Il “Saggio” del mese
AGOSTO
2022
«Non
capisco più il mondo»: è l’affermazione su cui si troverebbe
d’accordo la maggioranza delle persone di ogni parte del globo. E con ragione.
Il nostro mondo è attraversato da un vero e proprio processo di metamorfosi:
non è cambiamento sociale, non è trasformazione, non è evoluzione, non è
rivoluzione, non è crisi. La metamorfosi è una modalità di cambiamento della
natura dell’esistenza umana. Chiama in causa il nostro modo di essere nel
mondo.
Sono queste le parole, tratte dal risvolto di copertina,
che introducono il testo scelto come “Saggio” del mese di Agosto 2022. Sono
ampiamente sufficienti a presentare il tema affrontato, in quel “Non capisco più il mondo” si sintetizzano il
nostro disagio esistenziale nel vivere questa fase storica e il nostro bisogno
di trovare almeno le parole per definirlo.
Ulrich Beck (1944
– 2015, sociologo
tedesco, considerato fra i
maggiori interpreti dei fenomeni della globalizzazione, la sua opera più
influente è “Società del Rischio” 1986 Carocci Editore)
N.B. = quelle in azzurro sono citazioni testuali dal
saggio, quelle in rosso scuro evidenziano dati/concetti base
[Nel saggio “La società del rischio” del 1985, presto divenuto un classico dell’attuale dibattito socio-politico, Beck ha messo a punto importanti riflessioni che anticipano “La metamorfosi del mondo”. Si tratta infatti di un’opera che rilegge l’intero percorso della modernità occidentale dal Settecento fino ai nostri giorni, evidenziando in particolare le strutturali trasformazioni avvenute a partire dal secondo dopoguerra, fino a proporre l’idea di una «seconda modernità», intesa come «modernizzazione della modernizzazione», caratterizzata dal tramonto delle certezze della prima modernità. La fine di queste certezze, sia individuali che collettive, è causata proprio dal processo di modernizzazione e ha determinato l’avvento del “rischio” come dimensione ordinaria del vivere sociale. Il rischio ha dunque una natura strutturale essendo legato ai meccanismi stessi del funzionamento delle società contemporanee e pertanto richiede, individualmente e collettivamente, di essere fronteggiato con comportamenti e politiche consapevoli della sua incidenza. Beck lo definisce con queste parole: ….. Società del rischio non significa che viviamo in un mondo più pericoloso di quello di prima. Semplicemente, il rischio è al centro della vita di ognuno di noi e al centro del dibattito pubblico, perché oramai lo percepiamo ovunque. Ed è ovunque ….. Un’ultima precisazione: Beck non ha fatto in tempo a completare la stesura definitiva di “La metamorfosi del mondo”, la sua morte improvvisa ha infatti drammaticamente interrotto la revisione finale del testo. Lo leggiamo nella versione data alle stampe nel 2015 dalla moglie Elisabeth Beck-Gersheim, anch’essa sociologa e sua stretta collaboratrice]
Beck ha elaborato questo suo ultimo
saggio prima della pandemia da Covid19 e della guerra russo-ucraina, ma
l’elenco degli avvenimenti e dei processi di profondo mutamento era già nel
2015 così sufficientemente lungo e significativo da dare senso alla domanda dalla
quale prende avvio la sua riflessione: “In che mondo viviamo davvero?”. La risposta
che ne è seguita è, a suo avviso, sintetizzata nel termine: “metamorfosi”.
Parte I
Introduzione, prove, teoria
Cap. 1 = Perché metamorfosi e non trasformazione del mondo
Non viviamo in un mondo che sta
semplicemente cambiando, “cambiamento” significa infatti che alcune cose
evolvono, ma altre rimangono uguali, mentre quello che l’umanità intera sta attualmente
vivendo è una trasformazione molto più radicale, un processo che sta
cancellando tutte le antiche certezze e che sta facendo nascere qualcosa di
completamente nuovo, diverso. Come un bruco che muore come tale per divenire
farfalla, quello che stiamo vivendo è una “metamorfosi”. Non è la prima volta che
succede, basti pensare, ad esempio, alla “svolta copernicana”, a Galileo che dimostra
che non è il Sole a girare attorno alla Terra, ma l’esatto contrario. Da lì in
poi l’uomo ha guardato in modo radicalmente diverso il cielo stellato. Oggi è
in fondo la stessa cosa: tutte le stelle che credevamo fisse a formare la
nostra idea di mondo non sono più tali. Con però una abissale differenza: la
Terra ha sempre girato attorno al Sole, ma questa realtà era negata da dogmi
religiosi, la metamorfosi attuale invece “si dispiega tutta nella realtà” e nessun dogma
può negarla. Nei prossimi Capitoli si entrerà nel merito delle più
significative situazioni che, fra di loro sommate, impongono il parlare di
metamorfosi, ma per meglio capire la loro singola valenza, e soprattutto quella
del loro insieme, è preliminarmente necessario accettare la sfida di una
metamorfosi della nostra ”weltbild”, della nostra sin qui consolidata “visione del
mondo”, che si è dissolta, si è
appassita. Fin qui connessa ad uno “spazio d’azione” locale, nazionale, anch’essa,
come tutti i reali processi sociali, economici, culturali, politici, non può più
sfuggire alla dimensione del “globale”. Questa necessaria metamorfosi della
nostra Weltbild avviene entro due contrapposti poli allo stesso modo errati …. il mondo non sta
finendo, come pensano i predicatori di catastrofi, e nemmeno è vicino alla
salvezza, come pensano gli ottimisti che difendono il progresso …. Se
come si è detto “metamorfosi
del mondo” non indica cambiamento, trasformazione, evoluzione,
rivoluzione, crisi, una sua iniziale definizione può allora essere quella di: una modalità di
mutazione della natura dell’esistenza umana che in uno spazio ormai “cosmo-politizzato”
(neologismo introdotto
da Beck),
è alimentata dagli “effetti collaterali” dei processi globali.
