mercoledì 1 dicembre 2021

La Parola del mese - Dicembre 2021

 

La parola del mese

A turno si propone una parola evocativa di pensieri fra di loro collegabili in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

DICEMBRE 2021


L’11 Marzo 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità, OMS, l’agenzia dell’ONU preposta alle questioni sanitarie, dopo alcuni tentennamenti dovuti più a timidezze politiche che a scrupoli sanitari, definisce ufficialmente “pandemia l’emergenza sanitaria causata dal coronavirus Covid19 che era esplosa a cavallo dell’anno in Cina in forma così virulenta da meritarsi da subito quella di “epidemia. Ormai due anni dopo, con alle spalle milioni di contagi e di decessi, l’intera umanità è ancora duramente impegnata a combatterla, a contenerla, ed al tempo stesso ad analizzare quanto successo, le sue origini, le cause della sua rapida diffusione, le ragioni del suo così forte impatto. Già a Settembre del 2020 Richard Horton (professore onorario alla London School of Hygiene, all'University College di Londra e all'Università di Oslo, caporedattore di The Lancet, una delle più prestigiose riviste mediche mondiali) ha pubblicato un articolo, poi ripreso ed approfondito in tutto il mondo, in cui, nell’ambito di tali riflessioni, ritiene che esistano le condizioni per meglio definire un contagio di tali dimensioni e caratteristiche: ....... non di pandemia si deve parlare, ma di ……


Sindemia

Dal vocabolario on line Treccani:

sindemia =  L’insieme di problemi di salute, ambientali, sociali ed economici prodotti dall’interazione sinergica di due o più malattie trasmissibili e non trasmissibili, caratterizzata da pesanti ripercussioni, in particolare sulle fasce di popolazione svantaggiata - un insieme di più patologie pandemiche riconducibili anche a contesti sociali, economici, psicologici, dei modelli di vita, di fruizione della cultura e delle relazioni umane. Se la definizione etimologica di “epidemia”, dal greco “epi” (sopra) congiunto con “demos” (popolo), la definisce come “sopra il popolo, sopra UN popolo”, e quella di “pandemia”, dal greco “pan” (tutto, interamente) congiunto con demos, indica “di tutto il popolo, di tutti i popoli”, “sindemia”, premettendo a demos il termine greco “sin”, (insieme, interamente) sta a significare un qualcosa che sta “insieme al popolo”, ossia “che ne fa integralmente parte”.

Non si tratta di pure e semplici sottigliezze terminologiche: definire Covid19 una sindemia più che una pandemia implica una valutazione, non solo sanitaria, che apre differenti ed importanti prospettive per l’analisi di cui si è detto. Per meglio comprendere sia le ragioni scientifiche e statistiche che hanno indotto Horton, e con lui molti altri medici, ad adottare tale denominazione, sia i conseguenti sviluppi delle politiche sanitarie da adottare, pubblichiamo stralci di alcuni articoli pubblicati nel contesto italiano dedicati espressamente alla sindemia Covid 19:

E’ una sindemia

Articolo di Gavino Maciocco (Docente di Igiene e sanità pubblica presso l'Università di Firenze, promotore e coordinatore del sito web Saluteinternazionale.info e direttore della rivista quadrimestrale Salute e Sviluppo dell'ong Medici con l'Africa) consultabile nel sito Ordinemedici.Brescia 

