giovedì 4 marzo 2021

La Parola del mese - Marzo 2021

 

La parola del mese

 A turno si propone una parola

 evocativa di pensieri fra di loro collegabili

 in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

MARZO 2021

La parola del mese di questo Marzo 2021 si internazionalizza, esce dai confini della lingua italiana e si sdoppia in due distinti vocaboli che però, potenza della lingua inglese, esprimono un unicum, un solo concetto che definisce una precisa situazione in un preciso contesto. Il contesto è quello, drammatico, dell’emergenza climatica, e la parola è

TIPPING POINTS

La traduzione letterale di “tipping points” , al singolare, può essere “punto culmine”, ma nel contesto in cui viene utilizzato è anche traducibile come “punto di svolta”, o meglio ancora come “punto di non ritorno”. E’ un termine tecnico usato in diverse discipline, in particolare in economia, per indicare l’esistenza, nell’ambito di un processo, di una fase, di un luogo, in cui può concretizzarsi una situazione di forte criticità i cui effetti rischiano di essere irreversibili. E’ però ormai divenuto nell’uso corrente il termine che individua alcune specifiche aree del pianeta in cui l’evoluzione verso l’alto della temperatura terrestre acquista una valenza fondamentale. Sono quindi le aree più in sofferenza, quelle in cui può innescarsi una accelerazione particolare, quelle che possono influenzarsi a vicenda innescando un effetto a cascata, e quelle che, per la loro valenza, possono generare effetti disastrosi sull’intero pianeta. Da un certo punto di vista potremmo definirli come dei termometri che ci dicono in tempo reale la temperatura della Terra, con quale velocità ed intensità stanno procedendo i processi che ne conseguono, e quali scenari l’umanità dovrà affrontare nel caso in cui sia raggiunto e superato il culmine che ogni singolo tipping points individua, per non dire di quelli che potrebbero innescarsi se la loro correlazione ne scatenasse uno unico e simultaneo


Si è ormai consolidata fra gli scienziati del clima la convinzione che il cambiamento climatico, anziché procedere con un andamento costante e tutto sommato di conseguenza più monitorabile, può svilupparsi in modo non lineare  ma come una serie di salti irreversibili. Il termine tipping points definisce esattamente questo possibile fenomeno ed è stato utilizzato per la prima volta  dal giornalista e divulgatore scientifico Malcolm Gladwell nel suo libro omonimo, pubblicato nel 2000, proprio per indicare “i punti di ribaltamento” “i momenti della massa critica” “la soglia del punto di ebollizione irreversibile”. Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico IPCC,  il forum scientifico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l'Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente, allo scopo di studiare il riscaldamento globale, ha ormai introdotto nei suoi rapporti  periodici sullo stato del riscaldamento climatico una rigorosa analisi dei tipping points dopo aver acclarato che la loro crisi definitiva può innescarsi non a fronte di un riscaldamento (rispetto all’età preindustriale) superiore ai 5° centigradi, come si riteneva in precedenza, ma anche tra 1,5° e 2°, vale a dire esattamente le soglie che si potrebbero concretizzare nei prossimi decenni. In questo quadro gli attuali tipping points sono stati individuati, nel 2008, in relazione a tre fenomeni che hanno decisiva incidenza sulla temperatura del pianeta:

*   perdita delle calotte di ghiaccio

*   perdita di foreste ed altri depositi naturali di carbonio come il permafrost

*   alterazione dei sistemi di circolazione oceanica

I tipping points così individuati assommano a 15 potenziali punti, ma di questi sono NOVE quelli che, a giudizio della maggioranza dei climatologi, stanno manifestando crescenti criticità, sono:


*      la foresta pluviale amazzonica

*      il ghiaccio marino artico

*      l’AMOC (capovolgimento meridionale della circolazione atlantica)

*      la calotta glaciale della Groenlandia

*      il permafrost (lo strato di terreno boreale perennemente ghiacciato)

*      le foreste boreali

*      le barriere coralline

*      la calotta glaciale dell’Antartide occidentale

*      il bacino di Wilkes (Antartide orientale)