Cap. 2 = Giocare ad essere Dio
Un primo “spazio d’azione” che testimonia
la profondità dei processi di mutazione riguarda intimamente l’essenza umana
così come è determinata dall’ “essere genitori”. L’avvenuta metamorfosi di
questa fase cruciale del vivere umana non merita di essere valutata solo per il
suo intrinseco valore, ma perché le modalità con le quali si è sviluppata sono
una esemplare testimonianza di cosa si debba intendere per metamorfosi. La
svolta è avvenuta come “effetto collaterale” dello sviluppo delle
ricerche mediche sulle modalità di concepimento, la cui finalità originaria era
quella di curare i problemi di fecondità. Ma lo straordinario livello raggiunto
dalla tecnologia medica ha da subito comportato una vera metamorfosi, a
cascata, del concetto di “maternità” e di “paternità” sin qui
universalmente condivisi. Non era questa l’aspirazione dei pionieri della
medicina riproduttiva, che si muovevano nel quadro di riferimento del vecchio
mondo e che certo non miravano ad essere Dio, ma una volta aperta la strada
alla ricerca si sono attivati inarrestabili sviluppi (il
cui lungo elenco, a partire dalla fecondazione in vitro, è ormai diffusamente
conosciuto)
che hanno definitivamente spezzato l’unità di “concepimento, gravidanza e nascita”
in capo alle figure di “una” madre e di “un” padre. Da qui si è
ulteriormente innescata, sempre con carattere di “effetto collaterale”, una
altrettanto profonda trasformazione di stili di vita e di forme di famiglia.
Questo processo non è però avvenuto in modo lineare e omogeneo, su di esso
hanno inciso il problema dei costi (si tratta di tecniche molto care) e soprattutto la
sua accettazione nelle diverse sensibilità religiose e nelle differenti
regolamentazioni giuridiche, due ostacoli che nel “vecchio mondo” potevano
risultare insormontabili. Non è più così nel mondo cosmo-politizzato della
metamorfosi del tutto unificato dal “capitalismo di esternalizzazione” capace cioè
di gestire, al di là dei confini nazionali, l’intera filiera del “concepimento,
gravidanza e nascita”. Si misura in questo passaggio l’importanza del secondo
aspetto della “metamorfosi
del mondo” dopo quello degli effetti collaterali: l’avvento del
globale “cosmo-politizzato”
con il superamento, in questo caso tramite aggiramento, dei confini nazionali
che innesca a sua volta altri effetti collaterali. Sono infatti messi in crisi
culture e istituzioni locali, sistemi giuridici nazionali, morali ed etiche
consolidate. Tutto questo non avviene pacificamente, ma, allorquando una
metamorfosi non è riconosciuta e affrontata come tale, con un carattere di “conflitto”.
Fra singoli Stati che applicano leggi diverse, fra chi può e chi non può, fra
culture, persino fra gli stessi protagonisti sempre più al centro di
contenziosi legali che appaiono irrisolvibili stante la diversità e l’inadeguatezza
delle fonti di diritto. Lo stesso linguaggio non sembra essere in grado di
adeguarsi: nel vecchio mondo, bene o male, valeva il modo di dire “mater certa
pater incertus”, oggi non è più così l’incertezza, totale, vale per
l’uno ma anche per l’altra. Questo conflitto deve essere quanto prima risolto,
ed il primo passo per farlo consiste nel ridefinire, globalmente, il principio
della “responsabilità
genitoriale”. Ma perché ciò avvenga ancora prima serve avere
consapevolezza dell’avvenuta metamorfosi, nell’era degli effetti collaterali e
della dimensione cosmo-politizzata del mondo.
Cap. 3 = Come il cambiamento climatico può salvare il mondo
L’incidenza della “metamorfosi del mondo” diventa
ancora più evidente nella minaccia del cambiamento climatico, un orizzonte
peraltro ormai certo, attorno al quale stanno giungendo alla resa dei conti
finale contrapposte visioni del futuro del mondo e dell’umanità. Ma che,
proprio per questa sua caratteristica sistemica, può, secondo Beck, assumere una
straordinaria valenza positiva. Per sostenerlo recupera un concetto, quello di
“catastrofismo
emancipativo” [già presente nel suo precedente
saggio “La società del rischio” (vedi
sopra), sarà più ampiamente sviluppato nel successivo Cap. 7]. Innescatosi come
“effetto
collaterale” delle logiche che hanno sin qui guidato l’intera epoca
della industrializzazione globale è una minaccia strutturalmente globale tale
da rendere inadeguate politiche per
affrontarlo tarate su scala locale, nazionale. Questo dato di fatto ha una
duplice valenza: pessimistica e negativa perché richiede alla politica un
livello di azione finora mai messo in atto, ottimistica e positiva perché impone
questo livello come unica strada percorribile. La “metamorfosi del mondo” che ne
deriva consiste allora innanzitutto nel riconoscere che il principio, sin qui
mai messo in discussione, della sovranità nazionale
non è più sostenibile, c’è urgente bisogno di passare dalle “Dichiarazioni
d’indipendenza”, alla base della nascita di tutti gli Stati moderni,
alla “Dichiarazione
d’interdipendenza” dell’intero mondo. Consiste in questo salto
culturale il principio del “catastrofismo emancipativo” che rende ineludibile
la nascita di “una
nuova struttura di potere mondiale”. Il salto di paradigma è totale:
investe la struttura del potere, ma non di meno le logiche che devono guidare, globalmente,
i processi economici e sociali. L’alternativa, tutt’altro che peregrina ma del
tutto suicida, è quello del possibile emergere di egoistici assetti
imperialistici, di un nuovo “colonialismo climatico” che miri ad imporre un
quadro del potere globale non meno diseguale ed ingiusto di quello del
colonialismo classico.
