I temi affrontati nel Saggio di questo mese sono in
evidente stretto collegamento con la “parola del mese” e con il libro di Aldo
Schiavone “Progresso” che l’ha accompagnata. Temi che la crisi ambientale e
sociale da tempo hanno messo al centro dell’attenzione e che in questa fase
post covid sempre più richiedono soluzioni adeguate e “CONCRETE”. Per meglio
evidenziare questi temi e la loro opportunità di approfondimento ci affidiamo a
quanto riportato nel risvolto di copertina del Saggio stesso
(dal risvolto di copertina)
Tra il 1917 e il 1919 Max Weber tenne due conferenze dal titolo Die
geistige Arbeit als Beruf, che potremmo
tradurre «Il lavoro dello spirito come professione». Formulazione quanto mai
pregnante, perché rappresentava l’idea regolativa, il progetto e la speranza
che avevano animato il mondo della grande cultura borghese tra Kant e Goethe,
tra Romanticismo e Schiller, tra Fichte e Hegel, e avrebbero costituito il
filo conduttore dello stesso pensiero rivoluzionario successivo, da Feuerbach
a Marx. Il «lavoro dello spirito» è il lavoro creativo, autonomo, il lavoro
umano considerato in tutta la sua attuosa
potenza, e volgersi alla sua affermazione significa
liberazione di ogni attività dalla condizione di lavoro comandato, dipendente,
e cioè alienato. Ma il suo dissolversi nella forma capitalistica di
produzione, nell'universale macchinismo, che fagocita quella Scienza che pure è l’autentico motore
dello sviluppo, finisce col delegittimare la stessa autorità politica, che
nella «promessa di liberazione» trova il proprio fondamento. La «gabbia di
acciaio» è destinata dunque a imprigionare anche quel «lavoro dello spirito»
che è la prassi politica? Lo spirito del capitalismo finirà col destrutturare
completamente lo spazio del Politico, riducendolo alla forma del contratto? O
tra Scienza e Politica sono ancora pensabili e possibili relazioni che ci
affranchino dal nostro «debito» nei confronti del procedere senza mete né fini
del sistema tecnico economico? Sono le attuali domande che, un secolo fa, nessuno ha posto con la
drammatica chiarezza di Max Weber – e con le quali, oggi, Massimo Cacciari si
confronta.
Il “Saggio” del mese
LUGLIO 2020
I – Il lavoro dello spirito
Il tema che
Max Weber affronta nelle due conferenze del 1917 e 1919, quello del ruolo “lavoro
intellettuale”, del “lavoro dello spirito” confluirà nei due successivi distinti,
ma collegati, saggi “La scienza come professione” e “La politica come
professione”. Cacciari giudica tale lavoro di Weber ancora in grado di dare
preziose indicazioni sulle domande citate nel risvolto di copertina. In questo
primo Capitolo inquadra il processo storico culturale nel quale, nei cruciali
primi decenni del Novecento, si è inserita la riflessione weberiana. Il tema
del “lavoro dello spirito” è infatti sempre stato al centro di quell'insieme,
vastissimo e profondissimo, di fermenti culturali che, in tutti i suoi campi, ha
segnato, all'alba della modernità, e poi per tutto l’Ottocento, il formarsi e
l’affermarsi degli elementi della cultura “borghese”. Al centro di questi
fermenti sta, a partire dall'era dei “Lumi”, il completo affermarsi del
“sistema della scienza”, del pensare scientifico, ossia di una forma mentis che
liberatasi dai vincoli costrittivi precedenti, da un lato giudica intollerabile
non realizzare ciò che ha pensato e che dall'altro vede, da subito e sempre, in
ogni stadio raggiunto i presupposti per il suo ulteriore superamento. Questa
affermazione del pensare scientifico, e delle collegate riflessioni culturali
in genere, ma in ispecie filosofiche, che congiuntamente definiscono il
concetto di “borghesia intellettuale”, sta alla base anche della parallela ascesa
della “borghesia economica”, dei suoi nuovi modi di produzione, del crescente
ruolo dell’ ”Economico”. Questi
cambiamenti, inarrestabili e rivoluzionari, non potevano non tradursi in una
corrispondente concezione del “lavoro” altrettanto innovativa. Se restava sullo
sfondo il lavoro delle masse, il lavoro comandato della produzione reale, in
questo crogiolo di idee che guardavano ad un cambiamento radicale dell’intero
“umano”, a partire da quello più immediatamente connesso alla forma mentis
