giovedì 1 settembre 2022

La Parola del mese - Settembre 2022

 

La parola del mese

Una parola in grado di offrirci

 nuovi spunti di riflessione

SETTEMBRE 2022

E’ un termine di conio relativamente recente - introdotto in campo filosofico a fine 700 per indicare il rischio per la ricerca filosofica di ridursi a pura astrazione - e infine utilizzato in senso più ampio nel linguaggio corrente per indicare atteggiamenti, individuali e collettivi, rinunciatari, se non distruttivi e autodistruttivi, verso ogni aspetto del vivere sociale che derivano dal rifiuto della stessa esistenza di valori e istituzioni comuni. In questa accezione, a partire dal primo Novecento, è quindi da molti usato per indicare un modo di essere e di pensare in qualche modo connaturato con l’intera modernità occidentale.

Nichilismo (nihilismo)

Nichilismo (nihilismo) sostantivo maschile, derivato dal francese nihilisme, a sua volta dedotto dal termine latino nihil (niente) = Inizialmente introdotto, nella forma tedesca nihilismus, negli ultimi decennî del sec. 18° per indicare l’esito di ogni filosofia che voglia tutto dimostrare, costretta, quindi, a tutto dissolvere in pure e vuote astrazioni; più in generale, denominazione moderna di un atteggiamento ricorrente secondo il quale, una volta stabilita l’inesistenza di alcunché di assoluto, non ci sarebbe alcuna realtà sostanziale sottesa ai fenomeni di cui pure si è coscienti, risultando quindi l’intera esistenza priva di senso. Particolare rilevanza ha avuto nella letteratura russa della seconda metà dell’Ottocento (soprattutto nei romanzi di Turgenev e di Dostoevskij) per indicare comportamenti tipici dei giovani intellettuali piccolo-borghesi, improntati a un’entusiastica fiducia nella scienza, a un’accettazione del materialismo e del positivismo come strumenti polemici contro ogni forma di cultura tradizionale con esiti di individualismo esasperato, di anarchismo, di immoralismo. Ripreso e approfondito da Nietzsche nella cui opere designa la presunta inarrestabile decadenza della cultura occidentale greco-cristiana, e insieme la denuncia di questa decadenza e la distruzione teorica e pratica dei valori della tradizione. Per estensione, e al di fuori di contesti filosofici, il termine definisce in tono polemico atteggiamenti o comportamenti ritenuti rinunciatari oppure volti alla distruzione di qualsivoglia istituzione o sistema di valori esistente

Estratto dalla definizione del Vocabolario on-line Treccani

 «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l’avvento del nihilismo. Questa storia può essere raccontata già oggi, poiché qui è all’opera la necessità stessa. Questo futuro parla già con cento segni, questo destino si annunzia dappertutto: tutte le orecchie sono già ritte per questa musica del futuro. Tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso una catastrofe inquieta, violenta, precipitosa; come un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare». -  F. Nietsche, “Frammenti postumi” 1885-1887

Il “successo” di nichilismo come chiave di lettura della modernità, a conferma di questa profezia nicciana, è tale da essere ormai utilizzato in modo strumentale come accusa e condanna verso ogni posizione critica non allineata ai modi di pensare dominanti. Come a dire che chi non ne condivide i valori, o presunti tali, è inesorabilmente classificato come nichilista. Ma al di là di questa esasperazione strumentale alcune domande sembrano restare lecite: davvero il nichilismo definisce la cifra dei nostri tempi? siamo davvero definitivamente entrati, perlomeno in Occidente, in una fase storica priva di ideali, di tensioni positive? l’attuale nichilismo, che appare così diffuso e pervasivo, è ancora quello di Nietzsche? Domande complesse che non possono certo avere risposte adeguate nel modesto spazio della “Parola del mese”, ma una prima modesta riflessione vale la pena di essere tentata. Lo facciamo seguendo come guida un recente saggio che si propone di rispondere esattamente a queste domande


del filosofo Costantino Esposito (1955, insegna Storia della filosofia presso l’Università di Bari)


