Occorre riconoscere che al “fattore tempo”, inteso come sua
percezione e come dimensione di proiezione esistenziale e sociale, quasi mai
viene dedicata l’attenzione che invece meriterebbe. Vissuto come condizione
all’apparenza scontata, ineludibile fino al limite dell’ovvietà, di norma non
sembra infatti essere meritevole di approfondimenti che vadano oltre una sua
scontata accettazione. Eppure, nei percorsi di vita individuali così come in
quelli collettivi, il modo, per l’appunto quasi sempre inconsapevole, in cui lo
introiettiamo è un fattore decisivo, capace di influenzare non poco idee e
scelte. Questo modo altro non è che il risultato di un percorso culturale,
consolidato in forme anche molto diversificate nelle singole culture, che ha
attraversato, non a caso, “un tempo” lungo secoli, millenni, per installarsi in
forme contemporanee nei nostri schemi mentali. L’articolo che qui di seguito
proponiamo, pubblicato tempo addietro su La Repubblica, e quindi magari da
qualcuno già letto ed apprezzato, offre spunti di riflessione per essere più
consapevoli di questi aspetti e per comprendere quanto gli elementi di crisi
con i quali “da tempo” dobbiamo misurarci stiano su di essi incidendo
tra storia e filosofia
“Noi,
sospesi nel presente senza tempo”
Intervista di Fabio Gambaro
(direttore dell'Istituto Italiano
di Cultura a Parigi, giornalista culturale, per La Repubblica, L'Espresso, Le
Monde e Livres Hebdo) a François Hartog
(storico
francese, Direttore di studi nella École des
Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, saggista, tra le sue opere
pubblicate in Italia da Sellerio spicca “Regimi di storicità”)
sul suo ultimo saggio che ricostruisce la percezione del divenire nel mondo
occidentale …….. “Il tempo è per definizione ciò che ci sfugge, tanto che
da sempre cerchiamo di afferrarlo in mille modi. La nostra percezione del tempo
nasce però da una costruzione sociale, che, per quanto riguarda il mondo occidentale,
è figlia della cultura del cristianesimo».
Dal suo osservatorio all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, François
Hartog studia da molti anni le metamorfosi delle forme storiche del tempo.
Autore di numerosi saggi, tra cui il fondamentale “Regimi di storicità” ha da
poco pubblicato “Chronos. L’Occident aux
prises avec le Temps” (non ancora disponibile in Italia)
in cui ricostruisce le diverse “epoche” che hanno caratterizzato la percezione del tempo nel mondo occidentale.
“Per definire il tempo, il mondo cristiano delle origini ha utilizzato alcuni concetti della cultura greca antica», spiega il quasi settantacinquenne storico francese. «Kronos, il tempo che passa, quello della vita e delle stagioni. Kairos, il momento propizio, l’occasione da cogliere. E Krisis, che, specie in ambito medico, indica il momento critico, decisivo in un senso o nell’altro. Nel mondo cristiano Kairos viene a designare l’incarnazione, che è il momento più importante. Cristo rappresenta il Kairos per eccellenza, l’inizio di un tempo nuovo che continuerà fino alla fine dei tempi, il momento della Krisis, del giudizio finale preceduto dall’Apocalisse. Il tempo cristiano delle origini è tutto inscritto entro questi due limiti, Kairos l’incarnazione e Krisis il giudizio finale. Il tempo che intercorre tra i due, Kronos, per i cristiani in fondo non conta, è una specie di presente senza sostanza caratterizzato dall’attesa della fine dei tempi».
Questo quadro temporale resisterà nel mondo
occidentale dalla fine dell’Impero romano fino al XVIII secolo?
«Sì. In questo
schema Kronos è stretto tra Kairos e Krisis. La storia dei secoli seguenti è
quella della progressiva affermazione di Kronos. Due nomi incarnano più di
altri questo passaggio: da un lato il naturalista Buffon, per il quale l’età
della terra è molto più antica di qualsiasi cronologia biblica, dall’altro il
filosofo Condorcet, che ha immaginato una progressione temporale illimitata,
liberata dal termine ultimo della fine dei tempi. Nasce da qui il tempo
moderno, senza più limiti e caratterizzato dalla prospettiva del progresso».
Il futuro
diventa allora più importante del presente?
«In effetti, nel XIX secolo il futuro è la categoria
dominante, quella che rende intellegibile il passato e condiziona il presente.
Tutto si organizza in sua funzione. Di conseguenza, il passato non è più un
modello né la storia è la maestra di vita che indica come agire nel presente.