scientifica, il lavoro intellettuale, il lavoro dello spirito, apparivano come i soli in grado di
rappresentare, creandoli, i nuovi tempi a venire E così come per la scienza,
finalmente libera di esprimersi sulla base dei propri paradigmi, questo nuovo
lavoro non poteva che essere totalmente libero. Libero di esprimersi, di
affermarsi senza vincoli, di liberare energie e possibilità di avanzamento. E così
come la scienza si candidava ad essere la matrice del nuovo umano il lavoro
dello spirito, in questa fase di liberazione di potenzialità all'apparenza
senza limiti, diventava la premessa per la liberazione umana dal lavoro tout
court. A ben vedere non sfugge a questa visione lo stesso pensiero critico
rivoluzionario marxista, che idealizza sì una nuova società basata su una
diversa giustizia sociale con al centro gli stessi lavoratori “comandati”, ma non
diversamente resa possibile proprio dalla scienza e quindi dal libero lavoro
dello spirito., Ben presto nel corso dell’Ottocento questo iniziale entusiasmo
idealistico deve misurarsi con il progressivo consolidamento dell’economia
capitalistica, e delle connesse logiche che la ispirano, che, lungi dal
coltivare tratti utopici, si concretizza nell'affermarsi completo della ragione
economica, della produzione di ricchezza, del dominio di classe onnivoro. E’ il
progressivo e inarrestabile affermarsi di una nuova religione, la religione del
profitto. Sono queste le logiche, e le pratiche reali, che formano le pareti di
quella che Weber, guardando alla concreta evoluzione storica ottocentesca,
definisce la “gabbia d’acciaio”, una sorta di prigione in cui sono ingabbiate non
solo le masse lavoratrici, ma le stesse idealità iniziali della grande cultura “borghese”.
In questo contesto si apre per il lavoro dello spirito una contraddizione
insanabile: quell'idea utopica del lavoro reso totalmente libero dallo spirito
della scienza se piegata alle finalità del dominio capitalistico, se costretta
nella gabbia d’acciaio, perde completamente i suoi tratti costitutivi, le sue
potenzialità di liberazione. Se la critica rivoluzionaria dà soluzione a questa
contraddizione con la critica al voler fondare il tema della libertà del lavoro
sul solo libero sviluppo del modo di pensare “scientifico”, trascurando il decisivo
peso “materialistico” delle condizioni storiche, sociali ed economiche, entrano
invece in profonda crisi tutte le altre correnti di pensiero incapaci di dare
soluzione alla frattura che si è così aperta. Il sistema della scienza, il libero
lavoro dello spirito, piegato a queste logiche, appare allo sguardo di Weber,
agli albori del Novecento, irreversibilmente sottomesso alle logiche dell’indefinito
aumento della produzione e della ricchezza ottenuto anche con una continua
innovazione tecnico-organizzativa. In questa contraddizione si mantiene, e si
manterrà fino ai nostri giorni, un solo legame “spirituale” tra il sistema
della scienza, del lavoro intellettuale, ed il sistema della produzione: la
comune propensione al costante progredire, Ma se il valore dell’impresa scientifica ancora
consiste, allo sguardo di Weber, in un anelito idealistico di “progresso”, anche se non di
rado cieco sulle sue concrete ricadute, quella capitalistica mira esclusivamente, in
una visione tanto vincente quanto onnivora, alla produzione inarrestabile di
merci ed alla parallela produzione del loro incessante consumo. In questo
contesto non solo restano soffocate le aspirazioni di libertà, ma il lavoro
dello spirito, non diversamente dalle masse sempre più “scientificamente”
sfruttate, viene incorporato nel nuovo ordine giuridico imposto dalla visione
privatistica del capitale. La “filosofia del Diritto” che, maturata in quel
primo fermento della modernità europea, guardava a finalità etiche generali
valide per l’umanità intera, diventa inconciliabile con il quadro dei reali rapporti
sociali concretamente creato dall'affermarsi delle logiche del capitale. Il
diritto universale si deve piegare ad una nuova forma giuridica, più
connaturata alla concreta sfera dell’economia reale: quella basata sulla forma
divinizzata del “contratto”. Che smette così di essere un sistema di
regolazione di rapporti privati per divenire l’unico ordine giuridico possibile.
