Il “Saggio” del mese
SETTEMBRE
2022
Da tempo, con numerosi post, stiamo seguendo con attenzione la tenuta della “democrazia rappresentativa” che, già in evidente affanno in tutto l’Occidente sui temi che di più le competono dei diritti civili e delle libertà, tantomeno sembra essere in grado di affrontare con adeguata efficacia le tante attuali problematiche, in particolare quelle della giustizia sociale e della sempre più urgente svolta ecologica. Alcuni commentatori parlano quindi di una sconcertante “recessione democratica” che si sta manifestando in una fase storica, così segnata da sfide epocali, che richiederebbe semmai un di più di democrazia. Il saggio scelto per questo mese richiama esplicitamente questo affanno delle prassi democratiche ed offre, per meglio comprenderlo, un contributo analitico decisamente specialistico. Elaborato da un economista presenta infatti la tesi che sulla democrazia, già del suo in evidenti difficoltà, gravi una ulteriore minaccia derivante da preoccupanti “dinamiche economiche” in grado di imporre “movimenti di sistema” di portata tale da incidere sull’intera struttura dei rapporti sociali e politici di esercizio del potere.
il cui autore è Emiliano Brancaccio
[Brancaccio Emiliano =
1971, docente di economia politica presso l’Università del Sannio di Benevento,
editorialista di diverse riviste e quotidiani - tra cui Limes, l’Espresso, Il
Sole 24 ore, Il manifesto, Financial Times – autore di numerosi saggi
apprezzati a livello internazionale, cura per Rai-Radio 1 una rubrica
settimanale di economia con titolo “Le eresie”, viene annoverato tra i più influenti esponenti della scuola di
pensiero economico, cosiddetto critico ed eterodosso, di evidente impostazione marxista,
ma aperta ai contributi di Keynes e Sraffa]
Brancaccio, che si sta sempre più guadagnando
una posizione di rilievo nel dibattito internazionale con posizioni decisamente
alternative al pensiero economico dominante (il nostro precedente “Saggio del mese” di Agosto 2021, “Il
mercato non rende liberi” di Mauro Gallegati, analizzava proprio l’asfissia del
pensiero economico mainstream da tempo schiacciato sui dogmi neoliberisti), pone al centro di questo
suo ultimo saggio la tesi che l’onda lunga del neoliberismo abbia creato le
condizioni per l’affermarsi di un consistente ripresa del processo di “concentrazione del
capitale” tale da implicare rischi di una parallela “concentrazione del potere
decisionale” a scapito delle prassi democratiche. Questa tesi verrà
illustrata in particolare nell’ultima parte del saggio recuperando un intenso
dibattito che, organizzato dalla Fondazione Feltrinelli, lo ha visto discutere
sul tema, con interpretazioni anche divergenti, con un altro importante
economista: Daren Acemoglu
[Daren
Acemoglu =
1967, economista turco naturalizzato statunitense, accademico di economia al
MIT, fra i dieci economisti più citati al mondo, autore di numerosi saggi
alcuni dei quali pubblicati anche in italiano. I suoi
interessi di ricerca spaziano dalla teoria della crescita (con particolare
riferimento al ruolo delle istituzioni per lo sviluppo economico) all’economia
del lavoro, dalla disuguaglianza nella distribuzione dei redditi alla
formazione del capitale umano. E’
annoverato tra gli economisti non del tutto allineati al pensiero economico
mainstream]
N.B. = Per chi fosse interessato attivando il seguente link può visionare il video del dibattito
https://m.facebook.com/FondazioneFeltrinelli/videos/509458893807820/
Per meglio comprendere le ragioni che
sostengono questa tesi Brancaccio dedica la prima parte del saggio alla
raccolta, in forma di “brevi lezioni”, di numerosi suoi articoli nei quali analizza le attuali
tendenze del mercato capitalistico.