In questo suo saggio Esposito esplora infatti il nichilismo dei nostri giorni per capire se la profezia di Nietzsche si è compiutamente realizzata, se davvero ha assunto il carattere di una “catastrofe inquieta, violenta, precipitosa”, o se le grandi trasformazioni intervenute in questi ultimi decenni hanno in qualche modo inciso su di esso. Fin dalla prefazione la sua tesi è esplicita: il nichilismo, dopo essere esploso ad inizio Novecento nella forma iconoclasta e titanica di Nietzsche si è via via trasformato da “patologia” in “fisiologia” della cultura occidentale tanto da non consistere più solamente in una perdita di valori e di ideali e da aver invece assunto la forma di un “bisogno”, quello di un significato vero per il nostro stare nel mondo.

 

E’ opportuno precisare, per meglio seguire la sua riflessione, che questo saggio ha recuperato e integrato una serie di interventi pubblicati, con titolo di “Cronache dal nichilismo”, sull’Osservatore Romano (quotidiano e sito web della Città del Vaticano) con il quale Esposito collabora assiduamente in coerenza con la sua personale fede peraltro vissuta, personalmente e professionalmente, in modo totalmente libero e aperto. In tutto il saggio emerge quindi con evidenza una tensione religiosa vista e proposta come possibile via di uscita dal nichilismo del nostro tempo. Nel pieno rispetto di questa sua propensione questa sintesi si concentra però, coerentemente con le domande che l’hanno sollecitata, sulle parti di analisi ed interpretazione del fenomeno nichilista