Tuttavia, nel corso del XX secolo, l’idea di progresso, e con essa l’idea di
futuro, entra a sua volta in crisi. Dopo le due guerre mondiali e la shoah, era
difficile credere ancora al continuo progresso dell’umanità. Anche il rapido
progresso tecnologico degli ultimi cinquant’anni di fatto è stato percepito
come scollegato dal progresso dell’umanità».
Se da un lato
oggi gli individui sembrano averne coscienza, dall’altro però continuano a
vivere nell’illusione che il progresso tecnologico possa salvarci. In tempi di
Covid ci aspettiamo la salvezza dalla scienza…
«Vorremmo soprattutto essere salvati subito, senza
attendere. Da qualche decennio, infatti, la nostra relazione con il tempo è
dominata dal presente. Dagli anni Ottanta in poi abbiamo iniziato a rimettere
in discussione l’idea che il futuro – percepito sempre più come un orizzonte
chiuso – potesse essere migliore del passato. E anche la rivoluzione digitale,
affermando il dominio dell’immediatezza, ha indicato il presente come il solo
tempo possibile».
Eppure la
nostalgia del passato e il dovere sono sempre più presenti. Come lo spiega?
«Non c’è contraddizione. Nell’epoca moderna, quando
il futuro era ’orizzonte verso cui tendere, la storia aveva un senso e una
direzione, al cui interno trovava una collocazione coerente anche il passato.
Nel momento in cui il futuro perde forza e il tempo si riduce alla bolla del
presente, l’acceso al passato si fa attraverso la memoria. E un modo per sfuggire
al presente, ma senza una prospettiva futura. Il passato traumatico, quello
della memoria, coesiste poi con il passato idealizzato nei cui confronti si
prova nostalgia. Nei due casi si resta fuori dalla storia, che invece, quando
convoca il passato, lo fa a partire dalla prospettiva di un futuro verso il
quale essa pensa che si debba andare. Le storie nazionali sono figlie di questo
modello teleologico».
A causa della
pandemia il nostro presente è prigioniero dell’incertezza…
«Da più di un anno viviamo un presente sospeso in
cui scompaiono tutti i punti di riferimento abituali. L’incertezza rende
impossibili i progetti e la capacità di proiettarsi in avanti. Inoltre, quando
pensiamo al futuro, lo percepiamo per lo più come una minaccia alle nostre vite,
ad esempio sul piano climatico».
Da questo
punto di vista la nozione di antropocene cambia ancora una volta la nostra
relazione con il tempo?
«La parola antroprocene indica che la specie umana è
diventata una forza geologica capace di modificare in maniera strutturale il
sistema terrestre, ad esempio sul piano climatico. Visto che il tempo della
Terra si conta in miliardi di anni, con l’antroprocene siamo di fronte a una
scala temporale incommensurabile rispetto a quella di Kronos, che di solito
conta in secoli o al massimo in migliaia di anni. All’improvviso ci troviamo di
fronte a un futuro e a un passato illimitati, dove però il futuro è portatore
di grandi minacce. E dato che oggi l’umanità ha già modificato in profondità il
clima per i secoli a venire, il futuro, sebbene non ancora qui, è già in parte
definito e immodificabile, qualsiasi cosa si faccia. È la prima volta che
l’umanità si trova di fronte a una situazione di questo genere».
Ciò significa
che il tempo dell’antropocene è di nuovo il tempo di una catastrofe annunciata?
«L’antroprocene
fa risorgere un limite, come ai tempi della temporalità cristiana. La minaccia
climatica introduce la possibilità della fine del nostro mondo, ma non della
Terra che può benissimo continuare ad esistere senza di noi. Siamo quindi
costretti a fare i conti con un nuovo tempo della fine. Da qui il ritorno in
voga degli schemi apocalittici del passato».
Molto interessante prender coscienza della prospettiva temporale come una variabile cognitiva ed affettiva che incide nella elaborazione dell’orientamento personale. Così si può parlare di tempo cronologico e di tempo biologico e ad esso si riferiva Agostino quando diceva” non ci sono propriamente parlando, tre tempi, il passato, il presente e il futuro, ma soltanto tre presenti: il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro” ( Confess.). Anche Italo Svevo sosteneva che “ … il passato è sempre nuovo: come la vita procede, esso si muta, perché risalgono a galla delle parti che parevano sprofondate nell’oblio mentre altre scompaiono perché oramai poco importanti. Il presente dirige il passato, come un direttore d’orchestra i suoi suonatori. …”
RispondiEliminaE se il passato fosse copresente con il presente? Se, come sostiene il paradigma olografico, il passato , il presente e il futuro non sono che ideologizzazioni dei due lobi del cervello ma in realtà non esistono perché sono copresenti con il presente, se il paradigma olografico fosse per caso realmente vero, allora ….
si ritornerebbe sempre al vecchio quesito: Essere o NonEssere?