Non solo il Diritto viene piegato al dominio dell’ “economico”, ma lo stesso “politico”
è costretto a ridimensionare le sue finalità generali che, nate sulle ali
dell’entusiasmo per la fine dell’Ancient Règime, sono allo stesso modo
costrette nella gabbia d’acciaio. Ed è al culmine di questo percorso, quando a
cavallo del Novecento sembra aver preso definitiva forma questo contraddittorio
intreccio tra sistema della scienza, pensiero scientifico e filosofico, e il
definitivo totalizzante affermarsi del sistema della produzione capitalistica
che interviene la critica di Weber. La quale, rinunciando a sterili negazioni e
rifiuti della trasformazione avvenuta, punta invece ad intervenire nella sue
evidenti contraddizioni con una visione alternativa che si basa proprio sul (ri)chiamare
in causa quello “spirito” originariamente rivoluzionario del lavoro
intellettuale. In una prima anticipazione di quanto sarà oggetto specifico dei
Capitoli successivi Cacciari evidenzia come Weber mantenga, alla base della sua
analisi, la convinzione che il lavoro scientifico, per quanto introitato nelle
logiche tecnico-economiche, continui, proprio per la congenita propensione
della scienza al progredire, la capacità di seguire percorsi creativi che
possono mantenere potenzialità di liberazione generale. Weber però, in un primo
innovativo passaggio, ritiene che questo immutato ruolo potenziale della
“scienza” debba coniugarsi strettamente con la sfera della “politica” la quale
deve mirare a (ri)costruire una “Autorità politica” in grado di affiancare il libero
lavoro scientifico per realizzare una diversa concezione del “contratto” sociale
che miri a riportare sotto controllo le logiche dell’ “economico”. Evitando, al
tempo stesso, che lo spazio di critica sia occupato dalle proposte
rivoluzionarie a suo avviso del tutto insostenibili. Un percorso che, secondo
Weber, può concretizzarsi solo in un regime democratico-parlamentare, che deve
avere piena consapevolezza che la contrapposizione al dominio del dispositivo
economico può avere una pericolosa ed errata risposta di carattere autoritario,
se non dittatoriale. Weber vede bene che la frustrazione che investe l’individuo,
e la società intera, nel non veder riconosciuta la propria esigenza di libertà
e riconoscimento, tende infatti a scaricarsi in primis proprio sulle
istituzioni politiche democratiche, ritenute incapaci di fronteggiare in modo
adeguato l’ “economico”, dando così spazio a istanze demagogiche di stampo
inevitabilmente autoritario. Allo stesso tempo è lucidamente presente a Weber l’opportunistica
illusione dello stesso “economico” che scienza e tecnica, subordinate alla sue
logiche, da sole possano risolvere le contraddizioni sistemiche e armonizzare
il suo incessante procedere. Nella prospettiva weberiana solo il “politico”, un
nuovo “politico”, può dotarsi della potenza necessaria allo scopo, assumendo
quindi consapevolmente la funzione di una sorta di “impero”, e cioè di una
capacità di comando totale dei processi economici e sociali. Cacciari, sviluppando
nell'ultima parte di questo Capitolo questa constatazione, aggiunge del suo che
per ambire ad un tale ruolo il “politico” dovrebbe però dimostrarsi consapevole,
andando oltre la sfera politica strettamente intesa, della necessità di dotare
la propria visione anche di una valenza “para-religiosa” in grado di definire
una idealità di trasformazione universale. Sottolineando che questa riflessione
non è stata colta da Weber, Cacciari ritiene infatti che l’Economico non può
essere sconfitto restando ancorati al solo mondo della produzione e dei dati
economici. Il Politico deve avere la capacità di sottoporre a dura critica
l’idea dell’ “economico” di una uguaglianza raggiungibile attraverso percorsi
puramente economici, per proporne una che, come la stessa idea universale di “libertà”,
non può non originarsi che da una visione meta-politica.
