Il “Saggio” del mese
Settembre 2021
La pandemia Covid19 sta sommergendo di debito il mondo intero:
alla fine del 2020 il debito pubblico mondiale è stato superiore al PIL globale
più di quanto non lo fosse stato alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Certo
non tutti i paesi affrontano la stessa situazione e purtroppo per noi il debito
pubblico italiano, assieme a quello di Stati Uniti, Giappone e Grecia, è fra i
più alti del mondo ed è arrivato a metà 2021, proprio per la mole di interventi
in deficit varati per affrontare l’emergenza pandemica e le collegate
restrizioni, alla impressionante percentuale del 160% del PIL italiano. Vale a
dire che, se mai fossimo chiamati seduta stante a ripianarlo, servirebbe tutta
la ricchezza nazionale producibile in un anno e mezzo. Per qualunque scenario
si possa ipotizzare da qui in poi, anche il più ottimistico piuttosto che il
più orientato ad un diverso e sostenibile modello di sviluppo, il cosiddetto
“macigno” del debito pubblico, e relativi interessi, incide pertanto
in modo determinante. Come sarà evidenziato nel “Saggio” scelto per questo mese
la storia del debito pubblico è, per definizione, strettamente legata al
“potere politico”, all’ “uso politico” che di esso hanno fatto, e fanno, le
istituzioni politiche valutandolo uno strumento essenziale per “costruire
un’idea di paese”, aspetto nobile, ma anche per l’ottenimento di consensi
istituzionali, e “partitici”, aspetto un poco meno nobile. Le teorie economiche
sono divise al riguardo, si può senz’altro affermare che non esiste un’unica
concezione “virtuosa” del debito pubblico, la cui entità e le cui articolazioni
possono legittimamente variare, anche in misura significativa, in relazione
agli specifici contesti storici. Questo aspetto rende problematica, se non
impossibile, una determinazione puramente matematica di un suo “livello
giusto”, questa “giustezza”, e sostenibilità, devono infatti essere relazionate
alle condizioni storiche, alle finalità della sua creazione e utilizzo, alle
modalità della sua onorabilità, allo stato di salute generale del paese che lo
detiene, ed alla sua rete di relazioni internazionali. Il “Saggio” di questo
mese ricostruisce su queste basi la “storia del
debito pubblico italiano” cercando di fornire elementi per capire le
logiche, e le collegate modalità, che lo hanno determinato e governato nelle
diverse. Lo presentiamo, ben consapevoli dello scarso “fascino” e della
complessità “tecnica” del tema, con lo scopo di consentire a tutti noi, comuni
contribuenti, di orientarci un poco meglio in un dibattito che, ci piaccia o no,
stante quel 160%, sarà inevitabilmente sempre più centrale, soprattutto per le
generazioni future.
Leonida
Tedoldi:
docente universitario di Storia delle Istituzioni Politiche presso
l’Università di Verona
Alessandro
Volpi:
docente universitario di Scienze Politiche presso l’Università di
Pisa, impegnato in politica, Sindaco di Massa dal 2013 al 2018 per il PD
N.B. = Il saggio di Tedoldi e Volpi è una ricostruzione molto articolata delle politiche economiche e finanziarie italiane che hanno inciso sul debito pubblico qui purtroppo non riassumibili. In questa sintesi, già così comunque non poco estesa, ci limitiamo infatti a recuperare le linee generali di evoluzione accompagnate (in appositi quadri) da alcune considerazioni di fondo che si sperano utili come valutazione generale sul ruolo del debito pubblico.
Il seguente grafico consente una preliminare
visione storica
Prima di entrare nella sintesi vera e propria sono ancora
opportuni alcuni chiarimenti tecnico/terminologici:
- per debito pubblico
si intende l’insieme dei debiti contratti da uno Stato, attraverso strumenti
finanziari di diverso tipo e coinvolgendo agenti economici di differente natura
- per deficit pubblico
si intende un risultato negativo del bilancio statale che si può verificare in
un esercizio finanziario (un anno finanziario) quando le spese sostenute sono
superiori alle entrate ottenute. Può essere “di competenza”, quando riguarda le
spese e le entrate autorizzate, oppure di “cassa” quando si riferisce alle
entrate/uscite effettivamente avvenute.
Per entrambi, debito e deficit, al di là del loro valore nominale
è molto importante la relazione in percentuale sul PIL (Prodotto Interno Lordo)
ovvero la ricchezza reale prodotta da un paese
Capitolo I
Dal “gran libro” alla prima crisi, 1861-1887
Il neonato
Stato italiano deve da subito confrontarsi con la presenza di un significativo
debito pubblico, aspetto in qualche modo sorprendente per una realtà nazionale
appena nata e quindi temporalmente impossibilità a “creare debito”. Il fatto è
che nel bilancio del nuovo Stato italiano non potevano non confluire tutti i
singoli debiti i in capo ai precedenti stati e staterelli, Stato Sabaudo in
primis, quasi totalmente posseduti da istituti bancari privati esteri,
Rothschild in testa. Ogni alternativa è preclusa dalle casse vuote del neonato
Stato, da un tessuto sociale ed economico ancora in formazione, e quindi privo
di adeguate concentrazioni finanziarie, e dalla stessa fragilità della
costruzione unitaria. Per mettere ordine in una situazione quanto mai confusa
viene già nel 1861 istituito il …… Gran Libro del debito pubblico …. i cui due
terzi sono per l’appunto in mani straniere a formare una situazione che resterà sostanzialmente identica per tutto il
primo ventennio, nonostante l’azione di messa in ordine dei conti di Quintino
Sella e Marco Minghetti. Con questi rapporti di forza, i tassi di interesse sul
debito sono tutt’altro che favorevoli, la loro incidenza sulla spesa statale
complessiva, da un iniziale 15%, si mantiene infatti fino alla fine degli anni
Settanta attorno al 30% riducendo in modo determinante la sua utilizzabilità
per politiche economiche attive. Gli interventi di contrasto a questa situazione dei governi
della Destra storica si basano sui tre strumenti “classici”: riduzione della
spesa pubblica – incremento del carico fiscale – emissione di
moneta, tutti però destinati ad avere un impatto molto limitato per
la rigidità della spesa pubblica, quasi tutta destinata a coprire spese
militari e di funzionamento dello Stato, per il livello ancora bassissimo della
ricchezza prodotta, per la totale mancanza di un catasto della ricchezza
fondiaria, e per il disordine e l’arretratezza del sistema bancario italiano,
ancora assente una vera Banca centrale. Poco aiuta anche lo strumento della vendita di beni
pubblici, in gran parte costituita da quelli ecclesiastici
espropriati, stante un mercato immobiliare ancora asfittico. Va però
riconosciuto ai governi della Destra Storica, in carica fino al 1876, di accompagnare
questa crescita - dal 40% del 1861 si passa al 100% del 1876 sul PIL vedi grafico
– per molti versi inevitabile e sempre vissuta come un fattore di debolezza da
superare, con una rigorosa attenzione al pareggio di bilancio statale. Grazie a
duri provvedimenti fiscali quali la tassa sul macinato
e all’adozione del famoso “corso forzoso” (la
non convertibilità della moneta cartacea in quella metallica, oro e argento)
il bilancio delle spese correnti registra uno stabile avanzo con entrate mediamente
pari al 107% delle spese. Questa
