La parola del mese
A
turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di
aprirsi verso nuove riflessioni
SETTEMBRE
2020
E’ assai probabile che sia
tutt’altro che trascurabile la percentuale di italiani che neppure sanno, o si ricordano,
che fra pochi giorni, il 20 e 21 Settembre si terrà il referendum confermativo
della Legge che prevede una consistente riduzione del numero dei Parlamentari.
Ed è pressoché certo che ben pochi, fra quelli che almeno sanno di questo
appuntamento, hanno approfondito il quesito referendario e le ricadute,
positive o negative che siano a seconda dei punti di vista, che esso avrà sulle
regole democratiche del nostro paese. Se va sicuramente riconosciuto che i mesi
addietro sono stati inevitabilmente molto condizionati dalla pandemia resta pur
vero che solo in questi ultimi giorni il dibattito politico ed i media hanno
iniziato ad intervenire sul tema. L’impressione, confermata da recenti
sondaggi, è che il diffuso sentimento di scarso gradimento della politica in
genere, del ceto politico, parlamentari in primis, e dei collegati “costi della
politica, sarà con buona probabilità l’elemento che deciderà l’esito del voto
che, trattandosi di un referendum confermativo, non prevede il raggiungimento
di un quorum. Si tratta, sia ben chiaro, di una opinione del tutto legittima e
come tale democraticamente da accettare, ma la sua incidenza sembra davvero
notevole, e non a caso quindi sta orientando, in modo significativo e spesso
strumentale, le stesse prese di posizione dei vari partiti. I quali si
presentano all’appuntamento in ordine sparso e confuso con divisioni che spesso
attraversano schieramenti, alleanze, ed appartenenti allo stesso partito. Non
meno divisi sono poi gli stessi “esperti” che, probabilmente “contagiati” come
i loro corrispondenti che si occupano della pandemia, sono schierati in ordine
altrettanto sparso vuoi per il SI vuoi per il NO. Su un punto solo sembra
esserci totale convergenza: ottenuta l’eventuale, e prevedibile, conferma referendaria
la riduzione del numero dei parlamentari imporrà, unitamente al ridisegno dei
collegi elettorali, anche la riforma della “legge elettorale”, ossia delle
regole con le quali verranno scelti questi futuri “ridotti” deputati e
senatori. Non pochi sostengono inoltre che sarebbe altrettanto opportuno
ridefinire l’attuale regime di “bicameralismo perfetto”, vale a dire la totale
parità di competenze legislative della Camera e del Senato. Resta purtroppo
vero però che ad oggi nessun passo in avanti è stato fatto quantomeno per dare
un qualche inizio a questo inaggirabile completamento della Legge oggetto del
referendum, la quale pertanto rischia di essere una Legge “monca”. Anche solo
questa breve introduzione alla “Parola del mese”, scelta proprio con
riferimento al referendum in questione, dimostra la complessità del quadro
istituzionale che comporterà la scelta referendaria, e quindi l’opportunità che
il voto, qualunque esso sia, che tutti noi esprimeremo sia il più possibile
consapevole di questo aspetto. Come CircolarMente cercheremo in queste
settimane di offrire alcuni spunti di riflessione, che tengano conto delle
opinioni del Si e del NO, per tentare di colmare almeno in parte questo
ritardo. La “Parola” scelta è quindi quella che individua l’elemento fondamentale
per valutare il quesito referendario.
RAPPRESENTATIVITA’
Rappresentatività = Attitudine a simboleggiare o rappresentare un'età, un'istituzione, un
gruppo, ecc.; potere,
facoltà di rappresentanza.
Riteniamo innanzitutto opportuno un
brevissimo riepilogo del percorso che ha portato alla convocazione del
referendum e della sua modalità:
· La riforma
costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari era stata approvata
all’inizio di ottobre 2019 con il voto favorevole praticamente di tutti i
partiti. La legge doveva entrare in vigore a gennaio, ma una richiesta dei
senatori, di fatto, l’aveva sospesa rendendo necessario il referendum.
Nonostante l’iniziale apparente unanimità nel sostenere la riforma, 71 senatori
di vari partiti avevano infatti firmato per indire un referendum
costituzionale.