BREVI LEZIONI DI POLITICA
ECONOMICA
Brancaccio fin dalle prime
righe di questa Parte Prima afferma chiaramente che l'insieme dei processi
socio-economici attualmente in atto rida valore, recuperandola dalla
soffitta nella quale era stata troppo frettolosamente confinata, ad una delle
idee centrali dell’analisi del capitalismo svolta da Marx nel suo “Il
Capitale”: la tendenza del mercato capitalistico alla “concentrazione dei capitali”. Le
logiche di mercato implicano infatti, soprattutto nei periodi di crisi, una
costante lotta per la conquista di posizioni dominanti sul mercato (che nella attuale fase storica ha definitivamente assunto la
forma di “mercato globalizzato”) nella quale i capitali più deboli vengono fagocitati da
quelli più grandi. E’ un processo costante che si ripresenta immutato in ogni
fase di crescita ed ampliamento del mercato capitalistico: se è vero che le
innovazioni tecnologiche, e la collegata creazione di nuovi prodotti, possono
consentire per un certo periodo la formazione di nuove imprese, ben presto però
tale logica si ripresenta in tutta la sua forza (per
restare ai nostri giorni anche il variegato mondo delle “start up” lo dimostra
con l’evidente loro concentrazione tramite acquisizioni e incorporamento nelle
big corporations). Le attuali indagini definite “network analysis (analisi delle reti)”, che hanno ormai grazie ai big data una formidabile potenzialità
analitica, lo evidenziano al di là di ogni dubbio:
Ø
l’80% del capitale quotato nelle
Borse mondiali è controllato da meno del 2% degli
azionisti
Ø
gli studi di proiezione futura delle attuali tendenze (non poco accentuate dalla stessa
pandemia e dalle forti tensioni geo-politiche) valutano che tale
concentrazione potrà raggiungere la quota dell’1%
Siamo quindi di fronte ad
un dato di innegabile importanza da assumere come dimensione stabile e definita
del mercato capitalistico. Brancaccio recupera in questa Parte Prima (che come si è detto è articolata su numerose “brevi lezioni”,
in buona misura quelle tenute nell’ambito della rubrica settimanale che cura
per Rai-Radio 1) alcune delle annotazioni puntuali da lui sviluppate nel
corso degli ultimi due anni (in questa sintesi
recuperiamo quelle che abbiamo ritenuto essere le più significative,
presentandole in forma di singole “pillole” da scorrere per il loro specifico
valore e che, nel loro insieme, formano un organico quadro analitico) che danno sostanza alla sua
tesi di base:
Mondo
Ø L’oggettivo
accentuarsi della tendenza alla concentrazione del capitale internazionale ha implicato
un ripresa di interesse verso la omonima “legge” di Marx, da lui considerata
come esito inevitabile della competizione capitalistica, paradossalmente più
evidente nell’ambito dei circoli della grande finanza internazionale (in occasione del bicentenario della
nascita di Marx, 1818-2018, riviste quali “Economist” e “Financial Times” hanno
dedicato ampio spazio proprio a questa sua “legge”). Il dibattito che
ne è seguito ha visto contrapporsi due correnti di pensiero, chiaramente
collegabili a corrispondenti posizioni politiche: da una parte i “sovranisti”, in difesa dei margini di manovra
sempre più ristretti dei capitali nazionali, ed i “globalisti”, convinti che la concentrazione del capitale in questa
economia ormai senza confini non possa che avere dimensioni globali. Queste
posizioni, ambedue inscrivibili nel campo generico della “destra”, hanno
vieppiù accentuato il clamoroso silenzio al riguardo della “sinistra” ufficiale
mondiale. Che ha celebrato il bicentenario recuperando soprattutto il Marx
filosofo e antropologo, sottovalutando il fatto che questi suoi contributi,
certamente rilevantissimi, perdono parte del loro valore se sganciati dalle sue
teorie economiche, le quali, a quanto pare, rappresentano per questa “sinistra”
una sorta di imbarazzo
Ø Il centro studi
della banca svizzera UBS pubblica ogni anno un dettagliato rapporti sui grandi
patrimoni (sono dati molto
utilizzati da Thomas Piketty nel suo “Il capitale nel XXI secolo”). I dati relativi
al 2020 dicono di un gruppo ristretto di persone (circa duemila proprietari che oltrepassano il miliardo di
dollari di patrimonio) che detiene una ricchezza privata pari a circa 10.000
miliardi di dollari (nello
stesso anno l’intero PIL USA valeva 20.000 miliardi di dollari, quello cinese
14.000, quello del 2019 di tutta l’Europa, Regno Unito ancora compreso, 16.400). Se l’opinione
pubblica è comprensibilmente colpita dalle vicende di imprenditori “fai da te”
capaci di costruirsi una ricchezza impressionante in pochi anni (Bill Gates, Elon Musk, Jeff Bezos sono
i più famosi) l’analisi di dettaglio fatta dalla UBS evidenzia che la
parte decisamente più rilevante di queste grandi ricchezze proviene da lasciti
ereditari (fenomeno ampiamente
studiato dal citato Thomas Piketty). Enormi ricchezze quindi che stanno attraversando la storia
senza nulla perdere per strada, ed anzi aumentando il loro potere economico. Si
parla di capitalismo tecnologico in effetti somiglia sempre più all’Ancient
Regìme.
Ø Incide su questo
stato di cose la giustizia fiscale? La mitica flat tax sul reddito (ciò che si guadagna in un anno) è al centro
dell’attuale dibattito politico del nostro paese, ma quella sui patrimoni (tutto ciò che concorre a formare la
ricchezza, immobili, azioni, fondi, etc.) esiste di fatto quasi ovunque nel
mondo (si parla quindi delle
imposte sugli immobili posseduti e sui patrimoni finanziari e azionari) con rarissime
eccezioni come sempre concentrate nei paesi del Nord Europa (anche questo aspetto è accuratamente
analizzato da Piketty nel suo saggio). Ogni accenno all’introduzione di una imposta patrimoniale,
per quanto timida possa essere, suscita diffuse roventi opposizioni (lo Stato vuole mettere le mani delle
tasche dei cittadini!!!!)
Ø Studi dell’OCSE
(organizzazione internazionale studi economici) e del World Economic Forum
hanno stilato una classifica del grado di mobilità sociale nelle varie nazioni
(calcolato semplicemente sul
numero di anni che occorrono ad una famiglia povera per raggiungere, quando ci
riesce!, il livello di reddito medio nazionale). Gli USA, lungi
dal realizzare il mitico “american dream”, sono al 27° posto, l’Italia al 37° (in ambedue ci vogliono cinque anni). Al primo posto la
Danimarca (con soli due anni) e gli altri paesi
del Nord Europa. Un caso che siano le nazioni con le aliquote fiscali più alte
e più progressive?
