mercoledì 1 luglio 2020

La parola del mese - Luglio 2020


La parola del mese
 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
LUGLIO 2020
Progresso (vs crescita)
La scelta di “Progresso” come parola del mese è maturata leggendo il saggio (recentemente uscito per i titoli “Il Mulino” nella sezione significativamente intitolata “parole controtempo”), di Aldo Schiavone (storico, accademico e saggista, membro dell’Italian Institute of Human Sciences –SUM)  dall’omonimo titolo, (la cui lettura ci è stata suggerito  anche  dalla nostra socia Carla Toscano che  doverosamente ringraziamo per la sua preziosa curiosità culturale)…

A differenza di quelle dei due mesi precedenti non si tratta certo di un neologismo, e neppure di un termine scarsamente utilizzato, lo spunto offerto da Schiavone è però sembrato in grado di coprire una necessità avvertita in modo ancora confuso; quello di individuare un termine capace di definire lo scopo ultimo, l’idea guida di base, della attuale fase di “ripartenza” resa finalmente possibile, e indispensabile, dal confortante allentamento della pressione pandemica.  Se sono sicuramente importanti tutti gli interventi specifici che consentano di recuperare un quadro, economico e sociale, a dir poco preoccupante, al tempo stesso, come da più parti e a più riprese è stato sottolineato, questa “ripartenza” può, e deve, rappresentare l’occasione per intervenire sulle tante storture di sistema che già in epoca precovid gravavano sul  nostro, e per essere al contempo, in un contesto necessariamente globale, anche l’occasione di (ri)modellare l’economia su basi ecologicamente ed ambientalmente davvero sostenibili. (ancora una volta, nel nostro piccolo, abbiamo profeticamente intitolato il programma 2019/2020 di CircolarMente “ricucire le ferite”!) Se è’ allora indispensabile definire idee e proposte immediatamente spendibili, ma già inserite in ottiche generali di lungo periodo (continuiamo a ritenere che quella avanzata dal Forum Disuguaglianze sia in questo senso un validissimo e concreto contributo) è altrettanto urgente individuare “parole” che possano essere il più possibile condivise ed in grado di dare nome, e sostanza, agli obiettivi di fondo da raggiungere. “Progresso”, nella sua accezione più nobile, potrebbe quantomeno concorrere in questo senso. Per presentarne il significato abbiamo quindi scelto, nella molteplicità delle sue declinazioni, quella che di più si lega al contesto economico e sociale, ponendola inoltre in antitesi con quella che, a nostro avviso, a sua volta rappresenta il modo non più condivisibile per pensare questa ripartenza.

Progresso: lo sviluppo verso forme di vita più elevate e più complesse, perseguito attraverso l’avanzamento della cultura, delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, dell’organizzazione sociale, il raggiungimento delle libertà politiche e del benessere economico, al fine di procurare all’umanità un miglioramento generale del tenore di vita e un grado maggiore di liberazione dai disagi (fonte: Enciclopedia Treccani)
Crescita (economica): L’insieme degli aspetti quantitativi dello sviluppo, misurati attraverso le principali grandezze macroeconomiche (reddito nazionale, investimenti ecc.). La teoria della crescita si distingue dall’economia dello sviluppo per l’attenzione esclusiva agli aspetti quantitativi e alla formalizzazione, a discapito dello studio degli aspetti istituzionali, storici, etici, antropologici che condizionano i processi di sviluppo nelle diverse regioni del mondo (fonte: Enciclopedia Treccani)
Progresso e crescita (alias sviluppo) sono infatti, se intese in questi termini e se valutate nell’attuale fase storica dell’umanità, ossia dopo ormai tre secoli di incessante e frenetica corsa “in avanti”, in totale antitesi. Ancora adesso, in queste primi momenti di riflessione sul post pandemia, il rischio resta quello che prevalgano i richiami, che si levano da destra e da (buona parte della) sinistra, all’imperativo della crescita, per molti quindi ancora l’unica dottrina possibile.  Se l’alternativa non ci sembra poter essere un richiamo alla “decrescita”, termine che, seppure anche da chi da tempo la propone non sia schematicamente intesa come “meno ricchezza”, molti spaventa perché troppo facilmente associabile alle parole “recessione”, “impoverimento”, può essere allora utile capire se (ri)parlare di “progresso” può (ri)avere un senso. Scritto prima dello scoppio della pandemia il testo di Schiavone solo in parte però fornisce spunti di riflessione in questo senso, un suo più diretto aggancio con la crisi pandemica è infatti affidata ad un postfazione aggiunta successivamente, e propone una lettura del “progresso” proiettata su orizzonti più ampi con una interpretazione decisamente forte e spiazzante. Va ben oltre il significato storicamente consolidato di “progresso” e, come sempre in questi casi, la sua condivisione oppure la sua critica richiedono una riflessione attenta. Ma in fondo è proprio questo lo scopo della “Parola del mese”, e di CircolarMente in generale.
