Il “Saggio” del mese
GIUGNO 2021
I contributi che da tempo stiamo pubblicando attorno
alle tematiche, fra di loro strettamente connesse, della giustizia sociale e
della sostenibilità ambientale sono finora consistiti in riflessioni di
carattere filosofico, sociale, politico ed istituzionale, ed economico. Quello
che pubblichiamo in questo post ci viene invece fornito da una disciplina,
l’antropologia, stranamente, ed erroneamente, ancora troppo poco chiamata in
causa nell’affrontare le problematiche di un nuovo modello di sviluppo, di una diversa
idea di progresso, del giusto ruolo della tecnologia. L’occasione per
recuperare almeno in parte questa manchevolezza ci è stata offerta dalla
segnalazione, fattaci dalla nostra socia e attiva collaboratrice Carla Toscano,
di un testo ormai divenuto un “classico” dell’antropologia contemporanea. Alla
segnalazione si è poi aggiunta la graditissima messa a disposizione degli
appunti che di questo testo sono stati fatti, per un esame universitario, dalla
nipote di Carla, Clara Politi, fresca laureata con “lode” proprio in questa
disciplina, alla quale vanno quindi le nostre congratulazioni ed il nostro
sentito grazie. Con questo post, costruito proprio sulla traccia di questi
appunti, contiamo di recuperare, limitandoci alla sua valenza generale senza entrare
quindi nel merito di un complesso terreno specialistico, un punto di vista
quanto mai stimolante ed in grado di guardare a queste tematiche da una diversa
prospettiva. Il “Saggio” di Giugno 2021 è quindi:
Philippe Descola,
(Parigi 1949, antropologo francese, titolare della cattedra che fu di Claude
Lévi-Strauss al Collège de France e direttore del dipartimento LAS -
Laboratorio di Antropologia Sociale di Parigi fondato dallo stesso
Lévi-Strauss)
Con questo suo saggio Descola intende mettere in
luce l’esistenza di un errore di fondo che ha, in forme mutevoli ma comuni
nella sostanza, caratterizzato l’idea occidentale di Natura e Cultura, fondamento
dell’intero campo delle scienze umane e sociali. Come vedremo più in dettaglio
questo errore si fonda dalla congiunzione di due idee di base: quella di una “Natura”
come ‘regno’ a sé stante, di fatto separato dall’uomo, e quindi possibile oggetto
di “osservazione e conoscenza”, e quella di una “Cultura”, di più culture
intrecciate, come dimensione a sua volta così separata e distinta da quella
della Natura da poter assumere il ruolo di “osservatore e conoscitore”. Su questo
peccato originale della tradizione culturale occidentale si è così sviluppata l’erronea
presunzione dell’uomo di essere un soggetto privilegiato, in quanto unico
vivente dotato di socialità, contrapposto, da “separato”, ad un ambiente
ritenuto e trattato come elemento “a parte”. Non
è allora certo un caso per Descola che proprio in Occidente siano nate le idee
di “scienza” vista come un sapere esatto e verificabile, di “tecnologia” e
quindi di “progresso”. L’ indiscussa superiorità tecno-economica della nostra
cultura non si è generata dal nulla, ma poggia le sue fondamenta esattamente su
questa visione del mondo e della natura, su questa concezione della vita,
dell’esistenza, L’obiettivo di Descola è quindi
quello di andare oltre questa errata distinzione tra natura e cultura,
analizzando nel dettaglio il suo formarsi nello spazio e nel tempo, per
metterla poi a confronto con altri ‘modi di identificazione’ fra uomo e
ambiente presenti in pensieri diversi da quello occidentale, e provando a
fissare un insieme più completo delle relazioni fra “uomo” e “mondo”, fra
“uomo” e tutti gli “altri”, umani e non
umani. Il lavoro di Descola non ha soltanto impresso una svolta nel campo degli
studi antropologici, ma sviluppa considerazioni in grado di incidere sulla
intera cultura della modernità, filosofia teoretica e filosofia della scienza
comprese. Mettere in discussione l’esistenza stessa del concetto di “natura” è
una svolta non da poco, al punto da richiedere uno sforzo concettuale allo
stesso ambientalismo ed alla sua idea di “ecologia”.