Cap. 4 = History is back! (la storia è tornata!)
“History is back!” non è tanto una provocatoria
risposta alla proclamata “fine della storia” di Francis Fukuyama (politologo
statunitense),
che così celebrava nel 1992 la piena affermazione della globalizzazione
neo-liberista, ma piuttosto la logica conseguenza dell’essere entrati, come si
è detto, nell’era degli “effetti collaterali”. La stessa “metamorfosi del
mondo” è, a ben vedere, l’effetto collaterale dei processi che hanno
caratterizzato la “seconda modernità” (vedi
sopra).
Non è finita la storia, semmai è tramontata la presunzione che il corso reale
degli avvenimenti umani sia il risultato, scientificamente previsto e
programmato, di scelte programmatiche, di politiche e pianificazioni
istituzionali. Queste, nella migliore delle ipotesi, riescono a produrre
ricadute concrete, ma limitate agli ambiti specifici ai quali mirano, mentre,
nel mondo cosmo-politizzato, ben più significativi sono i processi, economici-sociali-culturali,
che, non previsti e quindi non controllati, da esse si attivano autonomamente. Non
è un caso quindi che siano entrate definitivamente in crisi tutte le grandi
costruzioni teoriche che, immaginando un procedere della storia lungo rigidi
binari tracciati da strategie adeguate, sono state sistematicamente smentite
dal loro trasformarsi in qualcosa di ignoto ed incontrollabile. “History is back!”
significa allora che l’attenzione deve spostarsi verso le forme e le modalità
con le quali la storia concretamente si realizza. Anche questo rappresenta un
fondamentale salto culturale ……. per teorizzare la metamorfosi occorre una metamorfosi del
teorizzare. E’ cioè necessario ridimensionare la pretesta
universalistica delle grandi costruzioni teoriche e adottare uno sguardo sul
mondo “a
medio raggio”, in grado di ritararsi costantemente in relazione ai
segnali concreti forniti dalla reale “storia sociale”, coinvolgendo paradigmi finora
considerati validi (ad es. Nord e Sud del mondo,
l’Occidente e gli altri, le istituzioni a base statale, le norme alla base
della democrazia rappresentativa). Ben poco può aiutare il raffronto con
precedenti “forme
di cambiamento “che hanno segnato la storia umana fino alla seconda
modernità. Le tre più significative prese in esame da Beck hanno infatti avuto
caratteristiche ed evoluzione del tutto diverse: quella del periodo, o era, assiale
(cardine) [messa a punto da Karl
Jasper (1883/1969, filosofo tedesco) indica il cambiamento avvenuto tra l’800
ed il 200 a.C. in diverse parti del mondo (Cina, India, Iran, Palestina,
Grecia) nel rapporto tra conoscenza, filosofia, e religione con quest’ultima assurta
a posizione più rilevante] confinata
nell’ambito teologico/filosofico si è rivelata incapace di promuovere veri
cambiamenti nelle strutture sociali ed economiche - quella delle Rivoluzioni = inaugurata
da quella Francese (alla quale, fra Ottocento e
Novecento, sono seguite diverse altre, ognuna con proprie specifiche
caratteristiche),
si è mossa in senso opposto a quella assiale, con una visione fortemente
politica basata su saldi principi valoriali universali, ma è di fatto divenuta
l’incubatrice dei nazionalismi locali - quella del colonialismo = la prima forma di
globalizzazione, di forte stampo imperialistico, offre alcuni elementi di raffronto più calzanti guastati
però dall’essere troppo caratterizzati dall’imposizione forzata, e interessata,
di modelli socioculturali. Appare poi evidente che l’attuale “metamorfosi del
mondo” presenta alcune caratteristiche del tutto originali che
rendono inefficace qualsiasi confronto con quelle del passato:
ü
l’essere la società
globale del rischio = vale
dire (integrando quanto già detto in precedenza) la fine di tutte le certezze che
hanno caratterizzato la prima modernità, e di tutte le sue istituzioni
nazionali, esposte senza difese all’impatto del cosmopolitismo. Non si tratta
di “rischi normali”,
di qualcosa di potenzialmente negativo, il loro essere globali li trasforma
inevitabilmente in “mali”, tanto noti quanto irrisolvibili
nei confini istituzionali classici, innescando così un meccanismo perverso: più la seconda modernizzazione
cresce e più produce “mali”, più questi sono ignorati perché visti come danni collaterali
della modernizzazione, più essi aumentano di dimensione e forza.
ü
l’ottimismo
deterministico tecnologico = ossia il permanere, ed anzi il suo rafforzarsi ogni
qualvolta un ostacolo si frappone, della “fede nel
progresso”,
la fede nel potere salvifico garantito da scienza e tecnologia, nella crescita
economica infinita. Vuoi per reale convinzione, vuoi per crude ragioni di
profitto, ma è evidente che poggia su questa fede, uno dei collanti
fondamentali del processo metamorfico di cosmo-politizzazione e della
generazione dei “rischi globali”. La stessa
resistenza anti-cosmopolita, alla base dei movimenti di ritorno al
nazionalismo, là dove non coglie questo nesso e non diversamente aderisce alla
“fede nel progresso”, evidenzia tutta la sua incongruità e sterilità.