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Capitolo I - Lo sguardo dell’angelo
E’ lo sguardo con cui, nella lettura di Valter Benjamin, ”l’angelus novus” dipinto da Paul Klee guarda alla “tempesta” che chiamiamo “progresso”….

Lo scritto di Benjamin è del 1940, davvero difficile in quel contesto formulare un giudizio diverso, ma tutto il Novecento rappresenta da una parte l’apice del paradigma progressista e dall’altra il pirmo affiorare di dubbi, remore, critiche aperte. Ben altre aspettative e certezze avevano infatti accompagnato un’idea indissolubilmente legata alla modernità fino a rappresentarne di fatto la tensione ideale. Quella che lo aveva fatto germogliare a metà del Trecento, subito dopo la spaventosa peste nera che aveva cancellato un terzo della popolazione europea, allorquando come attiva reazione si era formata la convinzione che il tenace operare umano avrebbe creato le basi per un costante miglioramento dei modi di vita, della conoscenza, della stessa capacità di governare la natura. L’antica concezione della circolarità del tempo, con l’inesorabile ripetersi della catena degli eventi, lasciava il posto ad una sua idea rettilinea con una freccia costantemente puntata verso un futuro immaginato sempre migliore del presente. I secoli delle scoperte geografiche, dell’esplosione dei commerci, delle grandi potenze marinare, di una classe imprenditoriale sempre più attiva e vincente, hanno dato progressiva sostanza a questa convinzione. nella parte del mondo investita dalla modernità. Ma è solo a cavallo fra Settecento e Ottocento, con l’età dei Lumi, che la parola progresso acquista senso compiuto. E’ in questo passaggio storico che inizia a cementarsi un rapporto che, con vicendevole incentivo, sarà alla base dell’intero tracciato progressista: quello della scienza e della tecnica con l’economia e la società. Un rapporto che diventa la chiave di lettura fondamentale dell’Ottocento, il secolo che Jacques Le Goff (uno dei massimi storici francesi, scomparso pochi anni fa) a ragione veduta, definisce “il grande secolo dell’idea di progresso”. Fino alla sua autentica celebrazione operata dall’ positivismo di fine Ottocento all’insegna della definitiva convinzione che il metodo scientifico applicato a tutte le discipline umane fosse il vero motore della storia. L’ingresso nel nuovo secolo avviene non a caso con un continuo balzo tecnologico, ogni scoperta scientifica, ogni innovazione tecnica, conteneva già in nuce il salto successivo, ogni cambiamento nei modi di produzione e nei modelli sociali già si apriva in nuove direzioni. Non sono mancate lungo questo trionfale procedere ottocentesco voci discordanti se non di aperta critica: il Romanticismo tutto, ma poi Leopardi (le magnifiche sorti e progressive) e Nietzsche per citarne solo alcuni, a dimostrazione di un primo affiorare di remore filosofiche sul ruolo e peso della scienza. In campo più strettamente politico posizioni di rifiuto appartengono al campo reazionario della “destra” nostalgica piuttosto che dell’isolamento sdegnoso del Papato, mentre la sinistra al contrario, marxismo in primis, ha fin da subito fatta sua la bandiera del “progresso” visto come orizzonte in cui il progredire tecnico si legava strettamente al superamento delle ingiustizie sociali. La lotta di classe non è mai stata un contrapporsi al “progresso” in quanto tale, ma al suo connubio con il sistema di produzione capitalistico e alle logiche di profitto che lo ispiravano. A Novecento appena avviato la tragedia del primo conflitto mondiale, e le conseguenti profonde turbolenze sociali e politiche, segnano un primo vacillare di questa fede indiscussa nel progresso. Nei decenni successivi se da una parte il peso