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“Oltre
natura e cultura”
prende avvio da una esperienza, di studio e “di amicizia”, presso una
popolazione della foresta Amazzonica peruviana, gli Achuar
SEZIONE 1 – L’ILLUSIONE DELLA
NATURA
E’
durante questa esperienza che Descola inizia a “interrogarsi sull’evidenza della natura”
rafforzando “sul
campo” una visione antropologica basata sul concetto di “continuità”, alternativa a quella basata sulla classica distinzione
tra “tradizionale”
e “moderno”, di fatto alla base della dicotomia fra un “noi”, il dopo migliore, e un “altri”, il prima meno evoluto. Descola è spinto a questo
interrogarsi dal constatare che per gli Achuar non esiste alcuna separazione
tra uomo e natura, tra la comunità umana e le altre forme viventi, che
rientrano a pieno titolo fra “le
persone”. La foresta selvaggia è una sorta di orto le cui piante sono
curate come bambini da crescere, e gli animali che l’abitano sono prede da
rispettare come parenti acquisiti, a formare una parentela diffusa e stretta con
la quale si ha una continua “comunicazione”.
Per gli Achuar le diverse forme di vita non sono classificate in una gerarchia
di gradi di perfezione dell’essere, ma si spiegano solo per il loro differente
modo di “comunicare”,
a formare una rete complessa di relazioni riconducibile all’essenza dell’ “animismo”, una idea della natura in cui tutte le forme
viventi sono spiritualmente accomunate ed in cui l’essenza di ogni entità è
decisa proprio dal suo relazionarsi con le altre. L’esatto opposto del
naturalismo occidentale moderno che tutte le ordina e le distingue in relazione
alla base biologica. La diversa visione degli Achuar, inserendosi nel più ampio
contesto dell’animismo, non rappresenta quindi un caso isolato, ed in effetti Descola,
allargando progressivamente il suo raggio di osservazione, prende in esame
altre etnie prima amazzoniche, poi della regione sub-artica canadese, per poi
passare, attraverso lo stretto di Bering, in Siberia per chiudere infine il
cerchio in Africa. Quello che emerge, a prescindere dalle caratteristiche ecologiche del luogo, dai
regimi politici ed economici, dalle risorse accessibili e dalle tecniche
utilizzate per sfruttarle, è che in numerose
zone del pianeta, umani e non umani non sono percepiti, come nella visione
occidentale, come mondi separati ed incomunicabili; l’ambiente non è oggettivato
come una sfera autonoma. Le piante e gli animali, i fiumi e le rocce, i
fenomeni metereologici e le stagioni non sono confinati in una nicchia a sé
stante definita dalla assenza dell’uomo. La linea
netta di separazione tra la società degli umani e le altre forme di vita non
umane si rivela essere una visione esclusiva della sola cultura occidentale in
base alla quale la natura è davvero identificata come “una nicchia a sé
stante compiutamente segnata dalla assenza dell’umano”, che si completa
con la conseguente divisione dell’ambiente terrestre in “luoghi selvaggi” e “luoghi addomesticati”.
Va da sé che anche questa divisione non è rintracciabile in numerose altre società
e culture: non compare di certo nei popoli nomadi ed in quelli
cacciatori-raccoglitori. Gli stessi Achuar, ed altre etnie che pur vivono
stabilmente in spazi organizzati separati dall’ambiente circostante, riducono questa
separazione alla sola opposizione tra “piante coltivate dagli uomini” e “piante coltivate dagli spiriti”, e per gli animali tra “quelli abituati agli umani” e quelli che non lo sono, ben lungi quindi dall’essere
considerati “selvaggi”. Gli aborigeni australiani, non a caso a loro volta,
contestano l’uso da parte del governo del termine “wilderness – natura selvaggia” per indicare i
territori da loro abitati. Una differenza così marcata come quella occidentale non
compare neppure nelle grandi civiltà orientali - cinese, indiana, giapponese - le
quali ricorrono a termini che si limitano ad indicare una sorta di soglia, di
limite, tra gli spazi domestici e quelli esterni, mai però definiti nel senso
occidentale di selvaggi. A differenza però della prima insanabile cesura fra
uomo e natura, questa seconda fra “luoghi addomesticati” e luoghi selvaggi” è attraversata
da linee più incerte, più problematiche. La stessa etimologia di selvaggio che
rimanda alla “silva” romana, la
grande foresta europea ormai intaccata fino alla sua quasi totale scomparsa (N.B. = il nostro
“Saggio del mese di Settembre 2019 “Storia dei boschi: dalle origini ad oggi”
di Hansjork Kuster dedica ampio spazio all’evoluzione della foresta europea),
ad alla sua contrapposizione con l’ “ager”,
la terra conquistata all’agricoltura, non sempre nella stessa cultura
occidentale ha rappresentato una insuperabile linea di separazione fra il buono
ed il cattivo, fra il sicuro e l’insicuro, talvolta ritenuti presenti vuoi in
una vuoi nell’altra. Nelle ancestrali origini della concezione occidentale di
natura restano comunque importanti le tracce di queste due contrapposizioni, la
cui sommatoria ha progressivamente determinato una separazione che con la
Modernità si è di fatto esplicitata come invalicabile. Ne è vivida
testimonianza la “creazione
del paesaggio” (N.B. = anche questo aspetto è stato il tema di un nostro “Saggio
del mese”, quello di Ottobre 2019 sempre di Hansjork Kuster con titolo “Breve
storia del paesaggio”) nella quale emerge chiaramente la finalità, tutta
occidentale, di far emergere il ruolo dell’uomo come “artefice” della razionale modificazione del disordine
naturale, fino a rappresentare metaforicamente la stessa insanabile separazione
tra uomo e natura. A questa definitiva separazione la cultura occidentale è
pervenuta lungo un percorso scandito da tre passaggi: il primo gradino è
rappresentato dalla concezione greca del Cosmo come unico contenitore di natura
ed umano che limitava l’uomo alla sola possibilità di pervenire, attraverso la
conoscenza, alle leggi che tutto regolano, a cui è seguito l’avvento del Cristianesimo
e della sua fin troppo rigida interpretazione della concezione biblica della
Genesi che pone l’uomo, per volere divino, “al di sopra, in posizione trascendente, al resto del creato”.