II – Disincanti
L’analisi di
Weber ha evidenti radici che affondano nella storia e nei principi del pensiero
occidentale sia filosofico che scientifico, ed in questo senso appare riduttivo
considerare semplicemente “sociologico” il suo lavoro. Per quanto concerne l’idea
di “scienza come professione” il suo approccio si basa infatti sul più generale
“disincanto” nei confronti della realtà che, maturato sulle ali dell’entusiasmo
scientifico del secolo che lo precede, implica la consapevolezza che le cose
del mondo, degli uomini, la realtà tutta, possono e devono essere valutate nel
loro concreto divenire senza il ricorso a ideali categorie interpretative. In
questo avvenuto disincanto il “fare scienza” non è più guidato da finalità
etico universali, ma dalla convinzione, alla base della modernità tutta, che la
realtà, e tutte le cose che la compongono, siano accessibili alla ragione, che
altro limite la scienza non debba avere se non quello del livello già raggiunto
nel suo sviluppo. Ma è proprio all'interno di questo ereditato disincanto che
Weber introduce una sua originale aggiunta: è la stessa scienza, lo stesso
“fare scienza” che, per logica estensione, vanno sottoposti a “disincanto”. La
crescente necessità, imposta dallo stesso straordinario sviluppo scientifico, di
procedere per sempre più definiti specialismi l’ha ormai espropriata della possibilità
di una visione unica ed olistica della realtà, quella che in qualche modo era
alla base di tutte le culture precedenti la modernità. Weber, secondo Cacciari,
non rinnega con questa affermazione la sua precedente (1904)
considerazione sul rapporto tra l’etica protestante ed il “fare scienza” ed il
lavoro. I quali, nella sua mantenuta interpretazione, possono ancora trovare
importante ispirazione in una matrice etica e religiosa, la quale però deve essere
intesa come un richiamo, per l’appunto etico, al “fare il proprio dovere”. Resta
però in capo alla scienza, stante la ineliminabile ricaduta sociale dei suoi risultati,
una sua dote, questa sì di valenza universale: le sue specializzazioni e
professioni riunendosi formano il “complesso delle forme del sapere e del fare”,
l’unicum aggregato che dà vita e sostanza al progresso tecnico-scientifico e, conseguentemente,
anche a quello sociale. Cacciari evidenzia con enfasi che questo riconoscimento
resta però lontano dalla finalità di creare, attraverso scienza e lavoro, un
“sistema delle libertà” così come presupposto dalla ottocentesca filosofia
idealistica. Per Weber al singolo scienziato non è di certo impedito di
possedere personali idealità, religiose o filosofiche, ma la disciplina “scienza”,
in quanto mossa da paradigmi puramente razionali, non è titolata a rispondere a
queste più generali aspirazioni umane. Questa considerazione va inoltre estesa alle
stesse “scienze sociali”, le quali possono muoversi liberamente nell'osservare i
fenomeni sociali, nel compararli e nell'ipotizzare spiegazioni, ma, essendo
ispirate dagli stessi paradigmi delle scienze “dure”, analogamente non possono
possedere i presupposti per emettere giudizi di valore legati a finalità
idealistiche ed universali. Sono allora, se negate alla scienza, del tutto impossibili
ed impedite le domande sul “valore”, su come si debba agire, su chi potrebbe
essere titolato a porle e a cercare le risposte? Certo che no, risponde Weber,
esse restano domande insopprimibili per la natura umana, ma occorre avere però la
consapevolezza che il semplice porle implica inevitabilmente l’entrata in campo
delle valutazioni soggettive, e quindi della possibile “dimensione del
conflitto”, che implica a sua volta l’individuazione di “amici e nemici” di
ogni possibile risposta. E’ questo il decisivo passaggio che, nella visione
weberiana, fa entrare in gioco, con ruolo da protagonista, la dimensione della
politica, o meglio ancora, della “politica come professione”. Ed è proprio qui,
in questo limite insormontabile per il lavoro intellettuale scientifico che
Weber individua il suo punto di connessione con quello intellettuale politico. La
dimensione ineliminabile del conflitto sale però di un livello: da quello tra “amici
e nemici” delle singole idee si sposta proprio a quello tra queste due distinte
categorie del “lavoro dello spirito”. Ed è esattamente questo il conflitto che,
per Weber, segna la nuova forma della modernità che si affaccia al Novecento
con il carico delle tante contraddizioni ad essa legate a partire dalla “gabbia
d’acciaio”. Ed il suo superamento “razionale” è esattamente lo scopo centrale
della proposta weberiana. A suo avviso occorre innanzitutto comprendere che la
motivazione ultima del “fare scienza”, accertata l’insostenibilità di una
idealità filosofico/scientifica, non può quindi poggiare su “valori” oggettivi,
una contraddizione in termini, ma solo su “presupposti”, ossia su finalità di
ordine logico/scientifico che mirano a raggiungere determinati risultati in un
ambito specifico. Weber, per sciogliere la sempre possibile aporia di un