di scienza, tecnica, e tecnologia continua a crescere in un costante accelerato volano, iniziano, soprattutto in campo intellettuale, a manifestarsi alcuni significativi distinguo. Da una parte nelle scuole di pensiero economico anglosassoni alla parola “progress”, ritenuta troppo impregnata di idealità, si inizia a preferire quella più asciutta e tecnica di “growth”, di “crescita”, dando avvio, con questa sottigliezza all’apparenza solo terminologica, al prevalere dell’aspetto economico e produttivo, al suo riscontro essenzialmente quantitativo. Al contempo  in Francia iniziano a comparire analisi e studi, in particolare in campo sociologico, che guardano con preoccupazione alle crescenti storture e contraddizioni prodotte dal procedere progressista, ad iniziare proprio dalla catastrofe della Grande Guerra la quale aveva chiaramente mostrato il potenziale autodistruttivo in esso insito. (lungo questa linea di pensiero francese si collocherà, alcuni decenni dopo, un saggio fondamentale di Raymond Aron, 1905-1983, filosofo e sociologo , con emblematico titolo “Les désillusions du progrès”). La fiducia in un radioso futuro strettamente legato al procedere del progresso in questi stessi decenni resta uno dei tratti distintivi della sinistra, ed in particolare del neonato movimento comunista internazionale e della sua nazione guida, la Russia dei Soviet, che lo fanno vieppiù coincidere con la ostruzione di una “futura umanità”. Al contrario in tutto l’Occidente pesano moltissimo la grave crisi del 1929, che spazza via ogni illusione sul benessere garantito dall’industrializzazione, e poi lo spaventoso spettacolo delle macerie della Seconda Guerra e dell’indicibile dramma dell’Olocausto. Le tragedie che Benjamin immagina, avendole perfettamente intraviste e intuite, essere sotto lo sguardo dell’Angelus Novus. Dubbi, sfiducia, rifiuto sembrano però ancora manifestarsi in prevalenza in ambito culturale ed intellettuale, l’uscita dal dramma della lunga fase di conflitti mondiali rappresenta invece a livello di massa, non diversamente dal primigenio reagire alla peste del Trecento, una fase, che si rivelerà comunque breve, segnata dal fervore della ricostruzione, e delle crescenti conquiste degli importanti diritti del welfare. Un comprensibile clima di rinnovata fiducia verso il futuro accresciuta dalla diffusa sensazione di benessere del capitalismo consumistico, solo parzialmente attutiti provvisoriamente dai timori di un conflitto nucleare e dalle permanenti tensioni della guerra fredda. A partire dai primi anni settanta, e poi a seguire in modo via via più consistente, tornano a farsi sentire voci che si levano a evidenziare la dissociazione fra il crescente e inarrestabile sviluppo della scienza e della tecnica, con la loro collegata capacità di influenzare ogni aspetto della società, e la potenzialità complessiva di adeguare una parallela progettualità culturale e sociale ed una razionalità politica di governo dei processi sociali, generati proprio da scienza e tecnica. Una dissociazione che esce dai ristretti ambiti intellettuali e che diventa, all’interno dei forti movimenti di lotta degli ultimi decenni del Novecento, un sentire sempre più diffuso e partecipato man mano che acquistano maggiore evidenza i pericoli e le ricadute negative sull’ambiente e sulla stessa vita che tale sviluppo comporta. La caduta del Muro e la fine dell’esperienza del comunismo mondiale implicano in aggiunta il venire meno dell’ultima vera barriera, ideologica, che ancora conservava un’idea di futuro in cui progresso tecnico e sociale restavano collegati.  I decenni a cavallo del nuovo millennio, proprio in coincidenza con il pieno affermarsi della terza rivoluzione tecnologica vedono esplodere te numerose contraddizioni del processo di globalizzazione neoliberista.  