Ognuno di questi punti presenta problematiche specifiche che, per essere adeguatamente illustrate, richiederebbero ben altro spazio della “parola del mese”, ci limitiamo quindi a riassumere molto sinteticamente per ognuno di essi l’attuale situazione e le possibili conseguenze innescate dallo scavalcamento del tipping point

Foresta pluviale amazzonica

Non è immeritato il titolo di “polmone del mondo”, la foresta pluviale amazzonica copre circa il 20% della produzione di ossigeno terrestre mediante fotosintesi. O meglio produceva: dal 1970 ad oggi è già andato perso il 17% della sua superficie e la deforestazione prosegue incessante. Ma il tipping point amazzonico non è legato soltanto alle conseguenze nefaste della deforestazione. Il riscaldamento globale ha un diretto impatto sulla sua salute: un clima più caldo implica una ridotta traspirazione della vegetazione in risposta all’aumento di anidride carbonica. La conseguente riduzione della quantità di pioggia e di vegetazione possono spostare il clima della regione verso uno stato ancora più secco del tutto incompatibile con una foresta pluviale. La Foresta Amazzonica può i tollerare solo un certo grado di secchezza e siccità prima di non essere più in grado di sostenersi da sola. Al di là di questo punto, la foresta vedrebbe il cosiddetto “dieback”, un passaggio indietro allo stato di savana. A conferma della stretta relazione causale tra i diversi tipping points incide in questo senso anche quello dell’AMOC, esaminato qui di seguito, che ha una diretta conseguenza sulle condizioni climatiche amazzoniche accentuandone la forte sofferenza. Difficile fare previsioni esatte sul raggiungimento della soglia limite oltre la quale la foresta amazzonica collasserebbe totalmente, le stime variano da un minimo del 30% ad un massimo del 40%.......e ci siamo già mangiati il 17%

Il ghiaccio marino artico

Il disgelo dei ghiacci artici è già una realtà, con ritmi crescenti, da diversi decenni. Dal 1979, l’Artico estivo ha perso il 40% della sua estensione e fino al 70% del suo volume (la foto qui sopra evidenzia tale situazione). Di Artico estivo si deve infatti parlare per comprendere la dinamica in corso, lo scioglimento dei ghiacci in questa stagione non soltanto implica la riduzione della loro estensione e altezza, ma pregiudica pesantemente il loro riformarsi invernale. Si calcola che l’attuale tasso medio di declino è di circa 10.000 tonnellate al secondo. Ciiò implica che, su questa base e con un aumento della temperatura terrestre di 2°C, sono ipotizzabili estati artiche senza ghiaccio nel giro di 20-40 anni. Se già ora gran parte del ghiaccio vecchio è ormai perso, e la maggior parte di ciò che rimane è lo strato più giovane e sottile dell’inverno precedente, un trend simile implicherebbe inevitabilmente il tipping point artico. E se questo avvenisse porterebbe ad un immediato innalzamento delle maree, ma soprattutto avrebbe una correlazione negativa sull’intero clima terrestre, la minore superficie ghiacciata (vale ovviamente per tutte le aree terrestri coperte da ghiacci, sempre meno perenni) comporta una minore riflessione della radiazione solare dato che questa si trova ad incidere su superfici più scure e meno riflettenti (quali oceani e terraferma) e ciò determina un ulteriore conseguente aumento della temperatura: più ghiaccio si scioglie per effetto del global warming e più il medesimo riscaldamento climatico accelera.

