martedì 1 settembre 2020

La Parola del mese

 

La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

SETTEMBRE 2020

E’ assai probabile che sia tutt’altro che trascurabile la percentuale di italiani che neppure sanno, o si ricordano, che fra pochi giorni, il 20 e 21 Settembre si terrà il referendum confermativo della Legge che prevede una consistente riduzione del numero dei Parlamentari. Ed è pressoché certo che ben pochi, fra quelli che almeno sanno di questo appuntamento, hanno approfondito il quesito referendario e le ricadute, positive o negative che siano a seconda dei punti di vista, che esso avrà sulle regole democratiche del nostro paese. Se va sicuramente riconosciuto che i mesi addietro sono stati inevitabilmente molto condizionati dalla pandemia resta pur vero che solo in questi ultimi giorni il dibattito politico ed i media hanno iniziato ad intervenire sul tema. L’impressione, confermata da recenti sondaggi, è che il diffuso sentimento di scarso gradimento della politica in genere, del ceto politico, parlamentari in primis, e dei collegati “costi della politica, sarà con buona probabilità l’elemento che deciderà l’esito del voto che, trattandosi di un referendum confermativo, non prevede il raggiungimento di un quorum. Si tratta, sia ben chiaro, di una opinione del tutto legittima e come tale democraticamente da accettare, ma la sua incidenza sembra davvero notevole, e non a caso quindi sta orientando, in modo significativo e spesso strumentale, le stesse prese di posizione dei vari partiti. I quali si presentano all’appuntamento in ordine sparso e confuso con divisioni che spesso attraversano schieramenti, alleanze, ed appartenenti allo stesso partito. Non meno divisi sono poi gli stessi “esperti” che, probabilmente “contagiati” come i loro corrispondenti che si occupano della pandemia, sono schierati in ordine altrettanto sparso vuoi per il SI vuoi per il NO. Su un punto solo sembra esserci totale convergenza: ottenuta l’eventuale, e prevedibile, conferma referendaria la riduzione del numero dei parlamentari imporrà, unitamente al ridisegno dei collegi elettorali, anche la riforma della “legge elettorale”, ossia delle regole con le quali verranno scelti questi futuri “ridotti” deputati e senatori. Non pochi sostengono inoltre che sarebbe altrettanto opportuno ridefinire l’attuale regime di “bicameralismo perfetto”, vale a dire la totale parità di competenze legislative della Camera e del Senato. Resta purtroppo vero però che ad oggi nessun passo in avanti è stato fatto quantomeno per dare un qualche inizio a questo inaggirabile completamento della Legge oggetto del referendum, la quale pertanto rischia di essere una Legge “monca”. Anche solo questa breve introduzione alla “Parola del mese”, scelta proprio con riferimento al referendum in questione, dimostra la complessità del quadro istituzionale che comporterà la scelta referendaria, e quindi l’opportunità che il voto, qualunque esso sia, che tutti noi esprimeremo sia il più possibile consapevole di questo aspetto. Come CircolarMente cercheremo in queste settimane di offrire alcuni spunti di riflessione, che tengano conto delle opinioni del Si e del NO, per tentare di colmare almeno in parte questo ritardo. La “Parola” scelta è quindi quella che individua l’elemento fondamentale per valutare il quesito referendario.

RAPPRESENTATIVITA’

Rappresentatività = Attitudine a simboleggiare o rappresentare un'età, un'istituzione, un gruppo, ecc.; potere, facoltà di rappresentanza.

Riteniamo innanzitutto opportuno un brevissimo riepilogo del percorso che ha portato alla convocazione del referendum e della sua modalità:

·   La riforma costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari era stata approvata all’inizio di ottobre 2019 con il voto favorevole praticamente di tutti i partiti. La legge doveva entrare in vigore a gennaio, ma una richiesta dei senatori, di fatto, l’aveva sospesa rendendo necessario il referendum. Nonostante l’iniziale apparente unanimità nel sostenere la riforma, 71 senatori di vari partiti avevano infatti firmato per indire un referendum costituzionale.