La vittoria globale dell’economia capitalistica, che avrebbe dovuto segnare, con la “fine della storia”, il definitivo affermarsi di una razionalità globale incentrata su individualismo e logiche di profitto, vede al contrario esplodere sentimenti di ansia e sospetto. Il ridimensionamento delle coperture offerte dallo stato sociale, l’esplosione di vasti processi di deindustrializzazione e di crescente disuguaglianza di reddito, il manifestarsi dei gravissimi danni ambientali e climatici accentuano la diffidenza verso un futuro sempre più definito da innovazioni tecniche che si realizzano a velocità troppo elevate per il comune sentire. Per la prima volta l’idea di futuro, visto nella sua interezza, delle nuove generazioni appare peggiore di quella dei loro padri. La parola “progresso” non suscita più certezze e aspettative confortanti. La freccia del tempo non è più unica, si è sdoppiata: sempre più puntata in un avanti accelerato quella tecnologica sempre più incerta e contratta quella del comune sentire.
Capitolo II - Dove va la freccia
Un comune sentire che sembra ritrarsi di fronte alla potenza dell’attuale salto scientifico e tecnico, e delle trasformazioni che sembra in grado di produrre, fino a ritenere che una definizione di questa epoca non possa più essere affidata alla parola “progresso”. Fino al punto di non ritenerla più spendibile come paradigma dell’intero pensiero storico? La tentazione appare forte in molti eppure tecniche e conoscenza, strumenti tecnologici e saperi man mano acquisiti, sono da sempre alla base del “progredire” umano. Lo sono dai tempi dei nostri antenati preistorici così come ai tempi dell’acceleratore di particelle del CERN di Ginevra, lungo un procedere nel tempo che ha avuto le caratteristiche di una incessante “progressione” irreversibile. Una progressione che può essere letta come un itinerario ispirato, fin dal suo grado zero, dall’istinto umano di affrancarsi dalla dipendenza dal contesto naturale, proprio grazie al conoscerlo sempre più a fondo e quindi al governarlo sempre meglio. Può essere questa la freccia di tutta la storia umana ed ha una direzione precisa e progressiva che conduce dal passato al futuro e che è intimamente connessa con una predisposizione morfologica dell’animale uomo a sviluppare una intelligenza duttile, trasformatrice e non di rado anche rapinosa. Vale a dire che la relazione tra “homo sapiens” e contesto naturale ha di per sé carattere progressivo con una freccia che va dal più semplice al più complesso. Va anche detto inoltre che la storia dell’uomo non può certo essere ridotta al solo rapporto con il contesto naturale. E’ fatta in ugual misura di tutti i fattori inter-umani: socialità, forme economiche e giuridiche, relazioni di potere, pensiero astratto, esperienze religiose e filosofiche, amore per il bello, idee morali, gusto musicale e le tantissime altre manifestazioni della cultura. Anche a questa dimensione umana può essere applicato il paradigma del “progresso”? E’ sufficiente la sola parabola del Novecento per comprendere la reversibilità della freccia se ad essa applicata. A questa indiscutibile constatazione si deve poi aggiungere la necessaria riflessione sul “posto” dell’uomo nel generale complesso evolutivo della vita sul pianeta Terra.  