presupposto comunque vissuto come valore, introduce nella sua trattazione una
più netta distinzione tra “assunzione di un presupposto”, riconducibile ad una
mera ipotesi, e “scelta del valore”. Una distinzione che se ha una sua indubbia
validità formale, utile per maggiore chiarezza nel procedere, è però storicamente
smentita dalla realtà. Lo stesso Weber né è consapevole, ha infatti ben presente
che qualsiasi presupposto del “fare scienza” si è storicamente sempre
determinato in opposizione ad altri, assumendo di conseguenza una qualche veste
di “valore”, non di rado vissuto addirittura come “valore universalmente
valido”. Ed inoltre è umanamente comprensibile che lo scienziato, così concentrato
sulla sua missione e sul “presupposto” che la guida, possa anche sinceramente ritenere
di non essere motivato da obiettivi valoriali, ma questa stessa “passione” che
lo anima assurgerà di fatto a caratteristica di “valore”. Weber aggiunge una
seconda considerazione più legata al “fare scienza” nell'era del pieno
affermarsi della modernità. Nella quale nessuna impresa scientifica può ormai procedere
in modo autonomo, la sua efficacia è possibile solo all'interno di un
“sistema”. Le singole professioni scientifiche possono infatti svolgersi solo
come parti integrate di un'unica organizzazione globale del “fare scienza”, una
sorta di unico grande “cervello” che, per le forme assunte e per le crescenti
ricadute dei suoi risultati, ha una valenza “sociale” ancora più grande. E’
quindi tutt'altro che eccessivo sostenere che il vero motore, il vero
protagonista, del progresso scientifico, è ormai quindi un sorta di unico
“cervello sociale”. La congiunzione fra queste due considerazioni porta Weber ad
una importante constatazione: nessuna singola scienza, e nemmeno la più stretta
cooperazione tra di esse, può, per i limiti congeniti che egli vede nel “fare
scienza”, (auto)realizzare l’organizzazione globale in cui muoversi in modo
ottimale per lo stesso raggiungimento dei suoi obiettivi. Questa organizzazione
non può che essere “politica”, non può che essere competenza della dimensione
del “lavoro politico”. Lo scienziato inoltre non è tenuto, nel definire le basi
scientifiche dei suoi presupposti, a prendere in considerazione quelle
storico/culturali entro le quali si colloca il suo agire e neppure il loro
interferire con dimensioni valoriali o politiche. Per attuare un suo agire
scientifico non condizionato, per restare concentrato sull'oggetto del suo
lavoro egli non potrà non operare una opportuna rimozione di questo ordine di
problemi. Spetta quindi alla “politica” sottoporre a “critica” valoriale i
presupposti, ed i risultati, del lavoro scientifico, in primo luogo collocandoli
e giudicandoli in rapporto al contesto della situazione storica in cui maturano
e si concretizzano. Un’indagine critica che, a maggior ragione, non può fare
capo alla “scienza” stessa. Semmai le “scienze sociali” e la filosofia possono essere
fonte di utili indicazioni di supporto alla “politica”, che resta comunque
l’unica titolata a definire i valori ispiratori. Deve però essere altrettanto
chiaro che questi valori a loro volta, per logica compensazione, non potranno mai
avere consistenza scientifica e pretendere ad un rango di verità oggettiva
proprio perché definiti in ambito differente e su differenti basi e procedure. Secondo
Cacciari l’idea weberiana di “razionalizzazione” del conflitto fra scienza e
politica consiste esattamente in questo decisivo passaggio, grazie al quale la
prima non potrà compiutamente esprimersi che all'interno di un “ordine
politico”, e di una forma di produzione coerente con esso, e la seconda dovrà
farsi consapevolmente carico delle scelte valoriali che li dovranno ispirare, Si
completa in questo modo un duplice “disincanto” della modernità: quello della
“scienza”, che mai da sola potrà essere fattrice di un “sistema delle libertà”,
e quello della “politica”, che a sua volta mai potrà presupporre inattaccabili basi scientifiche per la scelta
dei valori e dei fini per cui essa combatte. Si realizza in questo modo il radicale
“disincanto” del progresso scientifico come forza liberatrice di una più
generale crescita umana. Non sfugge infine a Weber che la scienza appartiene legittimamente
al contesto politico e che quindi essa ha pieno titolo a concorrere alla
definizione delle forme dell’organizzazione del “fare scienza”, così come il
politico avrà sempre l’obbligo di completare le scelte valoriali con una forma
sociale di produzione coerente con i risultati scientifici. Sono questi i
presupposti teorici dell’idea weberiana di “lavoro scientifico” e “lavoro
politico”, la cui complessiva idea di “lavoro”, così come emerge dalla summa delle
sue considerazioni, toglie definitivo spazio alla classica concezione fin lì
maturata del lavoro come concretizzazione meccanica di un etico “dovere”. Al
nuovo secolo, secondo Weber, spetta il dovere di sciogliere compiutamente il nodo
di tutti questi disincanti.