Ma è solo con la rivoluzione scientifica del XVII secolo che si creano le
condizioni per il definitivo impossessamento umano della natura vista a quel
punto non solo come separata sfera a sé stante, ma ormai come oggetto da sfruttare
e adattare alle esigenze umane. Descola si affida a Merleau-Ponty (1908-1961, filosofo
francese esponente di primo piano della corrente fenomenologica del Novecento)
per chiarire i veri termini del rapporto tra scienza e natura: ... non sono le idee scientifiche che hanno provocato il
cambiamento dell’idea di Natura. E’ il cambiamento dell’idea di Natura che ha
permesso queste scoperte ….. A cavallo tra il XVI e il XVII, negli anni in cui Cartesio
teorizza il dualismo tra “res extensa” la natura, il mondo, e “res cogitans”,
l’uomo e la sua razionalità, le scienze occidentali si muovono prima in timido
contrasto con la visione delle Sacre Scritture per poi affiancarla e scavalcarla
con le dimostrazioni inconfutabili dei verdetti di scienziati e matematici.
L’approccio scientifico trascina con sé altre due categorie: la società e la
cultura intesa in senso lato. Se solo nel XIX secolo il concetto di “società”
assumerà la sua definizione di entità aggiuntiva e superiore a quella del
semplice insieme degli individui, il rapporto tra “cultura e natura” conosce una
inarrestabile evoluzione a sancire l’ormai totale indipendenza della prima. E’
in questo contesto che la stessa antropologia nasce come disciplina scientifica
autonoma concentrando su questo aspetto dirimente molte delle sue attenzioni,
in particolare nella specifica branca della “etnologia”, a partire dallo
scoglio rappresentato dal capire se di “cultura” o di “culture” si deve parlare. Là
dove gli studi etnologici hanno recensito ben 164 diverse accezioni del termine
“cultura” il dibattito in ambito antropologico tiene per certi versi ancora
ferma la centralità di una nozione di cultura “al singolare”, intesa come “attributo
distintivo dell’umanità nel suo complesso”. Peraltro questa definizione
da sola non implicherebbe un suo automatico contrapporsi dualistico con la
natura, ma una parte significativa della antropologia, quella tedesca e
nordamericana in particolare, lo ripresenta attribuendo, in modo per molti
aspetti contraddittori, una valenza universale al paradigma della cultura
occidentale ed al suo evolversi lungo binari distinti da quelli dell’evoluzione
naturale. Descola, se da una parte riconosce che questo dualismo ha comportato
per la stessa antropologia alcuni vantaggi metodologici, sollecita, al fine di
meglio comprendere come altre culture si siano evolute su basi differenti, ad uscire
dallo stretto paradigma della cultura occidentale. Lo scopo di questo suo
saggio è quindi proprio quello di smontare il dualismo uomo-natura uscendo
dalla prigione della cultura occidentale grazie ad una prospettiva meno rigida
e più aperta al confronto con le altre culture, evitando al tempo stesso di
cadere in una sorta di relativismo assoluto. Per farlo ritiene necessario tentare
di capire, dal punto di osservazione antropologico, attraverso quali percorsi e
su quali basi queste altre “culture” si siano formate. Un primo indispensabile passo
consiste nel sottoporre a critica i modi analitici con cui l’antropologia ha
finora studiato le forme dell’esperienza umana.