Una evoluzione che fin dal suo primo comparire è sempre proceduta per scarti e salti improvvisi, governata dal gioco del caso e dell’eccezione, alternando esplosioni di forme di vita a non rari momenti di rischio di estinzione totale. Lungo un arco temporale di miliardi di anni che sfugge, per definizione, alla reale comprensione e messa fuoco umana. Questa storia evolutiva immensamente più antica e lenta non si concilia con quella culturale. Troppo diverse le scale temporali. Prende corpo da questo iato l’illusione umana di una natura ferma, immobile sfondo per i nostri pensieri ed azioni, se non un proscenio in movimento, anch’esso “progressivo”, finalizzato alla nostra vincente comparsa sulla scena. Teogonie e teologie, e buona parte della intera cultura umana, questo in sostanza raccontano. Un racconto che dà dignità e significato ad un naturale procedere che, anche grazie ad una serie di incredibili passaggi favorevoli, ha prodotto la vincente comparsa dell’intelligenza umana. Una (auto)celebrazione non priva di oggettivi riscontri. A questa posizione, che sostanzialmente è quella che dà senso ultimo alla freccia del progresso, se ne contrappone però, una seconda, anch’essa peraltro frutto dell’intelligenza umana, che, attraverso culture e pensatori quali ad esempio, Lucrezio, Spinoza, a Darwin, ritiene l’uomo un modesto, e provvisorio, ramo dell’albero della vita nel quale dovrebbe stare con maggiore olistica modestia. In questo quadro non c’è progresso la freccia, non ha una direzione precisa. E’ forse però arrivato il tempo, visti i possibili scenari che attendono le scelte future dell’umanità, di capire se esiste una terza posizione che faccia sintesi. Una posizione che da una parte riconosca che nulla, specie sul piano scientifico, autorizza l’uomo a ritenersi il risultato voluto di un progetto in tal senso finalizzato, ma che dall’altra accetti che la comparsa dell’umano, e l’azione della sua intelligenza e della sua cultura, hanno ormai, “oggettivamente”, un ruolo sullo stesso generale percorso evolutivo della vita terrestre. Una posizione che, come logica conseguenza, ridarebbe senso alla parola progresso, una direzione alla freccia, responsabilizzando l’uomo, e la sua cultura, a muoversi verso un futuro in armonia con la vita tutta. E’ una rilfessione che sta assumendo carattere di assoluta urgenza.  Il Novecento ha già sancito la capacità umana di modificare la natura.ma in questo primo scorcio del nuovo millennio si sono sviluppate ulteriori formidabili potenzialità che impongono una responsabile e ragionata scelta fra queste tre posizioni. Si è infatti sempre più vicini alla possibile definitiva scissione fra due mondi: quello naturale e quello culturale, e la oggettiva invasività di queste potenziali renderà naturale non più quello che non abbiamo ancora “toccato”, ma quello che avremo deciso di non toccare e di difendere come tale. E l’uomo, nella sua interezza, rientra pienamente in tutto questo. Esiste sempre più la concreta possibilità che l’uomo si congedi dalla selezione naturale, che il suo futuro sia deciso non più dall’evoluzione ma dalla sua stessa intelligenza, magari potenziata. Lo stesso Darwin aveva intravisto il possibile crearsi  di un “effetto reversivo”, altrimenti detto proprio “effetto Darwin”, ossia che l’evoluzione giunga a selezionare una cultura capace di sostituirsi alla stessa selezione naturale. Siamo sempre più vicini a questa situazione sin qui del tutto ipotetica, che implicherebbe che umano sarà ciò che l’uomo stesso vorrà che sia. Sulla base di quanto è finora stato anche questa possibile svolta sarà definibile come “progresso”? ancora si collocherà lungo la sua freccia? Esistono diverse direzioni, scegliere verso quale orientarci sarà un passaggio tanto complesso quanto decisivo, per farlo al meglio, per rispondere a queste due domande, occorre urgentemente sciogliere quella scissione fra potenza della scienza e della tecnica e capacità di governarla per il bene comune che, come si è visto, sono alla base dell’attuale diffidenza della parola “progresso”.