Nessuna pandemia nell’ultimo secolo (e ce ne sono state diverse) ha avuto gli effetti catastrofici della Covid-19: effetti letali sulla salute della popolazione, con conseguenze distruttive anche sull’economia, sull’istruzione, sulle comunicazioni, insomma su ogni aspetto della vita sociale. La pandemia di Influenza “Spagnola” del 1918-19 fece certamente molte più vittime (si parla di un numero di 20, forse 50 milioni di morti), ma era un mondo completamente diverso, che usciva stremato da una guerra mondiale, con capacità assistenziali nemmeno lontanamente paragonabili a quelle odierne. Infatti la terza ondata – quella più letale – avvenne nell’inverno del 1919, quando alle polmoniti influenzali si aggiunsero le polmoniti batteriche, contro cui non erano ancora disponibili gli antibiotici. La domanda è quindi questa: perché un’epidemia infettiva nel terzo millennio, in società così avanzate come le nostre, ha avuto un effetto talmente devastante? Dal tipo di risposta che sapremo dare a questa domanda risiede la possibilità di attrezzarci per rispondere in maniera adeguata a futuri attacchi di questo genere. Una risposta potrebbe essere questa: noi ci troviamo di fronte non a una “semplice” pandemia (ovvero a un’epidemia che coinvolge contemporaneamente più continenti), ma di fronte a una “sindemia”. Questo termine è stato introdotto negli anni Novanta del secolo scorso da un antropologo medico, Merril Singer, per significare gli effetti negativi sulle persone e sull’intera società prodotta dall’interazione sinergica tra due o più malattie. Oggi parliamo di “sindemia” perché ci troviamo di fronte all’interazione della pandemia infettiva, Covid-19, con un’altra pandemia altrettanto grave e distruttiva, anche se meno visibile e acuta, rappresentata dalla diffusione delle malattie croniche - dalle malattie cardiovascolari, ai tumori, passando per l’obesità e il diabete - che negli ultimi decenni (a partire dagli anni 80 del secolo scorso) ha registrato una formidabile accelerazione in tutte le parti del mondo. Gli effetti distruttivi della dell’interazione tra queste due pandemie li abbiamo cominciati a conoscere fin dall’inizio della Covid-19 quando le statistiche ci dicevano che la mortalità si concentrava nei gruppi di popolazione affetti da malattie croniche.  Le statistiche americane registravano significative differenze nella mortalità tra gli afroamericani e i bianchi, circa il doppio, perché i primi erano maggiormente colpiti da malattie croniche (e poi perché erano più esposti al contagio: facevano lavori più rischiosi, vivevano in abitazioni più affollate, etc). Si è scoperto allora che le due pandemie interagiscono entrambe su un substrato sociale di povertà e producono una terribile dilatazione delle diseguaglianze.  Quando avremo anche noi la possibilità di studiare la distribuzione della mortalità da Covid-19 tra le varie classi sociali, scopriremo che anche in Italia – come in USA e anche in UK – le diseguaglianze nella salute si sono enormemente dilatate. Gli effetti della “sindemia” sul sistema sanitario sono stati anch’essi subito ben visibili. Entrambe le pandemie, quella infettiva e quella della cronicità, richiedono una prima linea di difesa efficiente, in grado di mettere in atto interventi preventivi, di riconoscere tempestivamente i casi, di evitare gli aggravamenti e le complicazioni. Tutto ciò richiede un’assistenza territoriale attrezzata, con relativi servizi di prevenzione e sistemi di cure primarie, che negli anni è venuta progressivamente a mancare.  L’assenza di un filtro territoriale (cure primarie, medici di famiglia, servizi di igiene pubblica) che identificasse i casi, i conviventi e i contatti (l’abc della sanità pubblica), intervenendo a domicilio o inviando quando necessario in ospedale, ha disorientato la popolazione, ha messo nel panico i pazienti e ha prodotto alla fine il collasso degli ospedali. Abbiamo visto gli effetti dell’interazione di due pandemie. Più complesso è individuarne le cause. Un dato però balza agli occhi: entrambe sono iniziate intorno agli anni 80 del secolo scorso. Entrambe riconoscono la loro radice nella mano dell’uomo. Nell’ultimo mezzo secolo i comportamenti e i consumi alimentari hanno subito profondi cambiamenti. Alla loro base sta un insieme complesso di fattori socio-culturali, ambientali e economici, tra cui l’urbanizzazione, i mutamenti nella struttura della famiglia, la generale tendenza a dedicare meno tempo alla preparazione domestica dei pasti, il dilatarsi delle diseguaglianze socio-economiche all’interno della società e – infine – l’irrompere con la globalizzazione di giganteschi interessi industriali nel mercato del cibo e delle bevande……………Anche nell’origine della Covid-19 c’è la mano dell’uomo. Il fenomeno del passaggio di un virus dall’animale all’uomo, con la conseguente possibilità del contagio da uomo a uomo, il “salto di specie” (“Spillover”), è descritto magistralmente nel libro, con titolo omonimo, di David Quammen, pubblicato nel 2012 ……………….Quando mescoliamo ambienti diversi, specie diverse, deforestiamo, sconvolgendo gli ecosistemi, diventiamo degli ospiti alternativi per questi virus che non sarebbero venuti a contatto con noi diversamente. L’effetto moltiplicativo che l’incontro con l’essere umano genera, su 7 miliardi di possibili e potenziali ospiti interconnessi fra loro con viaggi e contatti, è enorme”.