stabilità finanziaria ed il mutamento del quadro delle relazioni internazionali
favoriscono il successo della Sinistra liberale che avvia un primo cambio di
passo nella gestione del debito pubblico che, pur continuando a salire ma con
tassi di interesse più gestibili, a partire dagli anni Ottanta viene virtuosamente
destinato ad importanti investimenti in conto capitale quali la costruzione della rete ferroviaria ed il potenziamento degli scali marittimi
Sono già individuabili alcuni
aspetti utili per una valutazione del “debito
pubblico” come “fattore economico”. Le
alterne vicende di questo primo periodo evidenziano infatti che gli strumenti
tecnici per “governarlo” - riduzione della spesa pubblica, incremento del carico
fiscale emissione di moneta, non possono da soli essere risolutivi. Fra
debito pubblico e corso complessivo dell’economia intercorre infatti una inscindibile
relazione di reciproca influenza tale da chiamare in causa l’idea generale del
paese, della sua economia, del suo assetto sociale e rende così fondamentale il
rapporto fra debito e sue finalità e destinazioni
Capitolo II
La trasformazione, 1888-1918
Ed è attorno a questa relazione che si concretizzano alcuni rilevanti novità nel periodo 1888-1918. Gli anni Novanta dell'Ottocento vedono un pesante rallentamento del PIL di circa il 15% (guerra doganale con la Francia, crisi agricola e del settore siderurgico, tempeste finanziarie sono le cause principali). Una contrazione che pone in seria crisi l’ancora fragile sistema bancario italiano (il caso più emblematico è il famoso scandalo della Banca Romana del 1893) imponendo la definitiva accelerazione verso la creazione della “Banca d’Italia”, ossia la “banca delle banche”, titolata a divenire l’unico istituto titolato ad emettere moneta e quindi ad avere un decisivo “ruolo tecnico, ma anche politico” nella gestione del debito pubblico. Questa nascita avviene in contemporanea con una grave crisi finanziaria mondiale, ed europea in particolare, che raffredda l’interesse estero verso i titoli del debito pubblico italiano. Inizia così, gioco forza, a divenire più rilevante la quota detenuta dalle, ormai più solide, banche italiane in buona misura attraverso l’acquisto, caldamente sollecitato, dei “Buoni (ordinari) del Tesoro”, uno strumento più agile dei prestiti a lunga scadenza destinato progressivamente ad avere un ruolo centrale nella struttura del debito pubblico italiano. Questa diversa articolazione del debito si associa, a cavallo del Novecento, con la prima vera esplosione del PIL italiano (cresciuto del 2,5% nel periodo 1885-1897, conosce nel successivo 1897-1913 un balzo del 58%) grazie al progredire di una industrializzazione finalmente di una certa rilevanza. La ricaduta sull’asfittico bilancio di Stato è da subito importante, in quelli che verranno definiti gli “anni giolittiani” si realizzano diversi saldi annuali decisamente positivi. Ed inoltre una quota significativa della nuova ricchezza si consolida in un elevato tasso di risparmio in gran misura investito in titoli statali. Il debito pubblico italiano è così sempre meno in mano straniere (dal 29,6% del 1896 al 13,5” del 1906, meno della metà in soli dieci anni) e, a dimostrazione della relazione di reciproca dipendenza fra debito e corso generale dell’economia, viene sempre più utilizzato per finanziare investimenti infrastrutturali di sostegno alla produzione (completata la rete ferroviaria e portuale, miglioramento della rete stradale) creando così un ciclo virtuoso con tassi di interesse sempre più bassi (la spesa statale per gli interessi sul debito pubblico passa dal 32,6% del 1901 al 12,6% del 1914). Questa situazione decisamente positiva non regge però l’urto dell’entrata in guerra nel 1915, i due trend favorevoli invertono radicalmente la marcia: le spese militari che crescono più del doppio fanno esplodere il debito pubblico (che sale dai 16 miliardi del 1914 ai 93 del 1921 mentre entrate statali scendono del 48% nel 1915 e con percentuali attorno al 30% nel 1916-1917, mentre la spesa statale sale dal 14% del PIL nel 1915 al 33,7% nel 1916 ed al 37,6% nel 1917/1918) con una rilevante quota di nuovo in mani straniere
Capitolo III
Dalla fine della guerra alla “superlira”, 1919-1929
Nel
tormentato dopoguerra italiano il ritorno ad un pesante indebitamento,
unitamente al crollo della “Lira”, è uno dei fattori che di più contribuisce
all’idea della “vittoria
mutilata” e di più alimenta la retorica nazionalistica. Il complicato
quadro politico del “biennio rosso” e del primo affacciarsi delle
violenze fasciste impedisce l’adozione di provvedimenti politici tempestivi ed
adeguati, in particolare, a differenza delle altre nazioni europee coinvolte nel conflitto e
non meno gravate da identici problemi, manca il coraggio di un adeguato prelievo
eccezionale sulla ricchezza privata. Il peso del debito resta così pesantemente
stabile accentuando la relativa spesa per interessi che, con il permanere della
stentata ripresa delle attività produttive, implica deficit annuali ed
ulteriore indebitamento (l’unico
strumento finanziario di un certo rilievo si concentra sulla emissione di Buoni del Tesoro, che da un valore di
circa 400 milioni nel 1915 crescono alla cifra monstre di più di 24 miliardi
nel 1922) Il risultato è un rapporto tra debito pubblico e PIL pari al
160% (lo stesso
rapporto percentuale raggiunto dal debito pubblico italiano a metà 2021, vedi Grafico). Congiuntamente
alle turbolenze politiche questo quadro, con il collegato rischio di un default
della lira, impone alle potenze straniere, USA ed Gran Bretagna in primis, di
intervenire per impedire effetti analoghi a cascata. Il conforto di un sostegno
finanziario internazionale ed il progressivo rafforzamento dell’esecutivo
fascista, pagato con il tragico instaurarsi della dittatura, creano comunque le
condizioni per un certo miglioramento di tutte le componenti economiche. Nel
1929 il rapporto debito pubblico e PIL è già sceso ad un sostenibile 60%, un
risultato indubbiamente significativo ottenuto grazie a tre fattori: una
consistente risalita del PIL dovuta al boom delle esportazioni facilitate dalla
forte inflazione e dal bassissimo valore della lira – la risoluzione dei debiti
di guerra, sostanzialmente cancellati grazie alla disponibilità americana ed
inglese – la pacificazione sociale imposta con la forza dal fascismo
accompagnata da una fase di euforia della Borsa. La definitiva piena
affermazione della dittatura mussoliniana riaccende però, con il suo carico di
retorica nazionalistica, motivi di tensione economica e finanziaria. Una Lira
troppo debole sui mercati finanziari è un aspetto giudicato inaccettabile da
Mussolini che impone come dato non trattabile e non modificabile un cambio
Lira/Sterlina fissato a “quota novanta” (una
sterlina pari a novanta lire). Questa
quota viene effettivamente mantenuta e persino migliorata, tanto da poter
parlare di “superlira”
a costo però di pesanti politiche interne di risparmio forzoso, “il risparmio
patriottico”, e di contrazione della circolazione monetaria. Con
l’effetto negativo di danneggiare le esportazioni italiane, fin lì aspetto
decisivo per la crescita del PIL, frenate proprio dal valore forzatamente alto
raggiunto dalla Lira.