Esposito inizia il suo viaggio nel nichilismo del nostro tempo citando il magnifico libro di Corman McCarthy “La strada” (un padre ed un figlio che, in un mondo sconvolto da una catastrofe, intraprendono un duro viaggio - lungo una strada piena di pericoli e delle brutture di una umanità ormai priva di senso e direzione – per raggiungere un possibile futuro), il senso e lo scopo di questi due viaggi sono infatti identici. Quello nel nichilismo del nostro tempo si snoda lungo un paesaggio che sembra essere segnato dalla sua definitiva, totale, vittoria Ma è una strana vittoria, perlomeno non sembra più essere quella, terribile e stravolgente, intuita da Nietzsche, che segnava l’arrogante avvento di un “nichilismo attivo” ebbro della potenza umana. Sempre più si infittiscono segnali che fanno invece pensare ad un “nichilismo passivo”, ad un “declino e regresso della potenza dello spirito”. Se la protagonista del primo era una umanità che si proponeva di rovesciare l’ordine del mondo, quella del secondo è semmai una umanità con le sembianze di un “tranquillo prodotto della società dei consumi”. Ma è proprio in questa strana vittoria che il nichilismo torna ad essere un problema seppure in mutate forme. Quella che poteva essere la catastrofica vittoria di un delirio di potenza sembra essere divenuta l’apatica rassegnazione al vuoto, nella quale semmai brillano fievoli luci dell’emergere di un “bisogno”. Ancora una volta la narrativa può aiutare a capire: Michel Houellebecq nel suo “Serotonina” racconta di un uomo che, in pieno razionale delirio nichilista, ricorre a questo farmaco per annullare il proprio io, a partire dal suo istinto sessuale, salvo poi scoprire che altro, l’amore “vero” di una donna, è ciò che perdeva. Sono fievoli luci, deboli segni, che dobbiamo guardare con attenzione per comprendere il nichilismo del nostro tempo, ma è lì che si nasconde il vero vuoto di senso che non è più solo perdita di valori e ideali, ma il bisogno di un bisogno. Può bastare a ben indirizzare questo sguardo la nostra intelligenza? No, se per intelligenza intendiamo una sorta di “pilota automatico” che, sulla base di dati, trova per ogni problema la soluzione più semplice, non diversamente quindi dal modo di procedere della IA, dell’intelligenza artificiale. Non solo questa idea di intelligenza non aiuta, ma proprio in essa si nasconde una delle caratteristiche tipiche del nichilismo contemporaneo: più ci si affida al calcolo computazionale, più la soluzione dei problemi si ottiene con “organizzazione tecnica dei dati”, e più diventa sfuocato il significato vero della conoscenza. Il punto critico in una società ipertecnologica non consiste certo nella quantità di dati disponibili, di “saperi” su cui contare, ma nel saper porre le giuste domande. Avere questa consapevolezza non aiuta solo a meglio districarsi nella valanga ingestibile dei Big Data, ma cauterizza dal rischio di non sapere dove indirizzare la nostra sete di conoscenza e di ritrovarsi alla fine più poveri di senso della realtà. L’attuale nichilismo si nutre anche di questa intelligenza monca, che separa conoscenza, ed i suoi modi di realizzarsi, dai nostri “desideri” ultimi, più intimi, che, come il protagonista di Serotonina, non sappiamo più individuare. Questo separazione segna in effetti una sorta di capovolgimento del nichilismo: quello vaticinato da Nietzsche nasceva come reazione, come opposizione, alla pretesa del positivismo scientifico di inizio Novecento di spiegare il mondo grazie ai dati empirici forniti dal progresso scientifico, oggi esso nasce proprio come esito  del predominio, ormai compiutamente affermato, della conoscenza tecno-scientifica: più questa cresce - al punto da non limitarsi più alla sola realtà data, ma a  crearne una parallela – e più esso a sua volta cresce. Un aspetto è rimasto però fermo nell’evoluzione nichilista: il vero senso della “morte di Dio”, la formula con cui Nietzsche definisce la crisi di ogni trascendenza religiosa o morale. Una crisi che semmai sembra essersi accentuata nell’attuale epoca della “performance”, dell’affermazione di sé come immagine vincente, un’autentica illusione individuale e collettiva che inevitabilmente si traduce in un fallimento, di cui spesso non si ha neppure piena consapevolezza, tale da produrre quella “cultura dello scarto” con cui papa Francesco individua uno dei problemi più drammatici del nostro tempo. Esposito affronta questo paradosso nichilistico proponendo, ma a nostro modesto avviso troppo velocemente e troppo sinteticamente, alcune ponderose considerazioni di ordine filosofico e psicologico attorno ai concetti di “immanenza/trascendenza”, di “finito/infinito”, di “volontà/potenza”, di “pulsioni/freni”, di “biopolitica”, “carne/spirito”, citando in rapida successione pensatori come Gilles Deleuze, Spinoza, Leopardi, Cartesio, Schopenhauer, Freud, Foucault, Agamben, Julian Carron, che ci sono parse al tempo stesso tanto stimolanti quanto troppo dense per poter essere anche soltanto accennate in questa sintesi. Ci limitiamo quindi a recuperare il suo citare due pittori, di epoche e stili totalmente contrapposti, Francis Bacon (1909-1992, pittore irlandese) e Raffaello Sanzio (1483-1520, pittore del Rinascimento italiano) che - il primo dipingendo corpi smembrati, carni esposte ed urlanti, il secondo cesellando la perfetta compostezza degli incarnati dei suoi ritratti - hanno a modo loro raccontato la stessa sottile linea che divide tutti quei concetti e nella quale si annida la genesi del nichilismo. Ed è proprio lungo questa sottile linea che la recente pandemia ha insinuato nuove domande e nuovi dubbi che consentono di mettere meglio a fuoco il nostro sguardo su quello del nostro tempo. L’irruzione della riacquisita consapevolezza della nostra “finitudine” (nostra “Parola del mese” di Febbraio 2021 basata sul bel libro di Telmo Pievani con titolo omonimo), l’idea cioè di una nostra finitezza” non riducibile al solo “memento mori”, ha investito in pieno la presunzione nichilista di poter fare a meno delle risposte ultime nel nostro modo di affrontare vita e realtà.  E ha prepotentemente richiamato in causa quella “angoscia” che secondo Heidegger (1889-1976 filosofo tedesco) sempre coglie l’uomo, soprattutto quello moderno così presuntuosamente ricco delle presunte certezze fornite dalla “tecnica”, allorquando viene colto dallo spaesamento di fronte al permanere del “mistero”. Se lo sguardo nichilista sul mondo, come la pandemia ha dimostrato, può tutt’al più, e già entrando in crisi anche solo per questo, cogliere la finitezza del “memento mori”, una consapevolezza alternativa, che qua e là si è manifestata nutrita dall’idea della finitudine che tutto avvolge, richiama in gioco l’esatto opposto: quello “dell’essere (ri)nati”. E’ l’idea di natalità, di un mondo che costantemente si rinnova, ri-nasce, che per Hanna Arendt (1906-1975, filosofa e politologa tedesca poi naturalizzata statunitense, la cui opera è spesso, e non a caso, in contrapposizione ad Heidegger con il quale ebbe una lunga relazione intellettuale ed amorosa, prima di una netta rottura) è il tratto caratterizzante del nostro essere al mondo capace di riaprire spazi alle domande che il nichilismo sembrava aver definitivamente chiuso. Ed il ritorno sulla scena del “mistero”, drammaticamente imposto dalla vicenda pandemica, non ha soltanto assestato un duro colpo alle presunte certezza dell’era tecnologica, ha anche dimostrato che la realtà consiste in qualcosa di più delle sue “misurazioni”. Lo shock che l’umanità ha vissuto durante la pandemia, dovuto all’improvvisa consapevolezza che non tutto è immediatamente chiaro, conoscibile, quantificabile, ha in effetti ridato centralità all’idea di “mistero”, un concetto che chiama in gioco qualcosa che non è immediatamente riducibile alla potenza della ragione umana.  Esposito rafforza questa constatazione, che sembra porre in crisi una delle spiegazioni del nichilismo originario, citando i famosi “tagli” sulle tele di Lucio Fontana (1899-1967, pittore e scultore italo-argentino), fenditure che mostrano la dimensione misteriosa della vita, c’è sempre qualcosa oltre e dietro, ma non sappiamo cosa, ed al tempo stesso la natura reale ed insopprimibile del mistero. Nel saggio di Esposito seguono a questa irruzione del mistero, ed il suo spiazzare la propensione nichilista, riflessioni sulla natura del nichilismo del nostro tempo collegate ad alcuni concetti base:

Ø certezza” e “verità” = Ambedue questi concetti sono di fatto negati dal pensiero nichilista che li considera presunzioni pericolose se non pretese impossibili, un atteggiamento che peraltro trova sponda nella fisiologica diffidenza verso la possibilità di determinarli sulla base delle ordinarie modalità di conoscenza proprie dell’intera storia culturale umana. Non a caso quindi un filone importante del dibattito filosofico novecentesco si è sviluppato proprio attorno ad essi. Il famoso aforisma anti-positivista di Nietzsche, ancora lui!, “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni” ha infatti dato origine ad una lunga traiettoria che, passando per Heidegger e Gadamer (1900-2002, filosofo tedesco, la cui opera più rilevante non a caso titola “Verità e metodo”) è arrivata, verso la fine del secolo, a coinvolgere in posizioni di rilievo due filosofi torinesi: Gianni Vattimo, che con il suo “pensiero debole” nega la possibilità di acquisire certezza e verità facendo totalmente sua la massima di Nietzsche, e Maurizio Ferraris, che con il suo “nuovo realismo” ritiene, in netta contrapposizione, che con il ritorno ai “fatti” siano ambedue recuperabili alla conoscenza umana. In qualche modo ne è comunque conseguito lungo tutto il Novecento un alone di dubbio culturale che, coniugato al venire meno dei grandi sistemi teorici politici e alle crescenti difficoltà sociali ed economiche, non poco ha contribuito a creare un sentimento diffuso di “incertezza” che sembra avvolgere l’attuale modernità. Ne sono convinti Zygmunt Bauman (l’incertezza del tempo attuale è infatti alla base del suo concetto di “retrotopia”, un’utopia che non guarda più al futuro, perché indecifrabile, ma al passato, a ciò che già avvenuto può rassicurare. Retrotopia è stata la nostra “Parola del mese” di Novembre 2017) e Ulrich Beck (teorico della “società del rischio” e della collegata “Metamorfosi del mondo”, nostro ultimo Saggio del mese). Se è allora forte il rischio che il nichilismo trovi in questa, al momento irrisolta, temperie continuo conforto ed alimento, non sembra però adeguata, perché non concretamente spendibile, la proposta di Esposito di riesumare l’idea di certezza/verità elaborata da John Henry Newman (1801-1890, filosofo e teologo inglese) nel suo testo “Della certezza”, successivamente ripresa e perfezionata da Wittgenstein (1899-1951, filosofo tedesco), così riassumibile: la certezza umana è la percezione di una verità accompagnata dalla percezione “che è una verità”

