Il “Saggio” del mese
OTTOBRE
2022
Come
era ampiamente prevedibile il percorso di uscita dalla dipendenza energetica da
combustibili fossili si sta rivelando complesso e incerto. Incidono volontà
politiche non adeguatamente definite e solide, immancabili condizionamenti di
interessi economici, disinteresse e sottovalutazione da parte dell’opinione
pubblica, che si aggiungono alle problematiche, del loro già non poco
complesse, di ordine tecnologico. Alla
base di tutti questi fattori di freno sta una diffusa insufficiente conoscenza -
storica, scientifica, economica, politica - della questione. Il “Saggio” del
mese di questo Ottobre 2022 affronta esattamente queste tematiche avendo al
centro della riflessione la fonte energetica che più di tutte ha segnato l’impetuoso
sviluppo produttivo del XX secolo e che, quindi, di più ha inciso nel creare
l’attuale emergenza ambientale e climatica: “il
petrolio”
il cui autore è Massimo Nicolazzi
Massimo Nicolazzi = attualmente
consulente e a vario titolo amministratore di alcune società operanti nei
settori energetico e finanziario. Ha vasta esperienza manageriale nel settore
energetico, dove ha sviluppato e gestito importanti progetti in Europa
Orientale, Kazakistan e Libia, ricoprendo alte cariche in Agip/Eni e Lukoil e
poi come Ceo di Centrex Europe Energy & Gas. E’ docente, a contratto,
di Economia delle risorse energetiche all’Università
di Torino,
membro del Comitato Scientifico di Limes e autore di numerose pubblicazioni in
materia energetica, tra cui Il prezzo del petrolio (Boroli
2009)
Il titolo del saggio
può suonare insolito, persino provocatorio, ma, come si avrà modo di vedere, è
funzionale ad uno dei richiami che Nicolazzi introduce in questo suo testo: per
meglio delineare il post-petrolio è indispensabile individuare e analizzare nel
dettaglio le ragioni che spiegano la sua centralità nella storia, non solo
produttiva ed economica, della recente umanità. Per farlo nell’introduzione
definisce cosa si debba intendere per “energia”: accanto al suo
utilizzo più comune per indicare la “capacità di compiere lavoro” (senza
una qualche sua trasformazione infatti nulla si produce) aggiunge una sua
valenza “umanistica” definita in una sorta di formula C=ET (denominata
“legge dello sviluppo culturale” con C=cultura, E=energia
e T=tecnologia) introdotta
dall’antropologo statunitense Leslie White (1900-1975) così traducibile “a parità di condizioni il grado di sviluppo
culturale varia proporzionalmente con l'ammontare di energia pro capite
controllata e utilizzata”. Questo rapporto è
al centro del saggio di Nicolazzi articolato in tre parti:
Ø Parte prima = la storia
umana lungo tutti i tempi in cui la fonte di energia era pressochè esclusivamente
organica
Ø Parte seconda = si
entra nel merito della storia segnata dall’avvento dei combustibili fossili (con
titolo, per l’appunto, “elogio
del petrolio”)
percorreremo
queste due parti a volo d’aquila per meglio concentrarci sulla
Ø Parte terza = i giorni
nostri caratterizzati dalla urgenza di uscire, il prima ed il meglio possibile per
diverse ragioni, dalla dipendenza dal fossile.