Se quindi la “metamorfosi del mondo” è la
sintesi di questi due processi si rende opportuno capire meglio come essa stia incidendo
sugli aspetti costitutivi della “seconda modernità”.
Parte II
Temi
Cap. 5 = La disuguaglianza ai tempi della metamorfosi
La tendenza all’aumento delle disuguaglianze
economiche e sociali è, da alcuni decenni, un processo consolidato che economisti
e sociologi analizzano sulla base di dati economici, quelli della ripartizione
percentuali della ricchezza prodotta e posseduta (redditi e patrimoni), fotografati su
scala nazionale e globale, incrociati con quelli più sociali (livelli
di istruzione, sistemi di assistenza sociale e pensionistica, accessibilità al
mercato del lavoro, e così via). La fotografia che emerge è indubbiamente
significativa soprattutto se, plasmata su più anni, consente di cogliere
tendenze di medio/lungo periodo. Eppure, nel tempo della “metamorfosi del mondo” rischia
di non cogliere tutte le dinamiche in corso. Da una parte i processi globali
della finanza rischiano di restare troppo a lungo sotto traccia e di essere
colti solo quando si manifestano compiutamente, dall’altra questo tipo di
analisi non rileva in modo adeguato le conseguenze sulla disuguaglianza
prodotte dal processo di riscaldamento climatico, uno degli aspetti costitutivi
della “metamorfosi
del mondo”. Nella “società globale del rischio” è infatti indispensabile,
per comprendere anche l’evoluzione delle disuguaglianze, tenere conto di come,
dove, e su chi, impattano i processi del rischio climatico, e finanziario. Il
concetto di “classe
di rischio” è, in questo quadro, un utile indicatore perché mette in
stretta relazione le posizioni di rischio e quelle di classe, le probabili
ricadute con la collocazione nella struttura socio-economica. Le analisi
economiche e sociologiche classiche tendono,
avendo una logica sostanzialmente “a posteriori”, a cogliere le ricadute,
economiche e sociali, già attivate dai rischi globali, definendo così una “CLASSE di
rischio”. La società globale del rischio impone al contrario, in una
visione dinamica dei processi, di intercettare le “discontinuità” che sulle disuguaglianze
possono derivare dalle “previsioni di rischio” che su di esse gravano,
definendo così una “classe di RISCHIO”. Se la prima consente di
capire “chi
vince e chi perde” quando il cambiamento si è verificato, la seconda,
con carattere anticipatorie, coglie anche le mutazioni che già intervengono
nella struttura delle disuguaglianze per la sola presenza del “rischio di
catastrofe” (per catastrofe si devono intendere non
solo e non tanto i fenomeni estremi, ma anche i processi progressivi di
cambiamento radicale ed irreversibile dell’ambiente e quelli delle economie e
delle strutture sociali ad esso collegate).
Nella prima rientrano, per meglio capire, le conseguenze sulle
disuguaglianze di eventi catastrofici come quello dell’uragano Katrina che nel
2005 ha causato gravissimi danni sulla costa atlantica USA colpendo in
particolare la città di New Orleans (furono infatti colpiti, accentuandone
la sofferenza socio-economica, soprattutto i suoi quartieri “bassi”, quelli
abitati dalla popolazione povera e in gran misura di colore, con molti morti e
con la perdita di abitazioni e attività di lavoro, risparmiando invece i
quartieri “alti” e ricchi), nella seconda invece anche processi di metamorfosi
ambientale, innescati dal cambiamento climatico, che già attivano tendenze di
modificazione della struttura delle disuguaglianze (Beck
cita come esempio la progressiva fine di produzioni agricole, anche di
altissima qualità come quelle delle aree vinicole del Bordolese in Francia, che
stanno modificando importanti fonti di ricchezza). E’ un cambio di
paradigma radicale: nella “metamorfosi del mondo” il cambiamento
climatico assume una più accentuata e diretta valenza di giustizia sociale, diventando
una mutazione che trascina con sé la necessità di modificare modi di analisi e di
previsione, e all’interno di una visione inderogabilmente “cosmo-politizzata”, la catena
dei “saperi”
e delle “responsabilità”
utili per affrontarlo
Cap. 6 = Dove va il potere?
La domanda semplificata nel titolo di questo
Capitolo può essere meglio tradotta in: …..
come
avviene la metamorfosi dell’architettura dei rapporti di potere nella società
mondiale del rischio? ….. Si può
rispondere, secondo Beck, introducendo un nuovo concetto: i rapporti di definizione (del
rischio) come
rapporti di dominio.
Con l’espressione “rapporti di definizione” che indica le
modalità di relazione tra l’intera umanità e chi interviene per sancire
l’esistenza e la gravità di un rischio globale. Un rapporto di autentico potere
che non è più riferibile ai soli “rapporti di produzione” perché coinvolge
soggetti molto variegati come esperti, Stati, organizzazioni nazionali e
internazionali, social media, e le stesse modalità (giuridiche, politiche,
scientifiche, mediatiche) di gestione della “definizione” (globale? locale?
normale? catastrofico?) di un rischio. I rischi globali sono infatti sempre contraddistinti
da un dose variabile di “invisibilità” (scarsa o nulla
consapevolezza diffusa della loro esistenza) che diventa di fatto il terreno sul
quale si articola la catena del potere della loro gestione. Questa invisibilità
può essere “naturale”
(quando il rischio è oggettivamente ancora in divenire) o “artificiale” (quando
il rischio è ormai ben conosciuto ma per motivazioni varie non viene reso a
sufficienza pubblico).
