La
parola del mese
A turno si propone una parola
evocativa di pensieri fra
di loro collegabili
in grado di offrirci nuovi
spunti di riflessione
MARZO 2021
La parola del mese di questo Marzo 2021 si
internazionalizza, esce dai confini della lingua italiana e si sdoppia in due
distinti vocaboli che però, potenza della lingua inglese, esprimono un unicum,
un solo concetto che definisce una precisa situazione in un preciso contesto.
Il contesto è quello, drammatico, dell’emergenza climatica, e la parola è
TIPPING POINTS
La traduzione letterale di “tipping points”
, al singolare, può essere “punto culmine”, ma nel contesto in cui viene
utilizzato è anche traducibile come “punto di svolta”, o meglio ancora come
“punto di non ritorno”. E’ un termine tecnico usato in diverse discipline, in
particolare in economia, per indicare l’esistenza, nell’ambito di un processo,
di una fase, di un luogo, in cui può concretizzarsi una situazione di forte
criticità i cui effetti rischiano di essere irreversibili. E’ però ormai
divenuto nell’uso corrente il termine che individua alcune specifiche aree del
pianeta in cui l’evoluzione verso l’alto della temperatura terrestre acquista
una valenza fondamentale. Sono quindi le aree più in sofferenza, quelle in cui
può innescarsi una accelerazione particolare, quelle che possono influenzarsi a
vicenda innescando un effetto a cascata, e quelle che, per la loro valenza,
possono generare effetti disastrosi sull’intero pianeta. Da un certo punto di
vista potremmo definirli come dei termometri che ci dicono in tempo reale la
temperatura della Terra, con quale velocità ed intensità stanno procedendo i
processi che ne conseguono, e quali scenari l’umanità dovrà affrontare nel caso
in cui sia raggiunto e superato il culmine che ogni singolo tipping points individua,
per non dire di quelli che potrebbero innescarsi se la loro correlazione ne scatenasse
uno unico e simultaneo
Si è ormai consolidata fra gli scienziati del clima la
convinzione che il cambiamento climatico, anziché procedere con un andamento
costante e tutto sommato di conseguenza più monitorabile, può svilupparsi in
modo non lineare ma come una serie di
salti irreversibili. Il termine tipping points definisce esattamente questo possibile
fenomeno ed è stato utilizzato per la prima volta dal
giornalista e divulgatore scientifico Malcolm Gladwell nel suo libro omonimo,
pubblicato nel 2000, proprio per indicare “i punti di ribaltamento” “i momenti della massa critica”
“la soglia del punto di ebollizione irreversibile”. Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico IPCC, il forum scientifico formato nel 1988 da due
organismi delle Nazioni Unite, l'Organizzazione meteorologica mondiale e il
Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente, allo scopo di studiare il
riscaldamento globale, ha ormai introdotto nei suoi rapporti periodici sullo stato del riscaldamento
climatico una rigorosa analisi dei tipping points dopo aver acclarato che la loro crisi definitiva
può innescarsi non a fronte di un riscaldamento (rispetto all’età
preindustriale) superiore ai 5° centigradi, come si riteneva in precedenza, ma
anche tra 1,5° e 2°, vale a dire esattamente le soglie che si potrebbero
concretizzare nei prossimi decenni. In questo quadro gli attuali tipping points sono stati individuati, nel 2008, in relazione a
tre fenomeni che hanno decisiva incidenza sulla temperatura del pianeta:
perdita delle calotte di ghiaccio
perdita di foreste ed altri depositi naturali di
carbonio come il permafrost
alterazione dei sistemi di circolazione oceanica
I tipping points così individuati assommano a 15 potenziali punti, ma
di questi sono NOVE quelli che, a giudizio della maggioranza
dei climatologi, stanno manifestando crescenti criticità, sono:
la foresta pluviale amazzonica
il ghiaccio marino artico
l’AMOC (capovolgimento meridionale della circolazione atlantica)
la calotta glaciale della Groenlandia
il permafrost (lo strato di terreno boreale perennemente ghiacciato)
le foreste boreali
le barriere coralline
la calotta glaciale dell’Antartide occidentale
il bacino di Wilkes (Antartide orientale)
Ognuno di questi punti presenta problematiche
specifiche che, per essere adeguatamente illustrate, richiederebbero ben altro
spazio della “parola del mese”, ci limitiamo quindi a riassumere molto
sinteticamente per ognuno di essi l’attuale situazione e le possibili
conseguenze innescate dallo scavalcamento del tipping point
Foresta pluviale amazzonica
Non è immeritato il titolo di “polmone del mondo”, la
foresta pluviale amazzonica copre circa il 20% della produzione di ossigeno
terrestre mediante fotosintesi. O meglio produceva: dal 1970 ad oggi è già
andato perso il 17% della sua superficie e la deforestazione prosegue
incessante. Ma il tipping point amazzonico non è legato soltanto alle conseguenze
nefaste della deforestazione. Il riscaldamento globale ha un diretto impatto
sulla sua salute: un clima più caldo implica una ridotta traspirazione della
vegetazione in risposta all’aumento di anidride carbonica. La conseguente riduzione
della quantità di pioggia e di vegetazione possono spostare il clima della
regione verso uno stato ancora più secco del tutto incompatibile con una
foresta pluviale. La Foresta Amazzonica può i tollerare solo un certo grado di secchezza e siccità prima di
non essere più in grado di sostenersi da sola. Al di là di questo punto, la
foresta vedrebbe il cosiddetto “dieback”, un passaggio indietro allo stato di savana. A
conferma della stretta relazione causale tra i diversi tipping points incide in
questo senso anche quello dell’AMOC, esaminato qui di seguito, che ha una
diretta conseguenza sulle condizioni climatiche amazzoniche accentuandone la
forte sofferenza. Difficile fare previsioni esatte sul raggiungimento della
soglia limite oltre la quale la foresta amazzonica collasserebbe totalmente, le
stime variano da un minimo del 30% ad un massimo del 40%.......e ci siamo già
mangiati il 17%
Il disgelo dei ghiacci
artici è già una realtà, con ritmi crescenti, da diversi decenni. Dal 1979, l’Artico estivo ha perso il 40%
della sua estensione e fino al 70% del suo volume (la foto
qui sopra evidenzia tale situazione). Di Artico estivo si deve infatti parlare
per comprendere la dinamica in corso, lo scioglimento dei ghiacci in questa
stagione non soltanto implica la riduzione della loro estensione e altezza, ma
pregiudica pesantemente il loro riformarsi invernale. Si calcola che l’attuale
tasso medio di declino è di circa 10.000 tonnellate al secondo. Ciiò implica
che, su questa base e con un aumento della temperatura terrestre di 2°C, sono
ipotizzabili estati artiche senza ghiaccio nel giro di 20-40 anni. Se già ora gran
parte del ghiaccio vecchio è ormai perso, e la maggior parte di ciò che rimane
è lo strato più giovane e sottile dell’inverno precedente, un trend simile
implicherebbe inevitabilmente il tipping point artico. E se questo avvenisse porterebbe ad un immediato
innalzamento delle maree, ma soprattutto avrebbe una correlazione negativa
sull’intero clima terrestre, la minore superficie ghiacciata (vale ovviamente
per tutte le aree terrestri coperte da ghiacci, sempre meno perenni) comporta una minore
riflessione della radiazione solare dato che questa si trova ad incidere su
superfici più scure e meno riflettenti (quali oceani e terraferma) e ciò
determina un ulteriore conseguente aumento della temperatura: più ghiaccio si
scioglie per effetto del global warming e più il medesimo riscaldamento
climatico accelera.