·
I senatori
avevano potuto avanzare la loro richiesta perché le riforme costituzionali
hanno un iter parlamentare speciale: se una riforma non ottiene una maggioranza
di due terzi da ciascuna delle due camere nel voto finale si hanno tre mesi di
tempo per chiedere che sia sottoposta a referendum; servono le firme di un
quinto dei membri di una delle due camere – per i senatori la soglia è di 64 –
500.000 elettori o 5 consigli regionali. La proposta sul taglio dei parlamentari
era stata firmata da 71 senatori, 7 in più del numero minimo richiesto
·
Il
referendum avrebbe dovuto svolgersi lo scorso 29 marzo, ma era stato rimandato
a causa dell’epidemia da coronavirus. A metà luglio il Consiglio dei ministri
aveva stabilito le date del 20 e 21 settembre, accorpando il voto per il
referendum confermativo alle regionali e alle elezioni supplettive nei collegi
uninominali 3 della Regione Sardegna e 9 della Regione Veneto del Senato e con
il voto amministrativo in alcuni comuni.
·
La riforma prevede di ridurre i seggi alla Camera da 630 a 400
e quelli al Senato da 315 a 200: una riduzione di circa un
terzo: si passerebbe dai circa 96mila abitanti per deputato a circa
151mila. Oggi l’Italia ha un numero di parlamentari per numero di abitanti
simile a quello dei grandi paesi europei; dopo la riforma diventerebbe invece
uno dei paesi con il più basso livello di rappresentanza politica in rapporto
alla popolazione dell’intera Unione Europea.
·
Con
l’approvazione della riforma saranno ridotti anche i parlamentari eletti dagli
italiani all’estero: passeranno da 12 a 8 e i senatori da 6 a 4. Verrà inoltre
stabilito un tetto massimo al numero dei senatori a vita nominati dai
presidenti della Repubblica: mai più di 5.
·
Il
referendum sarà confermativo, servirà cioè a confermare l’approvazione di una
riforma costituzionale che non ha ottenuto almeno due terzi dei voti in
ciascuna camera. Chi vota “sì” sostiene il taglio, chiede che la riforma sia confermata e
che entri in vigore. Chi vota “no” ne chiede invece l’abrogazione.
·
Nei referendum costituzionali non si tiene conto del quorum, come nei
normali referendum abrogativi. Indipendentemente dal numero di votanti, il
risultato quindi viene sempre preso in considerazione.
Questa prima tornata di articoli/documenti è
stata quindi scelta con la finalità di entrare il più possibile nel “merito
tecnico” della Legge sottoposta a referendum, compito non facile perché sui
media ed in Rete prevalgono semplici appelli al voto, in ambedue i sensi, affidati
a slogan che poco o nulla entrano nel merito della questione. Ringraziamo
quindi Enrietti Nives e Villa Maria Letizia per la preziosa collaborazione nello
“scaricare” quelli più utili. Iniziamo però con un interessante, e polemico,
articolo, uscito proprio oggi sulle pagine di “La Repubblica”, di Michele
Ainis, esperto costituzionalista, che lamenta, a conferma di quanto sopra,
proprio la scarsa qualità del percorso referendario inquinato dalle solite
strumentalizzazioni politiche
Referendum, un voto per la
Costituzione
Articolo
di Michele Ainis – La Repubblica del 01 Settembre
Il 20 e 21 settembre sono in gioco le
istituzioni permanenti della Repubblica italiana, non i nostri provvisori
governanti. Né tanto meno il futuro della legislatura
Possiamo votare con un Sì oppure con un No al
referendum prossimo venturo (il Nì non è previsto, anche se ha già molti
seguaci). Tuttavia almeno un comportamento ci è vietato: sbagliare scheda,
confondere questa consultazione popolare con un'elezione. Si vota per la
Costituzione, non per un partito. E sono in gioco le istituzioni permanenti
della Repubblica italiana, non i nostri provvisori governanti. Né tanto meno il
destino della legislatura, come spesso si sostiene, usando argomenti biforcuti
come corna di lumaca. Se vince il Sì - dicono alcuni - questo Parlamento di 945
inquilini verrà immediatamente delegittimato dal corpo elettorale che ne vuole
600, quindi tutti a casa. Se vince il No - dicono altri - il voto corale delle
Camere sul taglio degli eletti sarà smentito dagli elettori, e dunque Camere
delegittimate, elezioni anticipate. Insomma il Parlamento sbaglia in ogni caso,
anche se sbadiglia. Questa sovrapposizione fra due piani distinti - l'uno
politico, l'altro costituzionale - sarà pure favorita dalla scelta
dell'Election day, scelta quanto mai infelice. Ma è un errore, anzi un delitto.