Ø felicità” = altro concetto in qualche modo indigesto per il pensiero nichilista, da una parte appiattito sulla dimensione relativista del momento e dall’altra, dopo le tragedie del Novecento, orientato al mantenimento di ordine e, presunte, confortanti certezze. Può sembrare paradossale questo orientamento perché una delle micce che hanno fatto scoppiare il nichilismo contemporaneo è consistita in quella che Nietzsche ebbe a definire “inimicizia fra dovere e felicità”, ma è pur vero che là dove, e quando, questa viene a mancare diventa inevitabile accontentarsi, avendo rinunziato a valori e ideali, a ciò che l’ordine sociale e gli standard culturali possono comunque offrire.

Ø il nulla” = “Perché vi è qualcosa piuttosto che nulla?”, questa è la domanda, a prima vista assurda e superflua, che si pone Leibniz (1646-1716, filosofo e scienziato tedesco). Ed è una domanda che dai filosofi greci fino a quelli contemporanei, Heidegger in testa, ha sempre accompagnato il pensiero umano. Moltissimo ci sarebbe quindi da dire al riguardo ma - se non ci si limita ad intendere il nulla come il non essere più di qualcosa che prima era e il non essere ancora di qualcosa che sarà, - su una considerazione comune sembrano convergere le varie idee su di esso: che lo stesso concetto dell’essere, dell’esistenza in generale di qualcosa, si regge sulla contrapposta, ma non paradossale, esistenza del concetto di “nulla”. Di questo “nulla”, nulla sa il nichilismo che, disinteressato a tutto ciò che può dare significato alle cose, si (auto)limita a misurare e gestire tecnicamente la realtà. Il nulla, ancora una volta non paradossalmente, può allora essere il concetto che di più può fare da grimaldello alla sua invasività

Ø il desiderio di vero” = nel pensiero nichilista non si annida soltanto il rifiuto della verità di cui si è già detto. L’iniziale urlo nicciano di respingimento del concetto di vero (“io per primo ho scoperto la verità, perché per primo ho sentito la menzogna come menzogna!!!!”- Nietzsche “Ecce homo” 1888) si è via via trasformato in un autentico rifiuto della ricerca di verità, di negazione del desiderio di vero. Ed è innegabile che il possesso di verità, pur con tutte le pregiudiziali viste in precedenza, è possibile solo se lo si ricerca, se lo si desidera. La rinuncia nichilista al vero si è reso possibile perché non hanno avuto compimento le due prospettive che accompagnavano quell’urlo di Nietzsche: la liberazione delle pulsioni umane affrancate, slegate, dal raggiungimento della verità e l’identificazione di quest’ultima con l’accettazione [che molto deve al pensiero di Spinoza (1632-1677, filosofo olandese di origine ebraica)] di un mondo, di una realtà, in cui tutto ritorna esattamente uguale nella fusione nel Dio natura. Se neppure in questo originario scarto nichilista una verità è rintracciabile a che serve ancora il ricercarla, il desiderarla? E’ forse questo lo scalino più arduo da superare nel confronto con il nichilismo del nostro tempo