L’AMOC (capovolgimento meridionale della
circolazione atlantica)
Il capovolgimento meridionale della circolazione atlantica,
abbreviato in AMOC, è un fenomeno che interessa una importante corrente
oceanica dell’Atlantico, caratterizzata da un flusso in direzione nord di acqua
salina calda negli strati superficiali (Corrente del Golfo) e da un flusso in
direzione sud di acqua fredda in profondità. Tale circolazione atlantica è un importante fattore regolatore del sistema
climatico di una vasta fetta del nostro pianeta proprio perché i suoi due
flussi rimescolano e portano negli abissi acque a temperature
miti, immagazzinando di conseguenza grosse quantità di calore. I
cambiamenti in questa circolazione oceanica potrebbero avere un profondo
impatto sul sistema climatico globale perché, invertendo i due attuali flussi,
invece di catturare calore ne rilascerebbero di aggiuntivo. Questo fenomeno,
che si rifletterebbe rapidamente con un sensibile aumento delle
temperature in tutto il globo, è determinato, sempre a dimostrazione delle
strette interrelazioni fra i diversi TIPPING
POINTS dallo scioglimento dei ghiacci artici e di quelli
della Groenlandia, qui di seguito esaminato, che immette quantità enormi di
acqua dolce nell’oceano. Secondo le elaborazioni
modellistiche, l’Amoc, che nella seconda metà del Novecento ha già rallentato
la sua velocità del 15%, potrebbe, con l’incremento dello scioglimento del
ghiaccio, entrare in un periodo di grande crisi, indicativamente tra 10 - 20
anni. Con gravissime ricadute su importanti ecosistemi quali la regione africana del Sahel e, come si è già
visto, la foresta pluviale amazzonica
La calotta glaciale
della Groenlandia
La calotta glaciale della
Groenlandia si sta sciogliendo a un ritmo accelerato e si tratta della seconda
più grande calotta glaciale del pianeta, vasta sette volte l’area del Regno Unito e, in alcuni
punti, con uno spessore di 2-3 chilometri. È composta da così tanta acqua
ghiacciata che se si sciogliesse tutta, aumenterebbe il livello del mare fino a
7 metri in tutto il mondo. Eppure sta fondendo molto rapidamente, sette volte più
velocemente rispetto agli anni Novanta. Nell’agosto del 2019, in un solo
giorno, si sono fuse 11 miliardi di tonnellate di ghiaccio, il più grave
episodio nella stagione di recessione dei ghiacci artici, che hanno provocato
un innalzamento del livello globale dei mari di 1,5 millimetri in appena due
mesi confermando, ed anzi aggravando, il dato che vede la Groenlandia
contribuire per il 20-25% dell’attuale innalzamento dei mari. Rappresenta
probabilmente il tipping
point più vicino al punto di non ritorno, i modelli di
incremento del suo scioglimento prevedono che anche con un innalzamento della
temperatura media del pianeta di soli 1,5°C la sua condanna definitiva potrebbe
verificarsi già a ridosso del 2030
Il permafrost (lo strato di terreno boreale perennemente ghiacciato)
Il
permafrost è un terreno tipico delle regioni dell’estremo Nord Europa,
della Siberia e dell’America del Nord dove il suolo è perennemente ghiacciato. O meglio era perché da alcuni decenni, a
causa del surriscaldamento globale, si sta rapidamente scongelando con un
devastante impatto nella partita per il clima del pianeta. Si stima che nei terreni ghiacciati che occupano circa
un quarto dei territori dell’emisfero settentrionale siano immagazzinati quasi
1600 miliardi di tonnellate di carbonio, il doppio di quanto ne contiene attualmente
l'atmosfera. Quel carbonio è il risultato di millenni di accumulo nel terreno
ghiacciato di piante e animali morti che non si sono completamente decomposti ed
è pertanto inevitabile che, al disgelo del permafrost, venga rilasciato in
atmosfera. Non è solo il carbonio a impensierire: quando la temperatura del
terreno sale sopra lo zero, i microrganismi decompongono la materia organica
che vi si trova, un processo che sfocia nel rilascio di altri gas serra,
soprattutto metano, destinati ad accelerare ancor di più il riscaldamento
globale. Studi recenti evidenziano come circa il 20% delle terre ghiacciate
presenti caratteristiche che possono innescare un vero e proprio collasso
