domenica 7 marzo 2021

Le tribù del collasso - Articolo di Alessio Giacometti

 

Nel precedente post “La parola del mese – Tipping points” abbiamo esplorato i punti critici del collasso ambientale che possono potenzialmente rendere concreto l’incubo di una crisi irreversibile. Restiamo convinti che l’umanità tutta abbia non solo il dovere ma anche la possibilità concreta di affrontare questo drammatico quadro cercando di trovare soluzioni “razionali” in grado di coniugare emergenza ambientale e giustizia sociale. Ma, nulla di cui stupirsi, non tutti la pensano così, e si passa allora, in un quadro quanto mia variegato, dai negazionisti, agli indifferenti (la stragrande maggioranza a quanto pare), e a chi, al contrario, crede (però non nei termini nobili e stimolanti del saggio “Fingiamo di fingere” di Jonathan Fraser nostro post di Novembre 2020) che ormai la battaglia sia persa e che ci si debba attrezzare per vivere su un pianeta Terra completamente diverso. Come? In che modo? Beh qui la fantasia umana sembra essersi sbizzarrita e, pur concedendoci in alcuni casi qualche sorriso di stupore, può essere utile, proprio per meglio orientare lo stesso modo “razionale” di affrontare la questione, un piccolo viaggio nelle ………

Tribù del collasso

Una guida bibliografica a survivalisti, doomer, tecno-ottimisti, compostisti e nuove umanità alla fine del mondo.

Articolo di  Alessio Giacometti  (sociologo, scrive su Il Tascabile, la newsletter MEDUSA, Le Macchine Volanti, Singola e altre riviste) – rivista online “Il Tascabile”, (articolo molto articolato e lungo da cui abbiamo estrapolato i passaggi a nostro avviso più utili)

………è oltremodo difficile provare a dare un nome a quello che succede alle imponderabili implicazioni del clima che si scalda, ma, a volerli riconoscere, i segnali ricorsivi di una crisi imminente ci sono già tutti. Qualche anno fa, in “Esiste un mondo a venire”


Déborah Danowski (filosofa brasiliana) ed Eduardo Viveiros de Castro (antropologo brasiliano)  facevano esercizio di accettazione e invitavano anzitempo a guardarsi intorno, più che avanti: in larga parte il collasso degli ecosistemi “è già iniziato e non è reversibile, può al massimo diminuire la propria accelerazione”, scrivevano…….L’idea della civiltà spazzata via da un cataclisma improvviso e definitivo è datata quanto il mondo: ne erano intrise già molte cosmologie antiche, dal Ragnarǫk norreno (nella mitologia scandinava la battaglia finale fra ordine e caos che distruggerà il mondo) all’Armageddon giudaico-cristiano (il nome del luogo dove secondo l’Apocalisse si ritroveranno i tre Re malvagi per combattere in nome di Satana la battaglia finale con Dio) Eppure la sua presenza nella cultura contemporanea si è intensificata notevolmente negli ultimi anni……..Quando pensiamo alla fine del mondo per come lo conosciamo, si attiva oggi il repertorio dei futuri collassati immaginati dalla più recente fantascienza distopica e (post)apocalittica, ma si tratta spesso di simulazioni fortemente stereotipate e caricaturali: a decretare l’eventuale tracollo dell’umanità, non sarà uno stravolgimento unico e repentino come una crisi nucleare, una pandemia globale, una rivolta delle macchine o un’invasione aliena; semmai il progressivo accumularsi di catastrofi ambientali locali che faranno regredire gli standard di vita degli esseri umani e metteranno in crisi l’ordine sociale. …….Secondo Danowski e Viveiros de Castro, il collasso climatico non consisterà in un annientamento totale della specie, un mondo-senza-noi, ma più probabilmente in un noi-senza-più-il-mondo: gli umani chiamati a vivere in “un ambiente impoverito e squallido, un deserto ecologico e un inferno sociologico”. …………Christof Mauch (storico tedesco), meno disfattista, contrappone l’etica della slow hope (speranza lenta) , la resistenza strenua anche se fallibile all’ansia climatica e all’estinzionismo senza scappatoie dei doomer (un movimento filosofico che crede nell’ineluttabile prossimo collasso della civiltà umana), gli apocalittici ormai rassegnati all’ineluttabilità e irrimediabilità del collasso ambientale. Il nichilismo apocalittico dei doomer è soltanto una delle reazioni umane possibili. Diversa è quella degli spettatori agnostici, increduli o negazionisti che si risolvono a condurre un’esistenza “normale”, come se la fine del mondo non fosse già in corso e l’orizzonte catastrofico non avesse ancora cominciato a interferire con le loro scelte di vita – l’acquisto di una casa non troppo vicino alla costa, la decisione di non avere figli in un mondo che potrebbe anche diventare invivibile…….E poi ci sono le comunità di individui che, al contrario, si stanno adoperando fattivamente per adattarsi al futuro collasso o provare a mitigarne gli effetti: la risolutezza organizzativa di questi gruppi segnala una presa di coscienza della catastrofe climatica come possibilità reale, una circostanza consistente rispetto alla quale non è più possibile avere soltanto una posizione astratta. A loro, a queste subculture o “tribù” del collasso, guardano due libri recenti e complementari: Appunti da un’Apocalisse di Mark O’Connell (scrittore irlandese)

