Non si può certo
sostenere che la scienza non continui a lanciare messaggi sempre più chiari,
mirati ed approfonditi, sull'incessante procedere del cambiamento climatico. E, in
drammatico controcanto, è altrettanto evidente l’insufficiente, lenta e
contraddittoria, reazione che tali allarmi dovrebbero suscitare. La stessa
pandemia da Covid19 è una testimonianza inattaccabile della strettissima
relazione che esiste fra l’umanità, le sue attività ed il suo futuro, con lo
stato di salute del pianeta Terra. Per quanto non confortata da un ascolto
adeguato la scienza non demorde. Recentemente sono apparsi due studi molto seri ed articolati che precisano ulteriormente gli scenari che l’aumento della temperatura globale
inevitabilmente provocherà se non verranno attuate, in fretta e seriamente,
misure di contenimento. Li pubblichiamo nel nostro blog quantomeno per
mantenere alta l’attenzione sul drammatico futuro, e sempre più anche sul
presente, che l’attuale umanità sta creando per le generazioni che seguiranno.
Il primo, sintetizzato in un articolo pubblicato dal Sole24Ore, è uno studio della Accademia delle Scienze statunitense che analizza
le ricadute dell’innalzamento climatico in particolare sulla “fascia climatica”
nella quale vive la pressochè totale umanità. Il secondo riassume in un report
l’accurata analisi svolta dalla Fondazione CMCC sugli scenari specifici per l’area
mediterranea e per il nostro paese
Agire sul clima per evitare una crisi peggiore del virus
Articolo di Ivan Manzo (giornalista, laureato in
Economia dell’Ambiente)
Il Sole24ore on line - 03 Giugno 2020
(Articolo
pubblicato originariamente su Futuranetwork)
La pandemia in corso sta dimostrando che la specie umana è molto più
vulnerabile di quel che si pensava. Per correre ai ripari e salvare più vite
possibili i governi di (quasi) tutti il mondo sono stati costretti a imporre il
lockdown delle attività socioeconomiche dei rispettivi Paesi. Eppure la
diffusione del Sar-Cov2, virus appartenente alla numerosa famiglia dei
Coronavirus, era stata per certi versi annunciata. La comunità scientifica da
anni ci avvisava sullo “spillover”, il salto di specie animale-uomo compiuto da
un virus, e sullo strettissimo legame che intercorre con la distruzione dei
nostri ecosistemi. È piuttosto evidente che non le abbiamo dato ascolto. Un po'
sulla falsa riga di quello che sta accadendo sul fronte climatico, una minaccia
ancor più grave della “crisi pandemica”, ricordano gli scienziati, per un
semplice motivo: una volta superati i “limiti planetari”, il riscaldamento
globale è in grado di innescare una serie di processi irreversibili, capaci di
mettere in discussione persino la vita dell'umanità sul Pianeta. È questo, in
sostanza, il motivo per cui non possiamo permetterci di rimandare di nuovo la
battaglia climatica, ma bisogna mettere in campo ora, per la ripartenza post
Covid-19, una serie di misure in grado di evitare i più gravi impatti generati
dai cambiamenti climatici. Anche perché siamo fortemente in ritardo, e a
ricordarcelo sono una serie di studi poco confortanti sull'evoluzione del
fenomeno. Va in questa direzione il rapporto “Future of the human
climate niche”, pubblicato il 5 maggio sulla rivista Pnas (Proceedings of the
National Academy of sciences of the United states of America), che
costruisce degli scenari per ogni aumento di un grado centigrado di
temperatura. Secondo il team di ricerca “per ogni più 1°C segnato dalla
temperatura media globale” potrebbero esserci un miliardo di persone costrette
a spostarsi, oppure a vivere sotto la costante minaccia di un “calore
insopportabile”. Il rischio più grande, se dovesse realizzarsi lo scenario più
catastrofico, è quello di costringere un terzo della popolazione mondiale a
vivere in aree calde come il deserto del Sahara entro i prossimi 50 anni. Nella
prospettiva più rosea, invece, sarebbero “solo” 1,2 miliardi di persone a
vivere al di fuori della “fascia climatica” definita abitabile, quella che ha
permesso agli essere umani di prosperare da 6mila anni a questa parte. “Sono
numeri sbalorditivi”, ha dichiarato uno degli autori dello studio, Timothy M.