PARTE
PRIMA = ESSERE ORGANICI
200.000 anni fa (circa): compare la specie
Homo Sapiens (l’attuale umanità) l’ultima vincente specie della famiglia degli ominini - Primi
anni del 1700: con le prime macchine a vapore ha inizio la Rivoluzione
Industriale e l’utilizzo via via più intenso dei combustibili fossili, la
storia dei sistemi energetici umani si snoda
fra questi due estremi. Come tutte le forme complesse di vita che si sono via
via succedute sulla Terra anche l’uomo, per sopravvivere, ha dovuto risolvere
il “problema
energia”, la componente fondamentale di ogni processo vitale. Un “processo energetico” è relativamente
semplice: servono una fonte energetica, “un combustibile”, e “un convertitore”, un qualcosa capace
di convertire in “lavoro”, con un processo che sempre implica “calore” (ovvero
energia termica), una quota dell’energia estraibile da quella fonte (non a
caso quindi il “Joule-simbolo J” è la comune principale unità
di misura di lavoro, energia e calore). Lungo tutti i due milioni di anni di
esistenza di Homo la “fonte energetica” di ultima istanza è il Sole e la correlata sintesi
clorofilliana alla base della vita vegetale prima e poi dell’intera catena
alimentare, uomo compreso, per la quale la fonte energetica di prima istanza è
rappresentata dal cibo: anche per noi Sapiens la fonte energetica è quindi “il cibo”, che alimentando il
nostro “metabolismo basale” consente al nostro convertitore, “il muscolo”, di fare lavoro. Dal punto di vista energetico tutta la vicenda
evolutiva umana è consistita proprio nelle modalità con cui questo rapporto è stato
affrontato e risolto, fin dall’era dei cacciatori/raccoglitori, in un contesto
ambientale fortemente segnato dal clima e dal rapporto con gli altri viventi,
per poi poco o nulla mutare con l’addomesticazione di animali, con l’agricoltura,
e con il correlato affermarsi della “civiltà umana”. La relazione “cibo”, ottenuto da
componenti esclusivamente “organiche”, e convertitore “muscolo”, certo con forme ed
articolazioni sempre più perfezionate e potenziate (ad es.
con l’utilizzo di acqua e vento come trasporto e come supporto al lavoro del
convertitore organico/muscolare), si è mantenuta stabile per millenni, sino alle soglie della
modernità, condizionando tutti i processi
umani sempre più complessi con la comparsa e l’evoluzione di cultura, religione,
forme di potere, sistemi produttivi ed economici, (il
nostro recente “Saggio del mese” di Giugno 2022 “Il viaggio dell’umanità”
dell’economista Oded Galor ripercorre esattamente questo percorso ponendolo in
relazione alle attuali disuguaglianze economiche). L’unica novità energetica
di rilievo è consistita nell’utilizzo della “biomassa” legno capace, in
aggiunta all’essere da sempre combustibile per riscaldamento, di fornire una
quota sempre più significativa di “energia termica”, quella necessaria ad
esempio per la fusione dei metalli o per la produzione di vetro e vasellame. Ed
è stata proprio la crescente insufficienza del “combustibile legno” a indurre, nei secoli
delle grandi scoperte geografiche e dei processi economici e produttivi sempre
più complessi e articolati, l’Europa, ormai giunta ai limiti delle
disponibilità fornite dalla intensissima “deforestazione” praticata per diversi
secoli (si veda al riguardo il “Saggio del mese” di Ottobre 2019 “Storia
dei boschi” di Hansjork Kuster), alla ricerca di altri combustibili. Le miniere, soprattutto
inglesi, a cielo aperto di carbone, sin lì poco o nulla utilizzato, hanno
fornito una prima economica soluzione. Non è stato però un successo immediato:
ancora verso la fine del 1600, il carbone era prevalentemente utilizzato per
uso domestico di riscaldamento. La crescente domanda di metalli da fusione ha
però imposto, nel giro di qualche decennio e grazie ad alcuni primi importanti
accorgimenti tecnologici, il ricorso al carbone anche per l’alimentazione dei
forni di fusione. Dal punto di vista energetico è la prima significativa
svolta: il “combustibile legno” è il prodotto ottenibile da un ciclo di fotosintesi in corso (e come
tale, non a caso, molto condizionato dal fattore clima), il “combustibile carbone”, sempre il prodotto
della fotosintesi, ma di una già avvenuta, è un residuo organico imprigionato
nella terra, è un “prodotto ancora naturale, ma consolidato”. Che si rivela essere
una preziosa fonte di energia termica a basso costo, per quanto inizialmente ancora
finalizzata ad essere in sostanza un sussidio del “convertitore muscolo”. Interviene,
sollecitata dal fermento economico e produttivo, una seconda decisiva svolta
che sancisce definitivamente il ruolo centrale, nel ciclo energetico, della “tecnologia”: la “macchina a vapore”, grazie alla quale il
carbone, sempre più scavato nelle viscere della terra, diventa anche un
fornitore di “energia meccanica”: la fonte del processo termico non è più organica, ma fossile, ed
il convertitore non è più organico-muscolare, ma inanimato, meccanico. Si entra in nuova fase.