Ø Altri studi
dell’OCSE hanno determinato un indice che misura il grado di tutele normative
per i lavoratori (EPL). Negli ultimi trent’anni questo indice è crollato del
18% come dato medio paesi OCSE, in Italia ben del 30%. Con la sola eccezione
della Grecia è la caduta più accentuata di tutta l’OCSE. Nello stesso periodo
il PIL italiano è passato da 1.200 miliardi circa del 1990 ai 2.000 circa del
2019 con una crescita media annuale, calcolata a parità teorica di prezzi,
attorno al 2%. La più bassa in Europa, peggio persino di Grecia e Cipro. Che
relazione fra questi due dati?
Ø
Cambiamento climatico? Nessuna paura sarà la “finanza verde” a imporre la svolta! Come?
semplicemente assecondando le insuperabili logiche di profitto che imporranno
di investire nelle attività che si renderanno convenienti in base a criteri
ambientali, ad esempio nel settore delle energie alternative e non più in
quello dei combustibili fossili. Il nome tecnico di questi titoli è “green bonds”. Si possono dormire sonni tranquilli?
Beh non proprio, almeno per adesso. Varie inchieste dimostrano che in realtà
quote rilevanti di green bonds hanno destinazioni che con la sostenibilità
ambientale non hanno nulla a che fare. D’altronde se nessuna istituzione
controlla e se i margini di profitto nelle attività non green sono ancora così
ampi perché mai rinunciarvi? Il cosiddetto “greenwashing” ha ben poco di verde,
forse perché i grandi decisori finanziari non sono poi così bravi a individuare
le attività realmente eco-compatibili. James Tobin (1918-2002, economista statunitense, premio Nobel per
l’economia nel 1981, ha dato il nome alla “Tobin tax” una proposta di tassazione delle transazioni finanziarie
internazionali) era solito ricordare che per le logiche del mercato finanziario il cosiddetto “lungo periodo”……sono i prossimi dieci minuti
Europa
Ø
Il ruolo della BCE, la Banca Centrale Europa, è fondamentale
per capire gli scenari economici comunitari. I trattati europei che la regolano
le affidano come finalità primaria quella di mantenere l’equilibrio tra
risparmio e richieste di finanziamento lasciando che questo sia determinato dal
libero gioco di domanda ed offerta sul libero mercato. Vale a dire che la
politica monetaria, di competenza della BCE, deve espletarsi lasciando che la
politica economica sia determinata dai singoli Stati e, là dove i Trattati lo
prevedono, dalle istituzioni europee. Si tratta di una evidente concezione
“classica o neoclassica” dei meccanismi economici. In realtà non esiste alcuna
concreta possibilità che una politica monetaria sia “neutrale”, ed i fatti lo
confermano. La scelta della BCE di sostenere con adeguati acquisti i titoli di
stato dei paesi della UE più a rischio economico è la prova più evidente in
questo senso. Dal punto di vista tecnico è difficile dare torto alla Corte
Costituzionale tedesca quando accusa la BCE di andare oltre il suo compito
istituzionale. Ma il vero problema non è questo: accettando il dato di fatto di
una BCE che interviene sulle politiche economiche europee la vera domanda da
porsi è: quale legittimità politica e democratica ha la BCE per agire in tal
senso? A quali finalità deve ispirarsi? E chi e come decide queste finalità?
Ø
Non è diversa la situazione dell’euro. Attorno alla moneta
unica europea sono molti, e di diversa natura, i contrasti e le idee. Come per
il ruolo della BCE la linea di frattura fra gli Stati europei evidenzia una
maggior propensione alla competizione, motivata dal forte mantenimento degli
interessi nazionali, che ad una vera e proprio collaborazione unitaria. L’euro
lo conferma anche con le modalità di stampa delle banconote. Ogni banconota di
euro ha un codice che inizia con una lettera (S individua l’Italia, la X la Germania, la U la Francia e
così via). Qual è il senso? Semplice: se nel gioco dei contrasti l’euro dovesse
scomparire ogni Stato, grazie a quella lettera, si ritroverebbe a rispondere
esattamente di quanto ha emesso (seppure
sotto supervisione della BCE)
Ø
I rischi che derivano da questo incompiuto, e
contraddittorio, processo di unificazione economica (ed è bene tenere conto che è proprio
l’economia al centro del processo di costruzione comunitaria, in quasi tutti
gli altri settori si registrano meno attenzioni e quindi maggiori ritardi), vengono di norma
esorcizzati agitando lo spauracchio del rischio di inflazione che deriverebbe
dal ritorno alle monete nazionali. Ma è proprio così? Non è detto, ad avviso di
Brancaccio, perché sono molti e complessi i fattori che possono incidere. A
partire dal considerare una economia nazionale come un fantomatico agente
unico: in realtà essa è costituita da attori sociali ed economici molto diversi
tra di loro, così diversi da essere interessati in modi ed intensità
altrettanto differenti da processi come l’inflazione. Se in generale questa di
norma favorisce le imprese e danneggia i redditi fissi, non è detto che questi
ultimi siano meno danneggiati, ad esempio, dalle rigide politiche di austerità,
tutte scrupolosamente antinflazionistiche. Certo è giusta e necessaria
l’attenzione sulle politiche monetarie, ma nell’epoca della concentrazione di
capitale sono più urgenti controlli sulla circolazione internazionale di
capitali.