III – Nuovi centauri
Ma quale
“Politico” sarà in grado di guidare il progresso tecnico/scientifico sulla base
dei “valori” che si affermano in un determinato contesto storico/sociale? La
risposta di Weber è netta: in coerenza con il ruolo centrale che la sua visione
conferisce alla “razionalizzazione” tale capacità potrà essere solo di quel
“politico” che si muove in sintonia con il lavoro intellettuale e scientifico,
ovvero con i suoi presupposti razionali. Altro aspetto decisivo della analisi
weberiana secondo Cacciari. Sarà cioè un “politico” articolato su un apparato
tecnico-burocratico ricco di competenze e professionalità, e guidato da quella
idealità del “servizio”, del “sacrificio”, punto fermo dell’idea di Stato
liberal-borghese ancora e sempre collegabile all'etica “protestante” di cui si
è detto. Un “politico” capace quindi di creare un ceto amministrativo
impermeabile, nel suo concreto agire, ai mutamenti governativi ispirati da
sentimenti demagogici, ovvero dal modo di intendere l’azione politica opposto a
quella ispirata dalla razionalità. Weber è infatti convinto che la modernità
dell’epoca sia ormai definitivamente entrata in una fase in cui, ad equilibrare
il loro rapporto, lo stesso valore complessivo del “lavoro politico” è
determinato da quello del paradigma metodologico del “lavoro scientifico”. Il
metodo di lavoro della “politica come professione” non può non essere che
quello pienamente razionale proprio della “scienza come professione”. In una
sorta di paradosso il paradigma del lavoro tecnico/scientifico, di quel lavoro
che quello politico dovrebbe orientare sulla base dei “valori”, la cui scelta
pienamente gli compete, diventa il “valore” che deve a sua volta orientare il
“lavoro politico”. Il disincantamento totale del mondo, scopo ultimo dell’azione
politica, potrà quindi essere raggiunto solo da un “politico” che,
razionalizzando tutte le componenti del suo scegliere ed agire, annullerà,
“neutralizzerà”, ogni sua pretesa di essere ispirato da un autonomo paradigma
“professionale” non razionale. Non esistono per Weber alternative a questo
scenario, non esiste una “terza” dimensione culturale che possa fungere da
“giudice”. Scienza e politica, sole sulla scena ed essendo “professioni”,
devono trovare al loro rispettivo interno il punto di caduta: la scienza
accettando che i valori ultimi che la devono ispirare siano di competenza della
politica, mentre questa deve a sua volta essere ispirata dal “valore” della
razionalità del lavoro scientifico. Il terreno sul quale si può concretizzare
questo accordo è uno solo: quello delimitato dal “concetto di responsabilità”,
dal dover cioè rispondere delle conseguenze delle proprie azioni. Al “politico”
però fa carico, proprio per la centralità del suo ruolo nella determinazione
dei “valori”, una responsabilità maggiore, “globale”. Che certo comprende il dovere
di rispondere delle conseguenze della propria azione “razionale”, ma
soprattutto di quelle ascrivibili alla sua eventuale azione “irrazionale”,
quelle cioè riconducibili alla insostenibile pretesa di godere di una sorta di
“autonomia” dalla razionalità. Dall'essersi cioè lasciata guidare da quel
“demone”, sempre vivo ed attivo, che può spingerla verso irrazionali finalità di
natura ideologica. Se è pur vero che un demone analogo può ispirare anche la scienza,
nel suo eventuale ritenersi libera da vincoli valoriali, a maggior ragione per
entrambi quindi “responsabilità e disincanto” sono imprescindibili doveri che
si alimentano vicendevolmente. Ma il demone della politica resta, secondo
Weber, quello più potente, perché costituzionalmente connesso all'agire
politico che, di questo ne è ampiamente convinto, non può non decidere anche
sulla base di “demoniache convinzioni”, di opinioni, che per definizione
sfuggono alla razionalità. Alla “politica”, in ispecie nell'epoca delle
organizzazioni di massa, compete di conseguenza un di più di sforzo per