e Un’altra fine del mondo è possibile    di Gauthier Chapelle (biologo, agronomo francese), Pablo Servigne (biologo, agronomo francese) e Raphaël Stevens (sociologo francese).


 Il primo è un lungo reportage sugli hot-spot (punti caldi) del collasso ambientale e sulle comunità di prepper, i “survivalisti” che si preparano alla catastrofe annunciata rifugiandosi in bunker anti-apocalittici superattrezzati. Il secondo un saggio a metà strada tra un manuale di sopravvivenza e una teoria scientifica del collasso che attinge a piene mani dai saperi dell’ecopsicologia, (la psicologia delle catastrofi) e delle altre survival sciences (scienze della sopravvivenza). Il merito comune a entrambi è quello di mostrare quanto sia ormai variegato l’universo dei climate collapsers, o “collassonauti”: quegli individui che accettano la prospettiva della crisi ambientale in maniera razionale e consapevole, navigano nell’incertezza presente e provano a rimanere a galla, adeguando già da oggi le loro vite al collasso che sarà. Non più minoranze eccentriche e sparute di fanatici ambientalisti, ma realtà in forte espansione come quella dei prepper, appunto, o quella degli “zadisti”, attivisti della terra che all’orizzonte del collasso oppongono la resistenza “deep green(verde profondo) con la mobilitazione collettiva in difesa degli ecosistemi. “Tra chi è pronto all’azione e chi rimane in una dimensione di negazione, ritroviamo tutta una serie di persone in difficoltà”, precisano Servigne, Stevens e Chapelle. Al loro inventario assortito di comunità del collasso potremmo ascrivere anche i “riparazionisti”, apologeti dei technological fixes (riparazioni tecnologiche) con cui intendono rimettere a posto i regimi climatici, e i “compostisti”, le nuove comunità di terrestri che Donna Haraway (filosofa statunitense) immagina abitare un pianeta “infetto” e per molti versi irrestaurabile. ………O’Connell comincia la sua indagine sui prepper che si equipaggiano in vista del collasso ambientale quando sta ancora ultimando Essere una macchina, il suo reportage su transumanisti, biohacker (persone e comunità che fanno ricerca biologica nello stile hacker) crionauti (persone che confidano di ritornare in vita in un mondo migliore facendosi congelare), singolaristi (persone e comunità che sperano nell’avvento di forme di intelligenza artificiali migliori di quella umana) e altri tecno-utopisti con “la generale ambizione di sconfiggere la morte” trascendendo tecnologicamente i limiti della fisiologia umana. Con sua sorpresa, O’Connell finisce per rintracciare nell’universo survivalista alcuni dei personaggi incontrati in quello transumanista. Un nome per tutti: Peter Thiel (imprenditore statunitenze), cofondatore di PayPall (società per pagamenti digitali) e plurimiliardario finanziatore di Facebook, oggi tra i maggiori investitori di progetti per la bioestensione (l’insieme delle tecniche per prolungare la vita) e fervido promotore dei rifugi di lusso per survivalisti danarosi. Come spiega O’Connell, il “tecno-millenarismo” di molti super-ricchi della Silicon Valley alla Peter Thiel, che mescola transumanesimo e survivalismo, è solo apparentemente contraddittorio: a risolvere il paradosso è la magnificazione del darwinismo sociale, le élite cognitive che prima, più e meglio degli altri intendono sopravvivere alla catastrofe ambientale e magari vivere in eterno. In questo brutale scenario Thiel & Co praticano il survivalismo nella sua variante di lusso: fondano resort e gated communities (una tipologia di modello residenziale auto-segregativa, spesso recintata, formata da gruppi di residenze esclusive e con accesso sorvegliato) in città galleggianti off-shore o si ritirano in compound isolati, esclusivi, supersorvegliati. …….Assieme al compagno in affari Elon Musk (Imprenditore statunitense, fondatore di Tesla), Thiel compare anche nel panel di super-finanziatori del “piano B” che intende fare di Marte una off-world colony, (colonia extra-terrestre) un pianeta di “riserva” per