venerdì 18 settembre 2020

Scenari globali e locali del cambiamento climatico

 

Non si può certo sostenere che la scienza non continui a lanciare messaggi sempre più chiari, mirati ed approfonditi, sull'incessante procedere del cambiamento climatico. E, in drammatico controcanto, è altrettanto evidente l’insufficiente, lenta e contraddittoria, reazione che tali allarmi dovrebbero suscitare. La stessa pandemia da Covid19 è una testimonianza inattaccabile della strettissima relazione che esiste fra l’umanità, le sue attività ed il suo futuro, con lo stato di salute del pianeta Terra. Per quanto non confortata da un ascolto adeguato la scienza non demorde. Recentemente sono apparsi due studi molto seri ed articolati che precisano ulteriormente gli scenari che l’aumento della temperatura globale inevitabilmente provocherà se non verranno attuate, in fretta e seriamente, misure di contenimento. Li pubblichiamo nel nostro blog quantomeno per mantenere alta l’attenzione sul drammatico futuro, e sempre più anche sul presente, che l’attuale umanità sta creando per le generazioni che seguiranno. Il primo, sintetizzato in un articolo pubblicato dal Sole24Ore, è uno studio della Accademia delle Scienze statunitense che analizza le ricadute dell’innalzamento climatico in particolare sulla “fascia climatica” nella quale vive la pressochè totale umanità. Il secondo riassume in un report l’accurata analisi svolta dalla Fondazione CMCC sugli scenari specifici per l’area mediterranea e per il nostro paese

Agire sul clima per evitare una crisi peggiore del virus

Articolo di Ivan Manzo (giornalista, laureato in Economia dell’Ambiente)

Il Sole24ore on line - 03 Giugno 2020

(Articolo pubblicato originariamente su Futuranetwork)