Italia
Ø Il nostro paese non è mai pienamente uscito dalla crisi globale del 2007/2008. I dati evidenziano fatturati delle imprese ancora lontani dai livelli pre-crisi e la percentuale più alta a livello europeo di imprese finanziariamente insolventi. Le associazioni di categoria, a maggior ragione dopo (si spera davvero) la pandemia non manifestano atteggiamenti ottimistici per il futuro a breve/medio periodo, uno studio dell’Ecofin (il Consiglio Europeo dei Ministri delle finanze) addirittura prevede che nei prossimi cinquant’anni la crescita economica italiana rischia di essere la metà di quella media europea. Un quadro che dovrebbe stimolare una seria riflessione sulle ragioni che di più possono spiegare un declino che, iniziato negli ultimi tre decenni del secolo scorso a dimostrazione di storture strutturali del capitalismo italiano, sembra poi essersi accentuato con il procedere dell’integrazione economica europea. Consiste in questo aspetto la tesi (condivisa dallo stesso Brancaccio) della “mezzogiornificazione europea” avanzata per primo dall’economista Paul Krugman (statunitense, premio Nobel per l’economia del 2008) secondo la quale, con il processo di unificazione economica europeo, l’Italia, e gli paesi del Sud Europa, strutturalmente più fragili, sono ancor più esposti ad una concorrenza da loro non reggibile. Si corre il rischio di ricreare su scala europea il dualismo economico fra Nord e Sud Italia.
Ø
In questo quadro la generale tendenza alla centralizzazione
del capitale pone l’Italia in una condizioni di subalternità strutturale tale
da divenire terra di conquista per acquisizioni di imprese da parte di
operatori esteri. Fenomeno già oggi significativo nell’industria e che sta sempre
più accadendo nei servizi, e nei settori bancario e finanziario
Ø
Il nostro paese è inoltre un perfetto esempio del disastroso
mito della “privatizzazione” (su questo aspetto insiste molto il
saggio del Prof. Giuseppe Berta “Che fine ha fatto il capitalismo italiano”
presentato in un nostro post di Novembre 2016). Si tratta di un mito, in gran misura
smentito da comparazioni oggettive fra imprese pubbliche e imprese private,
alimentato soprattutto dalla ideologia neo-liberista. Nel nostro paese vicende
come Telecom (1997) e Autostrade per l’Italia/Atlantia (1999) sono una
eloquente testimonianza di come la vendita a privati di imprese strategiche non
abbia assolutamente realizzato una migliore gestione ed un ritorno economico
positivo per le casse pubbliche, anzi. Le privatizzazioni di imprese ed
attività pubbliche ha raggiunto in Italia un valore pari a 108 miliardi di
dollari a fronte dei 75 in Francia, dei 63 nel Regno Unito e dei 22 in
Germania. Difficile sostenere che si sia realizzato un corrispondente
miglioramento del sistema produttivo. Eppure l’idea di dismettere pezzi del
settore pubblico resta in piedi, sostenuta dalla necessità di “fare cassa”,
quando i dati contabili dimostrano, da tempo, che gli introiti delle
privatizzazioni non hanno per nulla compensato la perdita dei ricavi delle
imprese statali privatizzate. Come se già non bastasse la tendenza alla
centralizzazione dei capitali.
Ø
Un corollario di questa infausta tendenza chiama in causa
Mario Draghi (e la sua fantomatica “agenda”). A fine del 2020, poche settimane
prima di essere nominato Primo Ministro, nella sua veste di capo del comitato
direttivo del “gruppo dei Trenta” (altrimenti
detto G30 riunisce esperti di finanza e accademici economici per analizzare le
tendenze e proporre linee guida per le attività economiche pubbliche e private) ha licenziato un
documento di linee guida certo non “keynesiane”, ma piuttosto ispirate dal
concetto di Joseph Schumpeter (1883-1950,
economista austriaco, considerato uno dei padri del neo-liberismo) della cosiddetta “distruzione creatrice”. Vale a dire che
le politiche governative non devono più impedire i meccanismi selettivi del
libero mercato, in particolare non devono sostenere le “imprese zombie”, ossia quelle
destinate a morire. La morte delle quali può consentire la nascita di nuove
imprese virtuose. L’idea di fondo è che anche nei momenti di crisi, come quello
post 2007/2008 e post pandemia, il mercato capitalistico sia spontaneamente in
grado di ripristinare un nuovo equilibrio. Nessun accenno alla tendenza della concentrazione dei capitali e al fenomeno economico definito di “istetesi”, ossia la possibilità che una crisi
si prolunghi nel tempo impedendo il ripristino di un vero equilibrio.