coniugare al meglio “responsabilità e convinzioni”. E la scienza è chiamata, in
un analogo dovere supplementare, a ricordare alla politica, ogni qual volta
constati il rischio di un irrazionale prevalere delle convinzioni, il rispetto
di tale sforzo. Devono essere questi, secondo Weber, altri tratti
irrinunciabili del “lavoro scientifico” e del “lavoro politico” a formare, nel
loro congiungersi, quelli del “lavoro intellettuale”, del “lavoro dello
spirito”
IV – Doppio sogno
L’idea che
muove la visione weberiana è certamente quella di riportare la dimensione dell’
”economico”, divenuta nel corso dell’Ottocento egemone su tutti gli ambiti
sociali e su tutte le forme del pensiero, sotto il controllo del “politico”. Quella
cioè di abbattere le pareti della “gabbia d’acciaio” che imprigiona il
“cervello sociale”, ed ogni forma creativa di lavoro dello spirito, ormai compiutamente
integrati nei rapporti capitalistici di produzione. Un obiettivo che da una
parte si pone in netta alternativa alla critica rivoluzionaria, una visione dei
rapporti sociali del tutto estranea a Weber che pure vede e condivide le
ragioni dell’opporsi allo sfruttamento capitalistico, e che dall'altra, in
coerente integrazione, si muove tutto all'interno della “cultura” borghese
delle origini della modernità. Con al centro l’irrinunciabilità della forma
democratica permeata di una nuova cultura politica capace di formare e
selezionare gli spiriti migliori. A questa visione, la cui evidente novità è
frutto del concreto processo storico ottocentesco, è però del tutto estranea
una idea puramente nostalgica della originaria “cultura” borghese. Weber non
rimpiange bei tempi andati, non sogna un improbabile ritorno alle ideali
speranze di un tempo, ma è lucidamente consapevole che quel bagaglio culturale,
che è e resta il suo bagaglio, non è più proponibile nelle forme di allora. E
conseguentemente individua la leva fondamentale per un processo di (ri)democratizzazione
davvero in grado di porre sotto controllo l’ ”economico” nel “lavoro dello spirito”,
ora rifondato ed articolato su “scienza” e “politica”, che, eppure in forme al
tempo incompiute, di quella cultura era e resta parte integrante e fondante. Un
visione quindi determinata dal suo presente e tutta proiettata verso il futuro e
presentata come la sola possibilità di recuperare, adattandola ai tempi nuovi,
proprio la “cultura” delle origini. Vale a dire, per l’appunto, l’esatto
contrario di una operazione di restaurazione nostalgica. Cacciari in questo
Capitolo evidenzia il forte carattere di novità della proposta weberiana per
quanto sempre intimamente legata alla “cultura” ereditata dalle grandi correnti
di pensiero, filosofico in primis, della modernità europea. Lo fa attraverso
una accurata contrapposizione fra le idee di Weber e quelle espresse da Thomas
Mann nelle “Considerazioni di un impolitico”, del 1918, e successivamente nel
saggio del 1932 “Goethe come esponente dell’età borghese”. Mann, messo da
Cacciari a confronto con Weber, appare all'opposto l’alfiere di un accorato
rimpianto di una cultura, la sua va da sé, ridimensionata ad ancella della
visione economicista del mondo. I numi tutelari di questa cultura ai quali Mann
guarda sono gli stessi di cui Weber è, nella sua formazione culturale, ampiamente
debitore. Ma la direzione dello sguardo weberiano è diversa, perché non si
limita ad un semplice “recupero” di sentimenti e valori. Si tratta invece di
attuare un “salto” in avanti, una svolta che impone anche l’autocritica del non
aver sufficientemente contrastato il formarsi della gabbia d’acciaio. Una operazione che è del tutto impossibile per
Mann, troppo concentrato sulla sola conservazione di un’etica che, per Weber, è
ormai improponibile nelle stesse forme. L’idea weberiana di “responsabilità”
coerentemente esige quindi che l’etica borghese, che pure nella sua essenza
condivide con Mann, si rovesci in una nuova prospettiva. Quella delle nuove
forme del “lavoro dello spirito”.