Perché intossica la nostra decisione, caricandola d'elementi spuri, di
sentimenti o di risentimenti verso questo o quel partito. E perché al contempo
svilisce l'autorità della Costituzione, ne contamina il valore asservendolo
alla politica dei politicanti, al gioco quotidiano dei vincenti e dei perdenti.
Ciò nonostante, il gioco procede a tutta lena. A destra i più sinceri sono
Brunetta e Bergamini: votiamo No, anche se in Parlamento il nostro partito
aveva votato Sì, perché in questo modo il governo Conte finisce gambe all'aria.
A sinistra Bersani denunzia la campagna per un No insincero, quindi si sincera
sulla sopravvivenza del governo facendo propaganda per il Sì. Prodi paventa che
il successo di questa riforma decreti l'insuccesso delle prossime riforme
(argomento anch'esso biforcuto), e comunque non gli piacciono le forbici
mostrate agli italiani per salutare il taglio. Come lui, tanti a sinistra, ma
sotto sotto pure a destra: se il referendum passa vince il populismo, anzi il
Movimento 5 Stelle, anzi Di Maio, lui a quel punto potrà riprendersi il
partito. Sicché ciascuno si domanda: e a me, cosa conviene? Non lo sa il Pd, i
cui leader stanno celebrando un congresso anticipato, dividendosi in due fronti
contrapposti. Non lo sa ancora Berlusconi, in attesa degli ultimi sondaggi. Poi
c'è chi sa di non sapere, e allora concede libertà di voto agli elettori. Così,
per esempio, Italia Viva; ma quella libertà è un oltraggio, mica siamo
soldatini. Il voto libero è un diritto, non una graziosa concessione dei
partiti. Dopo di che nessuno pretende che i politici italiani rimangano afoni,
silenti. Farebbero meglio, tuttavia, a basare le proprie indicazioni su una
scelta ideale, non sul tornaconto. Anche perché i conti poi non tornano, ne
abbiamo fin troppa esperienza. Sulle leggi elettorali, per dirne una. Il loro
scadimento comincia quando Calderoli brevettò il Porcellum, per tirare uno
sgambetto alla sinistra; e invece la destra perse la partita. L'avrebbe vinta,
conservando il Mattarellum. Eterogenesi dei fini, si chiama così. Ma in
generale le riforme prescindono dai loro padrini. Specie in materia
costituzionale. La libertà delle scuole private, per fare un altro esempio.
Chiesta dalla Dc in Assemblea costituente, concessa a denti stretti da
Togliatti; ma adesso chi se ne rammenta? Morale della favola: conta il testo,
non il contesto.
Facciamo seguito con l’appello che un
consistente numero di costituzionalisti ha promosso per sostenere le ragioni
del NO con una serie di valutazioni “tecniche” sulle conseguenze della Legge oggetto
del referendum
Le ragioni del nostro NO al
referendum
sulla riduzione del numero
dei parlamentari
Le sottoscritte e i sottoscritti, docenti, studiose e studiosi di
diritto costituzionale, intendono spiegare le ragioni tecniche per le quali si
oppongono alla riforma sulla riduzione del numero dei parlamentari, illustrando
i rischi per i principi fondamentali della
Costituzione che la revisione comporta. Si precisa che il presente documento
scaturisce da un’iniziativa autonoma e totalmente indipendente sia dal
Coordinamento per la democrazia costituzionale (CDC), sia dal Comitato
nazionale per il No al taglio del Parlamento, così come da ogni altro ente,
organismo e associazione, esprimendo considerazioni frutto esclusivamente
dell’elaborazione collettiva dei sottoscrittori.
Il testo di legge
costituzionale sottoposto alla consultazione referendaria, introducendo una
riduzione drastica del numero dei parlamentari (da 945 componenti elettivi
delle due Camere si passerebbe a 600), avrebbe un impatto notevole sulla forma
di Stato e sulla forma di governo del nostro ordinamento. Tanti motivi inducono
a un giudizio negativo sulla riforma: qui si illustrano i principali.
1.
La riforma svilisce, innanzitutto, il ruolo del Parlamento e ne
riduce la rappresentatività, senza offrire
vantaggi apprezzabili né sul piano dell’efficienza delle istituzioni
democratiche né su quello del risparmio della spesa pubblica.
