Il “Saggio” del mese
DICEMBRE
2021
Un tratto distintivo dell’attuale dibattito pubblico,
emerso in modo evidente nel corso dell’intera vicenda pandemica (sindemica) in
relazione alle misure globalmente adottate per il suo contenimento, consiste
nel peso di una diffusa disinformazione scientifica. Va da sé che i
formidabili, e sempre più specialistici, sviluppi della ricerca scientifica
rendono impossibile una loro diffusa conoscenza, per quanto limitata agli aspetti
più comprensibili. Un fisiologico, ma non per questo meno impattante, deficit di
conoscenza che però si aggrava quando evolve a livelli tali da incidere
pesantemente sulla regolarità stessa della democrazia. Questo tratto – destinato ad
assumere una valenza sempre più decisiva, si pensi ad esempio alle molte scelte
che, anche sulla base di aspetti strettamente scientifici, sono drammaticamente
all’ordine del giorno per fronteggiare l’emergenza ambientale – merita
sicuramente una specifica riflessione, sulla scia di quelle già affrontate, in
questo blog e in numerosi momenti di incontro con al centro temi ad esso
riconducibili. La affrontiamo in questo Saggio di Dicembre 2021 presentando il
libro
Capitolo 1 – Come funziona la scienza?
Critica e controllabilità delle ipotesi
(in cui si individuano i
valori ed i principi propri della scienza che di più si prestano ad essere
collegati con quelli della democrazia)
Per tentare di
individuare le cause dell’attuale dissonanza fra scienza e democrazia è opportuno risalire ai valori, ai principi, alle
metodologie, che le ispirano per verificare convergenze piuttosto che diversità
tali da incidere sulla loro sintonia. Un primo valore, attinente ad entrambi, è quello della
controllabilità, che in ambito
scientifico investe le ipotesi di partenza
di ogni indagine conoscitiva, mentre per la democrazia chiama in causa,
come si vedrà successivamente, i poteri istituzionali. Per comprendere come essa,
in stretto legame con la giustificazione, si esplica in campo
scientifico è necessario chiamare in causa l’inferenza scientifica, vale a dire la
modalità, composta
da premesse e conclusioni e suddivisa in deduttiva e induttiva, con
la quale si definiscono e si mettono in campo le ipotesi scientifiche
necessarie per superare la ristrettissima accessibilità alla realtà esterna
consentita dai cinque sensi umani, per quanto “potenziati” da protesi
tecnologiche. Le inferenze
deduttive, usate in campo matematico e logico, sono delle
argomentazioni che, assunte alcune premesse, giungono ad una conseguente conclusione,
se le prime sono esatte necessariamente lo è anche la seconda. Le inferenze
induttive, che interessano tutte le scienze basate su osservazioni
empiriche – le quali avendo un carattere predittivo devono essere validate da
una successiva conferma
osservativa - non necessariamente si dimostrano vere se tali sono le
loro premesse, ma restano valide solo fin che non intervengano nuovi fenomeni,
sempre empiricamente rilevabili, che le smentiscano. La conferma osservativa comprende
quindi esperimenti, osservazioni, test, prove di vario genere, che devono sempre
e comunque rispondere al criterio/valore della controllabilità, ossia all’essere
replicate con identico esito. Questo insieme di valori, criteri, prassi
metodologiche definisce, sulla base della esclusione di una aprioristica
certezza assoluta delle ipotesi messe in campo, il valore della validità
scientifica, rappresentando al tempo stesso una decisiva spinta al
progresso delle scienze, innescato proprio dalla costante accettazione della
possibilità di errori ……… l’atteggiamento conoscitivo che contraddistingue la
scienza, la comunità scientifica, è l’apertura alla messa in discussione e al
dubbio …… La convinzione che “scienza”
non sia sinonimo di “certezza” è quindi alla base del procedere
scientifico ed implica come logica conseguenza l’accettazione piena del pensiero critico,
purché esercitato nel rispetto del metodo scientifico. Consiste in questo
valorizzare il ruolo della critica un primo importante nesso con la democrazia,
ed in particolare con il suo corrispondente valore della “tolleranza”, verso la diversità
di opinione. Occorre poi chiedersi da quali soggetti, e con quali modalità,
viene esercitato il controllo critico delle ipotesi e delle teorie. Appare sempre
più evidente che, visto l’altissimo livello da tempo raggiunto dal progresso
scientifico, tale controllo - finalizzato all’eliminazione di errori, falsi
scientifici e frodi - può ormai essere esercitato solo da parte di addetti che
operino nell’ambito specialistico dell’ipotesi in esame. Tutte le istituzioni
scientifiche si sono pertanto dotate di appositi meccanismi di controllo che
operano attivamente sugli articoli inviati alle riviste scientifiche (le quali pubblicano mediamente dal 5% al 10% degli articoli