·         I senatori avevano potuto avanzare la loro richiesta perché le riforme costituzionali hanno un iter parlamentare speciale: se una riforma non ottiene una maggioranza di due terzi da ciascuna delle due camere nel voto finale si hanno tre mesi di tempo per chiedere che sia sottoposta a referendum; servono le firme di un quinto dei membri di una delle due camere – per i senatori la soglia è di 64 – 500.000 elettori o 5 consigli regionali. La proposta sul taglio dei parlamentari era stata firmata da 71 senatori, 7 in più del numero minimo richiesto

·         Il referendum avrebbe dovuto svolgersi lo scorso 29 marzo, ma era stato rimandato a causa dell’epidemia da coronavirus. A metà luglio il Consiglio dei ministri aveva stabilito le date del 20 e 21 settembre, accorpando il voto per il referendum confermativo alle regionali e alle elezioni supplettive nei collegi uninominali 3 della Regione Sardegna e 9 della Regione Veneto del Senato e con il voto amministrativo in alcuni comuni.

·         La riforma prevede di ridurre i seggi alla Camera da 630 a 400 e quelli al Senato da 315 a 200: una riduzione di circa un terzo: si passerebbe dai circa 96mila abitanti per deputato a circa 151mila. Oggi l’Italia ha un numero di parlamentari per numero di abitanti simile a quello dei grandi paesi europei; dopo la riforma diventerebbe invece uno dei paesi con il più basso livello di rappresentanza politica in rapporto alla popolazione dell’intera Unione Europea.

·         Con l’approvazione della riforma saranno ridotti anche i parlamentari eletti dagli italiani all’estero: passeranno da 12 a 8 e i senatori da 6 a 4. Verrà inoltre stabilito un tetto massimo al numero dei senatori a vita nominati dai presidenti della Repubblica: mai più di 5.

·         Il referendum sarà confermativo, servirà cioè a confermare l’approvazione di una riforma costituzionale che non ha ottenuto almeno due terzi dei voti in ciascuna camera. Chi vota “sì” sostiene il taglio, chiede che la riforma sia confermata e che entri in vigore. Chi vota “no” ne chiede invece l’abrogazione.

·         Nei referendum costituzionali non si tiene conto del quorum, come nei normali referendum abrogativi. Indipendentemente dal numero di votanti, il risultato quindi viene sempre preso in considerazione.

Questa prima tornata di articoli/documenti è stata quindi scelta con la finalità di entrare il più possibile nel “merito tecnico” della Legge sottoposta a referendum, compito non facile perché sui media ed in Rete prevalgono semplici appelli al voto, in ambedue i sensi, affidati a slogan che poco o nulla entrano nel merito della questione. Ringraziamo quindi Enrietti Nives e Villa Maria Letizia per la preziosa collaborazione nello “scaricare” quelli più utili. Iniziamo però con un interessante, e polemico, articolo, uscito proprio oggi sulle pagine di “La Repubblica”, di Michele Ainis, esperto costituzionalista, che lamenta, a conferma di quanto sopra, proprio la scarsa qualità del percorso referendario inquinato dalle solite strumentalizzazioni politiche

Referendum, un voto per la Costituzione

Articolo di Michele Ainis – La Repubblica del 01 Settembre

Il 20 e 21 settembre sono in gioco le istituzioni permanenti della Repubblica italiana, non i nostri provvisori governanti. Né tanto meno il futuro della legislatura