del permafrost, con fenomeni impressionanti come il cedimento di alcuni metri
di vaste aree di terreno. Un quadro certamente preoccupante per gli
insediamenti umani di quelle regioni, ma che diventa decisamente più
inquietante a livello globale quando si esaminano le stime quantitative esposte
nello studio. Secondo tali stime, lo scongelamento improvviso e permanente del
permafrost che genera laghi e zone umide, unito a quello che interesserà le
regioni collinari, potrebbe liberare tra 23 e 100 miliardi di tonnellate di
carbonio entro il 2030. Un valore che, aggiungendosi ai 200 miliardi di
tonnellate di carbonio indicati negli attuali modelli di rilascio globale,
innalzerebbe del 50% la quantità di carbonio in atmosfera. Mettendo poi in
conto il fatto che, rispetto a uno scioglimento graduale, la repentina e
improvvisa liquefazione del permafrost rilascia una maggiore quantità di
metano, gli impatti climatici dei due processi potrebbe essere addirittura il
doppio di quanto finora previsto
Le foreste boreali
La foresta
boreale nella regione subartica, uno dei principali biomi
terrestri, diventa sempre più vulnerabile ogni anno che passa. Le foreste
di conifere nel Nord America e della regione siberiana corrispondono ad un
terzo delle foreste mondiali, la mappa qui sopra evidenzia la loro incredibile
estensione e la loro incidenza sull’intero pianeta. Eppure stanno letteralmente
scomparendo persino più
velocemente rispetto al polmone verde dell'Amazzonia. La taiga (un tipo di
clima e di vegetazione formato principalmente da foreste di conifere), essenziale
per il clima, ha perso 2,5 milioni medi di
ettari l'anno tra il 2000 e il 2013, dei quali 1,4 milioni soltanto in Russia
dove si trova il 60% delle foreste boreali del mondo. Proprio la Russia, il
paese quindi più interessato da questo fenomeno, in questi tredici anni ha
perso il 7,2% di queste foreste, davanti al Canada con il 4,5% (964 mila ettari)
e l'Alaska (191 mila ettari). E dove non arriva l’intervento distruttivo diretto
dell’uomo arriva quello indiretto del riscaldamento globale che ha innescato una serie di turbamenti
nelle popolazioni di insetti che tengono in ordine il sottobosco contribuendo
alla diffusione degli incendi “naturali” che le stanno devastando. Nell’estate
del 2019 una serie impressionante di incendi ha colpito vastissime aree
boschive della Siberia, dell’Alaska,
del Canada e della Groenlandia liberando in atmosfera 100 milioni di tonnellate di anidride
carbonica, il
“gas serra” per eccellenza. Quelle che fin qui sono state enormi depositi
naturali di
ossigeno si stanno tragicamente trasformando in sorgenti di CO2.
Le
barriere coralline
I Tipping Points agiscono anche negli oceani. Negli ultimi anni
si sono verificati una serie di eventi di sbiancamento nei coralli, causati
principalmente dall’esposizione prolungata alle alte temperature dell’acqua.
Sotto il continuo stress da calore, i coralli espellono le piccole alghe
colorate – note come zooxantelle – che vivono nei loro tessuti e che forniscono
ai coralli attraverso la fotosintesi l’energia per la loro sopravvivenza,
lasciando dietro di sé uno scheletro bianco. Senza tali alghe, i coralli
muoiono lentamente di fame. Negli ultimi 40 anni, gli eventi di sbiancamento di
massa della barriera corallina sono quintuplicati a livello globale. Il persistente
stress termico può uccidere l’intera comunità di coralli; secondo l’IPCC, anche
restando sotto i 2°C, è destinato alla scomparsa il 99% delle
barriere coralline. Con una gravissima perdita di
biodiversità marina perché i coralli sono fondamentali per l’equilibrio di
vastissimi ecosistemi marini e, di conseguenza, dell’intero patrimonio ittico,
che rappresenta una delle fonti
principali della alimentazione umana
La calotta glaciale
antartica occidentale
e
Il bacino di Wilkes
(Antartide orientale)
Abbiamo iniziato questa veloce rassegna dei nove Tipping points più prossimi al punto di non ritorno con i ghiacci
dell’Artico e la chiudiamo, dalla parte opposta del pianeta, con quelli
dell’Antartide. La chiudiamo purtroppo con le stesse identiche preoccupazioni.