Artificiale, ad esempio, è l’invisibilità, costruita ad arte, della lunga
catena dei rischi associabili all’energia nucleare, alla speculazione
finanziaria, agli organismi geneticamente modificati, alla nano-tecnologia, per
non dire allo stesso cambiamento climatico. Il primo fondamentale gradino per
rimuovere l’invisibilità è quello “scientifico”: perché un rischio, di qualsiasi
natura, sia percepito come tale dall’opinione pubblica e sia adeguatamente affrontato
occorre infatti che preliminarmente sia stato riconosciuto come tale dalla
scienza (compresa quelle economico/sociali). Di norma,
superato questo passaggio, che non sempre avviene immediatamente ed in modo
corretto, tutto il potere di definizione, e gestione, dei rischi confluisce poi
nelle mani di istituzioni ed esperti, non di rado fra di loro divisi da una
linea netta di demarcazione: quella tra “visione globale e visione nazionale”.
Quest’ultima, molto spesso (Beck richiama a questo proposito la
vicenda paradigmatica di Chernobyl, esemplare sotto diversi punti di vista), tende, per
motivazioni di opportunità politica ma con una scelta di corto respiro, a ridimensionare
la portata del rischio (ancora Chernobyl lo dimostra: la sua
gestione da parte dell’URSS accelerò di molto il già avviato processo di
frantumazione politica) ovvero ad imputare il fatto a fenomeni globale non
gestibili a livello locale. Più in generale appare evidente che - se il
raggiungimento della piena visibilità dipende da quali voci intervengono per
informare, spiegare, e attivare adeguate reazioni - storicamente esistono
catene dei “rapporti
di definizione” che, per interessi di vario genere, attuano una
scientifica fabbricazione dell’invisibilità, a partire dal ruolo degli stessi
esperti. La decennale vicenda della gestione mediatica, e non solo, del rischio
nucleare, ne è una esemplare testimonianza, con gli scienziati del settore protagonisti
in una duplice veste: quella degli artefici della ricerca e quella di chi
dovrebbe informare, sempre e sempre correttamente, dei rischi in gioco. Esattamente
opposta è invece la fabbricazione dell’invisibilità per il rischio di
cambiamento climatico avvenuta in ostinata, strumentale, interessata
contrapposizione, soprattutto locale, al parere sempre più consolidato degli
scienziati del clima. In un caso o nell’altro la “metamorfosi del mondo” impone
una “democratizzazione
del rischio”, vale a dire la costruzione di una catena dei “rapporti del
potere di definizione”, simile a quella da tempo creata per quelli
di produzione (ruolo sindacati, istituzioni, partiti) ….. la combinazione tra rapporti di definizione nazionali
superati e politicizzazione globale della scienza porta alla luce situazioni in
cui interessi privati e istituzioni tentano di sottrarsi alla responsabilità
per rischi e potenziali catastrofi ….
Cap. 7 = Catastrofismo emancipativo
Come anticipato nel Cap. 3 in ogni “catastrofe”
che colpisce l’umanità è insita una potenzialità positiva: quella di dover
attivare, in risposta, una adeguata reazione, come, ad esempio, è successo dopo
la tragedia dei due conflitti mondiali del Novecento con la creazione di
organismi globali di mediazione. Le domande che quindi si pongono nell’attuale
“metamorfosi
del mondo” sono: ….. il rischio climatico può innescare una rinascita della
modernità? Può trasformarsi in una “mobilitazione” dell’intera umanità che non
ha precedenti storici? Il procedere dell’attuale metamorfosi, così
come è stato sin qui delineato, non è il risultato intenzionale di deliberate
scelte, ma è il prodotto, in gran misura latente, di altri processi da tempo in
opera mossi da loro specifiche finalità. In questo quadro ogni possibile
catastrofe viola l’idea stessa di esistenza/sopravvivenza della civiltà umana, una
“norma sacra”
non negoziabile che così innesca uno “choc antropologico”, proprio perché è l’idea
stessa di uomo che attaccata, e questo choc può a sua volta, se declinato come
reazione positiva, dare vita ad una “catarsi sociale”. Questa “emancipazione dal rischio” ben difficilmente può
però emergere in modo spontaneo, la si attiva solo grazie ad un adeguato “lavoro
intellettuale”, promosso in prima battuta da “gruppi vettori” capaci di
rendere evidenti i “significati” della possibile catastrofe. La
catena di questi passaggi però non è per nulla acquisita perché spesso chiama
in gioco riconoscimenti di errori e colpe tutt’altro che semplici. Restando ad
esempio nell’ambito del rischio di cambiamento climatico il lavoro
intellettuale che deve promuovere una catarsi sociale implica il pieno
riconoscimento del debito storico che l’Occidente ha accumulato verso le vaste
parti del mondo che ha cinicamente, e per secoli, “colonizzato”.
Cap. 8 = La politica della visibilità
Il rapporto tra “comunicazione”, di ogni tipo e ad
ogni livello, e mondo reale è un aspetto costitutivo della seconda modernità, e
quindi molti sono oramai gli studi che l’hanno analizzato. Beck propone un suo
originale approccio basato su due concetti: quello di “paesaggi della comunicazione” e
quello di “mali
pubblici”, partendo dalla constatazione (che si collega a
quelle del Cap. 6 )
che i rischi globali, pur esistendo in quanto tali nel mondo reale, vengono
percepiti e vissuti solo quando entrano nella sfera cosmopolita della “comunicazione”.