Ø il dovere” = un tratto caratteristico della cultura nichilista consiste nel rifiuto del “dovere” come valore alla base dei rapporti collettivi che non poco contribuisce ad alimentare la tendenza al “relativismo” culturale ed etico. Senza cadere in inutili generalizzazioni sembra però possibile sostenere che, nell’epoca nichilista, i legami sociali ben poco  poggino sull’accettazione di comuni doveri collettivi, a fronte di una dilagante ricerca di riconoscimento per i diritti, o presunti tali, connessi alla escludente sfera individuale (Esposito apre al riguardo una parentesi non adeguatamente approfondita e quindi di non  semplice accettazione: a suo avviso siamo entrati in una fase in cui è l’ideologia dei diritti che crea i soggetti a cui applicarli, e non il contrario). Quella che il nichilismo ha svelato come oggettivamente superata è in effetti l’intera impalcatura dei legami sociali basati principalmente sull’obbligo morale di riconoscimento dei doveri che si è snodata nella modernità da Kant (1724-1804, filosofo tedesco) fino a Weber (1864-1920, sociologo tedesco) partendo dalla stessa concezione illuministica di un “dovere universale” che guarda all’umanità nel suo insieme al di sopra del singolo individuo. La caduta di questi principi a lungo considerati assoluti ha capovolto, aprendo la breccia al relativismo, i termini del rapporto individuo-valori, con quest’ultimi condannati a dover dipendere dal primo. Fino al punto di rendere davvero sterili i tentativi di recupero se limitati a riproporre il “dovere verso i doveri” comandato da una ragione, sempre meno individuabile ma superiore all’individuo. Per battere il nichilismo su questo cruciale piano occorre forse rivedere l’intera storica catena culturale di individuazione, accoglimento e trasmissione generazionale di valori e collegati doveri, un processo non semplice in un’epoca di continuo sconvolgimento tecnologico.