Possiamo votare con un Sì oppure con un No al referendum prossimo venturo (il Nì non è previsto, anche se ha già molti seguaci). Tuttavia almeno un comportamento ci è vietato: sbagliare scheda, confondere questa consultazione popolare con un'elezione. Si vota per la Costituzione, non per un partito. E sono in gioco le istituzioni permanenti della Repubblica italiana, non i nostri provvisori governanti. Né tanto meno il destino della legislatura, come spesso si sostiene, usando argomenti biforcuti come corna di lumaca. Se vince il Sì - dicono alcuni - questo Parlamento di 945 inquilini verrà immediatamente delegittimato dal corpo elettorale che ne vuole 600, quindi tutti a casa. Se vince il No - dicono altri - il voto corale delle Camere sul taglio degli eletti sarà smentito dagli elettori, e dunque Camere delegittimate, elezioni anticipate. Insomma il Parlamento sbaglia in ogni caso, anche se sbadiglia. Questa sovrapposizione fra due piani distinti - l'uno politico, l'altro costituzionale - sarà pure favorita dalla scelta dell'Election day, scelta quanto mai infelice. Ma è un errore, anzi un delitto. Perché intossica la nostra decisione, caricandola d'elementi spuri, di sentimenti o di risentimenti verso questo o quel partito. E perché al contempo svilisce l'autorità della Costituzione, ne contamina il valore asservendolo alla politica dei politicanti, al gioco quotidiano dei vincenti e dei perdenti. Ciò nonostante, il gioco procede a tutta lena. A destra i più sinceri sono Brunetta e Bergamini: votiamo No, anche se in Parlamento il nostro partito aveva votato Sì, perché in questo modo il governo Conte finisce gambe all'aria. A sinistra Bersani denunzia la campagna per un No insincero, quindi si sincera sulla sopravvivenza del governo facendo propaganda per il Sì. Prodi paventa che il successo di questa riforma decreti l'insuccesso delle prossime riforme (argomento anch'esso biforcuto), e comunque non gli piacciono le forbici mostrate agli italiani per salutare il taglio. Come lui, tanti a sinistra, ma sotto sotto pure a destra: se il referendum passa vince il populismo, anzi il Movimento 5 Stelle, anzi Di Maio, lui a quel punto potrà riprendersi il partito. Sicché ciascuno si domanda: e a me, cosa conviene? Non lo sa il Pd, i cui leader stanno celebrando un congresso anticipato, dividendosi in due fronti contrapposti. Non lo sa ancora Berlusconi, in attesa degli ultimi sondaggi. Poi c'è chi sa di non sapere, e allora concede libertà di voto agli elettori. Così, per esempio, Italia Viva; ma quella libertà è un oltraggio, mica siamo soldatini. Il voto libero è un diritto, non una graziosa concessione dei partiti. Dopo di che nessuno pretende che i politici italiani rimangano afoni, silenti. Farebbero meglio, tuttavia, a basare le proprie indicazioni su una scelta ideale, non sul tornaconto. Anche perché i conti poi non tornano, ne abbiamo fin troppa esperienza. Sulle leggi elettorali, per dirne una. Il loro scadimento comincia quando Calderoli brevettò il Porcellum, per tirare uno sgambetto alla sinistra; e invece la destra perse la partita. L'avrebbe vinta, conservando il Mattarellum. Eterogenesi dei fini, si chiama così. Ma in generale le riforme prescindono dai loro padrini. Specie in materia costituzionale. La libertà delle scuole private, per fare un altro esempio. Chiesta dalla Dc in Assemblea costituente, concessa a denti stretti da Togliatti; ma adesso chi se ne rammenta? Morale della favola: conta il testo, non il contesto.

Facciamo seguito con l’appello che un consistente numero di costituzionalisti ha promosso per sostenere le ragioni del NO con una serie di valutazioni “tecniche” sulle conseguenze della Legge oggetto del referendum

Le ragioni del nostro NO al referendum

sulla riduzione del numero dei parlamentari

Le sottoscritte e i sottoscritti, docenti, studiose e studiosi di diritto costituzionale, intendono spiegare le ragioni tecniche per le quali si oppongono alla riforma sulla riduzione del numero dei parlamentari, illustrando i rischi per i principi fondamentali della
Costituzione che la revisione comporta.  Si precisa che il presente documento scaturisce da un’iniziativa autonoma e totalmente indipendente sia dal Coordinamento per la democrazia costituzionale (CDC), sia dal Comitato nazionale per il No al taglio del Parlamento, così come da ogni altro ente, organismo e associazione, esprimendo considerazioni frutto esclusivamente dell’elaborazione collettiva dei sottoscrittori.

Il testo di legge costituzionale sottoposto alla consultazione referendaria, introducendo una riduzione drastica del numero dei parlamentari (da 945 componenti elettivi delle due Camere si passerebbe a 600), avrebbe un impatto notevole sulla forma di Stato e sulla forma di governo del nostro ordinamento. Tanti motivi inducono a un giudizio negativo sulla riforma: qui si illustrano i principali.