La pandemia in corso sta dimostrando che la specie umana è molto più vulnerabile di quel che si pensava. Per correre ai ripari e salvare più vite possibili i governi di (quasi) tutti il mondo sono stati costretti a imporre il lockdown delle attività socioeconomiche dei rispettivi Paesi. Eppure la diffusione del Sar-Cov2, virus appartenente alla numerosa famiglia dei Coronavirus, era stata per certi versi annunciata. La comunità scientifica da anni ci avvisava sullo “spillover”, il salto di specie animale-uomo compiuto da un virus, e sullo strettissimo legame che intercorre con la distruzione dei nostri ecosistemi. È piuttosto evidente che non le abbiamo dato ascolto. Un po' sulla falsa riga di quello che sta accadendo sul fronte climatico, una minaccia ancor più grave della “crisi pandemica”, ricordano gli scienziati, per un semplice motivo: una volta superati i “limiti planetari”, il riscaldamento globale è in grado di innescare una serie di processi irreversibili, capaci di mettere in discussione persino la vita dell'umanità sul Pianeta. È questo, in sostanza, il motivo per cui non possiamo permetterci di rimandare di nuovo la battaglia climatica, ma bisogna mettere in campo ora, per la ripartenza post Covid-19, una serie di misure in grado di evitare i più gravi impatti generati dai cambiamenti climatici. Anche perché siamo fortemente in ritardo, e a ricordarcelo sono una serie di studi poco confortanti sull'evoluzione del fenomeno. Va in questa direzione il rapporto “Future of the human climate niche”, pubblicato il 5 maggio sulla rivista Pnas (Proceedings of the National Academy of sciences of the United states of America), che costruisce degli scenari per ogni aumento di un grado centigrado di temperatura. Secondo il team di ricerca “per ogni più 1°C segnato dalla temperatura media globale” potrebbero esserci un miliardo di persone costrette a spostarsi, oppure a vivere sotto la costante minaccia di un “calore insopportabile”. Il rischio più grande, se dovesse realizzarsi lo scenario più catastrofico, è quello di costringere un terzo della popolazione mondiale a vivere in aree calde come il deserto del Sahara entro i prossimi 50 anni. Nella prospettiva più rosea, invece, sarebbero “solo” 1,2 miliardi di persone a vivere al di fuori della “fascia climatica” definita abitabile, quella che ha permesso agli essere umani di prosperare da 6mila anni a questa parte. “Sono numeri sbalorditivi”, ha dichiarato uno degli autori dello studio, Timothy M. Lenton dell'università di Exeter, “Studio da tempo i ‘tipping points' climatici (i punti di non ritorno che la comunità scientifica avverte di non superare per scongiurare i più gravi disastri imposti dalla crisi climatica), quelli che vengono considerati apocalittici, ma questo mi ha colpito maggiormente. I risultati pongono la cosa in termini molto umani”. E in effetti lo studio invece di porre la questione da un punto di vista prettamente fisico o monetario (per esempio quando si parla di danni e perdite economiche per via del clima che cambia), fornisce un taglio diverso all'argomento. Sebbene la totalità del Pianeta sia stata ormai “antropizzata”, basti pensare che l'uomo ha modificato in modo significativo il 75% delle terre emerse e il 66% degli ecosistemi marini, la stragrande maggioranza della popolazione ha sempre vissuto in luoghi dove la temperatura media variava tra i 6°C e i 28°C, sia a tutela della propria salute, sia per garantire la produzione alimentare. Ma al ritmo attuale supereremo i 3°C di aumento medio della temperatura globale entro fine secolo e, trattandosi di una media, rischiamo di vedere un aumento di temperatura di ben 7,5°C in alcune aree. Zone dove, tra l'altro, ci si aspetta una crescita maggiore della popolazione, come in Africa e Asia. Un fattore che porterebbe di sicuro a una maggior consistenza del fenomeno migratorio, con tutta una serie di problemi per i sistemi di produzione alimentare. “Al di sopra dei 29°C di temperatura media globale le condizioni sono invivibili”, ha affermato Marten Scheffer dell'università di Wageningen, altro autore del rapporto. “Siamo stupefatti da queste conclusioni, pensavamo fossimo meno sensibili, ma in effetti abbiamo sempre vissuto all'interno di una nicchia climatica. A questi ritmi ci saranno più cambiamenti nei prossimi 50 anni che negli ultimi 6mila. Dovremmo quindi muoverci o adattarci, ma ricordiamo che anche l'adattamento conosce limiti.” E proprio su un fenomeno collegato all'attività di adattamento fa il punto della situazione un'altra ricerca pubblicata recentemente su Nature, l'8 maggio, che descrive gli errori commessi sulle previsioni dell'innalzamento del livello del mare. Secondo “Estimating global mean sea-level rise and its uncertainties by 2100 and 2300 from an expert survey” anche rispettando i 2°C dell'Accordo di Parigi, cosa che al momento appare improbabile dato che le proiezioni ci portano a un aumento medio della temperatura di almeno 3,5°C entro fine secolo, il livello del mare potrebbe alzarsi di circa due metri. Una previsione diversa da quella effettuata dall'Ipcc (l'ente scientifico di supporto alla Conferenza Onu sul cambiamento climatico), che ha sottostimato nel tempo la portata di tale fenomeno, come ricorda l'autore dello studio Stefan Rahmstorf, dell'Istituto di ricerca sull'impatto climatico di Potsdam: “Nei suoi studi l'Ipcc tende ad essere molto cauto e conservativo, motivo per cui ha dovuto correggersi verso l'alto già diverse volte. Basti pensare che le proiezioni sul livello del mare nel rapporto di valutazione Ipcc del 2014, erano già del 60% superiori a quelle della precedente edizione”. Lo studio