Nel precedente post “La parola del mese – Tipping
points” abbiamo esplorato i punti critici del collasso ambientale che possono
potenzialmente rendere concreto l’incubo di una crisi irreversibile. Restiamo
convinti che l’umanità tutta abbia non solo il dovere ma anche la possibilità
concreta di affrontare questo drammatico quadro cercando di trovare soluzioni “razionali”
in grado di coniugare emergenza ambientale e giustizia sociale. Ma, nulla di
cui stupirsi, non tutti la pensano così, e si passa allora, in un quadro quanto
mia variegato, dai negazionisti, agli indifferenti (la stragrande maggioranza a
quanto pare), e a chi, al contrario, crede (però
non nei termini nobili e stimolanti del saggio “Fingiamo di fingere” di
Jonathan Fraser nostro post di Novembre 2020) che ormai la battaglia sia persa e che ci si debba attrezzare per vivere
su un pianeta Terra completamente diverso. Come? In che modo? Beh qui la
fantasia umana sembra essersi sbizzarrita e, pur concedendoci in alcuni casi qualche
sorriso di stupore, può essere utile, proprio per meglio orientare lo stesso
modo “razionale” di affrontare la questione, un piccolo viaggio nelle ………
Tribù del collasso
Una guida bibliografica a survivalisti, doomer, tecno-ottimisti, compostisti e nuove umanità alla fine del mondo.
Articolo
di Alessio
Giacometti (sociologo, scrive su Il Tascabile,
la newsletter MEDUSA, Le Macchine Volanti, Singola e altre riviste) – rivista
online “Il Tascabile”, (articolo molto articolato e lungo
da cui abbiamo estrapolato i passaggi a nostro avviso più utili)
………è oltremodo difficile provare a dare un nome a
quello che succede alle imponderabili implicazioni del clima che si scalda, ma,
a volerli riconoscere, i segnali ricorsivi di una crisi imminente ci sono già
tutti. Qualche anno fa, in “Esiste un
mondo a venire”
Déborah Danowski (filosofa brasiliana) ed
Eduardo Viveiros de Castro (antropologo
brasiliano) facevano esercizio di accettazione e invitavano
anzitempo a guardarsi intorno, più che avanti: in larga parte il collasso degli
ecosistemi “è già iniziato e non è
reversibile, può al massimo diminuire la propria accelerazione”, scrivevano…….L’idea
della civiltà spazzata via da un cataclisma improvviso e definitivo è datata
quanto il mondo: ne erano intrise già molte cosmologie antiche, dal Ragnarǫk
norreno (nella mitologia
scandinava la battaglia finale fra ordine e caos che distruggerà il mondo) all’Armageddon giudaico-cristiano (il nome del luogo dove secondo
l’Apocalisse si ritroveranno i tre Re malvagi per combattere in nome di Satana
la battaglia finale con Dio) Eppure
la sua presenza nella cultura contemporanea si è intensificata notevolmente
negli ultimi anni……..Quando pensiamo alla fine del mondo per come lo
conosciamo, si attiva oggi il repertorio dei futuri collassati immaginati dalla
più recente fantascienza distopica e (post)apocalittica, ma si tratta
spesso di simulazioni fortemente stereotipate e caricaturali: a decretare
l’eventuale tracollo dell’umanità, non sarà uno stravolgimento unico e
repentino come una crisi nucleare, una pandemia globale, una rivolta delle
macchine o un’invasione aliena; semmai il progressivo accumularsi di catastrofi
ambientali locali che faranno regredire gli standard di vita degli esseri umani
e metteranno in crisi l’ordine sociale. …….Secondo Danowski e Viveiros de
Castro, il collasso climatico non consisterà in un annientamento totale della
specie, un mondo-senza-noi, ma più probabilmente in un noi-senza-più-il-mondo:
gli umani chiamati a vivere in “un ambiente impoverito e squallido, un deserto
ecologico e un inferno sociologico”. …………Christof Mauch (storico tedesco), meno disfattista, contrappone l’etica
della slow hope (speranza lenta) , la resistenza strenua anche se fallibile all’ansia
climatica e all’estinzionismo senza scappatoie dei doomer (un movimento filosofico che crede nell’ineluttabile
prossimo collasso della civiltà umana), gli apocalittici ormai rassegnati all’ineluttabilità e
irrimediabilità del collasso ambientale. Il nichilismo apocalittico dei doomer è soltanto una
delle reazioni umane possibili. Diversa è quella degli spettatori agnostici,
increduli o negazionisti che si risolvono a condurre un’esistenza “normale”,
come se la fine del mondo non fosse già in corso e l’orizzonte catastrofico non
avesse ancora cominciato a interferire con le loro scelte di vita – l’acquisto
di una casa non troppo vicino alla costa, la decisione di non avere figli in
un mondo che potrebbe anche diventare invivibile…….E poi ci sono le comunità di
individui che, al contrario, si stanno adoperando fattivamente per adattarsi al
futuro collasso o provare a mitigarne gli effetti: la risolutezza organizzativa
di questi gruppi segnala una presa di coscienza della catastrofe climatica come
possibilità reale, una circostanza consistente rispetto alla quale non è più
possibile avere soltanto una posizione astratta. A loro, a queste subculture o
“tribù” del collasso, guardano due libri recenti e complementari: Appunti da un’Apocalisse di Mark O’Connell (scrittore irlandese)
e Un’altra fine del mondo è possibile di Gauthier Chapelle (biologo, agronomo francese), Pablo Servigne (biologo, agronomo francese) e Raphaël Stevens (sociologo francese).
