Il “Saggio” del mese
Il
“Saggio” di questo mese è un testo di storia ambientale che ripercorre, con lo sguardo equilibrato della ricostruzione storica ad ampio raggio, i processi globali che hanno
indotto a definire l’attuale fase geologica “Antropocene”
(nostra “Parola del mese”
di Ottobre 2021). Questa
definizione raccoglie da tempo una
condivisione diffusa nel mondo scientifico, il quale al limite si divide, a
seconda del criterio adottato, sulla collocazione storica del suo inizio.
McNeill ed Engelke, i due autori di questo testo, pur non sottovalutando
l’impatto dei periodi precedenti che hanno sicuramente contribuito a creare le
basi per un crescente effetto “accumulo”, ritengono che i processi, iniziati
perlomeno nel secolo XVIII, abbiano però conosciuto un impressionante
incremento a partire dal 1945, come anticipano nel risvolto di copertina:
dalla metà del XX secolo il ritmo crescente di uso di
energia, le emissioni di gas serra e la crescita della popolazione hanno spinto
il pianeta dentro un gigantesco esperimento incontrollato. I numeri sono
impressionanti: più di tre quarti delle emissioni di CO2 nell’atmosfera hanno
avuto luogo dal 1945 ad oggi, nello stesso periodo il numero dei veicoli a
motore è cresciuto da 40 ad 800 milioni, la popolazione mondiale è triplicata.
Un gigantesco terremoto ecologico
che definiscono “La grande accelerazione”. Il pregio di
questo saggio consiste nel collocare in un ordinato quadro storico i fenomeni ed
i processi che, cresciuti sotto i nostri occhi troppo distratti, ci hanno
condotto all’attuale situazione. In questa sintesi ci limitiamo a ripercorrerli
a grandi linee, per recuperare un
importante sguardo d’insieme su un unicum storico che chiama tutta l’umanità ad
una vera svolta.
John Robert McNeill è uno
storico ambientale americano, autore e professore alla Georgetown University. È
noto soprattutto per "aver fatto da pioniere nello studio della storia
ambientale".
Peter Engelke è Senior Fellow
presso lo Strategic Foresight Initiative dell'Atlantic Council, Washington
Capitolo primo: Energia e
popolazione
A)
- energia
Il
sistema energetico/organico utilizzato dall’umanità fino al XVIII secolo si
limitava a convertire l’energia naturalmente disponibile in tempo reale sul
pianeta. Con l’inizio dell’utilizzo spinto dei combustibili fossili il genere
umano ha iniziato ad accedere ad una formidabile dote di energia solare,
concentrata nel sottosuolo, approssimativamente quantificabile nell’equivalente di
500 milioni di anni di fotosintesi vegetale. Le iniziali tecnologie
di sfruttamento di tale fonte energetica erano decisamente inefficaci: i primi
motori a vapore sprecavano quasi il 99% dell’energia di alimentazione. I
miglioramenti da lì in poi avvenuti sono stati formidabili: è calcolabile che,
poco più di un secolo dopo, l’energia prodotta dai combustibili fossili
superasse quella creata sul pianeta, al tempo ancora in gran misura formato da
superfici boschive e forestali, dai naturali processi di fotosintesi. Fino a
giungere ai livelli altamente performanti delle attuali tecnologie …… dal 1945 è stato
bruciato l’equivalente di luce solare fossile attestabile tra 50 e 150 milioni
di anni …… Questo sistema energetico ha seguito diverse fasi del
combustibile prevalentemente utilizzato: carbone fino al 1965, successivamente petrolio sempre più
affiancato da gas naturale. A
formare un quadro globale dei consumi geograficamente molto differenziato:
ancora nel 1960 Europa, America del Nord e Giappone erano di gran lunga i veri
consumatori di tale energia. A partire dal 1965 si sono affacciate sulle scena
Cina, India e le nazioni dell’Estremo Oriente, determinando una svolta: gli USA
che nel 1965 consumavano più del 30% dell’energia mondiale, pur crescendo fino
ai nostri giorni di un ulteriore 40%, è scesa al 20%, mentre la Cina che nel
1965 utilizzava il 5% dell’energia mondiale ha ormai raggiunto e superato la
percentuale statunitense. Resta il fatto che questi nostri tempi ….. siano
estremamente differenti da tutte le epoche precedenti …. per quanto concerne la quantità e la qualità
dell’energia utilizzata per le attività umane
1) - L’energia ricavata da
combustibili fossili e l’ambiente
L’impatto
di tale sistema sull’ambiente naturale è determinato dalle specifiche attività
di: estrazione,
trasporto, combustione, principalmente
di carbone e petrolio, e nella disponibilità di energia in abbondanza, e a
basso costo, per svolgere attività diversamente antieconomiche.