la diaspora umana qualora i cambiamenti climatici dovessero rendere inabitabile la Terra…….come spiega lo stesso O’Connell, i transfughi plurimiliardari costituiscono soltanto una frazione minoritaria della subcultura survivalista, più largamente rappresentata dalla piccola borghesia americana, bianca e cattolica. È in particolare a questa, alla sua dilagante paranoia per la fine del mondo, che si rivolge il mercato dei rifugi anti-apocalittici sempre più diffusi negli Stati Uniti. Talvolta sono silos missilistici dismessi e riconvertiti alla meno peggio; più spesso bunker anti-fallout (la ricaduta delle radiazioni atomiche dopo un’esplosione nucleare) costruiti negli anni tra la presidenza Kennedy e quella Reagan, quando in piena Guerra Fredda si viveva sull’orlo di un’apocalisse nucleare e si registrò un vero e proprio boom dei rifugi antiatomici privati. In altri casi ancora si tratta di complessi residenziali sotterranei, fortificati e dotati di tutti i comfort borghesi, progettati dal nulla con impianti energetici indipendenti, sistemi di filtraggio dell’aria e purificazione dell’acqua, magazzini per le scorte di cibo e orti per l’agricoltura idroponica. La richiesta di questi rifugi anti-apocalittici si è impennata l’anno scorso, al diffondersi della pandemia di COVID-19. Per molti prepsteaders (altro appellativo col quale vengono definiti i survivalisti della classe media) l’ansia indotta da minacce sanitarie, economiche e politico-sociali si sovrappone infatti alla paura del collasso climatico, col bunker privato che finisce per essere la soluzione a tutti i mali, una sorta di assicurazione sulla vita tua e della tua famiglia, qualunque cosa succeda…………Il mito dell’indipendenza e dell’autosufficienza dei prepper si scontra poi col carattere intrinsecamente precario e velleitario di ogni tentativo di farsi trovare pronti alla catastrofe: da soli “possiamo sopravvivere qualche giorno, qualche settimana, ma poi?”, si chiedono Servigne, Chapelle e Stevens nel loro Un’altra fine del mondo è possibile. “Come possiamo mangiare quando l’approvvigionamento viene interrotto? Come possiamo bere acqua potabile se il rubinetto non funziona più? Come possiamo riscaldare senza combustibile, gas naturale o elettricità?”. Per i tre collassologi, l’euforia organizzativa dei prepper si esaurisce in aspetti di natura materiale: si ferma cioè ai primi due gradini della piramide dei bisogni di Maslow (psicologo statunitense, noto per la sua teoria sulla gerarchizzazione dei bisogni), fisiologia e sicurezza. Ma l’equipaggiamento materiale non sarà in ogni caso sufficiente a vivere in un pianeta incerto, c’è da attrezzarsi anche politicamente e psicologicamente, per non dire spiritualmente ed emotivamente. “Sarà necessario forgiare una morale d’acciaio (o piuttosto di giunco, dipende) per resistere alle tempeste future”……..Se per i survivalisti non resta altro da fare che prepararsi materialmente al collasso inevitabile, i riparazionisti sono invece dell’idea ci sia ancora tempo per invertire il corso dei cambiamenti climatici e restaurare tecnologicamente le condizioni planetarie utili allo sviluppo e alla prosperità della specie. Il loro motto è: se non puoi cambiare le cose individualmente o politicamente, puoi sempre farlo tecnicamente. Per questo sono stati chiamati alternativamente “ambientalisti positivi”, “transizionalisti ottimisti”, “tecno-ottimisti”, “eco-pragmatisti” o “eco-modernisti”, dal titolo del documento che per primo ne ha tematizzato l’ethos, l’Ecomodernist Manifesto, reso pubblico nel 2015……. Tra i primi firmatari del Manifesto ecomodernista spicca il nome di Michael Shellenberger (saggista statunitense su problematiche ambientali) fondatore del Breaktrough Institute, centro di ricerca internazionale che promuove soluzioni tecnologiche ai problemi ambientali, e fresco autore di Apocalypse Never, (Apocalisse mai) sottotitolo: Why Environmental Alarmism Hurts Us All. (ecco perché l’allarmismo ambientale danneggia tutti noi)