PARTE SECONDA
= ELOGIO DEL PETROLIO
La novità energetica non impiega molto tempo
per cambiare radicalmente economia e società nella parte del mondo in cui è
nata, per poi da lì espandersi quasi ovunque vista la sua innegabile efficacia.
“Carbone,
tecnologia, vapore”, ossia “fossile e macchina” in luogo di “cibo e muscolo”
sintetizzano quindi l’avvento della “rivoluzione industriale”. Rivoluzione (nostra
“parola del mese” di Luglio 2022) è termine appropriato per indicare la
portata del mutamento, che però resta un processo lento, progressivo, fermo ad
un livello poco più che artigianale lungo tutto il 1700 e ancora nei primi decenni del
1800. Ma la fame di energia che innesca è sempre più insaziabile ed il solo
carbone non riesce più a soddisfarla. Come
spesso succede “la
necessità si incontra con il caso”. E’ infatti del tutto casuale la
messa a punto della “raffinazione del petrolio” [Intorno
al 1840 un industriale e uomo d’affari americano, Samuel Kier (1813/1874), per liberarsi
del
“petrolio”, che gli inquina una miniera di
salgemma, perfeziona il suo storico utilizzo come “petrolio medicinale”, (già noto a Plinio il
vecchio e già nel 200 a.C. in Cina estratto per tale scopo) mettendo
a punto un processo che separa le sue differenti componenti]. Il “petrolio greggio”,
[la
parola petrolio deriva dal tardo latino ed è la congiunzione di petra (pietra)
e oleum (olio)]
è infatti una mescolanza di diversi idrocarburi le cui molecole sono formate da
combinazioni diverse di atomi di carbonio e idrogeno, che possono essere
raffinate separando le une dalle altre (il greggio viene riscaldato
e distillato così da vaporizzare la combinazione più leggere, la benzina, poi a
seguire quelle più pesanti: kerosene, gasolio, olii vari). L’irruzione sulla
scena di questa nuove fonte energetica, non meno fossile del carbone (è
il risultato di processi di milioni di anni di decomposizione di organismi
vegetali e animali),
rende possibili nuove decisive innovazioni/perfezionamenti tecnologici quali la
“turbina”
(brevettata
nel 1884, ed inizialmente a vapore, è
una macchina capace di convertire l’energia termica in lavoro meccanico presto
divenuta lo strumento essenziale per lavorazioni su scala industriale), il “motore a
combustione interna” (“motore
a scoppio” brevettato nel 1876, e affiancato nel 1893 dal “motore diesel”, ancora oggi alla base della nostra
mobilità),
e, grazie alla precedente scoperta della “induzione elettromagnetica” [è la
conversione dell’energia meccanica in energia elettrica individuata nel 1831da
Michael Faraday (1791-1867)], l’adozione su larghissima scala (a
partire dai primi decenni del Novecento) della “corrente elettrica” per illuminazione ed
alimentazione motori. Il petrolio, più facilmente estraibile e trasportabile,
incontra “il
mercato” e lo re-inventa in nuove forme. Se quella del carbone è la
storia, la cultura, della “produzione”, della grande “industria di
base”, quella del petrolio che pure rafforza la produzione stessa, racconta
l’impressionante diversificazione dei beni prodotti presto destinati ad una
diffusione di massa. Su di esso poggia la nascita del “mercato del consumo”. Va in
scena nel Novecento il secondo atto del “fossile” e del capitalismo che, non a caso,
segna anche lo spostamento del baricentro geopolitico ed economico. Il
petrolio, ben prima che l’immaginario collettivo lo collochi nei deserti del
Medio Oriente, è infatti “americano” (ancora nel 1960 la
produzione di petrolio negli USA è quasi sei volte tanto quella dell’Arabia
Saudita).