1a) - Estrazione:
E’
in generale un’attività problematica dal punto di vista tecnico, in particolare
per quella del carbone da quando si è andati oltre quella “a cielo aperto” (raggiunge strati di carbone fino a 50 metri sotto il
livello del suolo. L’impatto sull’ambiente è comunque già importante perché
implica di sterrare gli strati di terreno che coprono il carbone distruggendo
vegetazione e suolo.). La creazione di miniere – che dal 1945, grazie al miglioramento delle
tecnologie, interessa circa settanta paesi in quelle che sono definite “aree
carbonifere” (alcune gigantesche
come quelle del sud del Galles, della Ruhr, del Kentucky, e dello Shaanxi
cinese)
ha comportato pesanti cambiamenti a terra e acque. Lo svuotamento delle cavità
sotterranee produce di frequente piccoli terremoti (fino al caso limite del 2005 in Cina con un’area grande
come la Svizzera interessata da un rilevante fenomeno di subsidenza, abbassamento del suolo). I detriti residui
dell’estrazione (sempre
in Cina nel 2005 i minerali sterili di miniera coprivano complessivamente
un’area grande come Israele) non solo deturpano
il paesaggio, ma rilasciano acido solforico e metano. Le trivellazioni
petrolifere comportano problematiche differenti, ma non meno impattanti.
L’enorme aumento della domanda di greggio avvenuta dal 1945 in poi ha comportato
una febbrile attività di individuazione di nuove aree di estrazione che, in
aggiunta a quelle “classiche” del Medio Oriente, della Siberia, del Mar Caspio,
del Texas, interessano ormai l’intero pianeta con trivellazioni sempre più
complesse su fondali marini, in acque sempre più profonde, in foreste tropicali
e aree polari. Nel
2005 sono stati censiti circa 40.000 campi petroliferi, in gran misura sorti dopo
il 1945, nessuno dei quali non presentava gravi problemi di inquinamento
spesso causati dall’inevitabile spargimento di greggio, estremamente difficile
da rimuovere.
1b) -Trasporto
Questa
attività, soprattutto quella del petrolio, impatta su aree molto più vaste di
quelle interessate dall’estrazione. Dopo il 1945 quasi tutto il petrolio estratto in un paese
viene bruciato, o anche solo raffinato, in un altro. Oleodotti e
petroliere, le due principali modalità di trasporto, sono stati frequentemente
interessati da incidenti con ricadute ambientali sempre più rilevanti a causa
delle dimensioni del greggio trasportato. Nel 1945 le petroliere potevano trasportare un massimo di
20.000 tonnellate, salite a circa 500.000 negli anni Settanta, per arrivare
oggi a un milione. Sono mostri galleggianti lunghi 300 metri che
richiedono diversi chilometri per rallentare e fermarsi. Piccole perdite di
greggio sono la norma, ma la maggior parte dei riversamenti si è concentrata su
pochi, gravi se non gravissimi, incidenti. Non meno significative sono le
perdite degli oleodotti. Le condotte, specie se corrono in ambienti estremi, si
corrodono e spaccano, l’età media di vita di un impianto, calcolata al massimo
in 15/20 anni, viene, per ragioni di profitto, allungata di molto.
1c) - Combustione
La
ricaduta più tragicamente pesante su ambiente, e salute umana, è però
costituita dall’utilizzo mediante combustione. Per avere un’idea dell’entità
dell’inquinamento da combustione di carbone si può considerare quello prodotto
nel 2010 da una centrale elettrica media negli USA che usa le migliori
tecnologie ed è controllata da precise normative (aspetti
che non valgono ovunque, anzi). Tale centrale rilascia ogni anno milioni di tonnellate di
CO2, migliaia di tonnellate di anidride
solforosa, e decine di chilogrammi di piombo, mercurio e arsenico, senza
contare l’impatto di cenere e fuliggine. Il petrolio brucia in modo più pulito,
rilascia comunque notevoli quantità di piombo, monossido di carbonio, anidride
solforosa, ossidi di azoto e composti organici volatili (COV) che, con la luce
solare, producono smog fotochimico. Un contributo fortemente negativo di
inquinamento, concentrato in particolare nella aree urbane soprattutto delle
crescenti megalopoli, proviene dai tubi di scappamento dell’enorme parco
autoveicoli globale, cresciuto a dismisura dal 1945 in qua (attualmente calcolato in circa 1,2
miliardi di veicoli e con una previsione di 2 miliardi nel 2035). Nel periodo
storico in esame l’entità dell’inquinamento complessivo da combustione fossile è
ben testimoniata da quelli, in miliardi di
tonnellate, della produzione di
CO2: nel 1945 erano 4,2
passati a 25,1 nel 2000, nel 2021 sfiorano i 37 (nel 1850 non arrivavano a 0,2 miliardi di
Tonnellate)
2) - Lo strano progresso
dell’energia nucleare
La
fame di energia esplosa dal 1945 in poi, ben più di scrupoli ambientali, non
poteva non prendere in considerazione quella da fonte nucleare potenzialmente
senza limiti e, teoricamente, di impatto ambientale pressochè inesistente. Già
nel 1954 è stata utilizzata come fonte di alimentazione di una prima piccola
centrale in Russia, per poi crescere rapidamente ed in modo significativo: dall’1%
dell’energia elettrica mondiale nel 1965, al 10% nel 1980, al 13% nel 2013. Nel
2010 copriva la metà del fabbisogno elettrico di Francia, Lituania, Belgio, per
un quarto quella di Giappone e Corea del Sud, e per un quinto negli USA.