Il rapporto tra debito e valuta (nazionale e non)
rappresenta quindi un altro aspetto decisivo per la comprensione generale delle
dinamiche evolutive del debito pubblico
Capitolo IV
Verso il trionfo dell’inflazione, 1930-1945
Le tensioni
globali innescate dalla crisi del 1929, collegate alle svolte autoritarie
europee, accentuano, non solo in Italia, la forte politicizzazione della gestione del debito pubblico.
Un dato comune a tutte le economie occidentali nei primi anni Trenta, non a
caso infatti si registra, dato mai più ripetuto, la coincidenza delle curve
dell’andamento del debito pubblico italiana e delle altre nazioni europee. Il
peso della demagogia nazionalistica fascista non tarda però a farsi sentire: il
mito fascista della “superlira” abbinato a quello dell’Impero,
con le sue scellerate guerre coloniali non solo frena le esportazioni, ma
progressivamente isola politicamente ed economicamente l’Italia tenendo così lontani
dai titoli italiani i capitali finanziari, quelli che per tutti gli anni Venti
avevano sostenuto non poco il debito nazionale. La situazione peggiora e rende
inevitabile un diretto intervento dello Stato fascista sia nel sistema
produttivo che in quello finanziario. Sono perciò create e via via potenziate
due istituzioni destinate a svolgere un ruolo centrale nella futura storia
economica italiana: l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, IRI, e la
“Cassa depositi e prestiti” (per gestire il risparmio postale).
Con esito peraltro non eccellente se lo stesso rapporto debito/PIL dal 60% del 1929
già nel 1935 all’88%. Le illusioni fasciste sulla Lira e l’isolamento economico
impongono, obtorto collo, di spostare proprio sulla tenuta debito il residuo prestigio
dell’infallibilità mussoliniana. Inizia pertanto un lungo periodo, accentuato
dalle necessità del tragico impegno bellico, che durerà per tutti gli anni del
secondo conflitto mondiale, segnato da confuse e contraddittorie politiche di emissioni,
sempre più con carattere di obbligatorietà, di “titoli pubblici patriottici”,
piuttosto che di “prestiti littori”, che dovranno però fare i conti con
l’asfittico mercato finanziario italiano. Il rimedio di fatto praticato diventa
quello di sostenere l’acquisto “incoraggiato” dei vari titoli dello Stato
grazie alla concessione agevolata di finanziamenti con la crescente emissione
di moneta da parte della Banca d’Italia. Un sorta di partita di giro che inevitabilmente
si chiude in perdita. Crescono non a caso il disavanzo statale, la spesa per
interessi, la massa monetaria circolante (passata dai 18 miliardi del 1935 ai 157 miliardi del
1942 per finire ai quasi 250 del 1944), la marea di
titoli pubblici di fatto inesigibili al valore di emissione. La conseguenza, inevitabile
è la svalutazione
(anche formale) della Lira e l’innesco di una
spirale inflazionistica incontrollabile che
si mantiene costantemente su percentuali annuali vicine al 10%. Ed è questo,
dal punto di vista della storia del debito pubblico italiano il dato che di più
si impone al termine dello sciagurato ventennio fascista.
Un tasso di crescita dell’inflazione, specie se consistente e
prolungato, ha un effetto paradossalmente positivo sul rapporto debito pubblico
e PIL. Il crollo del valore reale della valuta di riferimento del debito è di
fatto una maniera, tanto efficace quanto devastante per la tenuta sociale, di
riduzione del debito pubblico. Il ricorso allo strumento, di fatto
incontrollabile, dell’inflazione è stato ad esempio il modo con il quale la Germania
è riuscita a ridurre drasticamente, con un impatto drammatico sul tenore di
vita reale, i debiti pubblici al termine dei due conflitti mondiali. Un aspetto
che spiega l’ossessione tedesca per il controllo rigoroso del tasso di
inflazione, in qualche modo, venendo ai giorni nostri, “imposto” alla stessa
UE.
Capitolo V
Il debito sotto controllo, 1946-1973
La definitiva
trasformazione dell’Italia in un paese industrializzato pienamente inserito nel
mercato globale, nel blocco occidentale e, con un ruolo propositivo, nel processo
di costruzione della UE ha ovviamente un forte impatto sul debito pubblico,
sulla sua dimensione, sulla sua strutturazione, sulle logiche economiche,
finanziarie e politiche, che lo ispirano. Un periodo decisivo che tuttavia
eredita, alla fine del devastante secondo conflitto mondiale, non poche delle
caratteristiche analizzate nel precedente Capitolo. Persiste in particolare la
forte spirale inflazionistica che aveva caratterizzato gli ultimi anni
precedenti la guerra. La grande quantità di nuova moneta immessa per finanziare
l’avvio della ricostruzione mantiene infatti intatta questa spirale, peraltro
come in tutti i paesi coinvolti nel conflitto, che trascina però con sé la positiva conseguenza
di abbattere il peso “reale” del debito pubblico consentendo l’emissione di ripetuti “prestiti pubblici” la
cui gestione, non solo tecnica, consegna alla Banca d’Italia, nella confusione
politica ed istituzionale del tempo, un ruolo istituzionale di forte rilievo
che, come vedremo, non verrà più abbandonato. Nonostante l’inevitabile lentezza
della ricostruzione e del riavvio del sistema produttivo il rapporto debito
pubblico e PIL resta infatti decisamente sotto controllo: dal 68% del 1945 scende addirittura al
32% nel 1949 anche grazie agli strumenti di sostegno finanziario (Piano Marshall)
promossi dagli USA nell’ambito delle logiche della divisione in due blocchi.