L’AMOC (capovolgimento meridionale della circolazione atlantica)


Il capovolgimento meridionale della circolazione atlantica, abbreviato in AMOC, è un fenomeno che interessa una importante corrente oceanica dell’Atlantico, caratterizzata da un flusso in direzione nord di acqua salina calda negli strati superficiali (Corrente del Golfo) e da un flusso in direzione sud di acqua fredda in profondità. Tale circolazione atlantica è un importante fattore regolatore del sistema climatico di una vasta fetta del nostro pianeta proprio perché i suoi due flussi rimescolano e portano negli abissi acque a temperature miti, immagazzinando di conseguenza grosse quantità di calore. I cambiamenti in questa circolazione oceanica potrebbero avere un profondo impatto sul sistema climatico globale perché, invertendo i due attuali flussi, invece di catturare calore ne rilascerebbero di aggiuntivo. Questo fenomeno, che si rifletterebbe rapidamente con un sensibile aumento delle temperature in tutto il globo, è determinato, sempre a dimostrazione delle strette interrelazioni fra i diversi TIPPING POINTS dallo scioglimento dei ghiacci artici e di quelli della Groenlandia, qui di seguito esaminato, che immette quantità enormi di acqua dolce nell’oceano.  Secondo le elaborazioni modellistiche, l’Amoc, che nella seconda metà del Novecento ha già rallentato la sua velocità del 15%, potrebbe, con l’incremento dello scioglimento del ghiaccio, entrare in un periodo di grande crisi, indicativamente tra 10 - 20 anni. Con gravissime ricadute su importanti ecosistemi quali la regione africana del Sahel e, come si è già visto, la foresta pluviale amazzonica

La calotta glaciale della Groenlandia


La calotta glaciale della Groenlandia si sta sciogliendo a un ritmo accelerato e si tratta della seconda più grande calotta glaciale del pianeta, vasta sette volte l’area del Regno Unito e, in alcuni punti, con uno spessore di 2-3 chilometri. È composta da così tanta acqua ghiacciata che se si sciogliesse tutta, aumenterebbe il livello del mare fino a 7 metri in tutto il mondo.  Eppure sta fondendo molto rapidamente, sette volte più velocemente rispetto agli anni Novanta. Nell’agosto del 2019, in un solo giorno, si sono fuse 11 miliardi di tonnellate di ghiaccio, il più grave episodio nella stagione di recessione dei ghiacci artici, che hanno provocato un innalzamento del livello globale dei mari di 1,5 millimetri in appena due mesi confermando, ed anzi aggravando, il dato che vede la Groenlandia contribuire per il 20-25% dell’attuale innalzamento dei mari. Rappresenta probabilmente il tipping point più vicino al punto di non ritorno, i modelli di incremento del suo scioglimento prevedono che anche con un innalzamento della temperatura media del pianeta di soli 1,5°C la sua condanna definitiva potrebbe verificarsi già a ridosso del 2030

Il permafrost (lo strato di terreno boreale perennemente ghiacciato)


Il permafrost è un terreno tipico delle regioni dell’estremo Nord Europa, della Siberia e dell’America del Nord dove il suolo è perennemente ghiacciato. O meglio era perché da alcuni decenni, a causa del surriscaldamento globale, si sta rapidamente scongelando con un devastante impatto nella partita per il clima del pianeta. Si stima che nei terreni ghiacciati che occupano circa un quarto dei territori dell’emisfero settentrionale siano immagazzinati quasi 1600 miliardi di tonnellate di carbonio, il doppio di quanto ne contiene attualmente l'atmosfera. Quel carbonio è il risultato di millenni di accumulo nel terreno ghiacciato di piante e animali morti che non si sono completamente decomposti ed è pertanto inevitabile che, al disgelo del permafrost, venga rilasciato in atmosfera. Non è solo il carbonio a impensierire: quando la temperatura del terreno sale sopra lo zero, i microrganismi decompongono la materia organica che vi si trova, un processo che sfocia nel rilascio di altri gas serra, soprattutto metano, destinati ad accelerare ancor di più il riscaldamento globale. Studi recenti evidenziano come circa il 20% delle terre ghiacciate presenti caratteristiche che possono innescare un vero e proprio collasso del permafrost, con fenomeni impressionanti come il cedimento di alcuni metri di vaste aree di terreno. Un quadro certamente preoccupante per gli insediamenti umani di quelle regioni, ma che diventa decisamente più inquietante a livello globale quando si esaminano le stime quantitative esposte nello studio. Secondo tali stime, lo scongelamento improvviso e permanente del permafrost che genera laghi e zone umide, unito a quello che interesserà le regioni collinari, potrebbe liberare tra 23 e 100 miliardi di tonnellate di carbonio entro il 2030. Un valore che, aggiungendosi ai 200 miliardi di tonnellate di carbonio indicati negli attuali modelli di rilascio globale, innalzerebbe del 50% la quantità di carbonio in atmosfera. Mettendo poi in conto il fatto che, rispetto a uno scioglimento graduale, la repentina e improvvisa liquefazione del permafrost rilascia una maggiore quantità di metano, gli impatti climatici dei due processi potrebbe essere addirittura il doppio di quanto finora previsto