ricorda che se dovessero completamente fondere i ghiacciai dell'Antartide e della Groenlandia il livello marino potrebbe addirittura salire di 50 metri. Di questo passo, comunque, rischiamo di avere 5 metri in più da qui al 2300. Periodo piuttosto lontano, ma usato per farci comprendere come l'attività antropica, continuando con il business as usual, sia in grado di modificare le caratteristiche geofisiche del nostro Pianeta per i prossimi secoli, se non millenni. A farci tornare di nuovo ai “giorni nostri”, restando comunque in tema inondazioni e riscaldamento globale, è la nuova analisi portata avanti dal World resources institute (Wri) che, tramite la piattaforma “Acqueduct” avverte: dal 1980 le alluvioni fluviali hanno causato danni per oltre mille miliardi di dollari a livello globale e il numero di persone colpite dal fenomeno è destinato a raddoppiare nel 2030, rispetto al 2010. Se infatti erano 65 milioni gli individui costretti a fare i conti con le alluvioni su suolo urbano nel 2010, si prevede toccheranno quota 130 milioni nel 2030. Stesso discorso per le inondazioni che interessano le zone costiere: da 7 milioni si passerà a 15 milioni di persone coinvolte. Un danno che, una volta trasformato in termini monetari, ci aiuta a capire la portata del problema: parliamo di 535 miliardi di dollari di costi al 2030 (rispetto ai 157 miliardi di dollari del 2010) per le aree urbane martoriate da alluvioni, e di 177 miliardi di dollari sempre nel 2030 (e rispetto ai 17 miliardi del 2010) per le zone costiere minacciate da inondazioni e aumento del livello del mare. Tra i diversi responsabili delle inondazioni, troviamo sempre più spesso i cicloni tropicali, via via sempre più distruttivi, anche a causa dell'aumento del livello del mare. È ormai chiaro, infatti, che per ogni centimetro di acqua in più la forza distruttiva degli uragani aumenta di parecchio, una volta che questi raggiungono la costa e che il riscaldamento globale ha un ruolo centrale nella distribuzione dei cicloni tropicali.Ulteriore conferma arriva proprio negli ultimi giorni, il 4 maggio, dalla ricerca “Detected climatic change in global distribution of tropical cyclones”, anche questa pubblicata su Pnas. Lo studio ha analizzato la distribuzione dei cicloni tropicali degli ultimi 40 anni e l'influenza su di essi sia dei fattori antropici sia di quelli naturali. Per il team di scienziati è la prova ulteriore che, anche su questo aspetto, il cambiamento climatico indotto dall'uomo è stato in grado di modificare potere e distribuzione dei cicloni tropicali. Soprattutto per quanto riguarda il dove e il come: in pratica al momento c'è sicurezza sul fatto che l'azione umana distribuisce in modo diverso e rende più distruttivi questi fenomeno estremi, mentre si sta ancora cercando di capire se ne amplifichi anche il numero totale a livello globale. I risultati mostrano che mentre nel nord Atlantico e nel Pacifico centrale nel periodo 1980-2018 gli uragani aumentavano leggermente, nell'Oceano indiano e nel Pacifico settentrionale questi diminuivano. Inoltre viene ulteriormente dimostrato che il cambiamento climatico ha esacerbato il potere distruttivo dei grandi “singoli” tifoni come l'uragano Harvey del 2017 che si è abbattuto principalmente sul Texas e dell'uragano Katrina che ha distrutto New Orleans e le aree confinanti nel 2005. Ma anche l'Europa è al centro di questi effetti distruttivi, in particolare il nostro Paese. L'Italia è infatti vista come “hotspot” climatico: un'area geografica che è bene tener d'occhio perché, data la sua conformazione e posizione geografica, subisce più danni rispetto ad altre regioni. Mentre nel mondo l'aumento medio di temperatura è a 1,1°C, in Italia si è già sforata la soglia dei 2°C (siamo intono a 2,2°C) e, senza misure di contenimento, rischiamo di vedere parte del nostro territorio desertificato. Una questione denunciata da tempo dalla comunità scientifica, basti pensare all'allarme lanciato ormai cinque anni fa dal Centro nazionale delle ricerche sul rischio desertificazione per il 21% del territorio nazionale entro fine secolo, e su cui si sta facendo ancora troppo poco. Ricordiamo che la bozza del Pnacc, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, è stato presentato dal ministero dell'Ambiente nel 2017 ma non è mai stato approvato a livello politico. Ulteriore ragione per cui la ripresa post Covid-19 deve essere l'occasione per spingere forte sul processo di transizione, puntando su quel Green new deal voluto dalla Commissione europea e auspicato dall'Italia. Perché il rischio di uscire da una crisi semplicemente per entrare in un'altra, di proporzioni ben più drammatiche, è reale. La buona notizia è che siamo di fronte anche a un'opportunità. A spiegarlo è uno studio di un team di ricerca cinese che ricorda danni e perdite dell'inazione climatica. Dalle colonne della rivista Nature il rapporto “Self-preservation strategy for approaching global warming targets in the post-Paris Agreement era” precisa che la mancata attuazione dell'Accordo di Parigi potrebbe generare perdite al mondo intero comprese tra 126mila e 616mila miliardi di dollari entro il 2100. Al contrario, arrestare la colonnina di mercurio sotto l'asticella dei 2°C porterebbe all'economia mondiale un beneficio che si aggira tra 336mila e 422mila miliardi di dollari. Puntare sulle attività di mitigazione e adattamento al clima che cambia, evitando coste sempre più sott'acqua, nuove terre deserte, ecosistemi distrutti, diffusione di virus e l'intensificarsi degli eventi estremi, ci consentirebbe dunque di costruire un mondo non solo più resiliente ma anche più prospero.

 Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici

Report del 16/09/2020

Può valere fino all’8% del Pil pro capite, acuire le differenze tra Nord e Sud, tra fasce di popolazione più povere e più ricche, insistere su una serie di settori strategici per l’Italia: i cambiamenti climatici sono un acceleratore del rischio su molti ambiti dell’economia e della società. Pubblicato il rapporto “Analisi del Rischio. I cambiamenti climatici in Italia”. Realizzato dalla Fondazione CMCC, Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, è la prima analisi integrata del rischio climatico in Italia. Un documento che, a partire dal clima atteso per i prossimi anni, si concentra su singoli settori per fornire informazioni su cosa aspettarci dal futuro e fornire uno strumento a supporto di concrete strategie di sviluppo resiliente e sostenibile.

Il rischio connesso ai cambiamenti climatici interessa l’intero territorio italiano e tutti i settori economici. Pur con differenze tra diverse aree che sono interessate in maniera diversa, non ci sono regioni che possono considerarsi immuni dal rischio climatico che sta già crescendo in questi anni, con particolare riferimento agli eventi estremi. L’analisi realizzata dalla Fondazione CMCC parte dagli scenari climatici che, attraverso un avanzato utilizzo di modelli climatici ad alta risoluzione applicati allo studio della realtà italiana, forniscono informazioni sul clima atteso per il futuro del Paese. Queste informazioni sono poi applicate all’analisi del rischio in una serie di settori del sistema socio-economico italiano. Ne emerge un quadro in cui il rischio cresce, nei prossimi decenni, in molti ambiti, con costi economico-finanziari consistenti per il Paese e con impatti che interessano in maniera più severa le fasce sociali più svantaggiate e tutti i settori, con particolare riferimento alle infrastrutture, all’agricoltura e al turismo.

Il rischio, la conoscenza scientifica e le strategie di risposta

“Il rapporto rappresenta il punto più avanzato della conoscenza degli impatti e l’analisi di rischio integrato dei cambiamenti climatici in Italia”, spiega Donatella Spano, membro della Fondazione CMCC e docente dell’Università di Sassari, che ha coordinato i trenta autori che hanno redatto i 5 capitoli che compongono la ricerca. “L’analisi del rischio e dei suoi effetti sul capitale ambientale, naturale, sociale ed economico, consentono di prendere in considerazione le opzioni di risposta individuate dalla ricerca scientifica e di sviluppare piani di gestione integrata e sostenibile del territorio valorizzandone le specificità, peculiarità e competenze dei diversi contesti territoriali”, continua Spano. “Queste conoscenze sono frutto di ricerca innovativa, di networking tra le Università che contribuiscono alla Fondazione CMCC e di collaborazioni internazionali, nascono dall’utilizzo di una infrastruttura di calcolo di primo livello nella ricerca globale. Mettere insieme tutti questi aspetti in una prospettiva di ricerca multidisciplinare è un impegno della comunità scientifica, i cui risultati sono al servizio della società e producono conoscenza a beneficio dell’intero sistema Paese”. “La sfida del rischio connesso ai cambiamenti climatici – conclude Donatella Spano – parte dalla conoscenza scientifica per integrare l’adattamento, le soluzioni da mettere in campo di fronte al rischio, in tutte le fasi dei processi decisionali, nelle politiche pubbliche, nei programmi di investimento e nella pianificazione della spesa pubblica, in modo da garantire lo sviluppo sostenibile su tutte le scale territoriali e di governance”. Corredato da una serie di messaggi chiave, schede infografiche e un estratto di sintesi realizzati per agevolare la lettura e la fruizione dei contenuti, (disponibili per chi fosse interessato a consultarli al seguente link Analisi CMCC) il report affronta i temi che sono di seguito sintetizzati.

Il clima atteso per il futuro dell’Italia. I diversi modelli climatici sono concordi nel valutare un aumento della temperatura fino a 2°C nel periodo 2021-2050 (rispetto a 1981-2010). Nello scenario peggiore l’aumento della temperatura può raggiungere i 5°C. Diminuzione delle precipitazioni estive nelle regioni del centro e del Sud, aumento di eventi precipitazioni intense. In tutti gli scenari aumenta il numero di giorni caldi e dei periodi senza pioggia. Conseguenze dei cambiamenti climatici sull’ambiente marino e costiero avranno un impatto su “beni e servizi ecosistemici” costieri che sostengono sistemi socioeconomici attraverso la fornitura di cibo e servizi di regolazione del clima

Rischio aggregato per l’Italia. La capacità di adattamento e la resilienza in Italia sono temi che interessano l’intero territorio italiano da Nord a Sud. Anche se più ricche e sviluppate le regioni del Nord non sono immuni agli impatti dei cambiamenti climatici, né sono più preparate per affrontarli. Per quanto riguarda gli eventi estremi, la probabilità del rischio è aumentata in Italia del 9% negli ultimi vent’anni.