Se Covid 19 è una sindemia

 l’approccio deve essere sindemico

Articolo di Lorenzo Piemonti (Professore associato Endocrinologia Università Vita Salute San Raffaele di Milano Direttore Diabetes Research Institute presso IRCCS Ospedale San Raffaele)  consultabile nel sito quotidianosanita.it

Il concetto che il COVID-19 non sia una pandemia, ma una sindemia è stato recentemente suggerito in modo elegante da un editoriale di Richard Horton su Lancet delo scorso Settembre. Questa visione ha avuto un eco marginale nella discussione nel nostro paese con una difficoltà a comprendere la portata non solo culturale ma anche pratica della visione sindemica, visione che suggerisce un orientamento molto differente alla medicina clinica e ai servizi sanitari.
Coniato negli anni 90 dall’antropologo americano Merril Singer per descrivere la interelazione tra AIDS e tubercolosi, il concetto di
sindemia riproposto nel contesto di COVID-19 da Horton pone al centro l’interazione tra Sars-Cov-2 e le patologie croniche (obesità, diabete, malattie cardiovascolari etc.) sottolineando quello che è sicuramente una delle evidenze consolidate, cioè che COVID-19 peggiora le patologie croniche e le patologie croniche peggiorano COVID-19. Questa evidenza associata al fatto che COVID-19 ha effetti peggiori sulle popolazioni più emarginate, vulnerabili e che spesso vivono in povertà suggerisce che la strategia di concentrare gli sforzi esclusivamente sul virus potrebbe essere sul medio lungo periodo poco efficace, poiché il concetto di sindemia implica anche la necessità di migliorare la salute generale della popolazione e la cancellazione delle diseguaglianza. Di fatto, il modello sindemico scarta le interpretazioni convenzionali delle malattie come entità distinte l'una dall'altra e indipendenti dai contesti sociali in cui si trovano………

Chiudiamo questa breve rassegna con un articolo che, pur non provenendo dall’ambito scientifico, ci sembra capace di presentare un quadro d’insieme utile a meglio comprendere la differenza, tutt’altro che sottile e limitata al solo aspetto sanitario, fra valutare Covid19 una sindemia e non una “normale” pandemia

Sindemia: la febbre di un mondo malato

Articolo di Francesco Bilotta consultabile nel sito del quotidiano “Il Manifesto”.