Una crescita che sembrava poter proseguire senza freni ma bruscamente
interrotta dalle tragiche, e purtroppo prevedibili, vicende di Cernobyl nel
1986 e di Fukushima nel 2001. L’inquinamento da radiazioni nucleari, che già
aveva visto episodi significativi negli USA (1979
USA, Three Mile Island) e in Unione Sovietica (tenuti
segreti),
ha conosciuto, soprattutto con Chernobyl, prove del suo potenziale effetto
devastante su aree vastissime, congelando di fatto, perlomeno fino ad oggi, la
sua ulteriore espansione.
3) – Il controverso progresso
dell’energia idroelettrica
Ha
fornito, e fornisce, una percentuale di energia prodotta pari a quella
nucleare, con controversie, e tragedie minori, ma non insignificanti. Piccole centrali
idroelettriche, alimentate da dighe a sbarramento di fiumi, sono state lo
standard fino al 1945, per poi, specie negli anni Sessanta e Settanta, essere
globalmente sostituite da autentici giganti artificiali. Quella di
Assuan, quelle cinesi ed indiane (definite da Nehru
“i templi dell’India moderna”), quelle nel Sud America, negli USA e in Turchia raccontano di una vera e propria
corsa al loro gigantismo. La mancanza di un inquinamento direttamente
collegabile alla modalità tecnologica di produzione, ed il collegato minor
ricorso ad altre forme più inquinanti, è però non poco compensata, in aggiunta
all’impatto sulla popolazione spesso costretta a spostamenti forzosi, da danni
ambientali collaterali quali: sommersione di vastissime aree, modificazione ed
erosione del corso naturale dei fiumi e degli ambienti prospicienti, incidenza
sull’equilibrio climatico. Il non infrequente verificarsi di gravi incidenti
completa un quadro controverso che, per altri impianti di grandi dimensioni,
non sembra avere più spazio fisico se non in Africa e in America del Sud.
4) – L’esitante ascesa delle energie
alternative
La
crescente sensibilità ambientale è riuscita, con molta fatica e con risultati
ancora incerti, a creare spazi concreti per forme di produzione energetiche,
definite “alternative”,
utilizzando combustibili “rinnovabili”. In buona misura tramontate
quelle che negli anni Settanta avevano puntato sull’energia ottenibile da
biomasse (etanolo usato come combustibile per
veicoli)
sono le due le fonti “naturali e rinnovabili” prevalenti: vento e sole. Il primo, già sfruttato
nell’antichità come strumento per macina e pompaggio acqua, viene catturato e
tradotto in energia elettrica grazie alle moderne turbine eoliche. Questa
tecnica, che richiede comunque di essere installata in zone con ventilazione
costante e sostenuta, ha avuto da subito, anni Ottanta, buon seguito in alcuni
paesi (Danimarca, Spagna, e Portogallo) e dal 2008 è in
progressiva espansione, nonostante crescenti perplessità sull’impatto
paesaggistico, tanto da aver attratto più investimenti di quella
idroelettrica. L’energia solare rappresenta un potenziale eccezionale: in una
sola ora il Sole fornisce alla Terra più energia di tutta quella consumata in
un anno. La modalità tecnica prevalente per “catturarla” è quella dei pannelli
fotovoltaici. Come per quella eolica ancora adesso è rilevante il problema del suo
immagazzinamento, e non è di poco conto l’impatto ambientale delle dimensioni
degli impianti necessari. Malgrado la loro crescita nei decenni a cavallo dei due
secoli il loro contributo al fabbisogno energetico non supera al momento il 4%
del consumo mondiale ed appare
molto problematica una loro estensione ad una scala tale da rappresentare una
alternativa risolutiva.