E’ cioè possibile sostenere che lo “choc antropologico” si innesca solamente
quando nel variegato mondo della comunicazione globale entrano “immagini”
di un potenziale rischio …… non è la catastrofe in sé, ma la sua comunicazione
simbolica globalizzata a liberare l’emozione
….. Con “paesaggi
della comunicazione” si deve pertanto intendere l’insieme di
soggetti e procedure di comunicazione che fa da filtro tra realtà e sua
percezione, che Beck, suddivide in due distinti ambiti: quello della “pubblicità del
progresso” contrapposto a quello della “pubblicità degli effetti secondari (rischi)”. Il primo racchiude, su scala in gran misura
nazionale, l’insieme dei dibattiti sulle problematiche, sui successi e sulle
difficoltà connesse alle idee di progresso, di crescita, di futuro. In questo
ambito il rischio è quindi limitato solo ad aspetti intrinsechi a queste
tematiche. Al contrario nel secondo, che si sviluppa di norma su scala globale,
l’attenzione è rivolta agli effetti secondari, ai rischi, ossia ai “mali”, che dal primo ambito possono derivare
su ambiente e società intesi in senso lato. I due ambiti non condividono
strategie comuni e spesso sono persino contrapposti, quello che preme all’uno
può essere di ostacolo per l’altro. Quello che però qui interessa è rilevare
che il “catastrofismo
emancipativo” può attivarsi solo se entra in scena il secondo ambito,
di norma infatti la comunicazione del primo ambito è ispirata dai “beni”
del progresso, solo nel secondo ambito il discorso si volge verso i suoi “mali”
e, conseguentemente, solo in esso la comunicazione diventa uno strumento
fondamentale (collegato al “lavoro intellettuale” di
cui al Cap. 7)
per mutare i “mali
pubblici (ecologici e non)” in nuovi e diversi “beni”
economici e sociali. E’ importante ricordare che per Beck, come si è detto
sopra, il concetto di “mali pubblici” riassume in sé l’aspetto
concreto del male e quello, persino più determinante, della sua consapevolezza
globale. Il ruolo sempre più centrale della comunicazione, definito in questi
termini, va ovviamente riferito alla profonde mutazioni intervenute nell’ultima
parte della seconda modernizzazione con l’avvento della “comunicazione digitale del mondo”
che ha sconvolto la nozione classica di “sfera pubblica”. Gli evidenti vantaggi
comunicativi consentiti dalle nuove tecnologie si scontrano con due ordini di
problemi che sono strettamente connessi alla stessa “metamorfosi del mondo”. Un primo
ordine di problemi è rappresentato dalla loro “proprietà”. La comunicazione
digitale, intesa come reti solide e gestione dei flussi, è totalmente e
saldamente in mano a soggetti privati motivati da innegabili ragioni di
profitto. Aspetto che non può non avere riflessi sulla “partecipazione democratica” in
generale e sulla stessa possibilità di innescare un “catastrofismo emancipativo”. Non
meno rilevante è l’impatto del secondo ordine di problemi, quello della “qualità
comunicativa”. Se il vecchio modello dei mass media basato, come in
un teatro, sulla netta divisione fra attori (i produttori della
comunicazione)
e spettatori (i suoi utilizzatori) non consentiva di
uscire dalla dimensione nazionale, il nuovo modello della comunicazione
digitale ha cancellato questa separazione ….. tutti sono contemporaneamente attori e
spettatori …… La potenzialità positiva sociale di questa mutazione è
stata però molto in fretta annullata dalla bulimia comunicativa messa in moto
dalle infinite potenzialità tecnologiche. La valanga di dati presenti nella
Rete, che impedisce una vera scelta qualitativa, ha di fatto reso lo
spettatore/attore una entità indefinita, impersonale. Il mondo della
comunicazione si è individualizzato, frammentato, in modo estremo. I “dati”
che circolano in questo universo comunicativo non sono più “rappresentativi”
della cosmo-politizzazione, ma sono loro stessi un attore che “la produce”.
Questo “rischio
digitale” non ha solo un evidente riflesso sulle prospettive di
catastrofismo emancipativo, ma sta letteralmente mandando in soffitta molte
istituzioni.