Nel suo libro Shellenberger si scaglia contro l’ambientalismo apocalittico di quanti professano la decrescita, la re-ruralizzazione, l’agricoltura biologica e persino la transizione verso fonti rinnovabili di energia. La tesi degli eco-modernisti è che solo l’energia nucleare abbia i requisiti di scalabilità e intensità sufficienti a soddisfare il fabbisogno mondiale ed evitare il collasso ambientale……..Di “rinascimento nucleare” tratta anche James Lovelock (chimico britannico) nella sua ultima fatica, Novacene.


“La mia linea di pensiero è più vicina agli eco-modernisti che ai loro oppositori”, dichiara fin da subito lo scienziato centenario e fautore dell’ipotesi Gaïa – la biosfera terrestre come un unico super-organismo capace di autoregolarsi, adattandosi ai fattori che ne turbano la condizione di equilibrio e mantenendo un clima terrestre favorevole alla vita. In Novacene, il riparazionista Lovelock alza la posta e parla di “Gaïa 2.0”, un pianeta di là da venire e regolato da forme di vita non più organica, ma elettronica: “ci stiamo avvicinando al momento in cui i nostri artefatti tecnologici, meccanici e biologici riusciranno a far funzionare il Sistema Terra da soli”. L’orizzonte cui allude Lovelock è quello di impiegare l’intelligenza artificiale nella mitigazione dell’impatto ambientale e nella regolazione dei regimi climatici. Un’intuizione che non poggia sul nulla, ma su decine di esperimenti scientifici in corso d’opera. In un lungo saggio di fine 2019 dal titolo Tackling Climate Change with Machine Learning, (affrontare il cambiamento climatico con l’apprendimento automatico dell’I.A.) un pool internazionale di ricercatori stilava una rassegna esaustiva dei progetti per l’applicazione dell’intelligenza artificiale al contrasto dei cambiamenti climatici. L’elenco è fitto e potenzialmente sterminato: sistemi di previsione delle calamità naturali, app per misurare l’impronta ecologica individuale e le emissioni domestiche, satelliti per mappare la deforestazione, sensori per la gestione delle smart grid, (Rete di informazione e di distribuzione elettrica per gestire la rete elettrica in maniera "intelligente" ) sistemi di ottimizzazione dei trasporti, agricoltura di precisione, tecnologie intelligenti per il sequestro dell’anidride carbonica, modelli automatici di finanza “verde”, simulazioni virtuali di interventi di geoingegneria (nostra “Parola del mese” di Giugno 2019). Basta poi una rapida consultazione della letteratura più recente e si scoprono altri progetti analoghi come Destination Earth (Destinazione Terra)  dell’Unione Europea, TRACE (un  programma che individua i punti critici delle prestazioni in fase di produzione) ed Environmental Insights Explorer (Esploratore di idee ambientali) di Google, Landsat (costellazione di satelliti per telerilevamento che osservano la Terra) della NASA, AI for Earth  (Intelligenza Articiale per la Terra) di Microsoft e Green Horizon (Orizzonte verde) di IBM. I giganti tecnologici sono insomma già tutti in pista nell’ambiziosa corsa a progettare “esseri inorganici”, come li chiama Lovelock, più abili di noi umani a regolare la temperatura terrestre e dunque a sventare il collasso ambientale – sempre a patto che non si valichi la temperatura-soglia dei 47° C: “se questa venisse superata, perfino un’intelligenza basata sul silicio si troverebbe ad affrontare un ambiente impossibile”. ………In aperta contraddizione con le sue tesi passate, la proposta di Lovelock di delegare le sorti climatiche della Terra a sistemi di intelligenza artificiale collide con la teorizzazione di una biosfera terrestre in grado di autoregolarsi. Lo spiega bene anche il filosofo della scienza Cristopher Preston (filosofo statunitense)  nel suo ultimo libro L’era sintetica  