Capitolo III – Il futuro ritrovato
Come intervenire su questa scissione, su questa frattura? Tenendo inoltre conto che è la prima volta nella storia umana che il rapporto tra tecnica e altri saperi si presenta sbilanciato a favore della tecnica e con una chiara tendenza, se nulla succede, ad accentuarsi ulteriormente. La storia ci racconta di un sbilanciamento esattamente opposto, quello che nella cultura greco-romana, base di tutta la cultura occidentale, ha visto la tecnica ristagnare a fronte del grande fiorire degli altri saperi. Alla rivoluzione agricola, alla scoperta della metallurgia, all’uso della ruota, per diversi millenni non seguirono altre innovazioni di portata significativa. In questa sorta di stasi tecnologica, appena scalfita dal materialismo scientifico della scuola ionica, la spinta alla conoscenza si è orientata a lungo verso l’umano, il pensiero, lo spirito. Uno sbilanciamento, opposto a quello attuale, che ha segnato per secoli  l’intera cultura. Lo testimonia in modo calzante l’incongruenza del pensiero antico, le cui eccellenze nulla ancora oggi hanno perso di valore, nel considerare la schiavitù ed il ruolo della donna. Una macchia, incomprensibile e imperdonabile, che non è spiegabile con un deficit filosofico o di pensiero sociale, ma che trova invece una sua ragione proprio nel ritardo tecnologico del tempo. Schiavitù e ruolo della donna hanno infatti rappresentato, al punto da figurare come elementi “naturali” della condizione umana, le due basi sulle quali poggiava la “produzione” dei beni primari, compresa la collegata creazione del surplus che consentiva al ceto privilegiato la stessa speculazione intellettuale, diversamente non ottenibili.  E non a caso l’idea di una emancipazione di tutto l’umano ha potuto iniziare a fare breccia nella storia del pensiero quando la tecnica ha iniziato ad ampliare il suo peso sulle condizioni materiali di esistenza e produzione. Pensiero sull’umano e tecnica procedono quindi lungo percorsi diversi ma non indipendenti, e la storia dimostra come sia soprattutto la seconda a incidere sul primo. La potenza della tecnica crea infatti le condizioni perché il pensiero tutto possa elevarsi, allargarsi fino a concepire l’umano nella sua interezza. Come si innesta allora il “progresso” in questo quadro? Il percorso della scienza e della tecnica da sempre procedono lungo una freccia progressiva, e in modo ancor più netto a partire dalla modernità, ma non dissimile appare quello del pensiero che dovrebbe “padroneggiare” la crescente potenza scientifica e tecnologica. Per comprenderlo è però necessario uno sguardo sui tempi lunghi, perché sono indubitabili i passaggi storici, gli esempi si sprecherebbero, in cui un deficit contingente di pensiero ha consentito usi distorti della tecnica. Lo sguardo dello storico deve icogliere il risultato su archi temporali che vadano oltre tali passaggi, in tal caso diventa possibile vedere è che, finora!, le ricadute del progresso scientifico e tecnico sono state comunque incanalate in una direzione progressiva di avanzamento globale della società umana. Ma al tempo stesso coglie anche l’evidenza che questo procedere progressivo eè dipeso, e ancora dipende, dalla capacità reale di orientare con chiarezza e costanza la potenza di scienza e tecnica E che quindi quanto è più grande questa potenza tanto più deve valere questa capacità di controllo e orientamento. Da questo rapporto conseguono poi due precise conseguenze. La prima, quella più importante, consiste nella consapevolezza che l’orientamento in avanti della freccia del “governo della potenza” ha un solo verso, quello sin qui dato da tutta la storia umana: che la ricaduta del progresso tecnico investa l’intera totalità dell’umano, di tutte le esistenze. La seconda, che dà senso e completezza alla prima, è che, come ancora una volta la storia dimostra, più procede la tecnica e più può procedere anche la stessa capacità di orientamento; vale a dire che, come si visto, senza quello tecnico l’intero progresso umano non può realizzarsi, e che quindi non si esce dalle difficoltà cercando di comprimere la potenza tecnica. Mai come in questo passaggio