ricevuti dopo averli sottoposti all’esame di più revisori competenti nel campo), sulle pubblicazioni
accademiche, sui saggi, e sugli interventi in ambiti congressuali. Rendendo in
questo modo pressoché impossibile che una tesi acquisisca un qualche dignità scientifica
senza aver superato un complesso percorso di vagli incrociati. Si innesta su
questo quadro un’altra importante caratteristica del procedere scientifico: il
suo essere cosmopolita, il suo non avere confini. La scienza, nel suo corretto
procedere, è universalistica oppure non è. Questo sistema di controllo
istituzionalizzato, che potremmo definire scetticismo organizzato, consente inoltre una
evoluzione generazionale, stante la possibilità di sottoporre a costante
esercizio critico, magari grazie ad innovative possibilità di osservazione, il
sapere scientifico delle generazioni precedenti. Al punto che alcuni studiosi (tra cui Karl Popper, 1902-1994, filosofo ed epistemologo) hanno suggerito
un’analogia tra evoluzione della specie ed evoluzione della conoscenza
scientifica basata, per quanto la prima abbia base biologica e la seconda
culturale, sulla comune trasmissione di informazioni capaci di creare variabilità.
Questa ipotesi, per quanto tuttora controversa, è comunque utile perché offre
lo spunto per una considerazione aggiuntiva sulla conoscenza scientifica: la
sua trasmissibilità tra “gruppi”, e non solo tra individui, proprio
grazie al modello di cooperazione critica, qui molto sinteticamente riassunto, dello
scetticismo
organizzato. Una modalità di esercizio critico che la stessa
democrazia dovrebbe, analogamente, saper sollecitare in ogni suo passaggio
decisionale. Allo stesso modo l’essenza del metodo scientifico interroga la
democrazia sul ruolo che possono svolgere, nel suo concreto svolgersi, due valori
base quali la controllabilità
e la critica
delle ipotesi. Appare infatti evidente che anche i processi
decisionali democratici debbano essere fondati, per intima coerenza, su
discussioni pubbliche aperte al pieno esercizio di critica, nelle quali sia garantito
il pieno accesso alla conoscenza ed alla informazione, e finalizzate a giustificare,
sulla base di argomentazioni sempre e comunque contestabili, ogni proposta
politica. La difficoltà oggettiva di esercitare un diritto diffuso di critica
sulle questioni crescente complessità che sempre di più caratterizzano la
società contemporanea impone da subito di capire a quali soggetti, e con quali
modalità, possa essere affidato in ambito democratico l’esercizio attivo di un
corrispondente scetticismo
organizzato.
Capitolo 2 – Come funziona la democrazia? Il
controllo dei poteri
(in cui, in relazione alle
evidenze del Capitolo 1, si analizzano i loro possibili collegamenti con i
valori/principi alla base della democrazia)
Con le inevitabili
semplificazioni già usate nel Capitolo precedente si affrontano tre principi
essenziali della democrazia corrispondenti a quelli individuati per il metodo
scientifico: principio
di uguaglianza – principio di maggioranza – principio della separazione dei
poteri.
Il principio di uguaglianza in rapporto al libero accesso alla
conoscenza
= Il concetto/valore
di uguaglianza, alla base della modernità occidentale, è declinabile in diverse
direzioni. In questo contesto ci limitiamo al suo esserlo di fronte alla legge là dove stabilisce che ogni persona gode degli stessi diritti
inalienabili ed inviolabili. Un ideale non sempre compiutamente realizzato
perché il passaggio dalla uguaglianza
formale all’uguaglianza sostanziale è un processo che ha di fronte a sé innumerevoli ostacoli ad
iniziare da quello della disuguaglianza di
partenza,
ossia della diversità delle condizioni sociali ed economiche di nascita che,
spesso e ovunque, impediscono pari opportunità per una corsa equa. Il pari accesso alla conoscenza, unitamente ad eguale istruzione,
rappresenta quindi un decisivo requisito per una uguaglianza
sostanziale. In questa ottica la scienza, oltre ad essere il patrimonio
da consegnare il più possibile a tutti, offre utili elementi di riflessione,
essendo a sua volta non meno impegnata per una analoga corsa equa. Questa identica tensione di scienza e democrazia per
realizzare una autentica uguaglianza sostanziale trova nell’utilità collettiva un valore decisivo per il suo conseguimento. Porre ogni
individuo nella condizione di contribuire, grazie alla piena realizzazione di
sé, al miglioramento complessivo della società, e parimenti garantire uguale
attenzione e sostegno ad ogni progetto di sviluppo scientifico, rappresentano
due distinte ma identiche modalità di puntare alla migliore utilità per la
collettività. Esiste cioè un comune impegno per non solo per difendere,
attuandolo, un valore ideale, ma di realizzare al contempo…… un investimento che la società fa sul suo futuro …..