SEZIONE 2 – STRUTTURE
DELL’ESPERIENZA
Per meglio
comprendere i diversi modi con cui l’uomo, nell’ambito delle sue differenti culture,
ha vissuto e vive il suo “essere nel mondo” è infatti utile analizzarne
le articolazioni nelle pratiche concrete di vita, utilizzando due concetti tra
di loro all’apparenza contradditori: quello di “struttura”, fortemente definito
e rigido, e quello di “esperienza”, al contrario in mutevole
evoluzione. Ciò sembra universalmente possibile perché le pratiche ed i
comportamenti, vale a dire “l’esperienza”, di una comunità tendono, ovunque e
sempre, a manifestarsi con una progressiva regolarità tale da sfociare e
costituire, sui tempi lunghi, un insieme di ripetuti automatismi, ossia “le strutture”.
Si è di fronte ad uno studio, interpretato con differenti accenti dalle diverse
correnti di pensiero antropologico, che deve trovare un suo equilibrio fra il
rischio di una eccessiva generalizzazione piuttosto che quello di un esasperato
particolarismo. E’ la ricerca che lo stesso Descola porta da tempo avanti sulla
traccia del lavoro di Levi-Strauss mirata a far emergere gli “schemi
concettuali e pratici” che, in assenza di “regole esplicite”, le “norme”
nelle loro varie forme, concorrono a formare una sorta di “esperienza strutturata”. Come “schema”
si deve intendere un modo di porsi di fronte a situazioni frequenti, una loro “interpretazione”,
composto non solo da aspetti linguistici, ma anche da gesti e attività
pratiche, che ripetendosi progressivamente nel tempo, diventano, in un definito
contesto specifico, una risposta cognitiva così efficace ed immediata da divenire
di fatto automatica, vale a dire degli “schematismi” validi per il singolo individuo
piuttosto che per l’intera comunità. Le situazioni dell’essere nel mondo in cui,
nella storia dell’umanità, questi schematismi sono progressivamente emersi sono
quelle che di più, per la loro rilevanza e ripetitività, hanno concorso a
formare il rapporto con il mondo stesso; sono ad esempio quelle dell’organizzazione
della caccia o del pascolo, della predisposizione e gestione degli spazi
vitali, delle modalità di costruzione delle case e dei villaggi. Si tratta di
processi che, ancora oggi ed ovunque, si alimentano e si perfezionano
confrontandosi con situazioni inedite che inizialmente richiedono di ricorrere
a schemi mentali originali e non schematizzati. Descola ipotizza su queste basi
che tutti gli schemi che nelle varie culture hanno orientato l’essere nel mondo
siano il frutto combinato di predisposizioni, assurte fino all’essere innate, e
di modi pratici di integrarsi in un ambiente dato, che confluiscono in due definite
modalità di strutturazione dell’esperienza: “l’identificazione” e “la relazione”.
Ambedue, pur muovendosi su piani diversi, concorrono, intrecciandosi
continuamente, a formare lo schema base del rapporto fra “l’io” e “l’altro”. Questo rapporto si
manifesta su due livelli: quello “dell’interiorità”, la sfera degli affetti, dei
significati, della condivisione, e quello “della fisicità”, la sfera delle espressioni,
dei gesti, dei comportamenti corporali. A suo avviso ogni uomo si percepisce
come un’entità mista di interiorità e di fisicità, e su questo percepirsi
articola il suo rapporto con l’altro e con il mondo intero. Si tratta per
Descola di un aspetto decisivo per analizzare “l’essere nel mondo” perché se,
come si è visto, la distinzione tra natura e cultura non è universale, la
dicotomia interiorità-fisicità al contrario lo è. Ed è altrettanto universale
il modo di viverla: in nessuna cultura è rintracciabile una concezione
dell’uomo basata sulla sola interiorità piuttosto che sulla solo fisicità. In
questo quadro unificante la visione occidentale che riduce tale dicotomia
all’opposizione tra “corpo” ed “anima” diventa solo una delle sue tante
varianti locali, le quali possono essere ricondotte a quattro grandi “formule di
combinazione”: animismo – totemismo – naturalismo – analogismo.