Questo quadro, ancora incerto ma sempre più ricco di fermenti positivi, vede
irrompere, già a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, i prodomi
della stagione del “boom economico”, che avrà pieno effetto negli
anni Sessanta, caratterizzata da un intenso processo di industrializzazione capace
di sfruttare al meglio le opportunità offerte dal consolidarsi del mercato
occidentale nel quale le esportazioni italiane, grazie ai bassi livelli
salariali, conoscono un’autentica esplosione. Aiutano poi, accanto al ruolo
trainante dell’IRI, coraggiose politiche di spesa pubblica in buona misura
utilizzata per un concreto sostegno al pieno realizzarsi dell’industrializzazione.
Cresce quindi la spesa pubblica ma, grazie ai processi virtuosi innescati, è
compensata dal corrispondente aumento delle entrate, legate al diffondersi di
un più diffuso benessere. Sono gli anni in cui si realizzano diversi consecutivi
bilanci annuali dello Stato di sostanziale pareggio che così si guadagnano il
titolo di “bilanci
neutrali”. Questo intreccio virtuoso fra crescita delle
esportazioni, favorite dal basso costo del lavoro, e alti investimenti privati
e pubblici caratterizza l’intero decennio degli anni Sessanta e, con un PIL che
cresce a ritmi annuali del 5-6%, di fatto neutralizza il ricorso a
finanziamenti in deficit. Ne consegue un importante ridimensionamento del
debito pubblico il cui rapporto con il PIL scende alla fine del decennio fino a toccare
uno straordinario 24%. L’Italia entra quindi a pieno titolo nel
novero delle nazioni occidentali premiate da un processo di intenso sviluppo,
economico e sociale, non a caso definito “trentennio d’oro”, una fase in cui le logiche
di profitto si integrano con quelle di un ruolo positivamente attivo dello
Stato con il pieno dispiegarsi del Welfare State,
dello Stato
Sociale. Il contesto politico italiano è per tutti questi anni caratterizzato
da una indubbia stabilità governativa garantita dal costante consenso
elettorale della Democrazia Cristiana, un aspetto che, come pesante
contropartita, vede però progressivamente aumentare l’invadenza partitica nella
gestione diretta dei processi economici. Sempre più si affermano logiche
negative di raccolta consensi utilizzando interventi finanziati dalla spesa
pubblica proprio in coincidenza, nella seconda metà degli anni Sessanta con i
primi segnali di stanchezza del trend di crescita economica. Cresce a dismisura
l’apparato statale, l’azione dell’IRI diventa farraginosa e inconcludente, la
Cassa per il Mezzogiorno degenera in un sterile e disordinato finanziamento
dispersivo, l’invadenza partitica viene istituzionalizzata con la nascita del
Ministero delle Partecipazioni Statali, si afferma un improduttivo
assistenzialismo. Le conseguenze sui conti pubblici non tardano a farsi
sentire: il caotico fiume di risorse pubbliche, finanziato in deficit con il
progressivo aumento dell’emissione di titoli pubblici ad interessi via via
crescenti, vanifica nel giro di pochi anni il precedente eccezionale risultato.
Nei primi anni Settanta il debito pubblico italiano è già risalito, ad un
livello, per certi versi ancora gestibile, ma già superiore al 40% in rapporto
al PIL.
Il dato più rilevante ai fini della ricostruzione del percorso
storico del debito pubblico italiano più ancora che dalla sua dimensione quantitativa
è rappresentato dal crescente consolidarsi di una idea di “debito pubblico”
totalmente diversa da quella fin qui presente nella storia nazionale. Quello
che era stato visto come un inutile e penalizzante fardello da fronteggiare
mirando ad un suo virtuoso contenimento si avvia ad essere interpretato come un
fattore strutturale da utilizzare, con molte meno remore ed attenzioni, come
strumento stabile di intervento dello Stato nella sfera economica e finanziaria.
A partire dai primi anni Settanta inizia quindi una storia del debito pubblico
italiano completamente diversa
Capitolo VI
Il punto di svolta: l’inizio della crescita, 1974-1982
La fine definitiva
dei “gloriosi trenta” con la progressiva crisi dello “Sato nazionale”
accompagnata da profonde trasformazioni sociali e politiche incidono
negativamente sui trend economici globali. La crisi energetica del 1973 è da
molti assunta come simbolo di questo irreversibile cambiamento che in Italia si
accompagna con il venire a galla delle fragilità strutturali di una economia cresciuta
grazie ad un insieme irripetibile di contingenze favorevoli. Non aiuta, ma
semmai accentua le negatività, una classe politica sempre più schiacciata sulla
conservazione del potere fine a sé stessa e incapace di interventi adeguati. Tra il 1970 ed
il 1976, non a caso, il crescente disavanzo del bilancio statale viene ancora
coperto con la creazione di nuova moneta nell’illusione di avere di
fronte una crisi congiunturale superabile con i classici sostegni alla domanda.