Governo del popolo e principio di maggioranza nella scienza = democrazia
etimologicamente significa governo del popolo, un ideale che
nell’esercizio concreto della sovranità con popolo intende
la sua maggioranza, nella
consapevolezza che non esistono ragioni etiche o valoriali che giustifichino,
di per sé stesse, il prevalere di una maggioranza. Il conforto della adesione
della maggior parte dei cittadini non è infatti sinonimo di validità dell’opzione
scelta, sono numerosi gli esempi storici in cui la democrazia è stata
soppressa, suicidando sé stessa, proprio sulla base di un voto maggioritario.
Vale a dire che la sola regola della maggioranza là dove non si accompagni ad
un corretto processo di formazione del consenso, può essere di grave pregiudizio
per la stessa democrazia. Giuste modalità
di creazione del consenso diventano quindi la condizione essenziale per un
corretto governo del popolo. Le corrispondenti modalità
di determinazione del consenso in ambito scientifico, esaminate in precedenza,
possono offrire importanti spunti di riflessione pur dando per scontata
l’evidente difformità dei due ambiti. Il modo con cui si una teoria scientifica
viene validata, al termine del percorso contraddistinto dal dissenso
organizzato ……. determina di norma una
larghissima maggioranza …….. Ma ciò che più conta è che essa si è determinata grazie
alla totale condivisione di dati, al loro trasparente approfondimento,
all’ascolto attento delle opinioni anche minoritarie, alla costante
disponibilità a rimettere in discussione verità che sembravano acquisite. Se traslare
automaticamente nelle prassi democratiche questo modo di determinare una
maggioranza rischia di apparire velleitario se non ingenuo, un significativo
passo in avanti potrebbe consistere nel costruire analoghi percorsi di confronto
sul merito oggettivo delle questioni (dati e fatti) avendo garantito, come
nella scienza, pari informazione condivisa nel rispetto della massima reciproca tolleranza
Separazione dei poteri e il controllo incrociato delle ipotesi
scientifiche = Il delicato gioco incrociato fra maggioranza e minoranza rischia,
quando applicato in senso univoco, di imporre quella che molti teorici della
politica hanno definito “dittatura della
maggioranza”. Nelle democrazie occidentali l’antidoto istituzionale a
questa possibile degenerazione da sempre consiste nel principio “separazione dei poteri”, ossia nella preservazione, attuata grazie ad un loro bilanciamento, dell’autonomia delle diverse forme di potere: legislativo,
esecutivo, giudiziario. Anche in questo caso alcuni principi della metodologia
scientifica, in particolare due, possono offrire utili indicazioni
rafforzative:
Ø
si
è visto nel Capitolo precedente il ruolo centrale dello “scetticismo organizzato”
come forma di controllo diffuso di un’ipotesi scientifica, in grado di contrastare
un ricorso scorretto al principio di autorità. Analogamente i meccanismi
decisionali in ambito democratico dovrebbero prevedere una simile controllabilità
delle decisioni assunte dalla maggioranza di turno. Ciò deve avvenire garantendo
il pieno esercizio del diritto di critica alla minoranza di turno, e più in
generale all’intera opinione pubblica, alle quali, come in campo scientifico,
deve quindi essere garantito l’accesso pieno a tutte le fonti di conoscenza
relative alle questioni in discussione. Un aspetto che, a differenza della
scienza, è ancora ben lungi dall’essere universalmente rispettato unitamente al
correlato principio della libera stampa
Ø non si è sin qui prestata la giusta
attenzione al peso delle opinioni di fondo, dei valori, delle ideologie, dell’idea
complessiva di società, che ispirano e caratterizzano un democrazia autentica.