I fautori della riforma adducono, a sostegno del «SÌ» al referendum, la
riduzione di spesa che la modifica della composizione delle Camere
determinerebbe. Si tratta, però, di un argomento inaccettabile non soltanto per
l’entità irrisoria dei tagli di cui si parla, ma anche perché gli strumenti
democratici basilari (come appunto l’istituzione parlamentare) non possono
essere sacrificati o depotenziati in base a mere esigenze di risparmio. La
riduzione del numero dei parlamentari non deriverebbe, inoltre, da una riforma
ragionata del bicameralismo perfetto (il vigente assetto parlamentare in base
al quale le due Camere si trovano nella stessa posizione e svolgono le medesime
funzioni). Tale sistema non sarebbe toccato dalla legge costituzionale oggetto del referendum. Spesso si fa riferimento agli esempi di
altri Stati ma non può correttamente compararsi il numero dei componenti delle
Camere italiane con quello di altre assemblee parlamentari in termini astratti,
senza tenere conto del numero degli elettori (e, dunque, del rapporto
eletti/elettori). Si trascura, inoltre, che in molti degli ordinamenti assunti
come termini di paragone si riscontrano forme di governo e tipi di Stato
diversi dai nostri.
2.
La riforma presuppone che la rappresentanza nazionale possa essere
assorbita nella rappresentanza di altri organi elettivi (Parlamento europeo,
Consigli regionali, Consigli comunali, ecc.), contro ogni evidenza storica e
contro la giurisprudenza della Corte costituzionale. I fautori della riforma
sostengono ancora che la riduzione del numero dei parlamentari non arrecherebbe
alcun danno alle esigenze della rappresentatività perché sarebbero già tanti
gli organi elettivi (Parlamento europeo, Consigli regionali, consigli comunali,
ecc.) la cui formazione dipenderebbe dal voto dei cittadini. La rappresentanza
nazionale, secondo questa tesi, potrebbe trovare un’espressione parcellizzata in altri luoghi istituzionali. A
prescindere, però, da ogni altra considerazione sul ruolo e sulle competenze
degli organi elettivi richiamati (ad esempio, i Consigli regionali italiani non
sono paragonabili ai parlamenti degli Stati membri di una federazione), si può ricordare che la Corte costituzionale ha chiarito che «solo il Parlamento è
sede della rappresentanza politica nazionale, la quale imprime alle sue
funzioni una caratterizzazione tipica ed infungibile». Basta leggere, del
resto, le materie attribuite dalla Costituzione alla competenza esclusiva del
legislatore statale (e considerare l’interpretazione estensiva che di molte di
queste materie ha dato la stessa Corte costituzionale nella sua giurisprudenza)
per avere un’idea dell’importanza delle Camere
3.
La riforma riduce in misura sproporzionata e irragionevole la
rappresentanza di interi territori. Per quanto riguarda la nuova composizione
del Senato, alcune Regioni finirebbero con l’essere sottorappresentate rispetto
ad altre. Così, ad esempio, l’Abruzzo, con un milione e trecentomila abitanti,
avrebbe diritto a quattro senatori, mentre il Trentino-Alto Adige, con le sue
due province autonome e con una popolazione complessiva di un milione di
abitanti, avrebbe in tutto sei senatori; e ancora la Liguria, con cinque seggi, avrebbe una rappresentanza al
Senato, in sostanza, della sola area genovese.
4.
La riforma non eliminerebbe ma, al contrario, aggraverebbe i
problemi del bicameralismo perfetto (anche se è spesso presentata dai suoi
sostenitori come un intervento volto a raggiungere gli stessi obiettivi di
precedenti progetti di riforma, diretti a rendere più efficiente l’istituzione
parlamentare). Come si è già detto, l’attuale riforma non introduce alcuna
differenziazione tra le due Camere ma si limita semplicemente a ridurne i
componenti, il cui elevato numero costituisce una caratteristica del Parlamento
e non del bicameralismo perfetto. Tale assetto, in teoria, potrebbe anche
essere modificato senza alterare in modo così incisivo il numero dei
parlamentari, anche solo per il tramite di una contestuale riforma dei
regolamenti parlamentari di Camera e Senato. Al contrario, se si considerano i problemi di
rappresentanza di alcuni territori regionali che la riforma comporterebbe,
risulta che paradossalmente la legge in questione finirebbe con l’aggravare,
anziché ridurre, i problemi del bicameralismo perfetto.