Lenton dell'università di Exeter, “Studio da tempo i ‘tipping points' climatici
(i punti di non ritorno che la comunità scientifica avverte di non superare per
scongiurare i più gravi disastri imposti dalla crisi climatica), quelli che
vengono considerati apocalittici, ma questo mi ha colpito maggiormente. I
risultati pongono la cosa in termini molto umani”. E in effetti lo studio
invece di porre la questione da un punto di vista prettamente fisico o
monetario (per esempio quando si parla di danni e perdite economiche per via
del clima che cambia), fornisce un taglio diverso all'argomento. Sebbene la
totalità del Pianeta sia stata ormai “antropizzata”, basti pensare che l'uomo
ha modificato in modo significativo il 75% delle terre emerse e il 66% degli
ecosistemi marini, la stragrande maggioranza della popolazione ha sempre vissuto
in luoghi dove la temperatura media variava tra i 6°C e i 28°C, sia a tutela
della propria salute, sia per garantire la produzione alimentare. Ma al ritmo
attuale supereremo i 3°C di aumento medio della temperatura globale entro fine
secolo e, trattandosi di una media, rischiamo di vedere un aumento di
temperatura di ben 7,5°C in alcune aree. Zone dove, tra l'altro, ci si aspetta
una crescita maggiore della popolazione, come in Africa e Asia. Un fattore che
porterebbe di sicuro a una maggior consistenza del fenomeno migratorio, con
tutta una serie di problemi per i sistemi di produzione alimentare. “Al di
sopra dei 29°C di temperatura media globale le condizioni sono invivibili”, ha
affermato Marten Scheffer dell'università di Wageningen, altro autore del
rapporto. “Siamo stupefatti da queste conclusioni, pensavamo fossimo meno
sensibili, ma in effetti abbiamo sempre vissuto all'interno di una nicchia
climatica. A questi ritmi ci saranno più cambiamenti nei prossimi 50 anni che
negli ultimi 6mila. Dovremmo quindi muoverci o adattarci, ma ricordiamo che
anche l'adattamento conosce limiti.” E proprio su un fenomeno collegato
all'attività di adattamento fa il punto della situazione un'altra ricerca
pubblicata recentemente su Nature, l'8 maggio, che descrive gli errori commessi
sulle previsioni dell'innalzamento del livello del mare. Secondo “Estimating
global mean sea-level rise and its uncertainties by 2100 and 2300 from an
expert survey” anche rispettando i 2°C dell'Accordo di Parigi, cosa che al momento
appare improbabile dato che le proiezioni ci portano a un aumento medio della
temperatura di almeno 3,5°C entro fine secolo, il livello del mare potrebbe
alzarsi di circa due metri. Una previsione diversa da quella effettuata
dall'Ipcc (l'ente scientifico di supporto alla Conferenza Onu sul cambiamento
climatico), che ha sottostimato nel tempo la portata di tale fenomeno, come
ricorda l'autore dello studio Stefan Rahmstorf, dell'Istituto di ricerca
sull'impatto climatico di Potsdam: “Nei suoi studi l'Ipcc tende ad essere molto
cauto e conservativo, motivo per cui ha dovuto correggersi verso l'alto già
diverse volte. Basti pensare che le proiezioni sul livello del mare nel
rapporto di valutazione Ipcc del 2014, erano già del 60% superiori a quelle della
precedente edizione”. Lo studio ricorda che se dovessero completamente fondere
i ghiacciai dell'Antartide e della Groenlandia il livello marino potrebbe
addirittura salire di 50 metri. Di questo passo, comunque, rischiamo di avere 5
metri in più da qui al 2300. Periodo piuttosto lontano, ma usato per farci
comprendere come l'attività antropica, continuando con il business as usual,
sia in grado di modificare le caratteristiche geofisiche del nostro Pianeta per