E proprio l’assetto tecnico/tecnologico, tratto ormai costitutivo della contemporaneità, rappresenta uno dei due ultimi aspetti che concorrono, secondo Esposito, a formare il quadro del nichilismo del nostro tempo. Era già così al tempo della prima grande esplosione nichilista di inizio Novecento, allorquando Nietzsche intuisce bene che, con l’avvento della tecnica, quello passivo, inizialmente sorto come reazione all’egemonia culturale positivista, si stava trasformando in quello attivo della catastrofe da lui vaticinata. Una intuizione confermata nei decenni successivi da Ernst Junger (1895-1998, scrittore e filosofo tedesco); nei suoi lucidissimi racconti, dall’interno, delle logiche militari della Grande Guerra emerge con nitidezza come la tecnica da una parte moltiplichi la potenza dell’uomo e dall’altra lo renda sempre più superfluo, bastando da sola a sé stessa. Consiste proprio in questo “bastare a sé stessa” della tecnica il suo tratto nichilistico, così come ha messo definitivamente in luce Heidegger là dove denuncia che essa da tempo ha smesso di essere un semplice “mezzo” per divenire il modo costitutivo di rapportarci al mondo degli “enti”, all’intera realtà. Precisa poi Heidegger (il nostro “Saggio del mese” di Maggio 2021, “Heidegger e il nuovo inizio” di Umberto Galimberti affronta esattamente questi aspetti) che l’impronta nichilista della tecnica è poi vieppiù accentuata dall’essere una conseguenza non casuale della svolta filosofica che, a partire da Platone, ha separato “l’essere” dell’uomo “dall’essere” di tutti gli altri enti. Fino a denunciare che proprio la rinuncia nichilista a valori e idealità è l’esatto prodotto dei valori e delle idealità della filosofia occidentale. L’impressionante, ed in nessun modo regolato e governato, sviluppo tecnico/tecnologico di questi ultimi decenni ha poi definitivamente inglobato in queste sue logiche ogni aspetto del vivere umano tanto da rendere indispensabile ed urgente una sua vera gestione. Non bastano l’adozione di limiti e protocolli così come suggerito da Luciano Floridi (il suo “Pensare l’infosfera” è stato il nostro “Saggio del mese” di Maggio 2020) e lasciano molti dubbi e perplessità le proposte di Maurizio Ferraris di  considerare l’era della tecnica come la dimensione ormai ordinaria, ontologica, dell’uomo contemporaneo (così come scrive nel suo libro “Mobilitazione totale” del 2015) piuttosto che di Alessandro Baricco di accettare la sfida, ormai inaggirabile, lanciata dal “game” tecnico/tecnologico (“The game” è infatti il titolo del suo libro del 2018 su questi temi). Se ambedue queste proposte immaginano di annullare il potenziale nichilista del dispositivo tecnico/tecnologico disinnescando a monte le domande sul suo senso (all’insegna del pirandelliano “così è se vi pare”) ambedue però presuppongono come protagonista un soggetto, un “io”, capace di governare positivamente vuoi l’adattamento vuoi la sfida. Così non sembra essere, lo dice il tormentato processo di disgregazione dell’io contemporaneo, l’ultimo tassello del puzzle “nichilismo del nostro tempo” proposto da Esposito. La sua novecentesca parabola ha infatti prodotto un soggetto che è l’esatto opposto del (presunto) temerario nichilista capace di stare al mondo, e di governarne ogni processo, senza la stampella di ideali e valori. Esposito racconta questa involuzione affidandosi (in riflessioni ancora una volta forse un poco troppo frettolose rispetto ai temi esaminati) alle “Lezioni americane” di Italo Calvino sulla “visibilità” e sulla “leggerezza” (per evidenziare l’assenza di sguardi sul mondo che sappiano vedere, con il giusto coinvolgimento, anche ad occhi chiusi), a Nathan Zuckerman, l’alter ego di Philip Roth, nel suo confessarsi nel romanzo “La controvita” (dove afferma di non possedere un solo “sé stesso”, ma di sentirsi dentro una intera troupe di attori ognuno con il suo ruolo), a Daniel Dennett, Antonio Damasio (autore della recente “Parola del mese” di Giugno 2022 “Coscienza”), Oliver Sacks (per illustrare alcuni meccanismi della coscienza umana), e poi ancora ad Agostino da Ippona, a David Hume e, va da sé, a Nietzsche. La conclusione comunque conferma che il secolo nichilista ci consegna un “io” indebolito, privo di consapevolezza, un protagonista mancato, un soggetto che ha costante necessità di riaffermarsi, di ridefinirsi rispetto al nulla che ha, molto poco consapevolmente, creato attorno a sé. Certo non all’altezza di quello che propongono Ferraris e Baricco. Ma soprattutto un soggetto che, visto