5) – Effetti indiretti
dell’abbondanza di energia
Nel
considerare l’impatto ambientale dell’energia ricavata da combustibili fossili,
in aggiunta a quello legato ad estrazione, trasporto e combustione, occorre
considerare quello che, nel periodo in esame, ha avuto la semplice ampia
disponibilità di energia. Tutte le attività umane che incidono
sull’ambiente sono state incredibilmente potenziate, se non create dal nulla,
proprio da questa disponibilità universale ed a bassi costi. Ed è proprio
grazie a questa facile disponibilità che, a partire dagli anni Sessanta si è assistito,
su scala globale, ad una impressionante impennata della raccolta di legname, ad
una radicale modifica dell’agricoltura, dell’attività mineraria, di quelle
della pesca, alla rivoluzione delle modalità di trasporto, al mutamento degli
stili di vita, di abitazione, dei consumi individuali e collettivi, alla nascita
su scale in precedenza inimmaginabili di fenomeni come il turismo di massa. Una
ulteriore decisiva spinta è stata poi fornita dallo sviluppo tecnologico in
gran misura finalizzato a sostenere il circuito dei consumi e della
domanda. In una sorta di circolo vizioso che appare
di difficile inversione la disponibilità di energia ha quindi innescato
l’esplosione di attività che hanno a loro volta fatto crescere in modo
esponenziale la domanda di energia, fino a farla divenire la chiave di lettura
fondamentale per comprendere la nuova epoca dell’Antropocene. L’insieme
di queste attività, che investono capillarmente ogni individuo, è la causa
principale di problematiche ambientali
mai conosciute in precedenza quali, a puro titolo di esempio: smaltimento rifiuti, inquinamento
atmosferico delle aree urbane e del ciclo dell’acqua, depauperamento dei suoli,
esplosione di reti infrastrutturali, corsa all’inurbamento, occupazione
commerciale e turistica di ambienti naturali
B)
– Popolazione
1) – La bomba demografica
Quanto
avvenuto dopo il 1945 non conosce precedenti neppure per il secondo fattore che
ha determinato la “Grande Accelerazione”. Il primo miliardo di abitanti sulla
Terra è stato raggiunto solo nel 1820, è poi occorso più di un altro secolo per
raddoppiarlo nel 1930, ma solo più trent’anni per arrivare a tre miliardi nel
1960. Da lì in poi la crescita è stata esponenziale: nell’arco di una vita umana, dal 1945 al
2015, gli abitanti del pianeta sono triplicati passando da 2,3 a 7,2 miliardi.
Nel 1950 l’incremento annuo già raggiungeva la cifra di 50 milioni, è poi
salito a 75 milioni negli anni Settanta per toccare il picco massimo, mai più
ripetuto, di circa 89 milioni a metà degli anni Ottanta. Un ritmo di crescita
incredibile, del tutto insostenibile sui tempi lunghi, che per fortuna da lì in
poi ha iniziato a rallentare e a declinare. Sembrerebbe infatti, sulla base delle tendenze attuali,
che si sia entrati nella fase declinante dell’episodio più anomalo di tutta la
storia demografica umana. A determinarlo su scala globale hanno
concorso due componenti: la diminuzione secca del tasso di mortalità, dal 20 per
mille del 1945 all’attuale 8,1 per mille – un tasso di natalità
progressivamente diminuito, dal 37 per mille del 1945 al 20 per mille del 2015,
ma ancora costantemente sempre superiore a quello di mortalità. La migliore
e più diffusa nutrizione, con condizioni igienico sanitarie altrettanto
migliorate, spiegano il primo fenomeno, e la tendenza a salire del secondo,
mentre il suo progressivo rallentamento è dovuto ad un insieme di fattori
socio-economici combinato, in alcune decisive situazioni, da politiche mirate
al suo contenimento.
2) – I tentativi per frenare la
crescita della popolazione
Hanno
riguardato alcune nazioni fortemente sottoposte ad un incremento demografico che,
partendo da una base storicamente già elevata e procedendo con alti tassi
annuali, ha seriamente rischiato di divenire ingestibile. La Cina, in contrasto
con precedenti visioni, ha introdotto a partire dal 1970 un severo controllo
delle nascite basato sull’uso incentivato di contraccettivi e da politiche
forzose di composizione familiare, tanto efficaci (tasso
di natalità su mille abitanti sceso dal 44% degli anni sessanta al 13% del
2015)
quanto venate da serie problematiche e contraddizioni. Preceduta dall’India che
già nel 1952 ha avviato forti iniziative di contenimento, fino a prevedere in
alcuni casi la sterilizzazione forzata, che hanno tuttavia avuto meno successo (tasso di natalità su mille abitanti sceso dal 43% degli
anni sessanta al 21% del 2015). Analoghe, ma meno severe, politiche di
freno delle nascite sono state messe in atto da buona parte dei paesi
dell’estremo Oriente. Nel mondo occidentale, nei paesi “più ricchi”, il
rallentamento dell’aumento della popolazione ha iniziato, a partire dai decenni
a cavallo del nuovo secolo/millennio, ad avere le caratteristiche di una vera
decrescita, sempre meno compensata dalle ondate immigratorie, imputabile non a
politiche mirate in tal senso, ma ad un mutamento delle condizioni sociali, economiche
e culturali, (stili di vita,