i prossimi secoli, se non millenni. A farci tornare di nuovo ai “giorni
nostri”, restando comunque in tema inondazioni e riscaldamento globale, è la
nuova analisi portata avanti dal World resources institute (Wri) che, tramite
la piattaforma “Acqueduct” avverte: dal 1980 le alluvioni fluviali hanno causato
danni per oltre mille miliardi di dollari a livello globale e il numero di
persone colpite dal fenomeno è destinato a raddoppiare nel 2030, rispetto al
2010. Se infatti erano 65 milioni gli individui costretti a fare i conti con le
alluvioni su suolo urbano nel 2010, si prevede toccheranno quota 130 milioni
nel 2030. Stesso discorso per le inondazioni che interessano le zone costiere:
da 7 milioni si passerà a 15 milioni di persone coinvolte. Un danno che, una
volta trasformato in termini monetari, ci aiuta a capire la portata del
problema: parliamo di 535 miliardi di dollari di costi al 2030 (rispetto ai 157
miliardi di dollari del 2010) per le aree urbane martoriate da alluvioni, e di
177 miliardi di dollari sempre nel 2030 (e rispetto ai 17 miliardi del 2010)
per le zone costiere minacciate da inondazioni e aumento del livello del mare. Tra
i diversi responsabili delle inondazioni, troviamo sempre più spesso i cicloni
tropicali, via via sempre più distruttivi, anche a causa dell'aumento del
livello del mare. È ormai chiaro, infatti, che per ogni centimetro di acqua in
più la forza distruttiva degli uragani aumenta di parecchio, una volta che
questi raggiungono la costa e che il riscaldamento globale ha un ruolo centrale
nella distribuzione dei cicloni tropicali.Ulteriore conferma arriva proprio
negli ultimi giorni, il 4 maggio, dalla ricerca “Detected climatic change in
global distribution of tropical cyclones”, anche questa pubblicata su Pnas. Lo
studio ha analizzato la distribuzione dei cicloni tropicali degli ultimi 40
anni e l'influenza su di essi sia dei fattori antropici sia di quelli naturali.
Per il team di scienziati è la prova ulteriore che, anche su questo aspetto, il
cambiamento climatico indotto dall'uomo è stato in grado di modificare potere e
distribuzione dei cicloni tropicali. Soprattutto per quanto riguarda il dove e
il come: in pratica al momento c'è sicurezza sul fatto che l'azione umana
distribuisce in modo diverso e rende più distruttivi questi fenomeno estremi,
mentre si sta ancora cercando di capire se ne amplifichi anche il numero totale
a livello globale. I risultati mostrano che mentre nel nord Atlantico e nel
Pacifico centrale nel periodo 1980-2018 gli uragani aumentavano leggermente,
nell'Oceano indiano e nel Pacifico settentrionale questi diminuivano. Inoltre
viene ulteriormente dimostrato che il cambiamento climatico ha esacerbato il
potere distruttivo dei grandi “singoli” tifoni come l'uragano Harvey del 2017
che si è abbattuto principalmente sul Texas e dell'uragano Katrina che ha
distrutto New Orleans e le aree confinanti nel 2005. Ma anche l'Europa è al
centro di questi effetti distruttivi, in particolare il nostro Paese. L'Italia
è infatti vista come “hotspot” climatico: un'area geografica che è bene tener
d'occhio perché, data la sua conformazione e posizione geografica, subisce più
danni rispetto ad altre regioni. Mentre nel mondo l'aumento medio di
temperatura è a 1,1°C, in Italia si è già sforata la soglia dei 2°C (siamo
intono a 2,2°C) e, senza misure di contenimento, rischiamo di vedere parte del
nostro territorio desertificato. Una questione denunciata da tempo dalla
comunità scientifica, basti pensare all'allarme lanciato ormai cinque anni fa