I livelli sostenibili del debito pubblico (meno del 50% sul PIL ancora nel 1972), quasi
totalmente detenuto dal risparmio interno, e dei deficit di bilancio
giustificano ancora un certo ottimismo. Molto presto cancellato dal delinearsi
di un sempre più delicato equilibrio globale (pesa molto la scelta USA di sospendere la storica
convertibilità del dollaro in oro, accordi di Bretton Woods). La
Lira entra così in un regime di costante fluttuazione che non aiuta né le
esportazioni né le importazioni e trascina con sé il riaccendersi di una spirale
inflazionistica che arriva a percentuali in doppia cifra. La svalutazione della Lira decisa nel 1976
dal Governo Andreotti da una parte registra una situazione di fatto dall’altra è
l’ultima riprova dell’illusione di incidere sulle dinamiche economiche e
produttive utilizzando il solo strumento monetario. Con queste premesse gli
anni Settanta inevitabilmente vedono un debito pubblico in costante salita fino
a sfiorare il 50% in rapporto al PIL ed un bilancio di Stato che presenta ormai
deficit strutturali con una spesa pubblica totale, quasi totalmente
improduttiva, mediamente pari al 30% del PIL, che trascina con sé l’aspetto
negativo, ripetutamente evidenziato dalla Corte dei Conti, del ricorso a prestiti/debito per il finanziamento
delle spese correnti, quelle di mero funzionamento dell’apparato statale, in
luogo di quelle in conto investimenti. Emblematico è il ricorso, per la prima volta,
a fronte delle crescenti difficoltà di collocazione dei titoli di Stato, a richieste di sostegno
finanziario ad istituzioni sovrannazionali quali il Fondo Monetario
Internazionale e la stessa CEE. La confusionaria gestione politica accentua
gli evidenti segnali di disaffezione elettorale ai quali cerca di porre rimedio
alimentando vieppiù l’illusione di partecipazione e consenso elettorale
utilizzando la spesa pubblica. A fine anni Settanta la tendenza all’aumento
della spesa e del correlato debito trova inevitabile conferma attestandosi rispettivamente
al 40% ed al 60% in rapporto al PIL. Si aggiunge poi un altro aspetto
peggiorativo: l’urgenza
di reperire risorse sul breve periodo impone il ricorso a forme di prestito più
accattivanti per i risparmiatori. Inizia in questi anni l’epoca d’oro dei BOT a
breve termine che costituiscono, in luogo dei titoli a lunga
scadenza, la quota parte più rilevante del debito. Tutte queste tendenze non
hanno carattere di casualità, ma sono le ovvie conseguenze della convinzione di poter
controllare e gestire un debito se finalizzato ad un sostegno alla domanda, ed
al consumo, capaci di sostenere la crescita. Sullo fondo si sta
iniziando a profilare la svolta ideologica statunitense neo-liberista del
pensiero monetarista delle reaganonomics con la definitiva cancellazione
del paradigma keynesiano. Anche se è pur vero quanto sostenuto, già a metà anni
Settanta, da Ugo La Malfa, leader del Partito Repubblicano e severo censore
economico: le
politiche economiche italiane hanno avuto uno stampo populista sudamericano
piuttosto che keynesiano. Nel 1981 si verifica inoltre un passaggio
cruciale: con l’accordo tra l’allora Ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta,
ed il Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, si compie il
divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, la quale da qui in poi non è più
vincolata ad assecondare le politiche ministeriali ed acquisisce una completa
autonomia in materia di politiche monetarie
Al termine degli anni Settanta, la dimensione reale del debito
pubblico, pur arrivando ormai a sfiorare il 60% del PIL, ancora non si discosta
dalla media dei paesi europei pesa semmai il consolidarsi di tendenze e prassi,
che attestano come normale l’utilizzo spinto del debito pubblico come strumento
di indirizzo e gestione economica e finanziaria
Capitolo VII
La crisi del debito, 1982-1995
E’ in questo
periodo storico a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta che si crea la
maggiore crescita del debito pubblico italiano che dal 60% sul PIL arriverà a
toccare il 120% determinando quello che da lì in poi sarà lo “zoccolo duro”
del debito sovrano. Per comprendere questa evoluzione è utile suddividere il
periodo in esame in alcune distinte fasi:
1982/1985: la presunta “normalità”
del debito al 60% sul PIL è uno degli assiomi che ispirano l’azione dei diversi
governi, quasi tutti di breve durata, incapaci di varare politiche economiche e
finanziarie di un qualche respiro essendo fortemente schiacciata su una idea di
debito pubblico come fattore principale di crescita economica, ma soprattutto
di raccolta e conservazione di consenso elettorale. Non a caso
quindi si consolida un trend, attorno al 22%, di deficit annuali di bilancio sulla cui composizione, in ovvio legame con la
crescita del debito e con il peso sempre più importante dei BOT ad alto tasso e
di breve durata, inizia ad incidere in misura determinante la spesa per
interessi che, raddoppia in rapporto al PIL. Restano ignorati i richiami della
Corte dei Conti e della Banca d’Italia (Governatore
Ciampi) a porre rimedio all’entità dei tassi di interessi concessi ben
superiori al taso di crescita dell’economia reale, evidenziando profonde linee
di divisione all’interno delle istituzioni pubbliche che vedono quelle “politiche”
su posizioni “lassiste”
e quelle “tecniche”
su opposte idee “rigoriste”.
Sono i primi segnali di una “crisi di sistema istituzionale” che a breve si
manifesterà in tutta la sua ampiezza. Non deve quindi stupire che nel 1985 il debito pubblico
valga ormai il 90% del PIL, ma soprattutto che la ricaduta del suo
costo per interessi sia ormai pari a quello dei trasferimento dello Stato agli
enti locali, agli istituti di previdenza ed al servizio sanitario.
E’ in questa fase quindi che si manifesta in tutta la sua evidenza
una delle più rilevanti conseguenze negative di un alto debito pubblico: la
spesa per interessi. Al di là delle logiche contabili di bilancio la negatività
consiste essenzialmente nella ricaduta di tale spesa sulle “spese correnti”
ossia sulla quota parte delle risorse di bilancio pubblico preposte alle spese
di funzionamento, di quelle per istruzione, sanità, assistenza, politiche
locali. Uno Stato molto indebitato è anche e soprattutto uno Stato molto
limitato in tutte le sue concrete sfere di azione
1986-1990: sono gli anni in cui si
manifesta in tutta la sua evidenza l’incapacità del quadro politico di
governare la crisi del debito. L’utilizzo della spesa pubblica come presunto
incentivo alla crescita economica, ma di fatto ridotta a puro strumento di
raccolta di consensi elettorali, si è ormai cristallizzato in un situazione
ingestibile caratterizzata in particolare da una composizione del debito ormai in gran
prevalenza basata sui BOT a breve e con altissimi tassi d’interesse,
a lungo compresi tra il 15% ed il 20% solo verso la fine del decennio calano
leggermente al 12-13% ancora ben al di sopra della crescita della ricchezza reale.
Questi altissimi rendimenti monopolizzano il risparmio interno, soprattutto
quello delle famiglie (BOT people, il popolo dei BOT) introducendo,
stante l’impossibilità di pesare più di tanto sul risparmio interno, una
maggiore rigidità nella modulazione del debito ed una crescente incidenza della
percentuale della spesa per interessi che arriva ormai a valere la metà della
spesa pubblica complessiva. Il debito pubblico è ormai stabilmente ancorato a
percentuali attorno al 120% sul PIL, la spinta ad affrontarlo seriamente non
sembra poter maturare per percorsi interni.