Si tratta del “mondo delle idee” che, come tali, non possono essere
valutate e gestite alla stregua di fatti. In che
modo il dibattito scientifico può offrire indicazioni valide anche per il mondo
delle idee? Una
constatazione all’apparenza banale può aiutare: sia nella scienza che in
democrazia tutte le idee sono finalizzate, in ultima istanza, alla risoluzione
dei problemi che si incontrano da una parte nel percorso di scoperta e
conoscenza e dall’altra in quello di realizzazione di un’ideale di società. Le
idee scientifiche, ipotesi e teorie, sono valutate, messe alla prova, sulla
base di riscontri empirici, su “fatti”, ad esse collegabili, in vario modo
realizzati e verificati. Come si è visto quelle che di più trovano il sostegno
dei fatti diventano, sempre provvisoriamente, quelle vincenti. E’ possibile
immaginare un procedere analogo per le idee che si confrontano nel dibattito
democratico? La sola possibilità ancora una volta risiede nel valutarle,
contestualizzandole in ogni specifico ambito, sulla base dei risultati
concreti, misurabili, da esse prodotti. Ciò implica che, come in ambito scientifico,
questa valutazione, ovvero l’intero confronto politico, avvenga alla luce del
sole, valutando dati e riscontri oggettivi, la loro coerenza concreta con i
valori che li hanno ispirati. Una forma di confronto, in gran misura ancora
tutta da attuare nella sua interezza, che impone pluralismo, tolleranza,
rispetto reciproco ed onestà intellettuale.
Capitolo 3 – Democrazia rappresentativa,
democrazia diretta e specializzazione scientifica (in cui, per entrare successivamente nel
merito degli effetti sulla democrazia della disinformazione scientifica, si
analizzano due forme del principio di rappresentanza ambedue interni al
concetto di democrazia)
L’incredibile diffusione
della Rete, e della collegata facilitazione delle comunicazioni, ha riproposto
un dibattito, che ha interessato la democrazia occidentale fin dal suo nascere,
con al suo centro il principio di rappresentanza articolato in due
opposti caratteri: quello rappresentativo e quello diretto. Molto sinteticamente
così definibili: la
democrazia rappresentativa si basa sulla delega del potere decisionale che i
cittadini danno a rappresentanti scelti con il voto, mentre la democrazia
diretta mantiene in capo ai cittadini il diritto di decidere in prima persona
sulle questioni importanti del dibattito politico. La democrazia rappresentativa, con non poche
complicazioni e contraddizioni, è divenuta la forma abituale delle società
occidentali, al contrario sono limitati gli esempi di quella diretta: quello
classico, e forse troppo idealizzato, della agorà greca, ed alcune esperienze a
noi più vicine, la fase giacobina della Rivoluzione Francese 1792-1793, la
Comune di Parigi del 1871, e la breve esperienza dei Soviet durante la
Rivoluzione Russa del 1917. Più consistenti sono invece i contributi teorici a
suo sostegno, a partire da quello di Jean Jacques Rousseau considerato il suo più
autorevole ispiratore, sostanzialmente articolati su quattro considerazioni:
l’assenza di deleghe realizza l’ideale di autonomia morale dell’individuo – i
cittadini sono chiamati a curare in prima persona i propri interessi determinando in questo
modo la
volontà generale, un’entità che è di più della sola sommatoria delle
volontà – l’esercizio del potere non delegato implica la piena responsabilità delle scelte
così maturate – sviluppando al contempo un più forte senso di appartenenza alla comunità.
Quelle che, in contrapposizione, sostengono l’idea di democrazia rappresentativa
si possono analogamente riassumere in quattro capisaldi critici: l’impossibilità
della partecipazione di tutti a tutte le decisioni politiche nelle complesse
società contemporanee che
presentano una composizione sociale troppo articolata in segmenti spesso
contrapposti – le modalità concrete del vivere individuale e collettivo sono
così pressanti da non concedere a tutti i cittadini interessati il tempo
necessario per esercitarla pienamente –
questi inaggirabili impedimenti, che non garantiscono il totale coinvolgimento
dei cittadini, comportano il rischio di degenerazioni autoritarie
– l’identificazione
totale fra sfera privata e sfera pubblica fa prevalere la sfera degli interessi
e fini materiali e soffoca la libertà di coltivare ideali di più alto profilo.