ritardato e complicato inserimento nel mondo del lavoro, più marcato ruolo
donna)
tale da incidere fortemente sul tasso di fertilità
3) –Popolazione ed ambiente
L’aumento
della popolazione mondiale è stato tale da avere un inevitabile forte impatto
sull’ambiente; la logica è semplice …… più persone, più attività umane, più pressione sulla
biosfera ……. In primo luogo
perché il triplicarsi della popolazione mondiale, per quanto non omogeneo, ha
richiesto un’espansione proporzionale della produzione di cibo, realizzata su
vasta scala con:
l’espansione dei terreni agricoli: a danno
dell’ambiente naturale, e l’ottimizzazione spinta delle loro rese grazie a
tecnologie e prodotti “industriali” che hanno avuto un impatto
pesantissimo sulle condizioni di salute dei suoli agricoli e del ciclo delle
acque
rapida impennata consumo acqua dolce: passata,
in miliardi di metri cubi, dai 1.366 nel 1945 a 3.900 nel 2010, per la
maggior parte a scopi di irrigazione e con spaventose diversità fra aree e
regioni sempre più colpite da fenomeni opposti di siccità e alluvioni dovuti,
come si vedrà in seguito, agli effetti del cambiamento climatico
esplosione raccolta ittica marina: quadruplicata su
scala mondiale fra il 1945 e gli anni Settanta, per poi assestarsi proprio
per l’eccesso di sfruttamento delle risorse ittiche a lento ripopolamento
collegato incremento della domanda di
energia:
(vedi Parte A di questo Capitolo)
La
crescita demografica, influenzata da fattori globali e locali, non ha avuto un
processo lineare per le varie aree del mondo ed ha quindi determinato, anche
per l’incidenza, in aggiunta a quelli ambientali, di fattori geo-politici,
impressionanti movimenti migratori interni ed esterni. Al già forte fenomeno di
inurbamento, che in alcuni paesi ha determinato il nascere di immense “megalopoli”,
con il conseguente concentrarsi di specifiche problematiche ambientali (in particolare distruzione aree agricole, inquinamento
e dispersione rifiuti), si sono aggiunti flussi, composti da molti milioni di
persone (globalmente
173 milioni nel decennio 1991-2000, 221 milioni nel 2001-2010, 281 milioni nel
2011-2020) che hanno fortemente
modificato l’impronta ecologica di significative aree
Capitolo secondo: Clima e diversità biologica
Clima
Il
sistema climatico terrestre, già del suo molto complesso e basato su delicate
relazioni fra il Sole, atmosfera, oceani, litosfera (la crosta terrestre),
pedosfera (il suolo), e biosfera (organismi viventi, foreste soprattutto), non
poteva non essere fortemente colpito da questa “grande accelerazione”. Quanto
avvenuto dal 1945 si è collocato in un quadro climatico, quello dell’Olocene (l’era geologica successiva all’ultima grande
glaciazione terminata circa 12.000 anni fa), relativamente stabile per quanto
segnata da alcune significative temporanee variazioni, calde e fredde. L’impatto
più significativo è stato quello sul ciclo del carbonio del pianeta, totalmente
alterato nella sua distribuzione tra litosfera, pedosfera, oceani, biosfera ed
atmosfera, dalla impressionante immissione in quest’ultima di carbonio, sotto
forma di anidride carbonica (CO2),
prodotto dalle attività umane. Il carbonio “antropogenico” è sostanzialmente il
prodotto di due processi: la deforestazione ed altri cambiamenti d’uso del
suolo, che al 2015 valgono il 15% del totale del carbonio “umano”, e la
combustione di carburanti fossili responsabile del restante 85%. Nel
1750,
prima della Rivoluzione industriale, il carbonio immesso dalle attività umane
nell’atmosfera poteva valere non più di 3 milioni di tonnellate, già salite nel 1850
a circa 50
milioni e a circa 1.200 milioni,
venti volte di più, nel 1945. Da qui è iniziato un vero e proprio
festival della combustione fossile: per quindici anni, dal 1945 al 1970, l’uomo ha
mediamente immesso in atmosfera ogni anno 2.500 milioni di tonnellate di carbonio,
dal 1970 al
1990 diventate 6.000 milioni, e arrivate nel 2015 a qualcosa come 9.500 milioni,
tremiladuecento volte di più del 1750 e otto volte di più del 1945. Il risultato è
una concentrazione di CO2 di circa 400 ppm (parti per milione), rispetto alle 280 ppm pre-industriali, il più alto livello
registrabile negli ultimi 20 milioni di anni, solo in parte spiegabile con
l’aumento in valori assoluti dell’economia globale, il dato più significativo è
infatti rappresentato dall’aumento in percentuale dell’intensità di CO2 per
unità di attività economica/produttiva (a
significare un’economia in continua crescita ed in più sempre più energivora). Non deve pertanto
stupire che a partire dagli anni Settanta ogni decennio abbia registrato una temperatura
media delle superficie terrestre più alta del decennio precedente, che i primi
dieci anni del nuovo millennio siano i più caldi mai registrati, e che al 2015
la temperatura media del pianeta risulti aumentata di più di un grado
centigrado rispetto all’intero periodo dal 1850. L’impatto è stato ovunque
rilevante, ma di più ai Poli che all’Equatore e di più sulla terra che sugli
oceani, ma, stante la loro estensione, questo aumento rappresenta una quantità
enorme di energia termica.