Emergono alcuni decisivi aspetti: la composizione dei possessori
del debito pubblico, la loro nazionalità, le loro caratteristiche sociali ed
economiche, le loro specifiche aspettative finanziarie. Sono tutti fattori con
una forte influenza sulle politiche e sui relativi strumenti tecnici adottabili
per intervenire sulla stessa consistenza ed articolazione del debito
1991-1995: In aggiunta agli ormai
strutturali elementi di debolezza interna i primi anni Novanta vedono un quadro
politico in sistemica involuzione la cui residua credibilità viene azzerata
dalle inchieste di Tangentopoli. A fronte di questa acclarata disfatta ed
impotenza interna interviene, come contrappasso, una spinta esterna: nel 1991
viene perfezionato il percorso che porta nel Febbraio 1992 al Trattato di Maastrich che fissa i requisiti per poter aderire alla UE
stabilendo criteri molto rigidi in materia di bilanci statali, di deficit e di
debito pubblico. L’adesione italiana è ineludibile pena gravissime ricadute sul
sistema produttivo ed impone gioco forza un cambiamento radicale sulle
fallimentari logiche degli ultimi due decenni. Il primo scoglio da superare è ovviamente
rappresentato dal rapporto spesa pubblica e PIL: a fronte di una serie storica
di bilanci primari (il
rapporto tra entrate ed uscite al netto degli interessi sul debito) tutto sommato positivi diventa urgente intervenire sulla
pesantissima incidenza della spesa per gli interessi del debito pubblico, ormai
divenuto il famoso “macigno”. L’unica soluzione politica in
qualche modo praticabile consiste nella nascita nel 1992 di un Governo, con
Primo Ministro Giuliano Amato, parzialmente autonomo dal gioco partitico che
attua una severa manovra finanziaria (con prelievo forzoso sui conti correnti, svalutazione della lira
e sua provvisoria uscita dal Serpente
Monetario Europeo SME). Per quanto utili si tratta però
di strumenti eccezionali e temporanei e non di modifiche strutturali che hanno
comunque un rilevante impatto sulle forme del risparmio italiano. Inizia da qui
il progressivo esaurimento del ruolo dei BOT (con il collegato primo affermarsi di forme di risparmio
alternative quali i fondi di
investimento) e quindi il mutamento della composizione dei possessori del
debito che inizia ad internazionalizzarsi (nel 1991 ben il 90% dei titoli statali è ancora in mano
italiane, fra famiglie e istituti di credito). Gli sforzi
del governo Amato producono risultati tali da incentivare il ricorso ad una ulteriore
separazione dell’esecutivo dal gioco parlamentare partitico, una innovazione
destinata ad avere numerose successive repliche: nel 1993 nasce il governo Ciampi, primo
“governo tecnico” ed “ultimo governo della Prima Repubblica”. Al
quale, con Maastrich formalmente approvato, viene dato mandato di incidere in
modo più strutturale sulla spesa pubblica. Se il governo Amato aveva ottenuto
risultati troppo limitati aggredendo il debito in quanto tale il nuovo governo
Ciampi, teoricamente libero da rendiconto elettorali, deve incidere sulle voci
che di più generano deficit e che quindi di più alimentano il ricorso al debito:
sovradimensionamento
dell’amministrazione pubblica, frutto di eccessive assunzioni elettorali,
immissione sul mercato delle aziende pubbliche rese decotte dalla loro gestione
“partitica”, ristrutturazione della spesa sociale squilibrata nella sua
articolazione, rimodulazione della composizione del debito. Con inevitabili
limiti e debolezze le manovre messe in atto sembrano muoversi nella giusta
direzione, ma non sono certo in grado di avere un immediato impatto sul debito
pubblico che, sulla spinta di tale quadro precedente, raggiunge nel 1994 il picco del 120% sul
PIL. Le non rinviabili prime elezioni post Prima Repubblica aprono
però la strada a nuove forze politiche, Forza Italia di Berlusconi in testa. Un
vento neoliberista irrompe sulla scena e, per quanto il primo governo
Berlusconi del 1994 abbia breve vita, inizia un nuova fase
E’ opportuno ribadire quanto già evidenziato: la gestione del
debito pubblico è questione eminentemente “politica”, interventi definibili
“tecnici” possono avere una loro giustificazione ed efficacia ottimizzando
l’impostazione “tecnica” di provvedimenti che hanno comunque una visione
politica alla loro base. Tagliare alcune spese piuttosto che altre, individuare
ed intercettare possibili fonti di finanziamento, dare priorità ad alcuni
investimenti, delineare un regime fiscale coerente con l’insieme delle azioni,
sono questioni sicuramente perfezionabili grazie ad adeguate misure tecniche,
ma mantengono intatta la loro natura “politica” indipendentemente dai
protagonisti della loro attuazione
Capitolo VIII
Dalla crisi valutaria alla recessione,
allo scontro con l’Unione Europea, 1996-2019
1996-2000: il riuscito avvio del rientro
nei parametri di Maastrich ed il clima favorevole al percorso di ulteriore
integrazione europea danno spinta ad un certo rinnovamento del quadro politico,
nasce nel 1996 il primo governo Prodi alla testa di una coalizione di
centro-sinistra con l’obiettivo di mantenere l’Italia nel primo gruppo del
paesi europei in vista del decollo dell’Unione Monetaria prevista, con la
nascita tecnica dell’euro, per il 1999.