1.    La riforma svilisce, innanzitutto, il ruolo del Parlamento e ne riduce la rappresentatività, senza offrire vantaggi apprezzabili né sul piano dell’efficienza delle istituzioni democratiche né su quello del risparmio della spesa pubblica.
I fautori della riforma adducono, a sostegno del «SÌ» al referendum, la riduzione di spesa che la modifica della composizione delle Camere determinerebbe. Si tratta, però, di un argomento inaccettabile non soltanto per l’entità irrisoria dei tagli di cui si parla, ma anche perché gli strumenti democratici basilari (come appunto l’istituzione parlamentare) non possono essere sacrificati o depotenziati in base a mere esigenze di risparmio. La riduzione del numero dei parlamentari non deriverebbe, inoltre, da una riforma ragionata del bicameralismo perfetto (il vigente assetto parlamentare in base al quale le due Camere si trovano nella stessa posizione e svolgono le medesime funzioni). Tale sistema non sarebbe toccato dalla legge costituzionale oggetto del referendum. Spesso si fa riferimento agli esempi di altri Stati ma non può correttamente compararsi il numero dei componenti delle Camere italiane con quello di altre assemblee parlamentari in termini astratti, senza tenere conto del numero degli elettori (e, dunque, del rapporto eletti/elettori). Si trascura, inoltre, che in molti degli ordinamenti assunti come termini di paragone si riscontrano forme di governo e tipi di Stato diversi dai nostri.

2.    La riforma presuppone che la rappresentanza nazionale possa essere assorbita nella rappresentanza di altri organi elettivi (Parlamento europeo, Consigli regionali, Consigli comunali, ecc.), contro ogni evidenza storica e contro la giurisprudenza della Corte costituzionale. I fautori della riforma sostengono ancora che la riduzione del numero dei parlamentari non arrecherebbe alcun danno alle esigenze della rappresentatività perché sarebbero già tanti gli organi elettivi (Parlamento europeo, Consigli regionali, consigli comunali, ecc.) la cui formazione dipenderebbe dal voto dei cittadini. La rappresentanza nazionale, secondo questa tesi, potrebbe trovare un’espressione parcellizzata in altri luoghi istituzionali. A prescindere, però, da ogni altra considerazione sul ruolo e sulle competenze degli organi elettivi richiamati (ad esempio, i Consigli regionali italiani non sono paragonabili ai parlamenti degli Stati membri di una federazione), si può ricordare che la Corte costituzionale ha chiarito che «solo il Parlamento è sede della rappresentanza politica nazionale, la quale imprime alle sue funzioni una caratterizzazione tipica ed infungibile». Basta leggere, del resto, le materie attribuite dalla Costituzione alla competenza esclusiva del legislatore statale (e considerare l’interpretazione estensiva che di molte di queste materie ha dato la stessa Corte costituzionale nella sua giurisprudenza) per avere un’idea dell’importanza delle Camere

3.    La riforma riduce in misura sproporzionata e irragionevole la rappresentanza di interi territori. Per quanto riguarda la nuova composizione del Senato, alcune Regioni finirebbero con l’essere sottorappresentate rispetto ad altre. Così, ad esempio, l’Abruzzo, con un milione e trecentomila abitanti, avrebbe diritto a quattro senatori, mentre il Trentino-Alto Adige, con le sue due province autonome e con una popolazione complessiva di un milione di abitanti, avrebbe in tutto sei senatori; e ancora la Liguria, con cinque seggi, avrebbe una rappresentanza al Senato, in sostanza, della sola area genovese.

4.    La riforma non eliminerebbe ma, al contrario, aggraverebbe i problemi del bicameralismo perfetto (anche se è spesso presentata dai suoi sostenitori come un intervento volto a raggiungere gli stessi obiettivi di precedenti progetti di riforma, diretti a rendere più efficiente l’istituzione parlamentare). Come si è già detto, l’attuale riforma non introduce alcuna differenziazione tra le due Camere ma si limita semplicemente a ridurne i componenti, il cui elevato numero costituisce una caratteristica del Parlamento e non del bicameralismo perfetto. Tale assetto, in teoria, potrebbe anche essere modificato senza alterare in modo così incisivo il numero dei parlamentari, anche solo per il tramite di una contestuale riforma dei regolamenti parlamentari di Camera e Senato.  Al contrario, se si considerano i problemi di rappresentanza di alcuni territori regionali che la riforma comporterebbe, risulta che paradossalmente la legge in questione finirebbe con l’aggravare, anziché ridurre, i problemi del bicameralismo perfetto.