un libro che ha il pregio di chiarire quale sia l’ontologia del pensiero eco-modernista. Secondo Preston, a muovere i riparazionisti è la convinzione che l’equilibrio naturale sia soltanto un mito, che la natura pristina e incontaminata non esista più e sia dunque moralmente accettabile ogni tentativo umano di rimodellarla. “Le nostre azioni hanno compromesso molto tempo fa l’integrità e l’indipendenza dell’atmosfera, la nostra sola speranza per riassestare le cose è quella di spingerci a fondo in questa direzione e fare ingegneria inversa dell’atmosfera”. ……. A sentire i riparazionisti l’influenza antropica sull’ambiente è invece ormai troppo estesa per essere attenuata, figurarsi invertita. Allora tanto vale ricomporre gli ecosistemi, ma intelligentemente e deliberatamente, secondo un nuovo disegno. “Non dovremmo vergognarci di tagliare e piantare, importare e ibridare, reintrodurre e rielaborare l’ambiente che ci circonda”. Il mondo può essere salvato soltanto trasformandolo in un immenso giardino da curare, l’intera natura gestita razionalmente come fosse la fattoria dell’umanità. Con l’ausilio delle “scienze sintetiche” – nanotecnologie, fabbricazione molecolare, editing genetico, biologia sintetica, intelligenza artificiale e robotica, geo-ingegneria e ingegneria climatica – i riparazionisti sono certi di poter riprogettare le funzioni terrestri pregiudicate. Nel pericolo di un disastro ambientale incombente, il “catastrofismo illuminato” del pensiero riparazionista finisce per non rilevare alcun problema di ordine etico-politico, ma esclusivamente tecnico. E qualsiasi problema tecnico può essere risolto con un sovrappiù di innovazione tecnologica, quell’esplosione di capacità e conoscenze che alla fine salverà la razza. C’è del pensiero magico di fondo in questo modo di accostarsi al collasso ambientale armati soltanto di una “fede comica nella tecnologia riparatrice”, come giudica Donna Haraway in Chthulucene.


Haraway rifugge il tecno-trionfalismo dei collassonauti riparazionisti prediligendo la via del “compostismo”, uno dei tanti neologismi da lei coniati con cui si indica l’approccio biofilo e transpecista che colloca gli umani alla stregua degli altri esseri viventi, tutti ugualmente indirizzati a diventare compost nel perenne ciclo della materia organica. L’umanità descritta da Haraway non ambisce a elevarsi al di sopra della natura intervenendo sulle sue leggi, piuttosto accetta di decomporsi sommessamente al suo interno come ogni altra forma di vita. Per marcare lo stacco dagli eco-modernisti, la filosofa eco-femminista scolpisce frasi come questa: “siamo compost, non postumani: abitiamo l’humusità, non l’umanità. Filosoficamente e materialmente, io sono una compostista, non una postumanista”……Haraway immagina delle comunità di collassonauti compostisti abitare nei secoli venturi un pianeta “infetto” e flagellato dagli sconvolgimenti climatici. Le comunità del compost si ritroveranno a vivere nel disordine ecologico lasciato dalla modernità capitalistica e, al pari delle altre tribù del collasso, intendono rimanere a contatto col problema di vivere in un pianeta danneggiato, ma in maniera diversa. …… Più che riparazione, qui è in gioco il “rimedio ecologico” per il ripristino dei refugia, luoghi in cui la vita possa essere sostenuta con alti livelli di biodiversità…… I compostisti immaginati da Haraway genereranno meno prole per non sovraccaricare demograficamente la Terra, la natalità diventerà per loro un fatto collettivo e non più (solo) familiare, tratteranno ogni vivente con lo stesso impegno emotivo oggi riservato ai rapporti di parentela. La sacralità della vita sarà estesa dall’umano all’oltre-che-umano, si piangeranno le morti degli altri esseri viventi e si avvertirà “dolore ecologico” per tutte le estinzioni irreversibili, comprese quelle dei ghiacciai………..Per i compostisti è urgente mettere le diverse forme di conoscenza – scientifica, tradizionale, indigena, artistica… – non più al servizio della produttività capitalistica, ma della collaborazione per la convivenza multi-specie in un mondo impoverito. In questa versione eco-critica del collasso, per sopravvivere alla fine non basteranno né un bunker ben attrezzato né un clima ingegnerizzato. Quel che serve è, anzitutto, una nuova umanità. ...........

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