Cap. 9 = Rischio digitale: il fallimento delle istituzioni
Un aspetto specifico caratterizza il rischio
digitale: quello di essere costituzionalmente “invisibile”. Se per tutti i
rischi fin qui esaminati il loro procedere “naturale” implica, prima o poi, la loro “visibilità”,
così non è per quello digitale. Anzi più la possibile catastrofe ad esso
legata, “il
controllo egemonico globale dei dati”, si avvicina e meno è
visibile. Consiste in questa contraddizione, nel suo essere una minaccia “immateriale”,
il principale ostacolo al manifestarsi, come per gli altri rischi “normali”, di
un potenziale catastrofismo emancipativo. In questo caso infatti è molto
improbabile che si manifesti quello choc antropologico che, come si è detto,
può indurre ad una catarsi sociale. La violazione della nostra libertà avviene
in modi impercettibili, eppure essa può incidere su tutte le libertà
individuali e collettive. Il controllo totale delle nostre vite che,
inconsapevolmente, abbiamo sempre più trasferito nella Rete, è ormai molto più
di uno scenario fantascientifico. Per squarciare questo velo possiamo finora
contare solo su fughe di notizie dall’interno (Beck cita in
particolare quella che ha avuto come protagonista Eric Snowden, informatico,
che nel 2013 ha pubblicamente denunciato l’esistenza di un programmi di
controllo di massa, PRISM, messo a punto dalla NSA, l’Agenzia Nazionale di
Sicurezza americana, presso la quale lavorava). I complessi meccanismi specifici
alla base del controllo globale dei dati rientrano nel più generale processo di
ritiro dello Stato, in tutte le sua articolazioni, da funzioni fino a non molto
tempo addietro di sua esclusiva competenza con conseguente vantaggio del “ruolo del
privato”, che come si appena detto già possiede l’intera Rete. E’
questo il peccato originale, molto difficilmente emendabile stante questa
totale “invisibilità”,
che ha comportato il totale fallimento delle istituzioni nel compito di
gestione e controllo dei meccanismi di accumulo dati informatici. Hanno fallito
le istituzioni nazionali, totalmente spiazzate dalle caratteristiche globali
della Rete, e quelle sovranazionali che non detengono alcun reale potere in
merito. Se con il termine “rivoluzione digitale” si intende il
cambiamento sociale innescato, su scala globale, da una incontrollata tecnologia,
quello di “metamorfosi
digitale” può allora indicare l’insieme di effetti collaterali che
tale rivoluzione sta creando. I quali, a loro volta, danno vita ad una umanità
metamorfizzata nella figura degli “uomini digitali”, esistenze che stanno
cancellando il confine fra “on-line” e “off-line” per entrare in una
realtà ancora tutta da comprendere.
Cap. 10 = La nuova politica globale cosmopolita
La metamorfosi digitale rappresenta il
miglior esempio per comprendere che la più generale “metamorfosi del mondo” non può rappresentare,
proprio per il suo essere in gran misura determinata dal gioco degli effetti
collaterali, un destino già compiutamente scritto. Nella zona di penombra tra l’era nazionale
che sta morendo e l’era cosmopolita che sta nascendo possono
prendere corpo prospettive emancipative piuttosto che peggiorative. Sono due i
casi esemplari presi in esame da Beck per avvalorare questa constatazione:
Ø
la metamorfosi della
politica europea = la
costruzione della UE fin qui avvenuta evidenzia un ibrido metamorfico in
trasformazione continua e contraddittoria. E’ tutto da scrivere il finale del
processo di crescente cooperazione ed integrazione di Stati-nazione ancora
fortemente legati alla propria storica identità. La loro metamorfosi verso
forme unitarie di governo con progressiva cessione di potere nazionale è figlia
di una iniziale scelta valoriale - la cui realizzazione ha, sin qui, innescato
molti “effetti collaterali”, tanto imprevisti quanto difficili
da governare – che non è stata confortata da un adeguato dibattito pubblico e
da coerenti procedure decisionali, essendosi concretizzata attraverso decisioni
giuridiche in forma di “trattati”. Alla definizione giuridica, non
poco controversa là dove la scelta unitaria è entrata in conflitto con le
costituzioni nazionali (situazione non poco
aggravata dal costante e controverso allargamento della UE), non si è accompagnata una pari “teoria politica dell’Europa Unita”. Non ha poi aiutato la contraddittoria
divisione dei poteri e delle competenze delle stesse istituzioni europee, a
partire dalla BCE (Banca Centrale
Europea) e dal
rapporto tra Parlamento Europeo e Consiglio Europeo (riunisce Capi di Stato - Primi Ministri delle singole
nazioni). Emerge da
questo quadro un processo metamorfico incompleto e fragile, che da una parte
vede la “farfalla” UE ancora in divenire e dall’altra il “bruco”
Stato-nazione tutt’altro che scomparso per quanto ormai in via di mutazione.
Una metamorfosi “a metà” che non poco incide sulla capacità
dell’Europa Unita di governare al meglio i tanti effetti collaterali, sia
quelli suoi specifici sia quelli globali
Ø
La Cina e la
metamorfosi pianificata = La Cina rappresenta l’esatto opposto. Tanto complessa,
confusa e contraddittoria, è la metamorfosi europea, tanto è definita,
controllata e pianificata, quella cinese. Beck lo afferma ricostruendo (sulla
base delle prese di posizione del “Quotidiano del popolo”, la voce pubblica del
Partito Comunista Cinese) il percorso storico
dell’atteggiamento della Cina verso il processo di cambiamento climatico.
Nell’arco degli ultimi cinquant’anni si è assistito ad una progressiva
mutazione: in una prima fase in piena Rivoluzione Culturale (attuata dal 1966 da Mao Tse-tung per
modificare radicalmente la struttura del potere politico cinese) ad un iniziale categorico
rifiuto dell’esistenza del rischio è seguita una parziale ammissione, con l’intera
colpa attribuita al capitalismo occidentale, e poi un secondo silenzio sdrammatizzante
dei primi evidenti segnali di problematiche interne (ancora all’insegna del motto “il
socialismo è l’antidoto al disastro). In una seconda fase, Rivoluzione Culturale finita, si
passa ad un aperto riconoscimento del rischio, globale e nazionale, che,
confidando nella forza della scienza cinese, chiama tutto il popolo cinese a
sostenere le politiche del governo (se NOI non facciamo qualcosa le conseguenze saranno gravi, così
citava lo slogan prevalente) e mantenendo forte la critica verso i paesi capitalisti.
Questa vicenda cinese dimostra che in un contesto istituzionale di forte ed
esclusivo accentramento del potere la stessa “metamorfosi del mondo” potrebbe essere
gestita, se non pianificata, e quindi piegata a ragioni di potere politico
interno.