Nel suo libro Shellenberger si scaglia contro
l’ambientalismo apocalittico di quanti professano la decrescita, la
re-ruralizzazione, l’agricoltura biologica e persino la transizione verso
fonti rinnovabili di energia. La tesi degli eco-modernisti è che solo l’energia
nucleare abbia i requisiti di scalabilità e intensità sufficienti a soddisfare
il fabbisogno mondiale ed evitare il collasso ambientale……..Di “rinascimento
nucleare” tratta anche James Lovelock (chimico britannico) nella sua ultima fatica, Novacene.
“La mia linea di
pensiero è più vicina agli eco-modernisti che ai loro oppositori”, dichiara fin da subito lo scienziato
centenario e fautore dell’ipotesi Gaïa – la biosfera terrestre come un unico
super-organismo capace di autoregolarsi, adattandosi ai fattori che ne turbano
la condizione di equilibrio e mantenendo un clima terrestre
favorevole alla vita. In Novacene, il riparazionista Lovelock alza
la posta e parla di “Gaïa 2.0”, un pianeta di là da venire e regolato da forme
di vita non più organica, ma elettronica: “ci stiamo avvicinando al momento in
cui i nostri artefatti tecnologici, meccanici e biologici riusciranno a far
funzionare il Sistema Terra da soli”. L’orizzonte cui allude Lovelock è quello
di impiegare l’intelligenza artificiale nella mitigazione dell’impatto
ambientale e nella regolazione dei regimi climatici. Un’intuizione che non
poggia sul nulla, ma su decine di esperimenti scientifici in corso d’opera. In
un lungo saggio di fine 2019 dal titolo Tackling Climate
Change with Machine Learning, (affrontare il cambiamento climatico con l’apprendimento
automatico dell’I.A.) un pool internazionale di ricercatori
stilava una rassegna esaustiva dei progetti per l’applicazione
dell’intelligenza artificiale al contrasto dei cambiamenti climatici. L’elenco
è fitto e potenzialmente sterminato: sistemi di previsione delle calamità
naturali, app per misurare l’impronta ecologica individuale e le emissioni
domestiche, satelliti per mappare la deforestazione, sensori per la gestione
delle smart grid, (Rete di informazione e di distribuzione
elettrica per gestire la rete elettrica in maniera
"intelligente" ) sistemi di ottimizzazione dei trasporti,
agricoltura di precisione, tecnologie intelligenti per il sequestro
dell’anidride carbonica, modelli automatici di finanza “verde”, simulazioni
virtuali di interventi di geoingegneria (nostra “Parola del mese” di Giugno 2019). Basta poi una rapida consultazione della
letteratura più recente e si scoprono altri progetti analoghi come Destination
Earth (Destinazione Terra) dell’Unione Europea, TRACE (un
programma che individua i punti critici delle prestazioni in fase
di produzione) ed Environmental Insights Explorer (Esploratore di idee ambientali) di Google, Landsat (costellazione di satelliti per telerilevamento che osservano
la Terra) della NASA, AI for Earth (Intelligenza Articiale per la Terra) di Microsoft e Green Horizon (Orizzonte verde) di IBM. I giganti tecnologici sono insomma
già tutti in pista nell’ambiziosa corsa a progettare “esseri inorganici”, come
li chiama Lovelock, più abili di noi umani a regolare la temperatura terrestre
e dunque a sventare il collasso ambientale – sempre a patto che non si valichi
la temperatura-soglia dei 47° C: “se questa venisse superata, perfino
un’intelligenza basata sul silicio si troverebbe ad affrontare un ambiente
impossibile”. ………In aperta contraddizione con le sue tesi passate, la
proposta di Lovelock di delegare le sorti climatiche della Terra a sistemi di
intelligenza artificiale collide con la teorizzazione di una biosfera terrestre
in grado di autoregolarsi. Lo spiega bene anche il filosofo della scienza
Cristopher Preston (filosofo
statunitense) nel suo ultimo libro L’era sintetica
un libro che ha il pregio di chiarire quale sia
l’ontologia del pensiero eco-modernista. Secondo Preston, a muovere i
riparazionisti è la convinzione che l’equilibrio naturale sia soltanto un
mito, che la natura pristina e incontaminata non esista più e sia dunque