E sono, non a caso, americane tutte le merci, i prodotti “consumistici” che il petrolio rende
via via possibili, a partire dalle auto (nel primo dopoguerra in
America circolano già dieci milioni di veicoli a motore, in tutta Europa a
stento uno)
per finire agli elettrodomestici casalinghi (mobile ed elettrica la
famiglia americana si fa modello di vita universale). Questa crescente ed
impressionante massa di merci è tale da invadere ogni ambito della vita umana
ed innesca, come inesorabile conseguenza, cambiamenti altrettanto incredibili
nella società, nell’economia, nella cultura, negli stili di vita. (un
cambiamento così diffuso e radicale non è certo riassumibile in poche pagine,
Nicolazzi si limita a evidenziare le trasformazioni intervenute in lavoro e
famiglia, mobilità e relazioni fra persone e paesi, ruolo della donna, sviluppo
demografico e metodi di coltivazione, urbanizzazione e rapporto
città/campagna). Questa
diffusa euforia bene spiega la diffusa convinzione dell’illimitato
sviluppo delle forze produttive e dell’infinitezza della crescita (non a caso misurata sul
reddito prodotto, PIL) ben
presto divenuta intoccabile caposaldo di tutte le teorie economiche (passaggio
evidenziato perché sarà richiamato in conclusione). Per tutto il
Novecento infatti crescita economica-PIL e consumi energetici fossili marciano in perfetto
parallelismo (nel
1820 il consumo del fossile era pari a 12,9 milioni di tonnellate/anno, nel
1900 passa a 500 milioni, che diventano 5.000 milioni nel 1973, quando comincia
un’altra storia, per toccare nel 2018 circa 14.000 milioni, con una percentuale
di crescita perfettamente in linea con
quella del PIL mondiale) ed ancora nel 2018 l’incidenza percentuale del binomio fossile/macchina sul
totale di energia utilizzata per ottenere il PIL mondiale vale per il 70% (anche
dopo la crisi strutturale globale del 2008 i consumi di petrolio e di gas naturale,
come vedremo, sono costantemente cresciuti, e quelli del carbone sono rimasti sostanzialmente
stazionari dal 2011 ad oggi). Non a caso quindi emergono periodicamente preoccupati
interrogativi sulla sua disponibilità residua, espressi però in termini che generano
un equivoco di fondo. Il termine “riserve di fossili”
non indica infatti quantità fisiche, quello che si stima sia
ancora contenuto nel sottosuolo, ma un dato tecnico-economico, ossia la
quantità di fossile che può essere “economicamente prodotto” sulla base delle tecnologie
di estrazione (ancora oggi si stima che, mediamente,
dai pozzi petroliferi in esercizio le attuali tecniche consentano di ricavare
solo il 15% dell’intero potenziale stimato, il resto, al momento, non è
tecnicamente/economicamente raggiungibile). Nel 2018 il tasso di rimpiazzo
delle riserve è stato ampiamente positivo, si è cioè “scoperto” più petrolio di quello
estratto, tanto che nel solo 2019 si sono globalmente prodotti, e quindi
immagazzinati, cento milioni di barili/giorno (erano solo circa 12
milioni nel 1951 alle soglie del boom consumistico), una quantità che
per gli attuali livelli di consumo è in grado di coprire il fabbisogno dei
prossimi cinquant’anni. Qualsiasi decisione sul futuro del petrolio
non è quindi determinata dalla sua disponibilità. Lo stesso andamento del
prezzo del greggio, con le sue continue oscillazioni (talora
così marcate da innescare, come nel 1973, autentiche bufere turbative sul
mercato, i cosiddetti “shock petroliferi”) si spiega in gran
misura con guerre commerciali fra paesi produttori [il famoso “cartello OPEC” comprende un gruppo di paesi
produttori che dispone del 40% della produzione mondiale di greggio e che
gestisce circa il 60% del volume totale delle transazioni commerciale, un ruolo
sicuramente preponderante, ma non di natura monopolistica. Alcuni opinionisti
del settore ritengono, dato 2018, che si sia entrati in una era post-OPEC
caratterizzata da una relazione “forte” tra Arabia Saudita e Russia (opinione quindi