Cap. 11 = Comunità di rischio cosmopolite
A mezza strada fra la dimensionate globale e
quella nazionale, investite, come si è visto, in modo diseguale dalla
metamorfosi del mondo, si è progressivamente venuta a collocare una terza
dimensione che sembra potenzialmente in grado di vivere in modo diverso l’era
dei rischi globali: quella rappresentata dalle grandi megalopoli, dalle grandi
città mondiali. Le quali sono i contesti ambientali più esposti a molti dei
rischi legati al cambiamento climatico e, al tempo stesso, strutture
urbanizzate, capaci di ospitare svariati milioni di cittadini, nelle quali si
concentrano risorse, competenze, esperienze, centri di eccellenza, che di
fatto, in molti casi, già travalicano la dimensione nazionale. Le “città mondiali”,
sociologicamente definite da Beck come “comunità di rischio cosmopolite”, si stanno
infatti rivelando un laboratorio avanzato sia per lo “shock antropologico” che per la
“catarsi
sociale” che si sta muovendo sulla strada della comprensione della
dimensione cosmopolita ad un velocità ben maggiore di quella degli Stati
nazionali. E’ in questo soggetto che si possono cogliere importanti segnali di
sensibilità verso un possibile “catastrofismo emancipativo”. Una sensibilità
che si sta concretizzando nella condivisione delle rispettive esperienze e
nella definizione di comuni progetti migliorativi. Non si può già parlare di una vera e propria
rete, così come non si possono omogeneizzare più di tanto situazioni molto
diverse tra di loro (un conto sono le megalopoli
tecnologizzate dell’Occidente un altro quelle delle “favelas” di molte
situazioni del Sud del mondo), ma quel che è certo che la messa a
fattore comune, lungo percorsi ancora informali e non istituzionalizzati (ad
esempio delle politiche di trasformazione delle modalità di traffico urbano) può rappresentare
l’inizio di un importante processo di ridisegno istituzionale che potrebbe
avere notevole incidenza sul procedere della metamorfosi del mondo. ….. le alleanze tra
metropoli sono i nuovi spazi della speranza climatica, nessun altra forma di
aggregazione è meglio attrezzata per sperimentare, inventare e realizzare, le
nuove architetture di decisione politica
…..
Parte III
Prospettiva
Cap. 12 = Generazioni del rischio globale
La metamorfosi del mondo
non viene certamente vissuta allo stesso modo dalle diverse generazioni.
Quelle più giovani, un mondo a sé non poco variegato e complesso, sono
sicuramente quelle che di più si stanno confrontando con la frattura che
attraversa questa fase metamorfica fra la dimensione nazionale, per loro rappresentata
dai punti di riferimento familiari, scolastici e sociali in genere, e quella
globale, che comprende il loro vasto mondo dei social. Se quindi esiste una “generazione
della metamorfosi” occorre però al contempo chiedersi se sia in
corso anche una “metamorfosi
della generazione”, per farlo Beck introduce il concetto di “generazione del
rischio globale”. Il modello fin qui consolidato di rapporto
generazionale in grado di assicurare una certa stabilità sociale e politica era
basato sulla trasmissione di saperi e culture dalle vecchie alle nuove
generazioni. L’irruzione della rivoluzione digitale (o
meglio ancora della metamorfosi digitale,
vedi Cap.9)
ha stravolto questo modello, ed uno dei suoi più importanti effetti collaterali
è rappresentato dalla sua sostituzione con il mondo tecnologizzato della
comunicazione e dei social. Paradossalmente sono sempre di più le attività
ordinarie, i campi del vivere quotidiano, in cui sono le nuove generazioni, già
nate e cresciute come “esseri digitali”, che “insegnano” a quelle più anziane.
Questa metamorfosi
della generazione non può non
tradursi in situazioni di conflitto inter-generazionale. Là dove i linguaggi, i
punti di riferimento e di visione sul mondo, sono alternativi diventa
oggettivamente difficile il dialogo, la reciproca comprensione, al punto da
rendere incolmabile la frattura fra le rispettive idee di “cultura”, di “coscienza del
mondo”: le vecchie e le nuove generazioni, pur essendo
contemporanee, non vivono “nello stesso tempo”. Questa distanza
generazionale è inoltre resa ancor più complessa dalla diversa velocità con le
quale le diverse aree del mondo sono interessate dalla metamorfosi: il divario
fra Occidente e “resto
del mondo” consiglia prudenza nell’omogeneizzare globalmente questa
frattura generazionale (Beck già nel 2009 aveva introdotto il
concetto di “costellazioni generazionali”). Incidono la
diversità di condizioni economiche, e di disuguaglianze, delle relative aspettative
di cambiamento, del livello di istruzione e del suo rapporto con il mondo del
lavoro. La conseguenza che deriva da tutto ciò è che anche nelle ultime
generazioni la divisione fra le diverse parti del mondo implica un differente
rapporto con la seconda modernità: vissuta con una certa insofferenza dalla
parte “ricca”
della costellazione generazionale, e al contrario ancora sospirata da quelle “povere”.
Se la “metamorfosi
della generazione” resta elemento fondamentale per la comprensione,
e la conseguente gestione, dell’intera “metamorfosi del mondo”, uno sguardo davvero
cosmopolita fa comprendere che la “disuguaglianza globale e locale” rappresenta
un tema chiave del futuro perché (come si è visto nel Cap. 5) resta ancora il
terreno comune, per quanto da ogni generazione vissuto a modo suo, per
affrontare la complessità dell’era del rischio globale.