moralmente accettabile ogni tentativo umano di rimodellarla. “Le nostre azioni
hanno compromesso molto tempo fa l’integrità e l’indipendenza dell’atmosfera, la
nostra sola speranza per riassestare le cose è quella di spingerci a fondo in
questa direzione e fare ingegneria inversa dell’atmosfera”. ……. A sentire
i riparazionisti l’influenza antropica sull’ambiente è invece ormai troppo
estesa per essere attenuata, figurarsi invertita. Allora tanto vale ricomporre
gli ecosistemi, ma intelligentemente e deliberatamente, secondo un nuovo
disegno. “Non dovremmo vergognarci di tagliare e piantare, importare e
ibridare, reintrodurre e rielaborare l’ambiente che ci circonda”. Il mondo può
essere salvato soltanto trasformandolo in un immenso giardino da curare,
l’intera natura gestita razionalmente come fosse la fattoria dell’umanità. Con
l’ausilio delle “scienze sintetiche” – nanotecnologie, fabbricazione
molecolare, editing genetico, biologia sintetica, intelligenza artificiale e
robotica, geo-ingegneria e ingegneria climatica – i riparazionisti sono
certi di poter riprogettare le funzioni terrestri pregiudicate. Nel pericolo di
un disastro ambientale incombente, il “catastrofismo illuminato” del pensiero
riparazionista finisce per non rilevare alcun problema di ordine
etico-politico, ma esclusivamente tecnico. E qualsiasi problema tecnico può
essere risolto con un sovrappiù di innovazione tecnologica, quell’esplosione di
capacità e conoscenze che alla fine salverà la razza. C’è del pensiero magico
di fondo in questo modo di accostarsi al collasso ambientale armati soltanto di
una “fede comica nella tecnologia riparatrice”, come giudica Donna Haraway
in Chthulucene.
Haraway rifugge il tecno-trionfalismo dei
collassonauti riparazionisti prediligendo la via del “compostismo”, uno dei tanti neologismi da
lei coniati con cui si indica l’approccio biofilo e transpecista che colloca
gli umani alla stregua degli altri esseri viventi, tutti ugualmente indirizzati
a diventare compost nel perenne ciclo della materia organica. L’umanità
descritta da Haraway non ambisce a elevarsi al di sopra della natura
intervenendo sulle sue leggi, piuttosto accetta di decomporsi sommessamente al
suo interno come ogni altra forma di vita. Per marcare lo stacco dagli eco-modernisti,
la filosofa eco-femminista scolpisce frasi come questa: “siamo compost, non postumani: abitiamo
l’humusità, non l’umanità. Filosoficamente e materialmente, io sono una
compostista, non una postumanista”……Haraway immagina delle comunità di
collassonauti compostisti abitare nei secoli venturi un pianeta “infetto” e
flagellato dagli sconvolgimenti climatici. Le comunità del compost si
ritroveranno a vivere nel disordine ecologico lasciato dalla modernità
capitalistica e, al pari delle altre tribù del collasso, intendono rimanere a
contatto col problema di vivere in un pianeta danneggiato, ma in maniera
diversa. …… Più che riparazione, qui è in gioco il “rimedio ecologico” per il
ripristino dei refugia, luoghi in cui la vita possa essere
sostenuta con alti livelli di biodiversità…… I compostisti immaginati da
Haraway genereranno meno prole per non sovraccaricare demograficamente
la Terra, la natalità diventerà per loro un fatto collettivo e non più (solo)
familiare, tratteranno ogni vivente con lo stesso impegno emotivo oggi
riservato ai rapporti di parentela. La sacralità della vita sarà estesa
dall’umano all’oltre-che-umano, si piangeranno le morti degli altri
esseri viventi e si avvertirà “dolore ecologico” per tutte le estinzioni irreversibili,
comprese quelle dei ghiacciai………..Per i compostisti è urgente mettere le
diverse forme di conoscenza – scientifica, tradizionale, indigena, artistica… –
non più al servizio della produttività capitalistica, ma della collaborazione
per la convivenza multi-specie in un mondo impoverito. In questa versione
eco-critica del collasso, per sopravvivere alla fine non basteranno né un
bunker ben attrezzato né un clima ingegnerizzato. Quel che serve è, anzitutto,
una nuova umanità. ...........
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