5.    La riforma appare ispirata da una logica “punitiva” nei confronti dei parlamentari, confondendo la qualità dei rappresentanti con il ruolo stesso dell’istituzione rappresentativa. La revisione costituzionale sembra essere espressione di un intento “punitivo” nei confronti dei parlamentari – visti come esponenti di una “casta” parassitaria da combattere con ogni mezzo –  ed è il segno di una diffusa confusione del problema della qualità dei rappresentanti con il ruolo dell’organo parlamentare. Non è dato riscontrare, tuttavia, un rapporto inversamente proporzionale tra il numero dei parlamentari e il livello qualitativo degli stessi. Una simile riduzione dei componenti delle Camere penalizzerebbe soltanto la rappresentanza delle minoranze e il pluralismo politico e potrebbe paradossalmente produrre un potenziamento della capacità di controllo dei parlamentari da parte dei leader dei partiti di riferimento, facilitato dal numero ridotto degli stessi componenti delle Camere. Non può trascurarsi, inoltre, lo squilibrio che si verrebbe a determinare qualora, entrata in vigore la modifica costituzionale, non si avesse anche una modifica della disciplina elettorale, con essa coerente, tale da assicurare – nei limiti del possibile – la rappresentatività delle Camere e, allo stesso tempo, agevolare la formazione di una maggioranza (sia pur relativamente) stabile di governo. È illusorio, in conclusione, pensare alle riforme costituzionali come ad azioni dirette a causare shock a un sistema politico-partitico incapace di autoriformarsi, nella speranza che l’evento traumatico possa innescare reazioni benefiche. Una cattiva riforma non è meglio di nessuna riforma. Semmai è vero il contrario. Respingendo questa riforma perché monca e destabilizzante, ci sarebbe spazio per proposte equilibrate che mantengano intatti i principi fondanti del nostro ordinamento costituzionale; al contrario sarebbe più difficile mettere in discussione una riforma appena avallata dal corpo elettorale. Occorrono, in definitiva, interventi idonei ad apportare miglioramenti al sistema nel rispetto della democraticità e della  rappresentatività delle istituzioni.

A conferma di quanto evidenziato in premessa sulla diversità di opinioni anche fra i costituzionalisti pubblichiamo l’opinione espressa dall’ex Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida in una intervista concessa a La Repubblica e ripresa da molti quotidiani fra cui “il Fatto” dal quale abbiamo estrapolato questa sintesi.  Va detto che in mancanza di prese di posizione analoghe a quella precedente. Il dibattito sui media ed in Rete consta ad oggi unicamente di articoli e interviste.

Col taglio degli eletti il parlamento funzionerà meglio, anche senza correttivi’. L’ex presidente della Consulta Onida si schiera per il Sì

“Con il taglio dei parlamentari le Camere potrebbero funzionare meglio”, in caso di vittoria del Sì non si rischia alcuno “squilibrio costituzionale”, mentre i correttivi auspicati, tra gli altri anche da un nutrito gruppo di costituzionalisti, “non sono indispensabili”. Valerio Onida smonta punto per punto le tesi di chi è deciso a votare No, il 20-21 settembre, alla consultazione sulla riduzione del numero dei parlamentari. E contesta pure la tesi dello “squilibrio costituzionale”. Onida sostiene innanzitutto che “sia improprio dire No senza una validissima ragione di merito”, dal momento che in ultima lettura la riforma è stata approvata “da tutte le forze politiche in campo”. “Il no aggraverebbe il fossato di sfiducia che già c’è tra cittadini e istituzioni”, secondo Onida, un Parlamento composto da 600 membri “non funzionerà peggio, anzi potrebbe funzionare meglio se si coglie questa occasione per mettere mano a tanti aspetti dei regolamenti e delle prassi parlamentari“. È ritenuto più debole, invece, l’argomento di chi sostiene che grazie al referendum lo Stato risparmierà centinaia di milioni a legislatura. “È una motivazione fasulla. Non si risparmia sulle istituzioni. Ma è un argomento usato purtroppo in altre occasioni da tutte le forze politiche“. L’ex presidente della Corte chiarisce poi perché, a suo parere, le presunte conseguenze negative della riforma che vengono oggi agitate, non mi sembrano tali”. Nessuna compromissione dei lavori parlamentari: “Un Senato di 200 membri può lavorare benissimo. Per Onida non convince l’obiezione che riducendosi il numero dei parlamentari e rimanendo, nell’assemblea che elegge il Capo dello Stato, tre rappresentanti per ogni Regione, il peso di questi aumenterebbe indebitamente. La Costituzione ha concepito il corpo elettorale del Presidente come più ampio del solo Parlamento, trattandosi di eleggere colui che per 7 anni rappresenterà l’unità nazionale“. Onida sottolinea anche la necessità di slegare il tema della legge elettorale 