Biodiversità
La
nuda esposizione di dati, quantità, temperature rischia, per quanto
indispensabile, di non rendere appieno l’idea di ciò che la “Grande
accelerazione” ha significato per la salute complessiva del pianeta, delle sue
componenti fisiche, e delle forme di vita che lo abitano. I termini “diversità
biologica” ovvero “biodiversità”, ancora sconosciuti fino agli
anni Settanta ed Ottanta, sono diventati argomento di grande richiamo proprio
perché definiscono il parametro fondamentale della ricchezza di forme di vita
terrestri. Una
ricchezza che è stata messa fortemente in crisi dall’impatto umano sul clima
sino a divenire il modo più tangibile per misurare il declino biologico globale.
Nonostante il progresso degli studi al riguardo si possono fare solo congetture
molto approssimative sul numero di specie terrestri viventi, il dato varia da
pochi milioni a più di cento milioni. Le zone della Terra che di più le
ospitano, le foreste pluviali tropicali, brulicano di forme di vita
sconosciute, si
calcola che il 10% della superficie terrestre contenga tra metà e due terzi di
tutte le specie. Nel 1986 un calcolo “prudente” ha stimato che un quarto di
milione di specie si sia estinto durante il secolo XX ed esprimeva il timore
che, la “Grande accelerazione” abbia creato le condizioni per un ulteriore
salto nel XXI secolo di un numero da dieci a venti volte superiore.
L’impatto delle attività umane su foreste, praterie, oceani, strettamente
connesso alla crescita demografica, ha comportato una alterazione degli
ecosistemi certamente non compensato dalla creazione, spesso divenuta ulteriore
attrazione turistica, di parchi nazionali e riserve naturali.
Capitolo terzo: Città ed economia
Città
…..
viviamo in un
pianeta urbano, (già) nel 2008 i demografi delle N.U. hanno stimato che più del
50 % degli esseri umani vive in città …..
Una situazione abitativa mai registrata prima nella storia umana che è
cresciuta a dismisura nel periodo della “Grande Accelerazione”: nel 1950 la
popolazione urbana era meno del 30%, nel 2015 è stata stimata in più della
metà, ossia 3,7 miliardi di persone. Oggi, al termine di questo
intenso processo, si contano 500 città con almeno un milione di abitanti, 74 con più di
cinque milioni e 12 con più di venti milioni. Queste dimensioni
hanno sconvolto il rapporto di reciproca dipendenza fra la città e l’ambiente
circostante. Un rapporto, da sempre in continuo mutamento determinato dalla
caratteristica di entità dinamica delle città stesse, che storicamente ha visto
l’ambiente circostante “nutrire” delle necessarie risorse la città, per venire
a sua volta da questa “modellato”. Questo modellamento, quando provocato da insediamenti
di queste dimensioni, e con gli stili di vita che dal secondo dopoguerra lo
caratterizzano, si traduce inesorabilmente in: sconvolgimento del ciclo
naturale dell’acqua, inquinamento urbano diffuso, riscaldamento atmosferico,
impatto ambientale da rifiuti, irrazionalità reti infrastrutturali. Sullo
sfondo incide un processo decisivo: l’abbandono delle aree rurali, a partire da quelle
orbitanti attorno alle città, e l’inurbamento di masse sempre più consistenti.
Un processo iniziato nei primissimi decenni dopo il 1945 nei paesi più ricchi,
più avanzati, e poi esploso anche nei paesi in via di sviluppo passati
dall’avere una popolazione urbana pari al 18% a più del 40%, con un ritmo medio
annuo doppio rispetto a quello, ormai consolidato e più stabile, dei paesi
ricchi. Un ulteriore
differenza è poi consistita in un trasferimento ovunque non governato che ha
dato vita alle drammatiche condizioni di vita delle cosiddette “bidonville”,
accampamenti abusivi privi di qualsiasi normale dotazione urbana (nella sola Città del Messico si è calcolato che nel
momento storico più problematico siano vissute in queste condizioni più di nove
milioni di persone).
Nei paesi ricchi dell’Occidente, inteso in senso lato, alla prima fase di forte
inurbamento ha poi fatto seguito, per più ragioni di ordine socio-economico in
parte derivanti dal livello di benessere diffuso, un processo opposto di sub-urbanizzazione
strettamente connesso a quello di motorizzazione di massa. Si è diffuso in buona
parte dell’Occidente, nella seconda parte del secolo, il cosiddetto “american way of
life” che, basato su una forte mobilità individuale, decentramento
attività produttive e commerciali, aveva negli USA determinato un cambiamento
radicale nella distribuzione urbana della popolazione: nel 1950 due terzi vivevano nel centro
delle città ed un terzo nelle periferie, nel 1990 queste percentuali si erano
invertite. L’insieme di questi due processi di
inurbamento/sub-urbanizzazione, spalmato sull’impressionante peso demografico
urbano, costituisce la base del pesantissimo impatto ambientale delle città
Economia globale
…….