Il quadro generale che emerge dall’insieme di queste pillole
è ovviamente il risultato, confermato dalla crisi globale del 2007/2008, di
processi di lunga durata che si sono innescati, qui in Occidente, a partire
dalla fine del mitico “trentennio d’oro” (il
trentennio successivo alla seconda guerra che ha visto il maggior tasso di
crescita economica nella storia dell’Occidente). Su di esso si è però poi
abbattuta, con effetti devastanti, la crisi innescata dalla pandemia CVD19
La politica economica
della pandemia
Ø
L’impatto dei due anni di pandemia sull’economia globale è
stato devastante, in termini di costi diretti e immediati (ad es. blocchi di produzione, ricadute
sanitarie e sociali) e di costi indiretti sul medio/lungo periodo (ad. es. riorganizzazione interi settori
produttivi, relazioni commerciali globali, aumento debito pubblico e privato). Una valutazione
ancora approssimativa stima il costo globale dei primi in circa 3.000 miliardi
di dollari per il solo 2020, mentre per i secondi occorrerà attendere ancora
per definire un quadro esatto. Quel che appare fin da ora certo è che il processo
di concentrazione del capitale sta avendo una ulteriore significativa spinta,
sono infatti molte le attività che, a pandemia definitivamente superata, si
saranno indebolite in misura così significativa da divenire facile preda per
acquisizioni e assorbimenti
Ø
E’ al contrario già da tempo materia di dibattito e di azioni
la gestione del significativo surplus di debito, pubblico e privato, generato
dalla pandemia e dagli indispensabili interventi per fronteggiarla e per
attutire la ricaduta socio-economica (una gestione che si è ulteriormente complicata per il
negativo intreccio tra gli effetti a cascata della guerra russo-ucraina, per la
collegata ripresa di processi inflattivi, e per i conseguenti aumenti dei tassi
di interesse decisi dalla Banche Centrali)
Ø
Se a ridosso dell’evento pandemico lo scontro tra sostenitori
di una spesa pubblica attiva piuttosto che di un ritorno all’austerity, che da
tempo caratterizza buona parte delle politiche economiche e monetaria
occidentali, sembrava essersi almeno in parte sopito non sono pochi i segnali
di una nuova profonda tensione fra queste opposte visioni. Quel che
oggettivamente appare certo (prima
ancora dello scoppio del conflitto russo-ucraino con il conseguente carico di
nuove turbolenze economiche) è che il rimbalzo post pandemico dei PIL non ha una
consistenza adeguata per fronteggiare un accumulo di debito paragonabile a
quello registrato nel 1946 dopo la Seconda Guerra.
Ø
Sono quindi necessarie, a giudizio di Brancaccio, azioni “eretiche” di sostegno all’economia globale non
dissimili da quelle adottate nel secondo dopoguerra. Una di queste consiste nel
mantenere il tasso di interesse (il
costo del denaro) sistematicamente sotto al tasso di crescita del PIL (vorrebbe dire un costo del debito
inferiore al reddito prodotto) consentendo, come nel dopoguerra, che la spesa pubblica, al
netto degli interessi, resti, almeno per un certo periodo, superiore alle
entrate fiscali
Le analisi e le riflessioni di Brancaccio risalgono al 2021,
prima delle attuali fiammate inflazionistiche, già allora comunque, come
vedremo nella “pillola” successiva, il rischio inflattivo era percepito come
possibile ma, ovviamente, per ragioni non riconducibili al conflitto russo-ucraino
Ø
Già alla fine del 2020 l’Economist lanciava l’allarme per il
rischio che alla fine della pandemia si innescasse un’esplosione dei prezzi. La
causa principale è individuata nell’enorme massa di denaro che, stando agli
annunci di quasi tutte le nazioni (spiccano
i 2.000 miliardi di dollari negli USA, con la prospettiva di altri successivi
3.000 miliardi, e i 750 miliardi di euro nella UE) sta per essere
immessa in un mercato globale nel quale la massa di denaro circolante è già da
tempo molto alta (si
pensi ad esempio ai massicci acquisti di titoli di stato effettuato dalla BCE
di Draghi all’insegna del “whatever it takes”). A giudizio di molti analisti una
simile valanga di denaro (i
mercati già si muovono al solo loro annuncio!), non proporzionata alle reali capacità
produttive del sistema economico globale, innescherebbe di riflesso un eccesso
di domanda con ricadute verso il rialzo dei prezzi di beni, materie, risorse. A
maggior ragione se intervenissero interruzioni prolungate nelle catene globali
di produzione e fornitura (esattamente
quello che ha provocato la guerra in Ucraina). Una disponibilità finanziaria di
tale portata non solo rischia di produrre fenomeni inflattivi di medio/lungo
periodo, ma nell’ambito della riflessione di Brancaccio sulla concentrazione di
capitali implica la messa a disposizione di una consistente risorsa finanziaria
aggiuntiva per la sua accentuazione. Questo duplice rischio implica quindi una
scrupolosa valutazione dell’effettiva destinazione delle risorse finanziarie
che si intendono immettere nel circuito economico
Ø
Nello specifico della situazione europea a questa
problematica prospettiva se ne contrappone poi una di segno esattamente opposto
relativa alle modalità di erogazione dei fondi decise sulla base dell’ennesimo
compromesso fra rigoristi e possibilisti sulla filosofia del debito pubblico.