Nella successiva sezione Descola passa ad esaminarle
SEZIONE 3 – LE DISPOSIZIONI
DELL’ESSERE
Animismo: abbiamo già visto con gli Achuar che l’essenza dell’animismo
consiste nell’attribuire ai non umani la stessa “interiorità” umana, facendoli
cosi rientrare a pieno titolo nel contesto culturale umano e stabilendo con
essi relazioni di comunicazione. La diversità fra umano e non umano si
manifesta di conseguenza nella sola differenza fisica, è il solo “corpo” che
stabilisce la loro diversa ontologia. Se la “cultura” li accomuna la “natura”
li differenzia nella “forma”. La quale, manifestandosi in una comunanza di
“interiorità”, fissa allora non solo i tratti corporali ma attribuisce ad ogni
vivente il suo specifico spazio naturale, determinando così l’intero complesso delle relazioni fra
umano e non umano e dando senso all’intera gamma delle pratiche esistenziali,
dei riti di mascheramento e metamorfosi, delle prescrizioni alimentari. Totemismo:
la visione totemica, in termini molto generali, rappresenta una fusione ancora
più marcata fra l’umano ed il non umano. Collocandosi in un vero e proprio
sistema cosmologico il totemismo sostiene una loro comune origine primordiale
che sfocia in una ampia gamma di differenziazioni, così marcata e vincolante da
imporre su queste coincidenze d’origine la costruzione dell’intera realtà
sociale. Il sistema totemico di classificazione delle coincidenze è molto
complesso e gli studi antropologici presentano al riguardo valutazioni diverse
e spesso contrastanti. L’ibridazione fra umano e non umano può basarsi sulla
condivisione di una stessa sostanza (ad es. carne, sangue, pelle), sulla
identità di essenza, piuttosto che sul possesso di comuni caratteristiche
fisiche (ad es. rotondo-piatto), comportamentali (ad es. lento/veloce) e
persino umorali (ad es. sangue caldo-freddo). Ai fini del nostro specifico
approccio ciò che conta è rilevare che il totemismo presuppone su queste basi una
così definita coincidenza costituzionale tra umano e non umano, sia di
interiorità che di fisicità, da rendere, ancor più dell’animismo, del tutto
impossibile la loro distinzione. Analogismo: Mentre l’animismo mantiene come si
è detto una separazione tra “interiorità” e “fisicità” ed il totemismo
introduce una loro doppia continuità, l’analogismo propone una visione diversa
del frazionamento di tutti gli esistenti in una molteplicità di forme, di
essenza, fra di loro distinte da deboli differenze. Recupera in questo modo una
visione olistica del vivente per quanto mosso da un continuo processo di
mutamento di identità. E’ una visione dell’essere nel mondo in parte presente
persino nella cultura occidentale, ed in particolare nella concezione teologica
medioevale della “grande catena dell’essere”, nella quale le relazioni tra
viventi sono articolate in un gioco fra “continuo” e “discontinuo”, ed è
rintracciabile in parte della visione filosofica di natura di Spinoza. Ma è
soprattutto alla base delle concezioni della natura e dell’uomo, proprie di
etnie del Centro America e dell’Africa, che vedono in ogni esistente una pluralità
di essenze che in qualche modo travalicano la distinzione tra “interiorità” e
“fisicità”. Uomini ed animali sono distinti, ma inseriti in un processo di
mutazione continua che contempla la trasmigrazione dell’anima, la
reincarnazione, la metempsicosi. Naturalismo: all’animismo, ed ancor più a
totemismo e analogismo, si oppone come controparte inconciliabile il
naturalismo che ne capovolge l’assunto di base: là dove l’animismo vede unità
di interiorità e diversità di fisicità, il naturalismo sostiene la comune
appartenenza di umano e non umano ad un solo ordine naturale, da qui il termine
naturalismo, che sancisce le loro specifiche fisicità, ed al contempo fissa una
netta ed insuperabile discontinuità della loro interiorità. L’innegabile
constatazione di una diversa coscienza, di una differente soggettività, diventa
il presupposto per affermare l’esistenza di una irriducibile contrapposizione
ontologica di carattere “culturale”. E una convinzione senza appello tale da invertire
il rapporto con quegli stessi assunti teologici, visti in precedenza, che
pongono l’uomo al vertice della creazione divina: diventa infatti lecito
ritenere che non questi hanno formato la presunzione umana ma, al contrario, la
convinzione umana di una superiorità “naturale”, derivante dalle sue
predisposizione interne, può spiegare questi stessi assunti. Il dibattito sulla
sostenibilità di questa presunzione ha attraversato l’intera storia della
cultura occidentale, non tanto attorno all’evidente salto qualitativo che
caratterizza l’interiorità umana, quanto sulla possibilità di una capacità
cognitiva nel mondo animale e vegetale, la cui sussistenza è sempre più
sostenuta, con evidenze sempre più inoppugnabili, dalla etologia contemporanea.