Dal punto di
vista ecologico l’elemento più rilevante nel periodo della Grande Accelerazione
è però costituito dalla performance dell’economia globale ….. Limitandoci ad esaminare la “performance”, e
tralasciando quindi le tante e decisive considerazioni sul merito di un
processo che chiama in causa saperi di vario genere, emerge che nel periodo in
esame l’economia globale è cresciuta di ben sei volte, con un tasso medio di
crescita annuale del 3,9%, superando
di gran lunga la media, già significativa, dell’era industriale precedente (1800-1945) pari
all’1,6% (nell’era “moderna”, 1500-1800, era stata dello 0,3%). L’apice della
crescita è avvenuto tra il 1950 ed il 1973, investendo in prevalenza il mondo
occidentale, per essere poi seguito da un andamento più altalenante ma con un
maggior coinvolgimento di altre economie, Cina e paesi dell’Estremo Oriente in
primis, fin lì ai suoi margini. Queste dinamiche economiche e produttive sono
state in gran misura alimentate dalla incredibile esplosione di “consumi di massa”,
in costante rinnovamento grazie alle innovazioni tecnologiche e in ovvio
collegamento con l’esplosione demografica di cui si è detto. La ricaduta sul
contesto ambientale di questo impressionante ritmo di crescita, oltre che
sull’aver “riempito
il mondo” di prodotti (molto
energivori, i soli elettrodomestici casalinghi assorbono il 15% dell’energia
elettrica prodotta nel mondo) è consistita nella proporzionale produzione
di energia esaminata nel precedente Capitolo primo. Coerentemente con il quadro
appena delineato nel
1950 ben il 93% dell’energia prodotta a fini commerciali sulla Terra era
consumato dal mondo ricco industrializzato, nel 2005 tale percentuale è scesa
al 60%. Percentuali che, per
essere comprese nella loro valenza complessiva, devono tenere conto del fatto
che non coincidono, se non per pochi paesi, con il possesso dei relativi
combustibili fossili. I cambiamenti avvenuti nel quadro geo-politico, soprattutto
con la fine del colonialismo “classico”, hanno così spinto tutte le economie
vero la ricerca di un costante “efficientamento energetico” incentivando il
ruolo dei progressi tecnologici. I quali sono divenuti, soprattutto negli
ultimi decenni del secolo, il vero motore della macchina economica e produttiva
globale. Accanto alle più recenti innovazioni iper-tecnologiche hanno svolto un
ruolo decisivo innovazioni all’apparenza più banali: l’umile container da
trasporto, capace di rivoluzionare le modalità di trasporto merci, ne è un
esempio perfetto. Allo stesso modo buona parte della crescita è legata
all’introduzione di nuovi prodotti, con al primissimo posto quella della
“plastica”. Già utilizzata nella prima metà del secolo (50.000 tonnellate prodotte nel 1930) conosce già nel 1950 un
primo boom con 2
milioni di tonnellate passate in breve a 6 milioni nel 1960. Cifre
ragguardevoli, ma per avere contezza di quanto la plastica abbia invaso il
mondo contribuendo in modo determinante alla crescita economica, è bene sapere
che nel 2000
nel mondo si è passati a produrne circa 200 milioni di tonnellate salite nel
2015 a ben 422 milioni. Si sa che la plastica è una lavorazione petrolchimica
e che rappresenta, quando ridotta a rifiuto, una delle maggiori fonti di
inquinamento ambientale.
Capitolo quarto: Guerra Fredda e
cultura ambientale
Guerra Fredda
Per completare questa sintetica rassegna
dei fattori che di più hanno inciso alla “Grande Accelerazione” è indispensabile
esaminare il ruolo della “corsa agli armamenti”, e più in generale a
quello dell’industria
bellica, nella quale la cosiddetta “Guerra Fredda” ha giocato un
ruolo centrale. La divisione del mondo nei ben conosciuti due blocchi avvenuta
all’indomani del secondo conflitto ha innescato processi tanto assurdi quanto
pericolosi per la sopravvivenza dell’intero pianeta, ma oggettivamente in grado
di avere una influenza importante sulla stessa crescita economica: in Unione
Sovietica, ad esempio, durante la Guerra Fredda il 40% di tutta la produzione
industriale era di tipo militare. Limitandoci ad esaminare le
ricadute economiche ed ambientali, tralasciando quindi le complesse
implicazioni geo-politiche di una contrapposizione che ha segnato il quadro
mondiale fino alle fine degli anni Ottanta, emerge con evidenza che l’enorme
flusso di risorse investite nell’industria bellica, ad Est come ad Ovest, ha
inciso fortemente sui processi economici generali in due modalità: peso diretto
sulla produzione, in termini percentuali e di valori assoluti finanziari, e
ricaduta in applicazioni “civili” delle tantissime tecnologie messe a punto
nell’ambito delle ricerche a fini militari. Quella che di più e meglio ne è
testimonianza, anche per l’impatto ambientale, è sicuramente la produzione di
armi nucleari.