Il rischio è quello di una sopravvalutazione dei reali margini di manovra
concessi dalle possibili erogazioni. Il caso italiano è emblematico: il
Recovery Plan prevede per l’Italia un fondo pari a 209 miliardi di euro totali,
82 a fondo perduto e 127 di prestito. Anche questi ultimi consentono un certo
vantaggio, ma certo non illimitato, che consiste solo nel risparmio fra il loro
tasso di interesse e quello praticati dal mercato in condizioni normali di
finanziamento. Nei sei anni previsti di erogazione conti alla mano il vantaggio
finanziario realizzabile è di appena 6 miliardi (i recenti aumenti dei tassi di interesse BCE in effetti
farebbero crescere di qualcosa questa cifra). Restano gli 82 miliardi di euro a
fondo perduto, peccato però che lo scontro rigoristi/possibilisti, ancora in
corso, si sia spostato sulle modalità di copertura di tale spesa. Se passasse
la linea rigorista di coprirla con i fondi ordinari di bilancio (in luogo del loro reperimento con nuove
imposte selettive) l’Italia potrebbe essere chiamata a contribuire, in base al
suo PIL, con una cifra di almeno 40 miliardi di euro che, aggiunti ai 20
miliardi di contributo ordinario al bilancio europeo, fanno scendere il
vantaggio netto ottenibile con il PNRR a circa 28 miliardi spalmati su sei
anni. Certo c’è il grande vantaggio della immediata liquidità, ma non sembra, a
conti fatti, una cifra così adeguata per una crisi che nel solo 2020 ha
implicato un danno complessivo di ben 150 miliardi di euro.
DEMOCRAZIA A
RISCHIO
Un dibattito
tra Acemoglu e Brancaccio
L’economia è stata spesso
definita una scienza “ecclesiastica”, dogmatica e conformista, poco disponibile
al pensiero critico. Negli ultimi decenni, con l’avvento del pensiero economico
mainstream, denominato “neoclassico”,
di chiara ispirazione neoliberista questo carattere di chiusura
autoreferenziale sembra essersi accentuato. Sono infatti poche le voci che, non
allineate ai dogmi imperanti, sono riuscite a guadagnarsi attenzioni e spazi.
Fra queste voci vanno sicuramente annoverate quelle di Acemoglu e Brancaccio
che, seppure divergenti su molti aspetti, hanno introdotto nel dibattito, anche
accademico, robusti elementi di critica. Se quelli di Brancaccio vertono
principalmente sul recupero degli strumenti critici del pensiero marxista,
quelli di Acemoglu guardano soprattutto al rapporto tra istituzioni –
politiche, culturali e scientifiche – ed economia. Il dibattito che si è tenuto
presso la Fondazione Feltrinelli nel Giugno 2021 (la cui
sintesi per questo saggio è stata curata da Domenico Suppa, docente di economia
presso l’Università Federico II di Napoli) ha messo a
confronto questi due diversi approcci sul tema del rapporto tra democrazia ed
economia, in particolare attorno ad alcune domande:
Ø
esistono negli attuali processi economici le condizioni per
individuare, considerandole ispiratrici delle dinamiche, “leggi generali di sistema”?
Ø
fra queste si sta manifestando quella relativa alla
concentrazione del capitale?
Ø
se così fosse questa tendenza può rappresentare un rischio
per la tenuta della democrazia?
Ø
quale può essere in un quadro simile il ruolo delle
“istituzioni”?
Alla prima domanda Acemoglu
e Brancaccio danno risposte diverse, con il primo contrario ed il secondo
favorevole. Brancaccio riprende, assumendola caso esemplare e sostenendone la
validità, la tesi di Piketty, sviluppata nel suo “Il Capitale nel XXI secolo” [e contestata, sulla base di dati analitici, da Acemoglu nel
suo saggio “The rise and decline of general laws of capitalism” (Nascita e
declino delle leggi generali del capitalismo) al momento non disponibile in
italiano], dell’esistenza di una tendenza costante del tasso di
rendimento del capitale ad essere superiore al tasso di crescita del reddito
globale (tendenza che sarebbe alla base della
crescita delle disuguaglianze economiche).
le differenze di analisi che spiegano su questo caso specifico le due contrapposte opinioni sono sinteticamente riprese in una nostra successiva appendice
Ma al di là della specifica
disputa sulla legge di Piketty Brancaccio sottolinea che, per quanto difficile,
i tentativi di ricercare leggi di tendenza del capitalismo sono indispensabili
per costruire una critica complessiva di sistema. In questo senso
l’individuazione, fatta sulla base di oggettivi indicatori analitici, di una
tendenza alla centralizzazione del capitale rappresenta, analogamente a quella
di Piketty, una “legge” generale di sistema. Acemoglu, nel confermare le sue
perplessità sul lavoro di Piketty, risponde, ritenendo comunque che i dati
proposti da Brancaccio siano inoppugnabili e che si sia innegabilmente di
fronte ad un processo monopolistico di concentrazione del potere economico in
poche mani, che la questione di ordine “epistemologico” (forme
e logiche della ricerca scientifica) sollevata da Brancaccio non
può essere risolta guardando soltanto a “cosa è successo, cosa sta succedendo”, a suo
avviso è altrettanto necessario individuare i motivi che spiegano tale tendenza
e se esistano percorsi alternativi. Vale a dire che vanno evitate
generalizzazioni [cita ad esempio
quelle di Joseph Stiglitz (economista statunitense, premio Nobel per l’economia
nel 2001) sul fallimento dei mercati e delle loro regolamentazioni], e
che la questione centrale non consista nel possibile manifestarsi di “leggi generali”,
ma che tutto dipenda “da chi ha il potere”. Questo aspetto chiama
direttamente in causa le “istituzioni”, tutti i centri di potere, di
ogni tipo e quindi non solo economico, che possono, esercitando il proprio
ruolo, influenzare in modo decisivo le tendenze generali che stanno emergendo,
in questo caso in campo economico. Se si guarda all’esperienza storica concreta
del “welfare
state socialdemocratico”, per il quale ancora brillano le esperienze
dei paesi del Nord Europa, diventa possibile, secondo Acemoglu, affermare che “non c’è nulla di
inevitabile nel fatto che le aziende si concentrino e diventino più potenti”. Se una riproposizione di una economia
centralmente pianificata non sembra ormai più proponibile occorre però che i
governi, l’istituzione più direttamente chiamata in causa in questo contesto,
affrontino con chiarezza e adeguate visioni il problema. Questa ovvietà, che
sempre tale non sembra essere, chiama allora in causa il funzionamento
democratico, per qualsiasi forma di intervento regolatore il tema della democrazia è fondamentale.