Ma a ben vedere anche questo crescente riconoscimento non sembra essere in
grado, da solo, di spostare più di tanto i termini della questione: concedere a
forme animali o vegetali il possesso di capacità di comunicazione e di
elaborazione intelligente di strategie comportamentali può persino essere un rafforzamento
dell’idea dell’appartenenza ad una comune “naturalità” universale. Se nella
visione naturalista classica l’interiorità umana era dote esclusiva in quanto
determinata dal possesso dell’ “anima”, in quella propria della Modernità
occidentale essa poggia invece sulla diversa “coscienza di sé” e sulla
collegata “soggettività”,
fonte delle convinzioni morali alla base della vita comunitaria umana. Da
questo punto di vista piante ed animali restano confinati ad una interiorità di
rango inferiore perché costituzionalmente incapace di sistemi relazionali
complessi. Non mancano anche su questi temi scuole di pensiero più o meno
timidamente alternativo, ma il “naturalismo” occidentale mantiene intatta
questa sua costituente visione di fondo. Descola completa in questa sezione la
disamina delle quattro “formule di combinazione” evidenziando le loro varie
possibilità di incrocio così come si
sono manifestate nel corso dell’evoluzione storica. Un passaggio utile a
sistematizzare le loro visioni dell’ “essere nel mondo” per passare a
comprendere la loro influenza sui diversi modi di organizzazione sociale e
dell’intera sfera esistenziale
SEZIONE 4 – GLI USI DEL MONDO
Il
modo animistico di collegare umani e non umani nella comune interiorità si
completa con il distribuirli in “specie”
sociali, sempre definite da una comune specifica interiorità, a formare dei “collettivi” fondati sul possesso di proprietà identiche. Tutti
gli esistenti, senza distinzione, che confluiscono nella stessa “tribù-specie” condividono
così aspetto, habitat, comportamento alimentare e sessuale. Non esiste quindi
un mondo della società ed uno della natura, ma un “mondo unico” all’interno del quale gli umani, “organismi-persone” sono in stretta
relazione con tutte le altre forme di vita. Non esistono pertanto rigide “categorie sociali”, all’interno della
propria specie e collettivo i legami sono definiti come quelli della socialità
umana: amicizia, rivalità, matrimonio, adozione, rispetto per gli anziani, e
così via. Nel mondo animistico tutte le relazioni, anche quelle tra umani e
non-umani, si manifestano come relazioni tra umani, e queste a loro volta si
sviluppano in modo coerente con il quadro comune. Nel totemismo intervengono
alcune significativa differenze: i collettivi animisti diventano “gruppi totemici”, entità che
raggruppano gli umani e non umani che condividono la stessa impronta totemica.
Gli attributi specifici di ogni gruppo totemico non sono quindi una estensione
di quelli umani, ma sono fissati dalla loro origine cosmica. La quale determina
l’esistenza di diversi tipi incrociati di collettivi totemici, consentendo quindi
allo stesso umano la possibilità di appartenere a più collettivi, e di
realizzare in questo modo variegate relazioni fra differenti gruppi totemici.
Il totemismo costruisce in questo modo una sorta di loro fusione sulla base
della quale si creano i legami sociali e tutte le stesse articolazioni del
mondo. Ancora diversa è la ricaduta sull’organizzazione sociale della visione
propria dell’analogismo. La sua concezione olistica delle forme viventi, che come
si è visto travalica interiorità e fisicità, implica, con il loro continuo
evolversi attraverso mutamenti e metamorfosi, la necessità di una
organizzazione delle relazioni per evitare un pericoloso disordine. Questa
organizzazione si basa su un ordine classificatorio formato da coppie di
contrapposti quali ad esempio: est-ovest, destra-sinistra, maschile-femminile,
alto-basso. I collettivi così costituiti includono ovviamente umani e non umani
e, sempre al fine di evitare il caos, nessuno, umano e non, può essere un “fuori mondo” può esserne cioè escluso. Come controcanto ogni
collettivo, raggruppando di fatto il tutto, è unico, autosufficiente, autonomo.