La storia ha sin qui, con le sole limitate ed eccezionali esperienze prima
citate, evidenziato il netto prevalere della democrazia rappresentativa, ma la
recente irruzione della Rete, con le sue potenzialità di comunicazione, ha
ridato voce a quella diretta, in particolare per la presunta potenzialità di
risolvere le sue due prime complicazioni, anche se non mancano forti
perplessità sulle possibili manipolazioni dei canali informatici. Ma i maggiori
dubbi vengono proprio dallo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico,
alla base della stessa Rete, che ha determinato una impressionante crescita
esponenziale del sapere specialistico che
è in conflitto con l’ideale della
uguaglianza. Il rischio di degenerazioni autoritarie sembra infatti acquistare
una più definita veste, definibile come tecnocrazia, una forma di potere in cui solo pochi
davvero sanno. Se la
democrazia diretta consegna ad ogni cittadino il diritto non delegabile di
decidere, nel momento in cui su tantissime questioni non è di fatto garantito,
a causa della loro complessità, un pari livello di informazione e conoscenza,
viene a cadere l’intero suo impianto. E pur vero che l’attuale iper-specializzazione è
tale da porre in crisi anche la democrazia rappresentativa: nulla garantisce infatti
che i rappresentanti eletti sulla base del principio di delega siano meno
esenti del normale cittadino dal deficit di informazione e conoscenza. Diventa allora
sempre più urgente ridefinire un metodo democratico di consultazione e
decisione che sappia conciliare qualità sostanziale delle scelte con una estesa
reale applicazione del principio della controllabilità sociale della conoscenza.
In questo senso, se appare oggettiva l’impossibilità della democrazia diretta
di soddisfare appieno questi due requisiti, l’istituto della delega va non di meno ripensato ed adeguato a questa complessità. La
pratica razionale del dissenso organizzato
in campo scientifico offre anche in questo caso un possibile conforto:
…… nella
scienza dubitare di qualcosa implica che qualcos’altro venga considerato
cognitivamente affidabile …….. Allo
stesso modo un esercizio reale della controllabilità sociale della conoscenza deve
poggiare su un forte impegno ad estendere il più possibile elementi diffusi di
informazione e conoscenza, e deve qualificare verso l’alto l’istituto della
delega, chiamata ad intervenire soprattutto nei casi in cui la conoscenza non
sia già giunta ad un sufficiente condiviso consenso. Una corretta
controllabilità sociale delle conoscenza non potrà quindi essere, come la
democrazia, pienamente diretta, ma avrà forma indiretta utilizzando, nei casi
più complessi e sulla base di trasparenti scelte attuate dai rappresentanti
eletti, le competenze specifiche di esperti. Aprendo così spazio per un’altra questione
fondamentale: che
fare quando i cittadini non percepiscono una adeguata unanimità di opinioni fra
gli stessi esperti?
Capitolo 4 – Disinformazione scientifica e
sfiducia negli esperti (in
cui si esaminano le cause e le forme di un fenomeno che rischia di minare alla
base il fragile ed incompleto equilibrio fra cittadini, rappresentanti ed
esperti, e cioè fra democrazia e scienza)
Tutte le
considerazioni sin qui sviluppate implicano infatti che da parte della
collettività, nel momento in cui è chiamata a valutare e a decidere su
questioni di rilevanza sociale che presentano decisivi aspetti scientifici,
esista una fondata fiducia verso gli esperti. Per cercare di meglio comprendere
le ragioni che da tempo, ma in particolare con l’avvento della comunicazione
via Rete e social, stanno al contrario generando sfiducia e l’accentuarsi di
una preoccupante disinformazione scientifica è opportuno partire da quelle che
di norma generano fiducia verso la scienza e gli scienziati. Sono tre quelle
fondamentali. La prima, definibile come applicativa, poggia sulla convinzione, spesso inconsapevole,
che la scienza funziona, o meglio ancora che funzionano le
tantissime ricadute pratiche che da essa derivano sul nostro vivere quotidiano.
Ci si fida indirettamente
della scienza perché si sperimentano direttamente, con evidente
successo, i
suoi aspetti applicativi. La seconda, di carattere intuitivo e
relativa alla
intersoggettività degli scienziati, consiste nella percezione che le idee scientifiche fondamentali
riscuotono un consenso unanime, che le teorie validate in ambito scientifico
raccolgono la diffusa adesione degli scienziati. Si tratta, come è facile
intuire, di una percezione che non solo non è in grado di entrare nel merito
delle complessità del metodo scientifico, ma che è anche facilmente reversibile
nei casi in cui al contrario si manifesti una percepibile mancanza di consenso.