5.
La riforma appare ispirata da una logica “punitiva” nei confronti
dei parlamentari, confondendo la qualità dei rappresentanti con il ruolo stesso
dell’istituzione rappresentativa. La revisione costituzionale sembra essere
espressione di un intento “punitivo” nei confronti dei parlamentari – visti
come esponenti di una “casta” parassitaria da combattere con ogni mezzo – ed è il segno di una diffusa confusione del
problema della qualità dei rappresentanti con il ruolo dell’organo parlamentare.
Non è dato riscontrare, tuttavia, un rapporto inversamente proporzionale tra il
numero dei parlamentari e il livello qualitativo degli stessi. Una simile
riduzione dei componenti delle Camere penalizzerebbe soltanto la rappresentanza
delle minoranze e il pluralismo politico e potrebbe paradossalmente produrre un
potenziamento della capacità di controllo dei parlamentari da parte dei leader
dei partiti di riferimento, facilitato dal numero ridotto degli stessi
componenti delle Camere. Non può trascurarsi, inoltre, lo squilibrio che si verrebbe
a determinare qualora, entrata in vigore la modifica costituzionale, non si
avesse anche una modifica della disciplina elettorale, con essa coerente, tale
da assicurare – nei limiti del possibile – la rappresentatività delle Camere e, allo
stesso tempo, agevolare la formazione di una maggioranza (sia pur
relativamente) stabile di governo. È illusorio, in conclusione, pensare alle riforme costituzionali come ad azioni
dirette a causare shock a un sistema politico-partitico incapace di
autoriformarsi, nella speranza che l’evento traumatico possa innescare reazioni
benefiche. Una cattiva riforma non è meglio di nessuna riforma. Semmai è vero
il contrario. Respingendo questa riforma perché monca e destabilizzante, ci
sarebbe spazio per proposte equilibrate che mantengano intatti i principi
fondanti del nostro ordinamento costituzionale; al contrario sarebbe più
difficile mettere in discussione una riforma appena avallata dal corpo
elettorale. Occorrono, in definitiva, interventi idonei ad apportare miglioramenti
al sistema nel rispetto della democraticità e della rappresentatività delle istituzioni.
A conferma di quanto
evidenziato in premessa sulla diversità di opinioni anche fra i
costituzionalisti pubblichiamo l’opinione espressa dall’ex Presidente della
Corte Costituzionale Valerio Onida in una intervista concessa a La Repubblica e
ripresa da molti quotidiani fra cui “il Fatto” dal quale abbiamo estrapolato
questa sintesi. Va detto che in mancanza
di prese di posizione analoghe a quella precedente. Il dibattito sui media ed
in Rete consta ad oggi unicamente di articoli e interviste.
Col taglio degli
eletti il parlamento funzionerà meglio, anche senza correttivi’. L’ex
presidente della Consulta Onida si schiera per il Sì
“Con
il taglio dei parlamentari le Camere potrebbero funzionare meglio”, in caso di
vittoria del Sì non si rischia alcuno “squilibrio costituzionale”, mentre
i correttivi auspicati, tra gli altri anche da un nutrito gruppo
di costituzionalisti, “non sono indispensabili”. Valerio
Onida smonta punto per punto le tesi di chi è deciso a
votare No, il 20-21 settembre, alla consultazione sulla riduzione del numero
dei parlamentari. E contesta pure la tesi dello “squilibrio
costituzionale”. Onida sostiene innanzitutto che “sia improprio dire No
senza una validissima ragione di merito”, dal momento che in ultima lettura la
riforma è stata approvata “da tutte le forze
politiche in campo”. “Il no aggraverebbe il fossato di
sfiducia che già c’è tra cittadini e istituzioni”, secondo Onida, un Parlamento
composto da 600 membri “non funzionerà peggio, anzi potrebbe
funzionare meglio se si coglie questa occasione per mettere mano a
tanti aspetti dei regolamenti e delle prassi
parlamentari“. È ritenuto più debole, invece, l’argomento di chi
sostiene che grazie al referendum lo Stato risparmierà centinaia di milioni a
legislatura. “È una motivazione fasulla. Non si risparmia sulle istituzioni. Ma è un
argomento usato purtroppo in altre occasioni da tutte
le forze politiche“.