All’estremo opposto e coerentemente con la sua visione del rapporto tra umani e
non umani il naturalismo resta quindi l’unica visione del mondo totalmente
antropocentrica, basata com’è sul senso morale posseduto dal solo uomo. I
collettivi naturalistici sono conseguentemente fondati su “libere associazioni”,
con convenzioni altrettanto libere, differenziati dal linguaggio e da una
specifica cultura. La natura, il non
umano, non concorre minimamente alla formazione di questi collettivi restando
sempre confinata a comune scenario di fondo. I collettivi naturalistici possono
semmai, in base a specifiche scelte culturali, essere più o meno “vicini” alla
natura, più o meno disposti a concedere ai non umani il diritto ad un
trattamento “da umano” di diverse gradazioni. Da queste differenti concezioni
degli “usi del mondo”
derivano analoghe differenze negli “stili
di vita”. Non a caso, ad esempio, nel mondo animista il modo di vivere
è costantemente guidato dallo scrupolo di capire se le relazioni avvengono con
un umano o con un non umano “umanizzato”, creando così una rete di rapporti in
cui tutti viventi sono al tempo stesso predatori e prede. Ed in quello
totemico, i cui gruppi come si è visto raggruppano strettamente umani e non
umani sulla base della loro impronta totemica, ed in cui quindi si può essere
indifferentemente umano e non umano, l’uomo si considera come una forma, fra le
tante, della sua essenza totemica. Il suo modo di vivere deve esser allora ispirato
dal rispetto della sua sostanza totemica qualunque forma questa assuma ed in
qualunque luogo si manifesti. Ciò non significa rinchiudersi in un isolamento
dal resto dei gruppi totemici, i quali anzi interagiscono tra di loro per
garantire la sopravvivenza dell’insieme totemico. All’opposto si muovono gli
umani nella visione dell’analogismo. Se nel totemismo gli stili di vita devono
mirare a mantenere coerenti alla loro sostanza totemica le singole forme di
vita, nell’analogismo, per il quale “tutto è in tutto”, lo scopo di vita è quello
di conservare in una giusta relazione di amalgama tutte le singolarità. Aiuta a
muoversi in questa dimensione l’organizzazione delle relazioni propria
dell’analogismo e la delimitazione degli spazi che ne consegue. Tutto quello
che sta nello spazio che tale organizzazione ha in qualche modo definito è il “mondo”,
la sua parte avuta in consegna, tutto il resto è un “fuori mondo” popolato da “fuori soggetti” verso i quali non si hanno obblighi di alcun
genere. Anche per quanto concerne gli stili di vita che derivano dalla
concezione del soggetto e dell’alterità il naturalismo esprime una visione
totalmente schiacciata sulla forma di vita che pone al suo centro: l’uomo in
quanto tale. Non esiste nel naturalismo alcun criterio guida che non sia il
pieno soddisfacimento delle esigenze umane, le quali dispongono quindi a pieno
titolo di tutte le altre forme di vita alle quali, come si è visto, non viene
riconosciuta “interiorità”. Non si tratta a ben vedere delle esigenze
indistinte dell’intera umanità, ma sempre e comunque di quelle particolari
dello specifico gruppo umano a cui si appartiene. Al punto da rendere
problematico, oltre all’impossibilità di un reale “rapporto” con il non umano,
lo stesso ordine di relazioni tra gli umani. Aver posto la “cultura”, dote in
esclusiva dell’umano, come motore del vivere implica inevitabilmente che
differenze di cultura, di credenze e di valori, possono così divenire ostacolo
per le relazioni fra gli stessi umani fino a sfociare nei tanti conflitti della
storia.
SEZIONE 5 – ECOLOGIA DELLE
RELAZIONI
All’interno
di queste differenti visioni del mondo anche il sistema delle “relazioni”, che Descola ripartisce in due gruppi, assume
diverse connotazioni. Nel primo gruppo egli fa rientrare quelle che si
stabiliscono in modo reversibile tra soggetti pari, nel secondo quelle univoche
tra soggetti non equivalenti. Per quanto concerne il sistema delle relazioni
che codificano la circolazione di beni sono universalmente presenti in tutte le
culture, seppure con diverse modulazioni e valenza: il “dono”, lo “scambio”
e la “predazione”,
tutte attribuibili al primo gruppo. A differenza delle società che rientrano
nel naturalismo quelle assimilabili alle altre formule di combinazione
concepiscono, in linea generale, queste tre forme di circolazione di beni come
relazioni che, chiamando in causa sia la fisicità che l’interiorità, si
caricano di una valenza etica, valida per l’intero collettivo che le mette in
atto. Anche questo aspetto è assente nel naturalismo che si limita a
considerare, in talune specifiche culture, la pratica del dono un atto
simbolico inserito in un contesto di relazioni comunque molto differenziato
nella scala del riconoscimento reciproco. Nel secondo gruppo di relazioni
rientrano invece quelle relative al “produrre”,
al “proteggere”, al “trasmettere”.
Per quanto concerne la “produzione”
ci troviamo di fronte ad un’idea che poco e male si collega alle tecniche di
sussistenza tipiche delle società che non concepiscono la separazione tra umano
e non umano propria di quelle naturalistiche. La caccia e la raccolta, ma non
di meno la coltivazione e l’allevamento là dove praticati, non sono infatti considerate
mere tecniche di produzione di “oggetti”,
ma una vera e propria relazione tra “soggetti”.
Non lo è neppure la fabbricazione di manufatti, anch’essi considerati come veri
e propri “corpi trasformati”.