Le foreste boreali


La foresta boreale nella regione subartica, uno dei principali biomi terrestri, diventa sempre più vulnerabile ogni anno che passa. Le foreste di conifere nel Nord America e della regione siberiana corrispondono ad un terzo delle foreste mondiali, la mappa qui sopra evidenzia la loro incredibile estensione e la loro incidenza sull’intero pianeta. Eppure stanno letteralmente scomparendo persino più velocemente rispetto al polmone verde dell'Amazzonia. La taiga (un tipo di clima e di vegetazione formato principalmente da foreste di conifere), essenziale per il clima, ha perso  2,5 milioni medi di ettari l'anno tra il 2000 e il 2013, dei quali 1,4 milioni soltanto in Russia dove si trova il 60% delle foreste boreali del mondo. Proprio la Russia, il paese quindi più interessato da questo fenomeno, in questi tredici anni ha perso il 7,2% di queste foreste, davanti al Canada con il 4,5% (964 mila ettari) e l'Alaska (191 mila ettari). E dove non arriva l’intervento distruttivo diretto dell’uomo arriva quello indiretto del riscaldamento globale che ha innescato una serie di turbamenti nelle popolazioni di insetti che tengono in ordine il sottobosco contribuendo alla diffusione degli incendi “naturali” che le stanno devastando. Nell’estate del 2019 una serie impressionante di incendi ha colpito vastissime aree boschive della Siberia, dell’Alaska, del Canada e della Groenlandia liberando in atmosfera 100 milioni di tonnellate di anidride carbonica, il “gas serra” per eccellenza. Quelle che fin qui sono state enormi depositi naturali di ossigeno si stanno tragicamente trasformando in sorgenti di CO2.

Le barriere coralline


I Tipping Points agiscono anche negli oceani. Negli ultimi anni si sono verificati una serie di eventi di sbiancamento nei coralli, causati principalmente dall’esposizione prolungata alle alte temperature dell’acqua. Sotto il continuo stress da calore, i coralli espellono le piccole alghe colorate – note come zooxantelle – che vivono nei loro tessuti e che forniscono ai coralli attraverso la fotosintesi l’energia per la loro sopravvivenza, lasciando dietro di sé uno scheletro bianco. Senza tali alghe, i coralli muoiono lentamente di fame. Negli ultimi 40 anni, gli eventi di sbiancamento di massa della barriera corallina sono quintuplicati a livello globale. Il persistente stress termico può uccidere l’intera comunità di coralli; secondo l’IPCC, anche restando sotto i 2°C, è destinato alla scomparsa il 99% delle barriere coralline. Con una gravissima perdita di biodiversità marina perché i coralli sono fondamentali per l’equilibrio di vastissimi ecosistemi marini e, di conseguenza, dell’intero patrimonio ittico, che rappresenta  una delle fonti principali della alimentazione umana

La calotta glaciale antartica occidentale

e

Il bacino di Wilkes (Antartide orientale)