V – La fine (del fine) della Storia
Cosa resta
delle idee di Weber un secolo dopo, in un nuovo passaggio temporale non meno
segnato da cambiamenti epocali? In questo ultimo Capitolo Cacciari risponde a
questa domanda concentrando la sua attenzione sul ruolo del “politico” e sul
suo rapporto con l’”economico” visti nell'attuale contesto globalizzato e
ipertecnologico. Non sono invece presenti specifici accenni, nel suo giudicare
il “lavoro dello spirito” ai nostri giorni, alla validità della
“razionalizzazione” e del rapporto dialettico fra “lavoro scientifico” e
“lavoro politico”. Sembra quindi lecito dedurre che per Cacciari l’impianto
analitico weberiano mantenga, n questi suoi aspetti di base, una sua
persistente validità. Diverso è invece il giudizio, in primo luogo storico e di
certo non a demerito di Weber, sulla concreta capacità del “politico” di
opporsi alla “gabbia di acciaio”. Il tormentato, e tragico, percorso
novecentesco si è chiuso con l’avvento di uno scenario, quello della
globalizzazione, che ha inciso in modo pesante e negativo sulle potenzialità
del “politico”, quand'anche avesse davvero fatto propria l’indicazione
weberiana. La globalizzazione, processo totalmente capitalistico e per nulla
“borghese”, ha di fatto esteso all'intero mondo le pareti della gabbia
annullando lo spazio politico della “forma Stato”. Ed era questa, nei suoi
confini nazionali, la dimensione politico-istituzionale presa in considerazione
da Weber. La sua idea di riportare al centro della scena politica la cultura
“borghese”, razionalizzata e innervata dal metodo scientifico, era gioco forza pensata
nello spazio territoriale e politico dello Stato. La sua concezione della
pluralità dei “valori” che potevano, in un conflitto giocato sul piano rigoroso
del confronto razionale, ispirare il “politico” non aveva infatti una
configurazione geograficamente globale. Weber e globalizzazione sono pertanto,
secondo Cacciari, del tutto incompatibili. Ma già da prima la reale evoluzione
della democrazia rappresentativa non aveva dato conforto alle idee e alle
speranze weberiane. Se il conflitto fra “politico” ed “economico” poteva,
secondo Weber, essere fruttuosamente
gestito solo con una azione politica realmente “razionale”, così non è certo
stato per tutto il Novecento. E, a maggior ragione, con l’attuale affermarsi
della globalizzazione, la democrazia rappresentativa, l’unica dimensione
politica per Weber, si è trasformata, pressoché ovunque, in un tumulto
demagogico, sterile e pericoloso. La crisi della democrazia rappresentativa segna
anche quella della “borghesia”, soprattutto di quella idealizzata da Weber,
lasciando così spazio alle pulsioni semplificatrici della identificazione fra
“popolo” e “Capo” che annullano ogni intermediazione e ogni spazio per quella
“responsabilità” invocata da Weber come criterio guida fondamentale. Questa
deriva democratica è al tempo stesso causa ed effetto della definitiva compiuta
egemonia dell’ “economico” nella sua ultima versione del capitalismo
globalizzato. Il “lavoro politico”, storicamente incapace di rigenerarsi su
basi razionali, è oggi del tutto impossibilitato ad essere un libero “lavoro
dello spirito”. Ne consegue allora che si sia in questo modo chiuso ogni
spazio, ogni prospettiva, per il “lavoro intellettuale” in generale? A
quest’ultima domanda Cacciari risponde con un no affidato ad una speranza.
Quella che non vada dispersa l’idea di un “lavoro dello spirito”, sia
intellettuale che scientifico, non subalterno all'attuale versione del
“politico” e allo strapotere egemonico dell’ “economico. Questa visione,
secondo Cacciari, accomuna Weber e Marx”, per quanto fra di loro diversissimi
su molti centrali aspetti. Entrambi hanno infatti messo al centro della loro
costruzione teorica un’idea di “lavoro” mirata, seppure con percorsi e protagonisti
diversi, ad abbattere le pareti della gabbia d’acciaio. Cacciari non sa, perché
non è dato saperlo, in che tempi e modi questo “lavoro dello spirito” possa
riemergere. Ma se la “fine della storia”, quella che ha portato alla gabbia
d’acciaio, potrà mai darsi è bene che ciò avvenga non nella forma della
definitiva cancellazione di ogni “fine” alternativo, ma in quella di un “fine”
che miri ad essere un nuovo “sapere assoluto” in grado di sussumere in sé ogni
elemento, del passato e del presente, utile a definire un nuovo e vero “sistema
delle libertà”.
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