Non diversa è la concezione della “protezione”,
vista come un sistema di interazioni reciproco: come gli umani vegliano sugli
animali e sulle piante da cui traggono sussistenza, così i non umani possono
essere il tramite attraverso il quale le divinità proteggono gli umani. Un
sistema che si alimenta in forma ciclica con una “predazione” di non umani da
parte degli umani, i quali però, per garantirsi la protezione divina, devono
ripagarli con forme di “dono”. La stessa “trasmissione”, il passaggio di cose da una generazione
all’altra, in alcuni casi è regolata da precise norme, ma di rado, a fronte
della circolarità continua dell’ “essere nel mondo”, sancisce un vero e proprio
debito dei viventi verso i morti piuttosto che un diritto di possesso
tramandato. Molti altri modi di relazione meriterebbero di essere analizzati ma
lo scopo di Descola non è quello di censirli tutti, ma quello di mettere in
rilievo il fatto che nessuno di essi può da solo fissare, in forma stabile, il
comportamento etico di un collettivo appartenente all’animismo, al totemismo
piuttosto che all’analogismo. Sono tutti modi di “essere nel mondo” che per
l’insieme delle caratteristiche hanno conosciuto, e conoscono, là dove si sono
resi possibili e necessari, processi evolutivi molto lenti, graduali, rallentati.
Le ragioni, le motivazioni che possono produrre cambiamenti sono infatti
attutite dalle concezioni della vita, qui molto sinteticamente esaminate, che
hanno una loro fissità “ontologica”. In queste culture il progresso tecnico,
quando si manifesta, non trasforma i rapporti che gli umani hanno tra di loro e
con il mondo, ma, capovolgendo i termini, sono solo le eventuali, sempre quasi impercettibili,
modifiche in questi rapporti che lo consentono, rendendo cioè accettabile un
modo di fare fin lì giudicato inadatto, “fuori dal mondo”. Sono modi di “essere
nel mondo” non ispirati dal “movimento”, ma sempre e solo dalla “stabilità”, dall’equilibrio.
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Commento finale
Riprendendo le nostre specifiche ragioni di
attenzione verso questo saggio, indicate nell’introduzione a questa sintesi, ci
sembra possibile sostenere che quanto emerge come monito da questo
straordinario lavoro di Descola non è certo un irrealizzabile, ed ingenuo,
invito ad abbandonare tout court la visione del mondo del nostro naturalismo
occidentale per convertirci alle visioni panteistiche delle altre visioni. Ma è
sicuramente quello di stimolarci a prendere coscienza che questo nostro modo di
vedere il mondo non è meno di queste del tutto “relativo” e che non può quindi
vantare alcuna pretesa di maggiore validità universalistica. E di conseguenza
che per poter meglio valutare i suoi limiti e le sue contraddizioni, quelle che
non a caso ci stanno portando verso il rischio di una irreversibile emergenza
ambientale, un passo fondamentale può consistere proprio nel comprendere che esse,
essi, altro non sono che l’inevitabile ricaduta del nostro modo di abitare la
Terra. La prevedibile obiezione che
queste altre visioni del mondo possono concretamente sussistere in realtà
circoscritte e per popolazioni poco numerose, e non certo per il mondo
“civilizzato e globalizzato”, è al tempo stesso inoppugnabile e miope.
Inoppugnabile perché la nostra visione naturalistica, che conta ormai decine di
migliaia di anni di vita, ci consegna ad una situazione reale che non è di certo
cancellabile in toto, miope perché non coglie il fatto che la cultura
occidentale si è impadronita dell’intero pianeta proprio grazie a questa nostra concezione
dell’uomo e del suo posto nel mondo. Come a dire che il nostro arrogante ed invadente antropocentrismo
non può auto-giustificarsi. Riconoscere l’esistenza di altre visioni, conoscere
e capire le loro idee di fondo, non significa quindi proporre un irrealistico
“copia e incolla”, ma può rappresentare un importante aiuto per meglio
individuare, e là dove necessario ancor meglio correggere, i limiti e le
incongruenze della nostra cultura. Descola ci aiuta in particolare a
comprendere che il modo con il quale l’Occidente moderno
rappresenta la natura è uno dei suoi aspetti meno sostenibili. Questo suo
saggio è un grande ammonimento contro la presunzione, tradizionalmente
occidentale, di essere sempre e comunque dalla parte del vero e del giusto e di
essere giunti, grazie alla scienza, a certezze inamovibili e inconfutabili, in grado di produrre solo ricadute positive. La realtà con la quale dobbiamo ormai fare i
conti di dice qualcosa di molto diverso.