Il tema
dell’accordo o disaccordo è
infatti dirimente, anche per spiegare il diverso atteggiamento verso le
discipline considerate “empiricamente mature” (ad
es. la fisica)
basate cioè su paradigmi
accertati su cui è stato raggiunto un accordo, e quelle “in gestazione” (ad
es. la psicoanalisi)
ossia quelle che, non avendo ancora definito analoghi paradigmi su ciò che si
deve studiare e sui metodi con cui farlo, ottengono una minore fiducia proprio
per il disaccordo
che sembra caratterizzarle (restando all’esempio della
psicanalisi si pensi alle divisioni, incomprensibili ai più, fra le scuole
freudiana, junghiana, e cognitivista). Esiste infine una terza ragione relativa al realismo
scientifico: la scienza, e soprattutto le scienze empiriche,
descrive il mondo, la realtà a noi esterna, in un modo che viene percepito come
indipendente
da valori, da sentimenti ed emozioni, capace quindi di cogliere aspetti che non
sembrano dipendere dalla presenza umana sulla Terra. L’insieme di queste
ragioni delinea una comune caratteristica tanto determinante quanto fragile: la scienza
raccoglie fiducia quando viene percepita come spinta da un unico interesse:
quello di accertare la verità. La breccia verso la sfiducia si apre
allorquando la scienza, soprattutto se percepita come motivata da interessi di
natura diversa, non sembra poggiare su una vera unità. Ed è in questo decisivo
e sottile passaggio che la disinformazione scientifica può giocare un ruolo negativo. La percezione
diffusa di disaccordo tra gli esperti è la causa prima in questo senso, e non a
caso è su di essa che puntano le attività, più o meno deliberate, di
disinformazione che approfittano dei bassi livelli di istruzione, scientifica
ed umanistica dell’opinione pubblica. Anche per la disinformazione giocano un
ruolo centrale tre fattori. Il primo si evidenzia quando all’opinione ufficiale della scienza si
contrappone quella, magari in buona fede, di chi pari scienziato non è.
Non è un vero disaccordo tra esperti, ma tale viene percepito da parte di chi
non possiede adeguate informazioni e strumenti per entrare nel merito del
dibattito. Non poco pesa la sciagurata pratica mediatica di mettere a
confronto, pur di guadagnare audience, scienziati e non, garantendo ad entrambi
pari dignità: si tratta di un modo di procedere non solo lontanissimo da quello
standard del metodo scientifico, ma addirittura svilente verso la vera
competenza. Solo leggermente diverso è il secondo fattore che interviene quando
il disaccordo
è sì tra scienziati ma solo alcuni sono veri specialisti dell’argomento in
questione. Una differenza di opinioni ancor più difficile da
cogliere da parte dell’opinione pubblica ma che, stante la crescente
specializzazione scientifica, sta sempre più acquistando consistenza. Il terzo
fattore, quello più dirompente dal punto di vista etico-scientifico, subentra quando il
disaccordo si evidenzia tra scienziati di identica competenza e
specializzazione ma con alcuni schierati, sulla spinta di interessi di vario
genere, a favore di una ipotesi infondata. La storia della scienza
racconta di diverse prese di posizione decisamente disoneste di scienziati che,
spesso “incoraggiati”
da precisi interessi “non scientifici”, hanno, giocando
deliberatamente sulla loro competenza, seminato dubbi su ipotesi che potevano
ledere tali interessi. Lo si è visto, ad esempio, nella decennale controversia
attorno ai danni alla salute provocati dal fumo di tabacco, ed ancora prima su
quelli dell’amianto, nelle discussioni sulle cause del buco dell’ozono e, per
venire all’emergenza attuale, su quelle del riscaldamento climatico. E’
soprattutto in questo terzo caso che, sui media ed in Rete, viene fatta
scattare una sorta di trappola che, costruita e presentata ad arte, non poco
contribuisce alla sfiducia verso la scienza: …… ogni prova deve essere presentata in modo
imparziale così da lasciare al pubblico la libertà di decidere ……
Persino superfluo sottolineare che, stante il diffuso analfabetismo
scientifico, i fattori che incideranno su questa “libera scelta” non potranno
essere quelli scientifici ma saranno le abilità di comunicazione e di
presentazione. Tralasciando il caso limite delle vere e proprie “frodi
scientifiche” - quasi sempre messe in atto nell’ambito della
accanita contesa fra scienziati per ottenere finanziamenti per le proprie
attività di ricerca piuttosto che per la necessità di pubblicazioni sulle
riviste specialistiche ai fini di carriera – che pur non poco incide sulla
credibilità generale della scienza, l’insieme di questi fattori impone un
evidente problema di decisione collettiva: come porre il cittadino nella condizione di maturare
opinioni ragionate sulle questioni che chiamano in causa conoscenze scientifiche
di una certa complessità? Soprattutto quando, magari in nome della
democrazia diretta, i cittadini possano essere chiamati ad esprimersi su
domande schematiche e magari fuorvianti? Si è di fronte ad una situazione
definibile come “rischio
induttivo”, ossia il rischio che sia considerata vera un’ipotesi falsa
piuttosto che falsa una vera nell’ambito
di confronti su questioni che mettono in relazione i valori epistemici della scienza (evidenza
di un’ipotesi, la sua coerenza, dati sistematici e consistenza sperimentale) e quelli non
epistemici della democrazia (ad
es. la salute collettiva, gli indirizzi economici e politici, uguaglianza e
diseguaglianze).