dal Centro nazionale delle ricerche sul rischio desertificazione per il 21% del
territorio nazionale entro fine secolo, e su cui si sta facendo ancora troppo
poco. Ricordiamo che la bozza del Pnacc, il Piano nazionale di adattamento ai
cambiamenti climatici, è stato presentato dal ministero dell'Ambiente nel 2017
ma non è mai stato approvato a livello politico. Ulteriore ragione per cui la
ripresa post Covid-19 deve essere l'occasione per spingere forte sul processo
di transizione, puntando su quel Green new deal voluto dalla Commissione
europea e auspicato dall'Italia. Perché il rischio di uscire da una crisi
semplicemente per entrare in un'altra, di proporzioni ben più drammatiche, è
reale. La buona notizia è che siamo di fronte anche a un'opportunità. A
spiegarlo è uno studio di un team di ricerca cinese che ricorda danni e perdite
dell'inazione climatica. Dalle colonne della rivista Nature il rapporto
“Self-preservation strategy for approaching global warming targets in the
post-Paris Agreement era” precisa che la mancata attuazione dell'Accordo di
Parigi potrebbe generare perdite al mondo intero comprese tra 126mila e 616mila
miliardi di dollari entro il 2100. Al contrario, arrestare la colonnina di
mercurio sotto l'asticella dei 2°C porterebbe all'economia mondiale un
beneficio che si aggira tra 336mila e 422mila miliardi di dollari. Puntare
sulle attività di mitigazione e adattamento al clima che cambia, evitando coste
sempre più sott'acqua, nuove terre deserte, ecosistemi distrutti, diffusione di
virus e l'intensificarsi degli eventi estremi, ci consentirebbe dunque di costruire
un mondo non solo più resiliente ma anche più prospero.
Report del 16/09/2020
Può valere fino all’8% del Pil pro capite, acuire le
differenze tra Nord e Sud, tra fasce di popolazione più povere e più ricche,
insistere su una serie di settori strategici per l’Italia: i cambiamenti
climatici sono un acceleratore del rischio su molti ambiti dell’economia e
della società. Pubblicato il rapporto “Analisi del Rischio. I
cambiamenti climatici in Italia”. Realizzato dalla Fondazione CMCC,
Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, è la prima
analisi integrata del rischio climatico in Italia. Un documento che, a
partire dal clima atteso per i prossimi anni, si concentra su singoli settori
per fornire informazioni su cosa aspettarci dal futuro e fornire uno strumento
a supporto di concrete strategie di sviluppo resiliente e sostenibile.
Il rischio
connesso ai cambiamenti climatici interessa l’intero territorio italiano e
tutti i settori economici. Pur con differenze tra diverse aree che sono
interessate in maniera diversa, non ci sono regioni che possono considerarsi
immuni dal rischio climatico che sta già crescendo in questi anni, con
particolare riferimento agli eventi estremi. L’analisi
realizzata dalla Fondazione CMCC parte dagli scenari
climatici che, attraverso un avanzato utilizzo di modelli climatici ad alta
risoluzione applicati allo studio della realtà italiana, forniscono
informazioni sul clima atteso per il futuro del Paese. Queste informazioni sono
poi applicate all’analisi del rischio in una serie di settori del sistema
socio-economico italiano. Ne emerge un quadro in cui il rischio cresce, nei
prossimi decenni, in molti ambiti, con costi economico-finanziari consistenti
per il Paese e con impatti che interessano in maniera più severa le fasce
sociali più svantaggiate e tutti i settori, con particolare riferimento alle
infrastrutture, all’agricoltura e al turismo.