Abbiamo iniziato questa veloce rassegna dei nove Tipping points più prossimi al punto di non ritorno con i ghiacci dell’Artico e la chiudiamo, dalla parte opposta del pianeta, con quelli dell’Antartide. La chiudiamo purtroppo con le stesse identiche preoccupazioni. Le più recenti osservazioni hanno dimostrato che il Mare dell’Antartide occidentale potrebbe essere davvero molto vicino al suo Tipping point: la zona dove ghiaccio, oceano e roccia si incontrano si sta ritirando irreversibilmente. Quando questa “linea di incontro” collasserà definitivamente, potrebbe destabilizzare l’intera calotta glaciale antartica. Con un effetto domino che potrebbe portare ad un innalzamento del livello del mare di circa 3 metri di altezza. Vero è che questo cambiamento non sarebbe istantaneo, interessando un arco temporale di circa un centinaio di anni. Ma è altrettanto vero che quanto sta succedendo nell’Antartide occidentale trova un analogo riscontro nel bacino di Wilkes nell’Antartide orientale. Raddoppiando in questo modo il rischio di innalzamento ovvero dimezzando i tempi di un aumento di soli tre metri.

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L’insieme delle fotografie dei nove Tipping points evidenzia un quadro a dir poco allarmante che richiede immediate azioni di contrasto. E’ quanto annualmente richiamano i dettagliati rapporti dell’IPCC ed è quanto, purtroppo, ancora stenta a realizzarsi con la giusta rapidità. La scienza del clima è una scienza relativamente giovane che per meglio comprendere la progressione e le ricadute degli attuali processi deve innanzitutto perfezionare i modelli matematici di sviluppo acquisendo il maggior numero di elementi di raffronto con le evoluzioni climatiche avvenute in precedenza. Il loro studio ha confermato una notevole ciclicità fatta di alternanza di periodi caldi e freddi, il sistema Terra è infatti congenitamente instabile per l’incidenza di diversi fattori, a partire dalle variazioni dell’orbita terrestre. La CO2 atmosferica è attualmente ai livelli misurati l'ultima volta circa quattro milioni di anni fa, nell'epoca del Pliocene e si sta dirigendo verso quelli di circa 50 milioni di anni fa - nell'Eocene - quando le temperature erano fino a 14°C più alte rispetto ai tempi preindustriali.  Ma quel che è certo è l’impressionante diversa velocità del cambiamento climatico, quello che milioni di anni fa avveniva in un arco temporale di decine, centinaia di migliaia di anni, ora sembra potersi manifestare nell’arco di secoli, se non di decenni. Iin questo senso i cicli passati non sembrano in grado di fornirci indicazioni adeguate. Il sistema Terra sembra conoscere per la prima volta in una tempistica climatica molto compressa una concentrazione atmosferica di CO2 ed un aumento di  temperatura globale a velocità che sono quantomeno un ordine di grandezza superiori a quelle della deglaciazione più recente. Il sistema Terra è oltretutto molto complesso, influenzato da moltissimi fattori che sviluppano un intreccio intricato di tantissime variabili, ed è davvero complicato, mancando raffronti con situazioni similari, formulare ipotesi matematicamente certe. Questa incompleta disponibilità di modelli di proiezione maggiormente precisi regala, da un certo punto di vista e volendo essere ottimisti, un qualche margine in più di manovra. Ma al tempo stesso un dubbio ed una preoccupazione aggiuntivi. Man mano che la scienza del clima progredisce sempre più emerge il dubbio di una possibile sottovalutazione del ruolo dei Tipping points. Se da una parte i modelli applicabili, scontate le loro problematiche, aiutano a comprendere le loro individuali evoluzioni troppo poco si sa dello sviluppo, e della conseguente incidenza, delle loro interrelazioni. Non avendo riscontri scientifici con situazioni precedenti comparabili non è da escludere il grande rischio che il loro intrecciarsi scateni cambiamenti amplificati ed accelerati del riscaldamento globale. Non è assolutamente da escludere, ed è anzi fortemente da temere, la possibilità che la loro interazione provochi un Tipping point globale, in grado di produrre fenomeni così disastrosi da mettere a rischio la sopravvivenza della civiltà umana.

Nessuna analisi costi-benefici ci aiuterà. Dobbiamo cambiare il nostro approccio al problema




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