioni di sviluppo di un’area ed il conseguente tenore di vita. La centralità del modello di agricoltura familiare sarà fondamentale da qui al 2050, e deve essere compreso sia dai consumatori sia dal mercato e dagli organismi che dettano le regole dello sviluppo globale (Governi Occidentali, Governi dei Paesi emergenti, Organizzazioni Internazionali di Sviluppo e Cooperazione, Enti mondiali di regolazione del Commercio e della Finanza). Di fatto ciò non è avvenuto finora e, come si diceva prima, al crescere del modello basato sul Mercato libero, abbiamo riscontrato una crescita delle disuguaglianze, al contrario di ciò che si auspicava. Esempio Haitiano – a seguito di una crisi politica nel 1986 WTO condiziona la concessione di aiuti alla abolizione dei dazi sulle importazioni di cereali. Ciò determina che il paese che era in una condizione di autosufficienza nella produzione di riso, si trova inondato da importazioni a prezzi competitivi del riso americano con conseguente distruzione dell’intera filiera di produzione nazionale, con la conseguenza finale di rendere il paese totalmente dipendente, per il cibo base della dieta locale, dalle importazioni dall’estero. Analogamente nel 1991, a seguito di un embargo statunitense alle importazioni di cacao e caffè, la filiera di produzione del caffè haitiano, caratterizzato da una qualità superiore, entra in profonda crisi. Gli agricoltori disperati abbandonano le piantagioni e le estirpano per la produzione residuale di carbon fossile. Ciò causa la completa distruzione della filiera del caffè generando di fatto lo spopolamento delle campagne ed un movimento di inurbamento misero nelle bidonville attorno alla capitale. Quando nel 2010 avviene il terremoto, la conseguenza tragica è quella di un bilancio di 300.000 morti. Questa ricostruzione forse schematica non è però così distante dalla realtà vissuta. Analogamente la povertà rurale in Africa non è immediatamente percepita dal pubblico occidentale, ma lo squilibrio che essa genera tra città e campagna causa un forte inurbamento precario verso le città maggiori e da qui, successivamente, dà origine alla spinta dei flussi migratori verso aree occidentali più agiate. Tale risultato finale è invece molto ben recepito ed enfatizzato dalle popolazioni ricche.
Le soluzioni?
Il modello di sviluppo agricolo esportato dai Paesi Occidentali, anche attraverso i programmi legati alla rivoluzione verde, di fatto non ha funzionato e ha contribuito ad inasprire le disuguaglianze. Ciò è largamente dovuto ad un approccio economicistico che ha teso a semplificare il modello di produzione, non tenendo conto delle realtà geopolitiche locali, e di fatto esportando un modello agroindustriale intensivo adatto ai climi temperati e ad una struttura di aziende agricole ad ampia estensione terriera. Ciò ha prodotto il risultato che il 72% dell’intera produzione agricola mondiale è costituito da 14 prodotti (grano, mais, riso, manioca, patate, etc), con una notevole perdita di biodiversità e l’abbandono di colture locali selezionate naturalmente nel corso dei secoli, che meglio potrebbero adattarsi anche ai cambiamenti climatici in corso. Ovviamente affrontare modelli diversificati implica mettere in campo molte più conoscenze di quelle richieste da un modello semplificatorio che tende ad esportare il modello Agroindustriale estensivo, ma ciò sarà reso ineluttabile dalla necessità di considerare anche la capacità di rigenerazione della fertilità dei suoli. Soprattutto in aree tropicali e subtropicali ci si trova ad affrontare un Eco Sistema dalle caratteristiche della foresta primordiale e non certo quello delle grandi estensioni di pianure in zone temperate. Da ciò ne deriva, inoltre, la necessità di trovare modelli di sviluppo che richiedano minori investimenti per unità agricola e che siano capaci di aumentare l’efficienza produttiva e la sostenibilità; avendo sempre in mente l’imperativo di dover sfamare 11 miliardi di umani alla fine del secolo, in modo sostenibile per il nostro pianeta Terra. Dovremmo provvedere ad un cambio del modello di sviluppo che tenga conto della frammentazione delle proprietà, che non si basi su una logica di colture estensive e che sia capace di coniugare la piccola dimensione delle aziende agricole con l’incremento dell’efficienza e con la capacità di fare rete lungo l’intera filiera. Per avere speranza di successo in questo indirizzo occorrerà investire soprattutto sulla cultura e sullo sviluppo delle capacità organizzative. Altra leva imprescindibile potrà essere l’uso di tecnologie digitali applicate all’agricoltura che supportino lo sviluppo organizzativo delle filiere, che agevolino la gestione della dinamica dei prezzi nei differenti periodi di raccolto, per agevolare il bilanciamento di remuneratività tra produttori e grandi acquirenti. Tali tecnologie saranno ancora più determinanti nella diffusione delle conoscenze sulle migliori pratiche agricole (Best Practice), sull’istruzione degli agricoltori e sulla diffusione di modelli cooperativi. E lo saranno ancor più di quanto avvenuto attraverso la meccanizzazione, in parte forzata dall’esportazione del nostro modello agroindustriale.

Nessun commento:

Posta un commento