Le più recenti osservazioni hanno dimostrato che il Mare dell’Antartide
occidentale potrebbe essere davvero molto vicino al suo Tipping point: la zona dove ghiaccio, oceano e roccia si incontrano
si sta ritirando irreversibilmente. Quando questa “linea di incontro”
collasserà definitivamente, potrebbe destabilizzare l’intera calotta glaciale
antartica. Con un effetto domino che potrebbe portare ad un innalzamento del
livello del mare di circa 3 metri di altezza. Vero è che questo cambiamento non
sarebbe istantaneo, interessando un arco temporale di circa un centinaio di
anni. Ma è altrettanto vero che quanto sta succedendo nell’Antartide
occidentale trova un analogo riscontro nel bacino di Wilkes nell’Antartide
orientale. Raddoppiando in questo modo il rischio di innalzamento ovvero
dimezzando i tempi di un aumento di soli
tre metri.
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L’insieme delle fotografie
dei nove Tipping points evidenzia un quadro a dir poco allarmante che richiede
immediate azioni di contrasto. E’ quanto annualmente richiamano i dettagliati
rapporti dell’IPCC ed è quanto, purtroppo, ancora stenta a realizzarsi con la
giusta rapidità. La scienza del clima è una scienza relativamente giovane che
per meglio comprendere la progressione e le ricadute degli attuali processi
deve innanzitutto perfezionare i modelli matematici di sviluppo acquisendo il
maggior numero di elementi di raffronto con le evoluzioni climatiche avvenute
in precedenza. Il loro studio ha confermato una notevole ciclicità fatta di
alternanza di periodi caldi e freddi, il sistema Terra è infatti congenitamente
instabile per l’incidenza di diversi fattori, a partire dalle variazioni dell’orbita
terrestre. La CO2 atmosferica è attualmente
ai livelli misurati l'ultima volta circa quattro milioni di anni fa, nell'epoca
del Pliocene e si sta dirigendo verso quelli di circa 50 milioni di anni fa -
nell'Eocene - quando le temperature erano fino a 14°C più alte rispetto ai
tempi preindustriali. Ma quel che è
certo è l’impressionante diversa velocità del cambiamento climatico, quello che
milioni di anni fa avveniva in un arco temporale di decine, centinaia di
migliaia di anni, ora sembra potersi manifestare nell’arco di secoli, se non di
decenni. Iin questo senso i cicli passati non sembrano in grado di fornirci
indicazioni adeguate. Il sistema Terra sembra conoscere per la prima volta in una
tempistica climatica molto compressa una concentrazione atmosferica
di CO2 ed un aumento di temperatura globale a velocità che sono quantomeno
un ordine di grandezza superiori a quelle della deglaciazione più recente. Il
sistema Terra è oltretutto molto complesso, influenzato da moltissimi fattori che
sviluppano un intreccio intricato di tantissime variabili, ed è davvero
complicato, mancando raffronti con situazioni similari, formulare ipotesi
matematicamente certe. Questa incompleta disponibilità di modelli di proiezione
maggiormente precisi regala, da un certo punto di vista e volendo essere
ottimisti, un qualche margine in più di manovra. Ma al tempo stesso un dubbio
ed una preoccupazione aggiuntivi. Man mano che la scienza del clima
progredisce sempre più emerge il dubbio di una possibile sottovalutazione del
ruolo dei Tipping points. Se da una parte i modelli
applicabili, scontate le loro problematiche, aiutano a comprendere le loro
individuali evoluzioni troppo poco si sa dello sviluppo, e della conseguente incidenza,
delle loro interrelazioni. Non avendo riscontri scientifici con situazioni
precedenti comparabili non è da escludere il grande rischio che il loro
intrecciarsi scateni
cambiamenti amplificati ed accelerati del riscaldamento globale. Non è assolutamente da
escludere, ed è anzi fortemente da temere, la possibilità che la loro
interazione provochi un Tipping
point globale, in grado di produrre fenomeni così disastrosi da
mettere a rischio la sopravvivenza della civiltà umana.
Nessuna
analisi costi-benefici ci aiuterà. Dobbiamo
cambiare il nostro approccio al problema
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