Fra il 1945 ed il 1990 gli USA hanno costruito circa 70.000 ordigni nucleari
testandone oltre 1.000, l’URSS circa 45.000 con 715 test. A questi numeri si
aggiungono quelli, per centinaia di ordigni, prodotti da Gran Bretagna (dal
1952), dalla Francia (dal 1960) e dalla Cina (dal 1964). L’insieme
dei test nucleari ha immesso in atmosfera una quantità di inquinanti
radioattivi pari a svariate centinaia di volte di quella fuoriuscita a
Cernobyl. I siti nei quali sono stati effettuati test o sono stati installati
gli impianti produttivi hanno raggiunto livelli di inquinamento spaventosi:
Celjabinsk, in Siberia, è stato per cinquant’anni il luogo più pericolosamente
inquinato della Terra, non meno pericolosi quelli di Savannah River Site, in
Georgia, e Rocky Flats Arsenal, in Colorado. La follia nucleare ha lasciato in eredità
una quantità spaventosa di scorie radioattive spesso mal stoccate quando non fatte affondare nei fondali
marini più profondi, ed un carico di radioattività che per alcuni materiali non
decadrà prima di diverse migliaia di anni. Quando la memoria della Guerra
Fredda sarà materia di pochi storici l’umanità, con le sue insopprimibili
turbolenze e complicazioni, dovrà ancora tenere sotto controllo questa quantità
impressionante di scorie nucleari.
Il movimento ambientalista
Proprio
la Guerra Fredda, con la nascita di movimenti contro la proliferazione nucleare
degli anni Cinquanta/Sessanta, ha contribuito alla nascita della coscienza
ecologista ed ambientale che è chiamata, oggi, a misurarsi con l’eredità della
“Grande Accelerazione”. Ma è indubbio che al suo centro sta, fin dal suo
sorgere, la preoccupazione per i danni sempre più evidenti inferti all’intero
pianeta dall’incredibile ritmo di crescita del peso delle attività umane. Sono
progressivamente confluiti in questo alveo due differenti, ma convergenti,
sensibilità: nei paesi ricchi del mondo quella per i danni derivanti da un
invasivo benessere, nei paesi poveri quella per i guasti provocati alle loro
forme tradizionali sociali ed al loro ambiente naturali dalle rapaci politiche
economiche dei paesi ricchi. La convergenza fra queste due sensibilità è
derivata dalla comune considerazione che al centro della questione sta la
logica di un modello di sviluppo senza freni, di una crescita economica
insostenibile per un pianeta dalle risorse finite. Dalle prime battaglie degli
anni Sessanta contro l’uso di prodotti chimici quali il DDT, piuttosto che per
la difesa degli alberi-simbolo dei villaggi amazzonici, già nel corso degli
anni Settanta/Ottanta il movimento ambientalista globale ha accentuato la sua
netta opposizione ad una idea di sviluppo sempre più vista come la principale
responsabile del crescente disastro ambientale. Non poco ha contribuito a
questo salto di qualità l’importante elaborazione culturale che, su queste tematiche,
ha sempre più diffusamente coinvolto economisti, sociologi, filosofi,
intellettuali in genere. Il “Rapporto sui limiti dello sviluppo” pubblicato nel
1972 dal Club di Roma (formato nel 1968 da
Aurelio Peccei, un industriale italiano) ne è un esempio illuminante per la capacità
che ebbe, in tutto il mondo, di innescare un dibattito su società industriale,
inquinamento, sostenibilità ambientale. Lo stesso ambientalismo
“istituzionale”, che, con al suo centro l’ONU con alcune sue specifiche
diramazioni, ha acquisito a cavallo del millennio un ruolo sempre più
significativo, deve molto a questi contributi culturali come alla pressione dei
movimenti ambientalisti nazionali ed internazionali (ad es. WWF, Green Peace).
La “politica”, troppo influenzata dalle logiche della crescita economica, quasi
ovunque ha tardato a fare proprie queste sensibilità, scavando un solco che si
sta protraendo fino ai giorni nostri.
Conclusioni
Va
detto che al di là della troppo lenta ed insufficiente azione della “politica” esiste
un gap culturale che investe l’intera umanità ritardando non poco una più
profonda ed attiva presa di coscienza delle innegabili problematiche che la
“Grande Accelerazione” ormai pone senza più margini di rinvio. Molti fattori
incidono in questo senso, uno in particolare può avere un peso rilevante: il periodo tra il 1945 ed i giorni nostri
corrisponde grosso modo all’aspettativa di vita dell’attuale umanità. L’intera
esperienza di vita di quasi tutti gli individui che abitano il pianeta si è quindi
svolta all’interno della “Grande Accelerazione”, inducendo a considerare come
“normale” un periodo che è invece quello più anomalo e meno rappresentativo dei
rapporti tra uomo e biosfera di una storia lunga almeno 200.000 anni. Già solo
questa constatazione dovrebbe rendere tutta l’umanità scettica riguardo al
fatto che i processi innescati dalla “Grande Accelerazione” possano, oggettivamente, durare ancora a lungo”