Ad Onida replica Adriano Sofri con un articolo pubblicato sul Foglio del 28 Agosto

Valerio Onida, delle cui conoscenze e opinioni ho gran stima, dopo aver spiegato che nel referendum sul cosiddetto taglio dei parlamentari, formula da arrotini, non è implicata alcuna questione di principio, spiega la sua scelta per il Sì piuttosto che per l’astensione con il seguente argomento – se non fraintendo. Il taglio è stato votato dalle due Camere, com’è prescritto per i cambiamenti costituzionali, due volte per ciascuna Camera. Il referendum senza quorum – reso necessario perché non è stata raggiunta la maggioranza dei due terzi – è chiamato dunque a confermare o sconfessare una decisione inequivocabile, sicché la sua conferma è un modo di rispettare il Parlamento e di non esacerbare il distacco fra società e istituzioni. Mi pare che l’argomento si debba almeno altrettanto ragionevolmente capovolgere. L’elettore ha assistito all’origine di questa versione della riduzione del numero dei parlamentari, la rivendicazione della punizione dei politici ladri e parassiti e del risparmio dell’erario, poi ha visto come i partiti diversi abbiano adattato il loro voto di volta in volta alla pressione demagogica o a calcoli di tenuta di maggioranze arrangiate. Motivazioni estranee e spesso opposte al merito della legge. Il realismo impone di ricordare come popolo e populisti alimentino reciprocamente la propria sbronza demagogica, e dunque il referendum ha un esito scontato. Ma il rispetto del Parlamento è altra cosa dall’adesione acritica ai comportamenti delle maggioranze parlamentari e tanto meno alle loro capriole di convenienza. Se l’argomento di Onida fosse fondato, non si capirebbe perché la Costituzione abbia previsto l’eccezione del referendum confermativo, ridotto a semplice ratifica cerimoniale. I confusi pronunciamenti trasversali improvvisamente emersi alla vigilia di un referendum fino a poco fa pressoché innominato sono simpatici, se non altro perché dissuadono dallo stupido ricatto della cattiva compagnia. Comunque si voti, la compagnia è cattiva. Ma questa improvvisata trasversalità non toglierà niente alla sostanza: che il taglio dei parlamentari è la vittoria dei 5 Stelle, e della loro parte peggiore, persone e argomenti. “Taglio delle poltrone – dice Onida – è un’espressione che odio”. Giusto, ma a vincere sarà quello, il taglio delle poltrone.

Una posizione analoga a quella di Onida è stata espressa da un altro importante costituzionalista, Andrea Morrone, in una intervista al “Fatto” del 28 Agosto

“Due Camere più snelle saranno più centrali”

“La riduzione del numero dei parlamentari è un presupposto indispensabile per rendere il Parlamento più centrale”. Andrea Morrone, 50 anni, è ordinario di Diritto costituzionale di Bologna e non ha dubbi su cosa votare al referendum sul taglio degli eletti.

Professor Morrone, perché voterà “sì”?

Voterò a favore perché penso che la riduzione dei parlamentari possa portare a un nuovo ruolo del Parlamento. E questo per due motivi: in primo luogo perché, in base alla comparazione giuridica e alla logica, un numero ridotto dei parlamentari è indice di una maggiore qualità della rappresentanza. Il taglio degli eletti infatti spingerà i partiti a selezionare dei candidati migliori e anche chi è investito di questo ruolo sentirà con maggiore responsabilità la propria funzione. Poi c’è un secondo motivo...

Dica.