Il
rischio, la conoscenza scientifica e le strategie di risposta
“Il
rapporto rappresenta il punto più avanzato della conoscenza degli impatti e
l’analisi di rischio integrato dei cambiamenti climatici in Italia”,
spiega Donatella Spano, membro della Fondazione CMCC e docente
dell’Università di Sassari, che ha coordinato i trenta autori che hanno redatto
i 5 capitoli che compongono la ricerca. “L’analisi del rischio e dei suoi
effetti sul capitale ambientale, naturale, sociale ed economico, consentono di
prendere in considerazione le opzioni di risposta individuate dalla ricerca
scientifica e di sviluppare piani di gestione integrata e sostenibile del
territorio valorizzandone le specificità, peculiarità e competenze dei diversi
contesti territoriali”, continua Spano. “Queste conoscenze sono frutto di
ricerca innovativa, di networking tra le Università che contribuiscono alla
Fondazione CMCC e di collaborazioni internazionali, nascono dall’utilizzo di
una infrastruttura di calcolo di primo livello nella ricerca globale. Mettere
insieme tutti questi aspetti in una prospettiva di ricerca multidisciplinare è
un impegno della comunità scientifica, i cui risultati sono al servizio della
società e producono conoscenza a beneficio dell’intero sistema Paese”. “La
sfida del rischio connesso ai cambiamenti climatici – conclude Donatella Spano
– parte dalla conoscenza scientifica per integrare l’adattamento, le soluzioni
da mettere in campo di fronte al rischio, in tutte le fasi dei processi
decisionali, nelle politiche pubbliche, nei programmi di investimento e nella
pianificazione della spesa pubblica, in modo da garantire lo sviluppo
sostenibile su tutte le scale territoriali e di governance”. Corredato da una
serie di messaggi chiave, schede infografiche e un estratto di sintesi
realizzati per agevolare la lettura e la fruizione dei contenuti, (disponibili per chi fosse interessato a consultarli al seguente link Analisi CMCC)
il report affronta i temi che sono di seguito sintetizzati.
Il clima
atteso per il futuro dell’Italia. I diversi
modelli climatici sono concordi nel valutare un aumento della temperatura fino
a 2°C nel periodo 2021-2050 (rispetto a 1981-2010). Nello scenario peggiore
l’aumento della temperatura può raggiungere i 5°C. Diminuzione delle
precipitazioni estive nelle regioni del centro e del Sud, aumento di eventi
precipitazioni intense. In tutti gli scenari aumenta il numero di giorni caldi
e dei periodi senza pioggia. Conseguenze dei cambiamenti climatici
sull’ambiente marino e costiero avranno un impatto su “beni e servizi
ecosistemici” costieri che sostengono sistemi socioeconomici attraverso la
fornitura di cibo e servizi di regolazione del clima
Rischio
aggregato per l’Italia. La
capacità di adattamento e la resilienza in Italia sono temi che interessano
l’intero territorio italiano da Nord a Sud. Anche se più ricche e sviluppate le
regioni del Nord non sono immuni agli impatti dei cambiamenti climatici, né
sono più preparate per affrontarli. Per quanto riguarda gli eventi estremi, la
probabilità del rischio è aumentata in Italia del 9% negli ultimi vent’anni.
Costi
economici, strumenti e risorse finanziarie. I costi degli impatti dei cambiamenti climatici in Italia aumentano
rapidamente e in modo esponenziale al crescere dell’innalzamento della
temperatura nei diversi scenari, con valori compresi tra lo 0,5% e l’8% del Pil
a fine secolo. I cambiamenti climatici aumentano la disuguaglianza economica
tra regioni. Tutti i settori dell’economia italiana risultano impattati negativamente
dai cambiamenti climatici, tuttavia le perdite maggiori vengono a determinarsi
nelle reti e nella dotazione infrastrutturale del Paese, nell’agricoltura e nel
settore turistico nei segmenti sia estivo che invernale. I cambiamenti
climatici richiederanno numerosi investimenti e rappresentano un’opportunità di
sviluppo sostenibile che il Green Deal europeo riconosce come unico modello di
sviluppo per il futuro. È il momento migliore in cui nuovi modi di fare impresa
e nuove modalità per una gestione sostenibile del territorio devono entrare a
far parte del bagaglio di imprese ed enti pubblici, locali e nazionali.