storico è allora indispensabile che la civiltà tutta cresca fino al livello necessario per governare una scienza ed una tecnica in grado di produrre, come già lo stanno facendo, innovazioni epocali. Una impresa che può essere vincente se realizza due obiettivi: definire un nuovo pensiero sull’uomo, e del suo posto in questo mondo, all’altezza della sfida e una nuova politica, una nuova democrazia, vale a dire e giuste sedi in cui si può esercitare la capacità di governo del processo tecnico. Sapendo che il primo non si ha se non cresce la politica e che il secondo per realizzarsi deve contare su un pensiero nuovo. Ed che ambedue necessitano di un ritorno in campo dell’idea di progresso coniugato con una nuova teoria, antropologica, culturale e politica, dell’umano che abbia integrato in sé la stessa tecnica. Un passaggio quest’ultimo che, in coerenza con il suo obiettivo ultimo, si può realizzare solo se il paradigma individuale, che ha caratterizzato sin qui l’intera modernità e che nel neoliberismo ha conosciuto la sua massima celebrazione, lascia il posto all’interezza dell’umano, ad una visione davvero collettiva, andando anche oltre alla visione collettivista, socialista e comunista, che ancora non riusciva a pensare il sociale se non partendo dall’individuale. Per delineare questa nuova idea di persona/sociale un primo decisivo banco di prova, fra i tanti che la potenza della tecnica e della scienza stanno delineando, consiste nel considerare inviolabile quella uguaglianza genetica che la storia umana ci ha consegnato e che appare invece in gran misura minacciata dagli attuali sviluppi della ricerca. Sta quindi a noi mutare ciò che si presenta allo sguardo dell’angelus novus di Klee e Benjamin.
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Si è detto in apertura della postfazione aggiunta da Schiavone per collegare il suo saggio agli spunti offerti dalla pandemia. Ci è sembrato utile recuperarne i passaggi più significativi per chiudere il cerchio della riflessione offerta da “Progresso”.
Virus e idee: come una postfazione
Molto di quanto è emerso all’attenzione in questa pandemia sembra essere in convergenza con la tesi sviluppata:
· La scienza e la tecnica = Le epidemie sono una costante nella storia umana perché è immutabile il contesto biologico, la darwiniana lotta per la sopravvivenza della specie, in cui avvengono. Ciò che muta è la forma sociale che di volta in volta esse assumono. Quella del covid19 è la prima che ha visto all’opera una medicalizzazione totale planetaria. Scienza e tecnica sono, in questa veste, apparse le vere custodi dell’umano. Chi ancora chiedeva prove della loro “progressività” è stato accontentato
· Il nostro posto nella natura = La pandemia ci ha ricordato, con le modalità della sua origine e diffusione, che l’uomo fa parte di un habitat naturale, di cui non siamo padroni assoluti  e che quindi dovremmo rispettare. Ma non ha senso dire che siamo andati troppo oltre nel sottomettere la natura alla arroganza della tecnica. Ci si è dimenticati troppo in fretta di come si moriva quando la natura era sacralmente intatta. E si continua a non capire che l’arroganza non è della tecnica ma della politica e dell’economia. Acquisire conoscenza e controllo della natura implica anche la sua conservazione ed il suo rispetto. Se questo ancora non succede è perché non si è ancora realizzato un pensiero complessivo che orienti in questa direzione scienza e tecnica
· Governabilità globale = Anche grazie alla rivoluzione tecnologica l’economia ha unificato l’intero pianeta, ma non è ancora nata una corrispondente capacità di governare i processi che ne discendono, ad esempio: del lavoro, della formazione, della cultura, della democrazia, della salute. E’ anche per questo vuoto che la pandemia ha potuto diffondersi. In fondo è l’ennesima dimostrazione dello squilibrio esaminato in questo saggio. La pandemia ha semmai accentuato l’urgenza e l’inderogabilità che la soluzione abbia carattere globale. Magari partendo proprio dalla salute, dalla sanità mondiale con protocolli, cure e strumenti condivisi globalmente

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