ad occhi chiusi con la visibilità invocata da Calvino, ci dice, con un linguaggio muto, di un suo non soddisfatto “bisogno”. Esposito ritorna al termine del viaggio nel nichilismo del nostro tempo alla sua tesi di partenza per dare nome e sostanza alla richiesta che emerge dal disorientamento che sempre più segna il pensiero nichilista. A suo avviso il nome di questo bisogno è “libertà”, quella stessa che aveva ispirato, nell’assoluta priorità della sfera individuale ed in nome di un’idea di libero arbitrio senza limiti, l’attacco a divieti e convenzioni nel suo iniziale evolversi da “passivo” ad “attivo”. Entrato però nel nuovo millennio e nel pieno dominio dell’assetto tecnico/tecnologico il lungo secolo nichilista si trova costretto a fare i conti con il dubbio, che sempre più nutre il suo disorientamento, che questa libertà, tanto vasta all’apparenza, sia in effetti una semplice illusione. E’ un’altra forma di cultura contemporanea quella che Esposito usa per dare corpo alle sue opinioni: le storie e le immagini delle serie televisive, scegliendone nel vastissimo loro catalogo due che bene le rappresentano. La prima è “Westworld-Dove tutto è concesso” (il nome di un parco divertimenti stile western che consente ai clienti di sfogare su androidi ogni fantasia illecita e violenta, serie andata in onda per tre anni a partire dal 2016) la cui protagonista, un androide femmina, matura, dopo aver subito numerose violenze, la convinzione “umana” che, vittime e carnefici, sono protagonisti inconsapevoli di un esperimento che mira a creare una sorta di super razza destinata a dominare il mondo, dando poi vita, con l’aiuto di umani, ad una ribellione. Storia perfetta per far emergere la gravissima cecità nichilista che non coglie il ruolo del “sistema” nel programmare e governare i nostri percorsi di vita. I quali possono sembrare “liberi” da vincoli e restrizioni regalando così un’euforica illusione di essere padroni delle nostre vite, ma che in effetti rispondono a logiche sistemiche che ben presto, non appena la cecità si apre a qualche sguardo, annullano tale illusione. Ed è esattamente questo che sta, per ora molto faticosamente, emergendo nel pensiero nichilista: la “consapevolezza” che in una gestione sistemica della società la libertà individuale non esiste là dove ad ognuno di noi è assegnato un preciso ruolo. Manca il guizzo verso la ribellione, ma perché anche ciò possa avvenire è prima indispensabile che il “bisogno” di dare un senso al nostro vivere trovi sponda nell’acquisire questa consapevolezza. Una seconda serie si presta allora a meglio comprendere in cosa dovrebbe consistere la ribellione libertaria che potrebbe risolvere il nodo nichilista dando risposta al “bisogno” che sta manifestando: True detective (una serie che segue le vicende di alcuni detective alle prese con criminali spietati e con i loro demoni personali; in onda, con protagonisti mutati nel tempo, fin dal 2014, Esposito prende in considerazione i protagonisti della prima serie). La dura lotta che i due detective, Rust e Marty, portano avanti per mettere fine alla lunga serie di omicidi compiuti da un crudele serial killer è anche l’occasione per mettere a confronto le loro diverse filosofie di vita, una decisamente tormentata ed una più serenamente ordinaria. Al termine della lunga vicenda fra i due nasce una sintonia ed una comune visione del bene, del male, della libertà di scelta e di percorso di vita, che consente ad Esposito di precisare che la vera “libertà”, capace di dare senso a quel “bisogno”, non è quella che mira ad “essere quel che si vuole e come si vuole”, ma quella che ci impone di fare i conti con quello che siamo a partire da quello che la vita ci ha dato. Attraversare il buio del nichilismo, avere consapevolezza di essere inseriti in un sistema, confrontarsi con le prove che la vita ci impone, trasforma radicalmente quell’anelito illusorio di libertà in “arrivare a volere quello che si è e perché si è”. Vuol dire mirare ad una vita in cui l’ordine delle cose che ha dato forma alle nostre esistenze viene vissuto con una consapevolezza che consenta di dire, nel bene e nel male, “ciò che ho voluto sono io”. Non è accettazione di un ordine già stabilito, non è far rientrare dalla finestra esterni valori e ideali, ma è valorizzare le relazioni, gli affetti, le scelte che spiegano il nostro “stare nel mondo”, l’unica libertà che consente di non soffocare in una insensatezza (nuovamente) nichilista.

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