Le città e
l’ambiente urbano. In seguito all’incremento nelle
temperature medie ed estreme, alla maggiore frequenza (e durata) delle ondate
di calore e di eventi di precipitazione intensa, bambini, anziani, disabili e
persone più fragili saranno coloro che subiranno maggiori ripercussioni. Sono
attesi, infatti, incrementi di mortalità per cardiopatie ischemiche, ictus,
nefropatie e disturbi metabolici da stress termico e un incremento delle
malattie respiratorie dovuto al legame tra i fenomeni legati all’innalzamento delle
temperature in ambiente urbano (isole di calore) e concentrazioni di ozono (O3)
e polveri sottili (PM10).
Rischio
geo-idrologico. Dall’analisi combinata di fattori antropici e degli
scenari climatici si evince che è atteso l’aggravarsi di una situazione di per
sé molto complessa. L’innalzamento della temperatura e l’aumento di fenomeni di
precipitazione localizzati nello spazio hanno un ruolo importante
nell’esacerbare il rischio. Nel primo caso, lo scioglimento di neve, ghiaccio e
permafrost indica che le aree maggiormente interessate da variazioni in
magnitudo e stagionalità dei fenomeni di dissesto sono le zone alpine e
appenniniche. Nel secondo caso, precipitazioni intense contribuiscono a un
ulteriore aumento del rischio idraulico per piccoli bacini e del rischio
associato a fenomeni franosi superficiali nelle aree con suoli con maggior
permeabilità
Risorse
idriche. Gran parte degli impatti dei cambiamenti climatici
sulle risorse idriche prospettano una riduzione della quantità della risorsa
idrica rinnovabile, sia superficiale che sotterranea, in quasi tutte le zone
semi-aride con conseguenti aumenti dei rischi che ne derivano per lo sviluppo
sostenibile del territorio. I cambiamenti climatici attesi (periodi prolungati
di siccità, eventi estremi e cambiamenti nel regime delle precipitazioni,
riduzione della portata degli afflussi), presentano rischi per la qualità dell’acqua
e per la sua disponibilità. I rischi più rilevanti per la disponibilità idrica
sono legati a elevata competizione settoriale (uso civile, agricolo,
industriale, ambientale, produzione energetica) che si inasprisce nella
stagione calda quando le risorse sono più scarse e la domanda aumenta (ad
esempio per fabbisogno agricolo e turismo)
Agricoltura. I sistemi agricoli possono andare incontro ad una aumentata variabilità
delle produzioni con una tendenza alla riduzione delle rese per molte specie
coltivate, accompagnata da una probabile diminuzione delle caratteristiche
qualitative dei prodotti, con risposte tuttavia fortemente differenziate a
seconda delle aree geografiche e delle specificità colturali. Impatti negativi
sono attesi anche per il settore dell’allevamento, con impatti sia diretti che
indiretti sugli animali allevati e conseguenti ripercussioni sulla qualità e la
quantità delle produzioni
Incendi. L’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni medie
annue, la maggiore frequenza di eventi meteorologici estremi quali le ondate di
calore o la prolungata siccità, interagiscono con gli effetti dell’abbandono
delle aree coltivate, dei pascoli e di quelle che un tempo erano foreste
gestite, del forte esodo verso le città e le aree costiere, e delle attività di
monitoraggio, prevenzione e lotta attiva sempre più efficienti. Si prevede che
i cambiamenti climatici esacerberanno ulteriormente specifiche componenti del
rischio di incendi, con conseguenti impatti su persone, beni ed ecosistemi
esposti nelle aree più vulnerabili. Sono attesi incrementi della pericolosità
di incendio, spostamento altitudinale delle zone vulnerabili, allungamento
della stagione degli incendi e aumento delle giornate con pericolosità estrema
che, a loro volta, si potranno tradurre in un aumento delle superfici percorse
con conseguente incremento nelle emissioni di gas a effetto serra e
particolato, con impatti quindi sulla salute umana e sul ciclo del
carbonio.
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