Ciò implica il proseguimento ed il rafforzamento delle azioni intraprese
dal governo Ciampi (non
a caso nominato Ministro del Tesoro). E’ varato,
non senza difficoltà ed incertezze stante l’evidente disomogeneità della
coalizione che porterà nel 1998 alla caduta del governo Prodi, un mix di
interventi strutturali (fra
le altre dismissioni e privatizzazioni, ristrutturazione debito enti locali e
partecipate) e di maggiori entrate tributarie (l’eurotassa) che permettono di conseguire
l’importante risultato del contenimento del rapporto tra deficit annuale e PIL
ridotto progressivamente al 4% ed al 3%, con la spesa pubblica totale che passa dal precedente 11,5% sul PIL a
quasi la metà al 6,5%. A queste misure si accompagna una consistente
ristrutturazione del debito stesso sempre meno basato sul risparmio interno e
sempre più posseduto da acquirenti stranieri con la conseguente maggiore
possibilità di incidere positivamente sui tassi di interessi applicati e sulla
durata delle obbligazioni emesse. L’impatto sul quadro complessivo della
finanza pubblica è positivo ed il rapporto debito PIL conosce un significativo
rallentamento attestandosi in calo al di sotto della soglia del 120%. E’ però sempre più evidente uno strutturale calo
economico e produttivo: il PIL italiano stenta ormai a mantenere un tasso
annuale di crescita attorno al 2% a delineare un rallentamento del quadro
economico complessivo che sarà da qui in poi un dato costante. Le tensioni interne alla coalizione, di varia
natura, non tardano ad emergere in tutta la loro portata, caduto Prodi i
successivi governi di centro-sinistra (D’Alema e Amato) proseguono, sull’onda di quanto realizzato
nel 1996-1998, consolidando il trend positivo di riduzione del debito pubblico
sceso nel 2000 al 110% sul PIL, ma non è certo possibile sostenere
che a tale positiva azione sia corrisposta una adeguata capacità di modificare
in profondità il quadro economico e sociale del paese e di intervenire in modo
organico sulle dimensioni strutturali del debito pubblico (pesa in particolare la mancata realizzazione di una
seria riforma fiscale e la controversa riforma del Titolo V della Costituzione
sui potere delle Regioni)
2001-2007: inizia la stagione del secondo
governo Berlusconi. La potenza mediatica di sostegno ad un visione neoliberista
non nasconde le evidenti contraddizioni dell’azione governativa. Gli assiomi
neoliberisti della ritirata dello Stato dal mercato, della riduzione del
Welfare, del sostegno all’iniziativa economica privata, si traducono, per fortuna a ben vedere, in questa
versione “all’italiana" in provvedimenti confusi e contraddittori (a condoni, cancellazione IMU prima casa, abolizione
ticket sanitari non corrispondono investimenti di vero sostegno all’economia
produttiva). La ricaduta sui conti pubblici non tarda a manifestarsi: si
annullano gli avanzi primari degli anni Novanta, torna a crescere il rapporto
deficit e PIL, ed il debito pubblico segna un’inversione di tendenza. Incide
non poco la necessità di conservare il flusso di cassa garantito dagli acquisti,
soprattutto esteri, di titoli pubblici che, a fronte di un crescente clima di
perplessità verso l’andamento dell’economia italiana, impone un significativo
ritocco verso l’alto degli interessi offerti. Poco incide su questo quadro la troppo breve,
e fin dall’inizio tormentata, esperienza del secondo governo Prodi (Aprile 2006-Gennaio 2008)
Si fanno più evidenti due caratteristiche dell’evoluzione più
recente del debito pubblico italiano. La variazione della composizione dei suoi
possessori, con il crescente peso degli investitori esteri, ha sicuramente una
ricaduta positiva sulla riduzione di quello del risparmio interno, ma al tempo
stesso espone l’emissione dei titoli al grado di affidabilità offerto dal
quadro di tenuta economica complessiva del paese. I giudizi delle “agenzie di
rating”, per quanto opinabili e spesso strumentali, sono comunque la base di
valutazione per molti investitori “di peso” incidendo direttamente sul famigerato
“spread” e sui tassi di interesse collegati a queste due “variabili”. Ancora
più rilevante per certi aspetti è il giudizio emesso dalla Corte dei Conti in
relazione alla manovra finanziaria del 2005 là dove evidenzia l’affermarsi
crescente dell’idea di “trasferire gli oneri del debito pubblico sulle future
generazioni”. Un aspetto sempre più centrale, in generale, nella fase storica
che si è aperta nel nuovo millennio
2008-2019: La crisi globale del 2007/2008
segna per l’economia globalizzata neoliberista una frattura in gran misura non
ricomposta ancora prima del devastante impatto della pandemia Covid 19 e
determina un quadro base tuttora in costante evoluzione. Difficile quindi valutare
questi fenomeni, ancora materia di cronaca quotidiana, da un punto di vista
storico consolidato. Tedoldi e Volpi si limitano quindi, in questo saggio, a
ripercorrere i passaggi più rilevanti di un processo che si apre verso scenari
ancora indefinibili. Sono comunque passaggi, dei quali abbiamo viva memoria
diretta, che hanno in gran misura esasperato tendenze e problematiche già
presenti a livello economico globale, europeo e, soprattutto, italiano. Le
ricadute sulla variabile debito pubblico sono state globalmente così rilevanti
da far assurgere l’indebitamento a fattore centrale per le attuali tendenze
economiche. Per restare al contesto italiano la crisi del 2007/2008 investe
un’economia strutturalmente, come si è appena visto, in gravissima difficoltà,
basti pensare che nel periodo 2000-2008 il tasso di crescita del PIL italiano, già
drammaticamente basso nel periodo precedente, si attesta a: + 1,9% nel 2001, + 0,5% nel 2002, 0,0% nel 2003, +1,7% nel
2004, +0,9% nel 2005, +2,0% nel 2006, +1,5% nel 2007. Il crollo ai valori
negativi del 2008/2009, pari rispettivamente al meno 1,1% e ben al meno 6,6%, non
possono quindi essere definiti una sorpresa. Al disastro della
gestione berlusconiana nel periodo 2008-2011, è seguito un insieme di
provvedimenti attuati dai diversi governi, tecnici o politici che siano stati sempre molto transitori e di segno
spesso contrapposto, che non ha certo avuto una ricaduta concreta di un qualche
stabile valore. A testimoniare la loro sostanziale inefficacia più che
richiamarli nel loro confuso succedersi, ed avendone tutti noi una qualche recente memoria personale, è sufficiente il seguente
grafico:
Nel periodo
2009-2019 il debito italiano, partito dalla già considerevole percentuale del
112,5%, è giunto alla quota del 134,8% ben ventidue punti in più, un dato
strutturale ormai endemico e di difficilissima, al limite dell’impossibile,
soluzione. L’impatto pandemico ha poi inevitabilmente prodotto un ulteriore
impressionante salto schizzando ad un ipotizzato 160% e dando così avvio ad una
nuova storia del debito pubblico italiano, ancora tutta da scrivere.