Costi economici, strumenti e risorse finanziarie. I costi degli impatti dei cambiamenti climatici in Italia aumentano rapidamente e in modo esponenziale al crescere dell’innalzamento della temperatura nei diversi scenari, con valori compresi tra lo 0,5% e l’8% del Pil a fine secolo. I cambiamenti climatici aumentano la disuguaglianza economica tra regioni. Tutti i settori dell’economia italiana risultano impattati negativamente dai cambiamenti climatici, tuttavia le perdite maggiori vengono a determinarsi nelle reti e nella dotazione infrastrutturale del Paese, nell’agricoltura e nel settore turistico nei segmenti sia estivo che invernale. I cambiamenti climatici richiederanno numerosi investimenti e rappresentano un’opportunità di sviluppo sostenibile che il Green Deal europeo riconosce come unico modello di sviluppo per il futuro. È il momento migliore in cui nuovi modi di fare impresa e nuove modalità per una gestione sostenibile del territorio devono entrare a far parte del bagaglio di imprese ed enti pubblici, locali e nazionali.

Le città e l’ambiente urbano. In seguito all’incremento nelle temperature medie ed estreme, alla maggiore frequenza (e durata) delle ondate di calore e di eventi di precipitazione intensa, bambini, anziani, disabili e persone più fragili saranno coloro che subiranno maggiori ripercussioni. Sono attesi, infatti, incrementi di mortalità per cardiopatie ischemiche, ictus, nefropatie e disturbi metabolici da stress termico e un incremento delle malattie respiratorie dovuto al legame tra i fenomeni legati all’innalzamento delle temperature in ambiente urbano (isole di calore) e concentrazioni di ozono (O3) e polveri sottili (PM10).

Rischio geo-idrologico. Dall’analisi combinata di fattori antropici e degli scenari climatici si evince che è atteso l’aggravarsi di una situazione di per sé molto complessa. L’innalzamento della temperatura e l’aumento di fenomeni di precipitazione localizzati nello spazio hanno un ruolo importante nell’esacerbare il rischio. Nel primo caso, lo scioglimento di neve, ghiaccio e permafrost indica che le aree maggiormente interessate da variazioni in magnitudo e stagionalità dei fenomeni di dissesto sono le zone alpine e appenniniche. Nel secondo caso, precipitazioni intense contribuiscono a un ulteriore aumento del rischio idraulico per piccoli bacini e del rischio associato a fenomeni franosi superficiali nelle aree con suoli con maggior permeabilità

Risorse idriche. Gran parte degli impatti dei cambiamenti climatici sulle risorse idriche prospettano una riduzione della quantità della risorsa idrica rinnovabile, sia superficiale che sotterranea, in quasi tutte le zone semi-aride con conseguenti aumenti dei rischi che ne derivano per lo sviluppo sostenibile del territorio. I cambiamenti climatici attesi (periodi prolungati di siccità, eventi estremi e cambiamenti nel regime delle precipitazioni, riduzione della portata degli afflussi), presentano rischi per la qualità dell’acqua e per la sua disponibilità. I rischi più rilevanti per la disponibilità idrica sono legati a elevata competizione settoriale (uso civile, agricolo, industriale, ambientale, produzione energetica) che si inasprisce nella stagione calda quando le risorse sono più scarse e la domanda aumenta (ad esempio per fabbisogno agricolo e turismo)

Agricoltura. I sistemi agricoli possono andare incontro ad una aumentata variabilità delle produzioni con una tendenza alla riduzione delle rese per molte specie coltivate, accompagnata da una probabile diminuzione delle caratteristiche qualitative dei prodotti, con risposte tuttavia fortemente differenziate a seconda delle aree geografiche e delle specificità colturali. Impatti negativi sono attesi anche per il settore dell’allevamento, con impatti sia diretti che indiretti sugli animali allevati e conseguenti ripercussioni sulla qualità e la quantità delle produzioni

Incendi. L’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni medie annue, la maggiore frequenza di eventi meteorologici estremi quali le ondate di calore o la prolungata siccità, interagiscono con gli effetti dell’abbandono delle aree coltivate, dei pascoli e di quelle che un tempo erano foreste gestite, del forte esodo verso le città e le aree costiere, e delle attività di monitoraggio, prevenzione e lotta attiva sempre più efficienti. Si prevede che i cambiamenti climatici esacerberanno ulteriormente specifiche componenti del rischio di incendi, con conseguenti impatti su persone, beni ed ecosistemi esposti nelle aree più vulnerabili. Sono attesi incrementi della pericolosità di incendio, spostamento altitudinale delle zone vulnerabili, allungamento della stagione degli incendi e aumento delle giornate con pericolosità estrema che, a loro volta, si potranno tradurre in un aumento delle superfici percorse con conseguente incremento nelle emissioni di gas a effetto serra e particolato, con impatti quindi sulla salute umana e sul ciclo del carbonio. 

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