Il suo attuale stato di salute non è purtroppo eccellente, occorre uno sforzo
di ricostruzione del tessuto democratico a partire dalla partecipazione al
voto, che resta lo strumento primario per conferire ai governi la necessaria
autorevolezza per esercitare un ruolo sicuramente molto controverso. Acemoglu,
pur ribadendo che le osservazioni analitiche di Brancaccio sono inoppugnabili e
che quindi ci sia un concreto processo di concentrazione del capitale,
sottolinea quindi che non siamo comunque di fronte al manifestarsi di “leggi”
di mercato, ossia a fenomeni che, avendo tale carattere, non siano governabili
e modificabili. La replica di Brancaccio, che ancora guarda all’aspetto
epistemologico, sottolinea che sulla possibile individuazione di “leggi” di
mercato le opinioni nell’ambito del dibattito economico sono trasversali e
scavalcano la “normale” contrapposizione tra economisti mainstream neoclassici
ed economisti alternativi. In un campo e nell’altro si trovano infatti studiosi
che, ritenendole possibili, si stanno cimentando nella individuazione e nella
determinazione di “leggi di mercato”, ossia di processi così intimamente
connessi alle logiche dello stesso da divenire evoluzioni pressochè ineludibili.
In aggiunta a quelle in esame della “legge di Piketty” e della concentrazione
del capitale, richiama a titolo esemplificativo i processi di precarizzazione
del lavoro (testimoniata dal
crollo degli indici di protezione dei lavoratori esaminato in una delle
precedenti “pillole”). Un fenomeno che, avendo valenza globale ed essendo
cresciuto indipendentemente dalle composizioni politiche dei diversi governi,
rappresenta una tendenza così resistente e trasversalmente diffusa da poter
essere, anch’esso, definito una “legge” dell’attuale capitalismo. Definire
“legge” una tendenza consolidata del mercato ha lo scopo di segnalare sue
modalità di funzionamento così diffuse e ripetute da costituire “norma”, ma
questa utile consapevolezza non nega la possibilità di cambiamenti, anche di
natura istituzionale, che su di esse possano concretamente incidere. Semmai
l’attribuzione di carattere di “legge” amplifica il richiamo ad interventi
correttivi, purchè di analogo carattere strutturale. Ma affinchè un percorso
virtuoso di cambiamenti radicale si possa realizzare, non essendo più di tanto
soggetto al mutare della connotazione politica del governo del momento (l’esperienza concreta dimostra, ad esempio, che non sono pochi i governi, di destra e anche di sinistra, che hanno
al contrario adottato politiche che hanno favorito ed accentuato le tendenze
individuate dalle “leggi” in questione), occorre che esso si
inserisca, e ne sia quindi rafforzato, in una più generale visione alternativa di
sistema. Il crollo dell’URSS e dell’esperienza di gestione economica
collettivistica, pur con tutti gli indubbi limiti che l’hanno condannata al
fallimento, ha oggettivamente tolto spazio al possibile formarsi di una tale
alternativa. Oggi le economie mondiali sono tutte ispirate dal pensiero unico
della centralità delle logiche di mercato capitalistico che non consente il pur
minimo delinearsi di una diversa visione sistemica. In questo pensiero unico
sono confluite le stesse socialdemocrazie novecentesche che, senza uno stimolo
concorrenziale alla loro sinistra, si sono progressivamente in esso adagiate. Acemoglu
condivide queste ultime considerazioni di Brancaccio, e non di meno ritiene che
la caduta del Muro di Berlino abbia contribuito ad accelerare la crisi delle
socialdemocrazie. Ma continua a ritenere che, in una democrazia in salute,
esistano possibilità di avviare percorsi alternativi, quelli che al tempo non
furono tentati dai vari Blair, Clinton, Obama, i quali probabilmente non avevano
una corretta comprensione dei processi in corso. Se la domanda è: i mercati
possono essere regolamentati? La risposta di sicuro è che è veramente molto
difficile riuscirci, ma la storia dimostra che è comunque possibile. Basti
pensare ai percorsi di uscita dalle terribili iniziali condizioni sociali della
Rivoluzione Industriale, un cambiamento radicale e positivo ottenuto proprio
grazie alla strettissima relazione fra le conquiste sul lavoro e quelle di
spazi democratici. Le une hanno vicendevolmente alimentato le altre nelle durissime
lotte per ottenerle. Brancaccio al riguardo evidenzia che il problema non è
tanto quello di incolpare i leader e le classi dirigenti che si sono dimostrate
inadatte a gestire fasi cruciali di cambiamento storico, ma è quello di
comprendere che …. ogni esponente politico è frutto dei processi oggettivi
che maturano nel suo tempo …… una considerazione che di nuovo
rimanda all’importanza di cogliere l’eventuale manifestarsi di tendenze, con
carattere di legge, alla loro base. A
chiudere il cerchio delle domande di partenze Acemoglu e Brancaccio si