Esiste una regola generale: il numero dei parlamentari è inversamente proporzionale alla democrazia di un paese. Le assemblee pletoriche si ritrovano solo in dittature come Cina, Corea del Nord e nella ex Urss. Per questo sostengo il “sì”: un Parlamento con numeri più contenuti è coerente con le altre democrazie parlamentari. Tutte quelle europee hanno un numero di eletti compreso tra 450 e 700.

Secondo i fautori del “No” ci sarà un problema di rappresentanza. Cosa ne pensa?  

È una questione mal posta: non c’è dubbio che riducendo il numero di rappresentanti si riduca la rappresentatività, più che la rappresentanza. Il punto però è che la questione della rappresentatività va affrontato con la legge elettorale. Questa obiezione è insidiosa ed equivoca perché si può aumentare o diminuire la rappresentatività quanto si vuole, ma poi la rappresentanza dipende dalla capacità di andarsi a prendere i voti.

Il Pd dice che per votare “Sì” la riforma va accompagnata con una legge proporzionale.

La democrazia è inversamente proporzionale al numero degli eletti. La riduzione del numero dei parlamentari è neutra rispetto alla legge elettorale. In primo luogo la riforma elettorale va fatta dopo e non prima del referendum, ovvero quando sappiamo il numero dei rappresentanti. Poi la riduzione dei parlamentari è compatibile sia con una legge proporzionale che con un sistema maggioritario. Dipende tutto da una scelta politica: il Pd ha un obiettivo politico e non c’entra niente con la Costituzione. Da un lato i dem vogliono impedire una maggioranza a guida Salvini e dall’altra vogliono mettere una soglia di sbarramento per tagliare le unghie ai piccoli partiti come Renzi e Calenda.

Lei sostiene che il Parlamento sarà anche più efficiente. Perché?

Un Parlamento con un numero ridotto di rappresentanti può lavorare meglio perché può controllare meglio il governo e potrà dare maggior importanza alle autonomie. Due riforme che andrebbero fatte di conseguenza potrebbero essere quella di evitare al premier di presentarsi in entrambe le camere per le fiducie (basterebbe una seduta comune) e poi avere 200 senatori in meno può preludere alla risoluzione del bicameralismo.

Nel 2016 lei era per il “Sì” alla riforma Renzi. Oggi si sente coerente?

Votai Sì alla riforma del 2016, ma oggi condivido la linea di chi dice che occorra fare riforme puntuali della Costituzione. Per questo trovo contraddittorio che chi al tempo ha fatto campagna per il No sostenendo che la Carta andava cambiata con interventi chirurgici, sia contrario anche oggi.

I costituzionalisti del “No” dicono che si risparmia pochissimo. È vero?

Io non condivido il messaggio anti-politico del M5S, ma come cittadino non sono indifferente al risparmio che si potrebbe ottenere da questa riforma. Anche per questo voterò “Sì”.

Concludiamo questa rassegna con un articolo di Romano Prodi -  “Messaggero” del 28 Agosto - che testimonia della diversità di opinioni all’interno della sinistra (ad esempio Bersani si è espresso per il SI)