L’ex presidente della Corte chiarisce poi perché, a suo parere, “le presunte
conseguenze negative della riforma che vengono oggi agitate, non mi
sembrano tali”. Nessuna compromissione dei lavori parlamentari: “Un Senato di
200 membri può lavorare benissimo“. Per Onida non convince l’obiezione che riducendosi
il numero dei parlamentari e rimanendo, nell’assemblea che elegge il Capo dello
Stato, tre rappresentanti per ogni Regione, il peso di questi aumenterebbe
indebitamente. La Costituzione ha concepito il corpo
elettorale del Presidente come più ampio del solo
Parlamento, trattandosi di eleggere colui che per 7 anni rappresenterà l’unità
nazionale“. Onida sottolinea anche la necessità di slegare il
tema della legge elettorale
Ad Onida replica Adriano Sofri con un articolo
pubblicato sul Foglio del 28 Agosto
Valerio Onida, delle cui conoscenze e opinioni ho gran
stima, dopo aver spiegato che nel referendum sul cosiddetto taglio dei
parlamentari, formula da arrotini, non è implicata alcuna questione di
principio, spiega la sua scelta per il Sì piuttosto che per l’astensione con il
seguente argomento – se non fraintendo. Il taglio è stato votato dalle due
Camere, com’è prescritto per i cambiamenti costituzionali, due volte per
ciascuna Camera. Il referendum senza quorum – reso necessario perché non è
stata raggiunta la maggioranza dei due terzi – è chiamato dunque a confermare o
sconfessare una decisione inequivocabile, sicché la sua conferma è un modo di
rispettare il Parlamento e di non esacerbare il distacco fra società e
istituzioni. Mi pare che l’argomento si debba almeno altrettanto
ragionevolmente capovolgere. L’elettore ha assistito all’origine di questa
versione della riduzione del numero dei parlamentari, la rivendicazione della
punizione dei politici ladri e parassiti e del risparmio dell’erario, poi ha
visto come i partiti diversi abbiano adattato il loro voto di volta in volta
alla pressione demagogica o a calcoli di tenuta di maggioranze arrangiate.
Motivazioni estranee e spesso opposte al merito della legge. Il realismo impone
di ricordare come popolo e populisti alimentino reciprocamente la propria
sbronza demagogica, e dunque il referendum ha un esito scontato. Ma il rispetto
del Parlamento è altra cosa dall’adesione acritica ai comportamenti delle
maggioranze parlamentari e tanto meno alle loro capriole di convenienza. Se
l’argomento di Onida fosse fondato, non si capirebbe perché la Costituzione
abbia previsto l’eccezione del referendum confermativo, ridotto a semplice
ratifica cerimoniale. I confusi pronunciamenti trasversali improvvisamente
emersi alla vigilia di un referendum fino a poco fa pressoché innominato sono
simpatici, se non altro perché dissuadono dallo stupido ricatto della cattiva
compagnia. Comunque si voti, la compagnia è cattiva. Ma questa improvvisata trasversalità
non toglierà niente alla sostanza: che il taglio dei parlamentari è la vittoria
dei 5 Stelle, e della loro parte peggiore, persone e argomenti. “Taglio delle
poltrone – dice Onida – è un’espressione che odio”. Giusto, ma a vincere sarà
quello, il taglio delle poltrone.
Una
posizione analoga a quella di Onida è stata espressa da un altro importante
costituzionalista, Andrea Morrone, in una intervista al “Fatto” del 28 Agosto
“Due
Camere più snelle saranno più centrali”
“La riduzione del numero dei parlamentari è un
presupposto indispensabile per rendere il Parlamento più centrale”. Andrea
Morrone, 50 anni, è ordinario di Diritto costituzionale di Bologna e non ha
dubbi su cosa votare al referendum sul taglio degli eletti.
Professor Morrone, perché voterà “sì”?
Voterò a favore perché penso che la riduzione dei
parlamentari possa portare a un nuovo ruolo del Parlamento. E questo per due
motivi: in primo luogo perché, in base alla comparazione giuridica e alla
logica, un numero ridotto dei parlamentari è indice di una maggiore qualità
della rappresentanza. Il taglio degli eletti infatti spingerà i partiti a
selezionare dei candidati migliori e anche chi è investito di questo ruolo
sentirà con maggiore responsabilità la propria funzione. Poi c’è un secondo
motivo...
Dica.