E’ bene in chiusura evidenziare un aspetto, di valore
fondamentale, che collega tutte le varie scelte politiche italiane di gestione
del debito pubblico a partire dai primi anni Novanta con una evidente maggiore
incidenza nel nuovo millennio: il rapporto con l’Unione Europea. L’acclarata
crisi degli Stati nazionali ha assunto nel vecchio continente la caratteristica
delle complesse relazioni fra le politiche nazionali e quelle comunitarie. Al
di là del giudizio di merito sull’impostazione comunitaria in materia, con il
carico di critiche sull’eccesso rigorista, sul peso preponderante degli “Stati
forti”, Germania in primis, e dei cosiddetti “tecnocrati”, sulle rigide prese
di posizione dei paesi “frugali”, appare ormai chiaro che il percorso unitario
impone ai singoli paesi di delineare le proprie politiche economiche e
finanziarie, ed in particolare quelle della gestione del debito pubblico, in
coerenza con quelle comunitarie. Non sono quindi più percorribili percorsi al
di fuori di questo quadro. Salvo adottare logiche “sovraniste” che,
inevitabilmente, non possono non portare alla messa in discussione dell’idea
stessa di Europa Unita. La quale, per avere una reale prospettiva di
realizzazione, deve al contempo sviluppare percorsi decisionali che
garantiscano trasparenza, condivisione, solidarietà, preveggenza, e che siano
realmente guidati dagli ideali di compatibilità ambientale e di giustizia
sociale. Ed è evidente che questo aspetto sarà ancor più centrale per i
prossimi scenari.
Per
meglio mettere a fuoco l’entità delle variabili economiche e finanziare in
gioco riassumiamo l’attuale situazione dei conti pubblici italiani:
DEBITO
PUBBLICO al 30 Giugno 2021 = stimato in circa 2.700
miliardi di euro
DEFICIT
PUBBLICO 2021 = l’ultimo scostamento di bilancio fatto nel
Consiglio dei Ministri del 15 Aprile 2021 prevede un deficit pari all’11,8%
sul PIL sperando che questo cresca nel corso dell’anno del 4,5%
PIL
2020 = 1.650 miliardi di euro, con una caduta del 7,8%
sul PIL 2019 che si era chiuso attorno a 2.000
miliardi di euro
La
spesa per interessi sul debito pubblico nel 2020
è stata pari al 3,5% del PIL, quindi circa 60 miliardi di euro
Chiudiamo questa sintesi presentando, per punti, le considerazioni
conclusive di Tedoldi e Volpi in merito a questi nuovi scenari che, in aggiunta
alla consapevolezza critica di quanto fin qui successo, impongono nuove sfide e
nuove scelte.
Capitolo IX
Emergenza, democrazia e debito
La crisi
innescata dalla pandemia Covid 19 ha, in aggiunta alle sue catastrofiche
dimensioni, caratteri paradossali con la congiunta crisi di domanda ed offerta,
colpendo il cuore stesso della nozione di economia e di società degli ultimi
due secoli e minando alla base molte delle consolidate pratiche democratiche
L’inevitabile
ricorso a spese in deficit ha fatto salire alle stelle i debiti pubblici di
tutti i paesi, l’OCSE ha stimato una crescita media del rapporto tra debito
pubblico e PIL di circa quindi punti percentuali rendendo globalmente vitale la
ricerca delle risorse necessarie
Un dato sta
accumunando i percorsi globali di risposta agli effetti economici della
pandemia: il ruolo della gestione pubblica, statale o comunitaria, degli
interventi spiazzando le dominanti logiche privatistiche neoliberiste
Ciò vale in
primo luogo proprio per il governo dei deficit e dei debiti messi in atto,
imponendo da subito una riflessione, globale e locale, sulle linee di azione da
seguire al riguardo
Questa
riflessione deve coniugare una rilettura critica dei tanti errori sin qui
commessi, globalmente e localmente, con una approfondita valutazione dei
cambiamenti di fondo innescati dalla pandemia. Non sembrano infatti sufficienti
semplici “aggiustamenti” dei meccanismi economici fin qui seguiti, ad esempio
per quanto concerne la situazione europea non hanno, al momento, nessun senso i
criteri guida di Maastrich
Due aspetti
in particolare rientrano da subito in questa valutazione: l’inadeguatezza del
settore bancario e l’erosione delle basi fiscali sulle quali sono sin qui poggiate
le politiche di prelievo sulla ricchezza.
Il settore
bancario, europeo ed italiano in particolare, già da tempo alle prese con
complessi processi di adeguamento ai nuovi contesti economici e finanziari, che
rischiano di produrre un eccesso di concentrazione, non appare in grado di
sostenere, per la propria parte, lo sforzo finanziario post pandemico e di
essere al contrario un settore in più da sorreggere pur avendo nei propri
portafogli una quota molto alta dei titoli del debito pubblico
Ancor più radicale
deve essere il ripensamento delle logiche che hanno sin qui ispirato le
politiche di prelievo fiscale che prendono in considerazione le ricchezze
mobili (redditi) e immobili (proprietà e rendite). Queste logiche non sono più
adeguate al quadro reale della ricchezza che ha visto negli ultimi decenni una
crescita vertiginosa di quella finanziaria, non adeguatamente tassata, e
l’esplosione di quella “immateriale”, e quindi per definizione sfuggente, della
digitalizzazione, dell’e-commerce, dei big data. La pandemia impone di
ripensare in profondità l’intera filosofia del prelievo fiscale
Il rientro
dal debito colossale legato alla pandemia, che si è aggiunto a situazioni, come
quella italiana, ma anche statunitense e giapponese, già preoccupanti e pericolose,
non è quindi praticabile con politiche nazionali ma impone, in primo luogo
all’Europa, di attuare interventi comuni e coordinati
Un primo
significativo passo in questa direzione è sicuramente il Next Generation EU,
ma, con riferimento a quanto evidenziato prima, anch’esso deve essere
completato inserendolo in un quadro complessivo di più lunga durata
Appare
evidente, ad esempio, che gli stessi bond del Recovery Fund, stante le
difficoltà del settore bancario, rischiano di non avere sufficienti acquirenti.
Così come gli interventi che ogni singolo Stato dovrà attuare, in integrazione,
per trovare sul mercato finanziario europeo le risorse necessarie a finanziarli
(e per l’Italia anche per governare il debito consolidato) rischiano di creare
una pericolosa concorrenza in un mercato del suo già asfittico
Diventa così
fondamentale un ulteriore salto nella costruzione dell’unità comunitaria
omogeneizzando le politiche fiscali, le logiche di investimento, le manovre
finanziarie, rendendo sempre più centrale il ruolo della BCE ed imponendo la
consapevolezza che la pandemia sta generando una “nuova normalità” e rendendo
obsolete le vecchie regole. In questo nuovo quadro ancora tutto da costruire non
deve nemmeno scandalizzare l’idea della cancellazione dei debiti pubblici
legati alla pandemia ovvero recuperandoli con l’emissione di titoli
irredimibili (non riscattabili) ad interessi quasi nulli