A fine Settembre è stata la rivista scientifica inglese The Lancet attraverso il suo direttore Richard Horton, medico e docente onorario in diverse istituzioni formative, a sostenere la necessità di usare il termine “sindemia” per rappresentare l’insieme delle cause e degli effetti di questa catastrofe sanitaria, sociale ed economica. Perché, se in una pandemia il contagio colpisce in modo indistinto tutte le persone e si manifesta con uguale pericolosità, in una “sindemia” il contagio colpisce in modo grave soprattutto le persone che presentano certe patologie e versano in precarie condizioni socioeconomiche. La comprensione delle interazioni che si sono stabilite tra coronavirus, situazione ambientale, condizione socioeconomica, patologie pregresse, ha consentito un approccio nuovo e più ampio per definire la «crisi di salute» che stiamo vivendo. E’ stato il medico e antropologo americano Merrill Singer a introdurre negli anni ’90 il termine “sindemia” durante le ricerche da lui effettuate sulle disparità sanitarie, l’abuso di sostanze, l’Aids. In queste ricerche veniva preso in esame non solo il fatto infettivo, ma il contesto in cui esso si manifestava. Afferma Singer: “In certe situazioni due o più malattie interagiscono in forma tale da causare danni maggiori della somma delle singole malattie e l’interazione con gli aspetti sociali ci fanno dire che non si tratta di semplice comorbilità”. L’obiettivo di Singer è quello di definire “un modello di salute che si concentra sul complesso biosociale”, allo scopo di individuare i fattori che promuovono e potenziano in modo sinergico gli effetti negativi di una determinata malattia. E’ questa sinergia, questa cooperazione tra fattori a caratterizzare la “sindemia” Ed è quello che sta avvenendo con covid-19. I dati disponibili dimostrano che le persone che hanno più probabilità di rimanere gravemente malate o morire sono quelle che già soffrono di altre malattie come obesità, diabete, problemi cardiocircolatori e respiratori, cancro. Si è, inoltre, osservato che la malattia si manifesta in misura maggiore nelle comunità più svantaggiate da un punto di vista sociale ed economico, nelle minoranze etniche. “La conseguenza più importante del vedere il Covid-19 come una sindemia è sottolineare le sue origini sociali”, afferma Horton. Ormai appare sempre più chiaro che siamo di fronte a un aggravamento della salute della popolazione non solo per la causa dominante (coronavirus), ma anche per il suo intreccio con fattori biologici e sociali sfavorevoli. Le popolazioni più colpite sono quelle che presentano una maggiore vulnerabilità e che vivono nelle aree dove le disuguaglianze sono più acute. Da solo questo virus non sarebbe in grado di produrre tanti danni alla salute umana se non trovasse popolazioni alle prese con un ambiente deteriorato, cattiva alimentazione, elevata incidenza di malattie croniche. Scrive Horton su The Lancet: “Due categorie di malattie stanno interagendo all’interno di popolazioni specifiche, l’infezione causata dal coronavirus Sars-Cov-2 e una serie di malattie non trasmissibili (MNT). Queste condizioni si raggruppano in categorie sociali rispetto a strutture di disuguaglianza profondamente radicate nella nostra società. L’aggregazione di queste malattie su uno sfondo di disparità economica e sociale inasprisce gli effetti avversi delle singole malattie”. Il dibattito si sta arricchendo di contributi che provengono dai ricercatori di vari paesi. Gli studi si stanno concentrando non solo sulle modalità con cui avviene il contagio e su come interrompere la catena di trasmissione, ma anche sulle cause che determinano una maggiore letalità. Si indaga sui “fattori aggravanti” e i contesti socio-ambientali che li hanno favoriti. Perché il virus non agisce isolatamente sull’organismo, ma ha come complici tutte quelle malattie non trasmissibili che le condizioni sociali e ambientali hanno favorito. La povertà è il primo dei fattori a determinare un aumento di letalità. Un virus che si diffonde in una baraccopoli ha conseguenze diverse in una città del nord Europa. Così come in una popolazione piegata dall’inquinamento di aria, acqua e suolo, trova condizioni favorevoli a produrre effetti letali rispetto a una popolazione che vive in aree in cui sono state sviluppate politiche di tutela ambientale. E poi c’è il cibo malsano che si è impadronito delle nostre tavole a fare da detonatore nella comparsa delle malattie non trasmissibili (diabete, obesità, malattie cardiorespiratorie, cancro). Nel 2019 la Fao aveva lanciato l’allarme sull’impatto sanitario del cibo malato come filo nero che collega la distruzione degli ecosistemi e l’insorgenza di gravi malattie. Scrive Horton, riferendosi a uno studio recente: “Il numero di persone che vivono con disturbi cronici sta aumentando. Affrontare il Covid-19 significa affrontare le MNT che sono una causa di cattiva salute, nei paesi ricchi e in quelli poveri”. Le malattie non trasmissibili facendo da amplificatore del virus e continueranno a influenzare la salute della popolazione, rappresentando un terreno fertile per le future pandemie. “Le malattie e lesioni non trasmissibili costituiscono oltre un terzo del bagaglio di malattie per il miliardo di persone più povere del mondo. La disponibilità di interventi accessibili ed economicamente vantaggiosi nel corso del prossimo decennio può prevenire più di 5 milioni di morti nelle aree di estrema povertà”, si legge ancora su The Lancet. “Non possiamo pretendere di restare sani in un mondo malato”, ha affermato Papa Bergoglio, mettendo in discussione il modello di produzione e consumo. La Società Americano di Medicina delle catastrofi e salute pubblica, in riferimento all’articolo di Horton, scrive: “La risposta istituzionale all’attuale crisi deve essere basata su una visione sindemica e non pandemica”. Perché, come aveva scritto Singer nel 2017, “un approccio sindemico fornisce un orientamento molto diverso alla medicina clinica e alla salute pubblica, mostrando come un approccio integrato alla comprensione e al trattamento delle malattie possa avere più successo rispetto al semplice controllo dell’epidemia o al trattamento individuale dei pazienti”. Non si tratta di una semplice questione di termini. Le conclusioni di Horton definiscono nuovi approcci: “Trattare il Covid-19 come una sindemia incoraggerà una visione più ampia, che comprenda istruzione, impiego, casa, cibo e ambiente”.

Nessun commento:

Posta un commento