Referendum, Prodi: ecco perché voterò “no” al taglio dei parlamentari

Sto in questi giorni cercando di capire perché ogni persona con cui mi trovo a parlare mostra un crescente disorientamento nei confronti del referendum per il quale siamo chiamati a votare nel prossimo mese di settembre. Il sentimento del referendum come rivolta contro la classe dirigente si è come assopito, addormentato dal caldo estivo e messo in un angolo dai ben più urgenti problemi legati al Covid e alle sue ancora non misurate conseguenze. La modesta diminuzione dei costi (0,007% della spesa pubblica italiana) come effetto del minore numero dei parlamentari non viene quasi più presa in considerazione: essa rimane sepolta tra le paurose cifre della finanziaria e la nuova dimensione degli interventi europei. 
Il centro dell’attenzione si sta progressivamente spostando nella più ragionevole direzione di quale sia la migliore organizzazione del Parlamento per garantire ad esso efficienza e rispetto della Costituzione. Ed è proprio a questo punto che l’elettore si disorienta di fronte alle raffinate motivazioni dei politici o degli studiosi che sostengono le più svariate tesi. Si tratta di un disorientamento del tutto giustificato, perché il normale cittadino intuisce che il numero dei parlamentari non è il problema principale del crescente distacco fra il Paese e il Parlamento.Il dimagrimento del Parlamento può essere solo la conclusione di un necessario processo di riesame del funzionamento delle nostre istituzioni. Il vero problema non sta infatti nel numero, ma nel modo in cui i parlamentari vengono eletti. Anche senza elaborare profonde analisi teoriche, l’elettore si è reso progressivamente conto che deputati e senatori non sono stati eletti, ma sostanzialmente nominati dai partiti e, come tali, coerentemente si comportano. Non avendo alcun necessario rapporto col territorio, non hanno ormai (salvo pochissime eccezioni) alcun legame organico con gli elettori, non mettono più in atto i periodici incontri con le diverse categorie o i diversi quartieri e paesi degli elettori e non hanno nemmeno un ufficio locale. Solo una minima parte degli elettori conosce il nome del parlamentare che, almeno in teoria, rappresenta il suo territorio. Semplicemente perché non lo rappresenta.  Per il cittadino normale diventa quindi del tutto indifferente se sia meglio avere un deputato ogni novantamila o ogni centoquarantamila abitanti, o se sia davvero un danno che una regione sia rappresentata da un numero di senatori molto ridotto. Insomma, più ci si avvicina al referendum più esso viene ritenuto un residuo di impegni presi in passato, di vecchi slogan e di campagne folcloristiche accompagnate da immagini di grandi forbici e di poltrone sfregiate dalle forbici medesime. Resta quindi difficile convincerci del fatto che la diminuzione del numero dei parlamentari sia il primo passo per portare i problemi del territorio al Parlamento e dal Parlamento al Governo. Dopo decenni di discussione andati a vuoto, nessuno più crede in una legge elettorale che si ponga questo obiettivo, anche perché il dibattito fra i partiti si orienta, quasi all’unanimità, verso l’adozione di un sistema proporzionale che mantenga sostanzialmente il diritto di nomina, mentre le dispute si concentrano sulla percentuale minima che un partito deve raggiungere per essere rappresentato in parlamento.  Non è certo facile cambiare questa realtà. Ciò non di meno, almeno fino a che l’Italia rimane una Repubblica parlamentare, la qualità e l’autorevolezza dei membri del Parlamento rappresentano il pilastro fondamentale per il buon funzionamento delle nostre istituzioni. A questo si dovrebbero ovviamente aggiungere le altre ben note riforme che ridefiniscano, ad esempio, le funzioni delle due Camere, i lavori delle commissioni, i rapporti con le Regioni e il modo di operare delle commissioni e i rapporti fra Parlamento e Governo. Se vogliamo raggiungere l’obiettivo di rendere il Parlamento autorevole e responsabile verso i cittadini, occorre quindi fare ogni sforzo per orientarsi verso un sistema elettorale in cui i partiti, sui quali grava la responsabilità di indicare i candidati alle elezioni, siano spinti a scegliere persone che, per la loro autorevolezza e per la stima di cui godono, abbiano maggiore probabilità di essere votate dagli elettori del collegio con il quale dovranno mantenere rapporti continuativi per tutto il corso della legislatura. Nel sistema elettorale in vigore dal 1994 i tre quarti dei parlamentari venivano eletti in questo modo, obbligando i partiti a scegliere persone capaci, per le proprie caratteristiche personali, di attrarre la fiducia degli elettori: una fiducia che doveva essere rinnovata nel tempo con la fatica quotidiana e con i contatti personali che sono il pilastro della democrazia. Mi rendo conto di proporre cambiamenti che ben difficilmente potranno essere accettati e mi rendo altrettanto conto che i lettori, anche se la cosa è di scarsa importanza, hanno il diritto di chiedermi quale sarà il mio personale orientamento di voto nei confronti dell’imminente referendum. Riconfermando la non primaria attenzione che vi attribuisco e pur riconoscendo che, dal punto di vista funzionale, il numero dei parlamentari sia eccessivo, penso che sarebbe più utile al Paese un voto negativo, proprio per evitare che si pensi che la diminuzione del numero dei parlamentari costituisca una riforma così importante per cui non ne debbano seguire le altre, ben più decisive per il futuro del nostro Paese. 

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