Come scegliere in questo contesto gli esperti “giusti”? Come orientarci in una situazione
di “oggettività
debole” anche se, come sempre, esiste una teoria corretta ed una
sbagliata?
Capitolo 5 – Come valutare autonomamente il
parere dell’esperto? La necessità dell’alfabetizzazione scientifica (in cui si esaminano le possibili misure
per decidere in modo razionale e democratico su questioni che dipendono anche
da teorie scientifiche)
La risposta alla
domanda del titolo di questo Capitolo è in effetti una sola: la diffusione
capillare della conoscenza scientifica. Non si tratta di un processo
semplice ed immediato anche perché implica, per definire azioni correttive, una
preliminare riflessione sui diversi livelli di “analfabetismo scientifico”
presenti nelle attuali società ipertecnologiche. Un primo decisivo passo in
avanti è però già individuabile: incentivare l’innalzamento del numero di laureati in
materie scientifiche. Un obiettivo che è importante per diverse ragioni,
a partire dalle ricadute economiche e produttive e dalla possibilità di
accentuare la svolta tecnologica necessaria a fronteggiare l’emergenza
ambientale. Nell’ottica dell’alfabetizzazione scientifica può rappresentare un decisivo
fattore, formando preparati insegnanti, per un ampliamento ed una ottimizzazione
dell’insegnamento di materie scientifiche nelle medie superiori coinvolgendo
quindi le nuove generazioni. Ogni altra possibile prospettiva deve, come detto
in precedenza, mirare ai diversi livelli di analfabetismo scientifico. Guardando
alla situazione
italiana il ritardo da colmare in
questa direzione è davvero rilevante, il dato ufficiale del 2017 indica in un troppo basso 25%
la percentuale di laureati in materie scientifiche, in un quadro
d’insieme che vede, sempre
dati 2017,
quella dei laureati
in genere agli ultimi posti in Europa (peggio di noi è solo la Romania) con un misero
16,3% a fronte di una media europea del 27,7%. Nulla di cui stupirsi
se solo si ampia lo sguardo sul livello generale di istruzione, non soltanto di
analfabetismo scientifico si deve infatti parlare ma di un preoccupante livello
di analfabetismo
funzionale (l’incapacità di comprendere un
testo, di scrivere correttamente, di utilizzare abilità matematiche elementari). Il dato OCSE del
2017 evidenzia un drammatico 28% sul totale della popolazione italiana,
peggio di noi fra i paesi “industrializzati” c’è solo la Turchia. Non deve
quindi stupire più di tanto la facilità di presa delle fakenews!!! La
preoccupazione che dovrebbe investire la politica italiana non sembra adeguata
alla gravità di questa situazione, all’interno della quale l’analfabetismo scientifico
appare ancora più preoccupante se, come evidenziato da alcune indagini
statistiche, anche la percentuale di popolazione italiana che ha un accettabile
livello di conoscenza delle materie umanistiche ignora gran parte delle teorie
scientifiche di base. In un quadro del genere appaiono decisamente fuori luogo
le stonate perplessità sull’impegno divulgativo degli scienziati, attitudine al
contrario molto valorizzata nella cultura anglosassone. Difficile quindi non
nutrire un certo pessimismo che è oltremodo accentuato dal livello di
competenza scientifica presente nella maggior parte dei media, per non dire
della Rete in genere e dei social in particolare. La stragrande maggioranza dei
cosiddetti esperti che affollano questi canali - che, non va dimenticato, sono
quelli esclusivi di informazione per la quasi totalità dell’opinione pubblica –
non superano i criteri standard di valutazione del livello di competenza
specifica richiesto dalla complessità dei temi affrontati. Ed ormai il numero di pubblicazioni di
valore sulle riviste scientifiche vale molto meno di quello di followers e di
like ottenuti da affermazioni pseudoscientifiche.