dichiarano convinti che il processo di concentrazione del capitale rappresenta
sicuramente un grave pericolo per la democrazia. La definizione di “democrazia sotto assedio”, che dà il
titolo a questo saggio di Brancaccio, è in effetti introdotta da Acemoglu, per
il quale se la democrazia crolla non c’è spazio per qualsivoglia percorso
alternativo. Brancaccio completa questa comune valutazione con un personale
richiamo a cogliere le opportunità che pure si manifestano anche nei rischi più
gravi: se la centralizzazione del capitale rischia davvero di innescare una
catastrofe democratica, dall’altra però sta dando luogo ad una polarizzazione
del confronto politico tale da favorire, se ben colta ed interpretata, veri
percorsi di regolazione del mercato, capaci di infrangere vecchi “tabù”
come quello della “pianificazione collettiva”. Basti pensare che dopo
la crisi del 2007/2008 sempre più le Banche Centrali, soggetti istituzionali di
sicuro non in odor di rivoluzione, governano e disciplinando il funzionamento
di mercato, con lo allo scopo di salvarlo dai suoi stessi eccessi. Così facendo
stanno però dimostrando che siamo in una fase storica, che i cinesi
definirebbero “tempi
interessanti”, in cui si aprono spazi per una vera e più profonda
inversione di rotta.
APPENDICE
ELOGIO DELLE LEGGI
GENERALI DEL CAPITALISMO
Nell’ambito del dibattito
Acemoglu-Brancaccio sono emerse alcune considerazioni “tecniche” sulla
sostenibilità dell’esistenza di “leggi generali del capitalismo” (odierno). In
questa appendice sintetizziamo, a grandi linee, le loro contrapposte analisi così
come presentate, dallo stesso Brancaccio e da Fabiana De Cristoforo (dottoranda in economia presso la Scuola di Studi Superiori S.
Anna di Pisa), nel Capitolo che
completa questo saggio. Lo spunto di partenza consiste nello studio analitico
di Acemoglu che sottopone ad attenta verifica la presunta “legge” proposta da Piketty sul collegamento tra
aumento delle disuguaglianze e rapporto tra tasso di rendimento del capitale e
tasso di crescita. Secondo Piketty quando il primo è per un periodo
significativo superiore al secondo la curva delle disuguaglianze si accentua.
Acemoglu, analizzati i relativi dati di un campione di 19 paesi dal 1950 al
2014, dimostra che tale relazione non si sia verificata con la necessaria
regolarità, e nega pertanto la sua pretesa di essere “legge” del mercato.
Brancaccio e De Cristofaro riprendono questi stessi test rivisti però con ottiche
temporali diverse da quelle usate da Acemoglu. Ipotizzando infatti che la
relazione tra disuguaglianze e tasso d’interesse più alto della crescita non
possa essere stabilita, come fatto da Acemoglu, “in contemporaneità temporale”, e
quindi estendendo l’arco temporale in esame, emerge al contrario una evidente
loro correlazione. Contemplando cioè la possibilità che questa si manifesti con
“ritardi temporali” è oggettivamente confermato
(nel saggio sono presenti i grafici che sostengono questa analisi
che qui non riportiamo) l’insorgere di trend che avvalorano l’ipotesi di Piketty. Brancaccio e De
Cristofaro vanno poi oltre: considerato che negli studi di Piketty la
disuguaglianza viene esaminata come dato relativo alla sola ripartizione dei
redditi, usano queste stesse impostazioni di ordine temporale per analizzare
anche il fenomeno della concentrazione di capitale che, così come a suo tempo
già fissato da Marx nella sua legge, aggiunge una decisiva valenza di “controllo”
dell’intero sistema che va oltre la pura dimensione del possesso proprietario.
Grazie alle potenzialità di calcolo offerte dalle attuali tecnologie Brancaccio
e De Cristofaro hanno così più accuratamente analizzato su scala globale il
cosiddetto “net
control” (la percentuale di
concentrazione dei pacchetti di controllo azionario). Ed
anche questo supplemento analitico (ri)conferma l’esistenza di un consistente e
diffuso processo di concentrazione dei capitali, dando così ulteriore sostegno alla
possibilità di definirla come una oggettiva “legge” del capitalismo attuale, di
portata tale da innescare pericolose derive sul quadro istituzionale e sulla tenuta
dei sistemi democratici, che al momento non pare essere adeguatamente
contrastata dalla potenzialità “controfattuale” delle istituzioni al centro
della riflessione economica di Acemoglu.
Il
saggio di Brancaccio contiene inoltre una parte, intitolata “In cerca di una alternativa”, dedicata ai processi
in corso a livello globale nel mondo del lavoro, dai quali sembra emergere una
potenzialità di ricostruire su base mondiale un unico fronte di opposizione al
capitalismo. Un tema di indubbio interesse che non riportiamo in questa sintesi
per non appesantirla eccessivamente. Va da sé che potrà essere recuperata con
la giusta attenzione in futuri nostri post collegabili al tema.
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