Esiste una regola generale: il numero dei parlamentari
è inversamente proporzionale alla democrazia di un paese. Le assemblee
pletoriche si ritrovano solo in dittature come Cina, Corea del Nord e nella ex
Urss. Per questo sostengo il “sì”: un Parlamento con numeri più contenuti è
coerente con le altre democrazie parlamentari. Tutte quelle europee hanno un
numero di eletti compreso tra 450 e 700.
Secondo i fautori del “No” ci sarà un problema di
rappresentanza. Cosa ne pensa?
È una questione mal posta: non c’è dubbio che
riducendo il numero di rappresentanti si riduca la rappresentatività, più che
la rappresentanza. Il punto però è che la questione della rappresentatività va
affrontato con la legge elettorale. Questa obiezione è insidiosa ed equivoca
perché si può aumentare o diminuire la rappresentatività quanto si vuole, ma
poi la rappresentanza dipende dalla capacità di andarsi a prendere i voti.
Il Pd dice che per votare “Sì” la riforma va
accompagnata con una legge proporzionale.
La democrazia è inversamente proporzionale al numero degli eletti. La riduzione del numero dei parlamentari è neutra rispetto alla legge elettorale. In primo luogo la riforma elettorale va fatta dopo e non prima del referendum, ovvero quando sappiamo il numero dei rappresentanti. Poi la riduzione dei parlamentari è compatibile sia con una legge proporzionale che con un sistema maggioritario. Dipende tutto da una scelta politica: il Pd ha un obiettivo politico e non c’entra niente con la Costituzione. Da un lato i dem vogliono impedire una maggioranza a guida Salvini e dall’altra vogliono mettere una soglia di sbarramento per tagliare le unghie ai piccoli partiti come Renzi e Calenda.
Lei sostiene che il Parlamento sarà anche più
efficiente. Perché?
Un Parlamento con un numero ridotto di rappresentanti
può lavorare meglio perché può controllare meglio il governo e potrà dare
maggior importanza alle autonomie. Due riforme che andrebbero fatte di
conseguenza potrebbero essere quella di evitare al premier di presentarsi in
entrambe le camere per le fiducie (basterebbe una seduta comune) e poi avere
200 senatori in meno può preludere alla risoluzione del bicameralismo.
Nel 2016 lei era per il “Sì” alla riforma Renzi. Oggi
si sente coerente?
Votai Sì alla riforma del 2016, ma oggi condivido la
linea di chi dice che occorra fare riforme puntuali della Costituzione. Per
questo trovo contraddittorio che chi al tempo ha fatto campagna per il No
sostenendo che la Carta andava cambiata con interventi chirurgici, sia contrario
anche oggi.
I costituzionalisti del “No” dicono che si risparmia
pochissimo. È vero?
Io non condivido il messaggio anti-politico del M5S,
ma come cittadino non sono indifferente al risparmio che si potrebbe ottenere
da questa riforma. Anche per questo voterò “Sì”.
Concludiamo questa rassegna con un articolo di Romano
Prodi - “Messaggero” del 28 Agosto - che
testimonia della diversità di opinioni all’interno della sinistra (ad esempio
Bersani si è espresso per il SI)
Referendum, Prodi: ecco
perché voterò “no” al taglio dei parlamentari
Sto in
questi giorni cercando di capire perché ogni persona con cui mi trovo a parlare
mostra un crescente disorientamento nei confronti del referendum per
il quale siamo chiamati a votare nel prossimo mese di settembre. Il sentimento
del referendum come rivolta contro la classe dirigente si è come assopito,
addormentato dal caldo estivo e messo in un angolo dai ben più urgenti problemi
legati al Covid e alle sue ancora non misurate conseguenze. La modesta
diminuzione dei costi (0,007% della spesa pubblica italiana) come effetto del
minore numero dei parlamentari non viene quasi più presa in considerazione:
essa rimane sepolta tra le paurose cifre della finanziaria e la nuova
dimensione degli interventi europei.