Capitolo 6 – Il ruolo della storia e della
filosofia della scienza nel dibatti democratico (in cui, in aggiunta alle precedenti considerazioni
sull’analfabetismo scientifico, si riflette sullo sforzo culturale complessivo
da mettere in campo per fronteggiare la disinformazione e per immaginare un più
proficuo rapporto tra democrazia, scienza e cultura
Qualsiasi forma e
articolazione potrà avere l’impegno contro l’analfabetismo scientifico sarà
fondamentale che esso sia inserito in un discorso di più ampio valore culturale,
al fine di meglio collegare lo sviluppo scientifico con quello più generale
della cultura e al tempo stesso di aprire immediati collegamenti con quello
specifico della democrazia. Sono due le discipline umanistiche che di più si
prestano a svolgere questo ruolo: la storia e la filosofia della scienza. La
storia della scienza, il ripercorrere storico dell’evoluzione delle teorie
scientifiche, è basilare per la comprensione dei concetti fondamentali sui
quali la scienza poggia e, inserendo le tappe dell’evoluzione scientifica parallelamente
a quelle culturali in senso lato, rappresenta il ponte ideale tra le discipline
scientifiche e quelle umanistiche. In questo quadro ideale la storia
della scienza può evidenziare un suo fondamentale contributo allo sviluppo culturale
consistito nel ….
suo potere liberatorio dalle visioni eccessivamente antropocentriche che
possono condizionare negativamente la cultura, non a caso definita umanistica,
ma persino lo stesso “senso comune”, quel modo di intendere la
realtà (il titolo di un saggio del fisico Carlo
Rovelli cita esattamente “La realtà non è come ci appare”) così limitato dal
filtro dei cinque sensi che non poco ha complicato il rapporto fra opinione
pubblica e scienze. Un secondo importante apporto consiste nel far emergere la
costante presenza del fondamentale carattere di “coerenza” nell’intero percorso
storico dell’evoluzione scientifica, che procede grazie all’affermarsi di nuove
ipotesi, non di rado fortemente innovative, ma sempre comunque maturate, come
si già visto nel Capitolo 1, dall’esame critico, in un rapporto di plausibilità,
con quelle precedenti. Questo carattere di coerenza del processo scientifico,
così valorizzato, può rappresentare una importante riflessione per il
progredire della stessa democrazia. Non meno importante è il ruolo della filosofia
della scienza. Ancora nel Seicento ciò che oggi chiamiamo fisica era definito come “filosofia
naturale” a testimoniare la profonda interazione dialettica fra le
scienze ed i fondamenti filosofici. Una interazione che è tornata a
manifestarsi con grande intensità nell’attuale epoca di rivoluzionarie scoperte
scientifiche. Per tutto il Novecento quelle sconvolgenti della fisica sono
state da subito spunto per riflessioni filosofiche che hanno spesso visto per
protagonisti gli stessi scienziati, a partire da Einstein. Un confronto analogo
fra scienza e filosofica è recentemente sollecitato da altre discipline, basti
pensare ad esempio alla genetica ed alle neuroscienze. Se in linea di massima questa
interazione dialettica consiste, e si articola, nel rispettivo interrogarsi da
parte della filosofia sulla ricaduta che le conquiste scientifiche hanno sul
suo interrogarsi sull’uomo e sulla realtà, e da parte della scienza sul senso
ultimo, anche etico, del proprio procedere, essa è resa più feconda da alcuni terreni
di confronto e di convergenza:
la vocazione
sintetica, ossia la
capacità di collocare le proprie specificità in una contesto culturale più
ampio
il ruolo di alcuni capisaldi
metodologici, quali la probabilità, la casualità
e la coerenza logica,
nella valutazione delle rispettive ipotesi
la comune battaglia contro il relativismo conoscitivo,
contro l’applicazione “forte” della tesi che “non si danno fatti senza interpretazioni” tale da pregiudicare il valore
della “oggettività della conoscenza”
Ed anche in questo
caso, soprattutto con riferimento a quest’ultimo punto, dalla scienza, dal
metodo scientifico, corroborato dall’apporto costruttivo della storia e della
filosofia della scienza, derivano preziose indicazioni per il progredire del
dibattito democratico.
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