Il centro dell’attenzione si sta progressivamente spostando nella più
ragionevole direzione di quale sia la migliore organizzazione del Parlamento
per garantire ad esso efficienza e rispetto della Costituzione. Ed è proprio a
questo punto che l’elettore si disorienta di fronte alle raffinate motivazioni
dei politici o degli studiosi che sostengono le più svariate tesi. Si tratta di
un disorientamento del tutto giustificato, perché il normale cittadino intuisce
che il numero dei parlamentari non è il problema principale del crescente
distacco fra il Paese e il Parlamento.Il dimagrimento del Parlamento può essere solo
la conclusione di un necessario processo di riesame del funzionamento delle
nostre istituzioni. Il vero problema non sta infatti nel numero, ma nel modo in
cui i parlamentari vengono eletti. Anche senza elaborare profonde analisi
teoriche, l’elettore si è reso progressivamente conto che deputati e senatori
non sono stati eletti, ma sostanzialmente nominati dai partiti e, come tali,
coerentemente si comportano. Non avendo alcun necessario rapporto col
territorio, non hanno ormai (salvo pochissime eccezioni) alcun legame organico
con gli elettori, non mettono più in atto i periodici incontri con le diverse
categorie o i diversi quartieri e paesi degli elettori e non hanno nemmeno un
ufficio locale. Solo una minima parte degli elettori conosce il nome del
parlamentare che, almeno in teoria, rappresenta il suo territorio.
Semplicemente perché non lo rappresenta. Per il cittadino normale diventa
quindi del tutto indifferente se sia meglio avere un deputato ogni novantamila
o ogni centoquarantamila abitanti, o se sia davvero un danno che una regione
sia rappresentata da un numero di senatori molto ridotto. Insomma, più ci si
avvicina al referendum più esso viene ritenuto un residuo di impegni presi in
passato, di vecchi slogan e di campagne folcloristiche accompagnate da immagini
di grandi forbici e di poltrone sfregiate dalle forbici medesime. Resta
quindi difficile convincerci del fatto che la diminuzione del numero dei
parlamentari sia il primo passo per portare i problemi del territorio al
Parlamento e dal Parlamento al Governo. Dopo decenni di discussione andati
a vuoto, nessuno più crede in una legge elettorale che si ponga questo
obiettivo, anche perché il dibattito fra i partiti si orienta, quasi
all’unanimità, verso l’adozione di un sistema proporzionale che mantenga
sostanzialmente il diritto di nomina, mentre le dispute si concentrano sulla
percentuale minima che un partito deve raggiungere per essere rappresentato in
parlamento. Non è certo facile cambiare questa realtà. Ciò non di meno,
almeno fino a che l’Italia rimane una Repubblica parlamentare, la qualità e
l’autorevolezza dei membri del Parlamento rappresentano il pilastro
fondamentale per il buon funzionamento delle nostre istituzioni. A questo si
dovrebbero ovviamente aggiungere le altre ben note riforme che ridefiniscano,
ad esempio, le funzioni delle due Camere, i lavori delle commissioni, i
rapporti con le Regioni e il modo di operare delle commissioni e i rapporti fra
Parlamento e Governo. Se vogliamo raggiungere l’obiettivo di rendere il
Parlamento autorevole e responsabile verso i cittadini, occorre quindi fare
ogni sforzo per orientarsi verso un sistema elettorale in cui i partiti, sui
quali grava la responsabilità di indicare i candidati alle elezioni, siano
spinti a scegliere persone che, per la loro autorevolezza e per la stima di cui
godono, abbiano maggiore probabilità di essere votate dagli elettori del
collegio con il quale dovranno mantenere rapporti continuativi per tutto il
corso della legislatura. Nel sistema elettorale in vigore dal 1994 i tre
quarti dei parlamentari venivano eletti in questo modo, obbligando i partiti a
scegliere persone capaci, per le proprie caratteristiche personali, di attrarre
la fiducia degli elettori: una fiducia che doveva essere rinnovata nel tempo
con la fatica quotidiana e con i contatti personali che sono il pilastro della
democrazia. Mi rendo conto di proporre cambiamenti che ben difficilmente
potranno essere accettati e mi rendo altrettanto conto che i lettori, anche se
la cosa è di scarsa importanza, hanno il diritto di chiedermi quale sarà il mio
personale orientamento di voto nei confronti dell’imminente referendum. Riconfermando
la non primaria attenzione che vi attribuisco e pur riconoscendo che, dal punto
di vista funzionale, il numero dei parlamentari sia eccessivo, penso che
sarebbe più utile al Paese un voto
negativo, proprio per evitare che si pensi che la diminuzione del numero
dei parlamentari costituisca una riforma così importante per cui non ne debbano
seguire le altre, ben più decisive per il futuro del nostro Paese.
Nessun commento:
Posta un commento