pre-guerra russo-ucraina)]. Incidono invece molto i costi di investimento iniziali:
di norma un nuovo impianto di estrazione tradizionale richiede almeno cinque
anni di intensi e costosi lavori di predisposizione al pompaggio (con
non infrequenti sorprese sia per la quantità che la qualità del greggio estratto). La recente
tecnologia americana del “fracking” [frantumazione con
liquidi ad altissima pressione degli strati rocciosi impermeabili che hanno
“catturato” del greggio, nota anche per le sue gravi ricadute ambientali (pesante
inquinamento falde acquifere e dell’aria per i gas sprigionati, rischi di
instabilità dei terreni trattati)] sta dando, al
momento, buoni risultati produttivi, tanto da aver riportato l’America alle
vette della capacità estrattiva, innescando, in sintonia con quanto sopra,
l’attuale guerra commerciale fra paesi
produttori. In sintesi “l’elogio del
petrolio” si spiega con l’essere stato l’indubitabile base del
rivoluzionario cambiamento economico, sociale e politico, avvenuto nel 1900,
molto sinteticamente riassumibile in: più benessere diffuso, più salute ed
igiene, più aspettative di vita e più mobilità sociale, più equilibrio di
genere, più cultura ed istruzione nel mondo, più giustizia e più potere
condiviso grazie all’affermarsi ed al diffondersi della democrazia. A contraltare
di un quadro così positivo si sono però via via resi evidenti “effetti
collaterali”, derivanti proprio dal suo impressionante utilizzo, tali
da imporre un suo non più rinviabile “pre-pensionamento”. L’insieme dei processi
produttivi e consumistici, resi possibili proprio dall’utilizzo spinto del
fossile, ha infatti inciso sull’equilibrio termico ed ambientale del pianeta
Terra fino a determinare quella che non è fuori luogo definire “sciagura climatica”.
La massa di dati e rilevazioni che giustificano questo termine è ormai di
drammatica consistenza, fra tutti hanno valore “ufficiale” i periodici puntuali
report che da decenni vengono pubblicati dall’IPCC (Intergovernmental Panel
Climate Change,
organismo
dell’ONU fondato nel 1988 per fotografare con report periodici l’evoluzione del
riscaldamento climatico e le sue possibili conseguenze. L’ultimo di questi
report, emesso in vista della COP26 di Glasgow dello scorso Novembre 2021, è
stato sintetizzato in un nostro post di Ottobre 2021) che in particolare
ci dicono (dati essenziali):
Ø
che
solo nell’ultimo secolo la temperatura media terrestre è salita di un grado
centigrado, tantissimo su scala storica per un periodo tutto sommato brevissimo
Ø
che
la concentrazione di CO2, il gas più collegabile al
riscaldamento atmosferico, è passata da 280 parti per milione di inizio
Rivoluzione Industriale a ben più di 400
Ø
che
questo aumento è largamente riconducibile al consumo di fossili (nelle emissioni antropogeniche di gas serra GHG accanto alla CO2 spicca, fra gli altri, anche il metano
prodotto, oltre che naturalmente, dal fossile, ma anche da allevamenti,
deforestazione e discariche).
Ø
che
le conseguenti previsioni della crescita delle temperature al 2100 stanno in una
forbice che va da +2 gradi, situazione molto critica, a + 6 gradi, scenario
ingestibile.
Lo stesso IPCC sottolinea che tale
previsione ha carattere probabilistico ed è quindi condizionata dalle azioni
correttive che l’umanità è chiamata a mettere in atto ben sapendo che quel che
sin qui è già stato immesso nell’atmosfera continuerà ancora molto a lungo la
sua azione riscaldante. La spiegazione fisica di quanto è fin qui successo
consiste nell’impossibilità di convertire in lavoro tutta l’energia termica
utilizzata in un ciclo energia-lavoro, per quanto lo si ottimizzi una parte dell’energia
finisce infatti dispersa nell’ambiente come “rifiuto della conversione energetica”. Diventa
allora evidente che l’impressionante crescita produttiva e consumistica ha già prodotto,
e sta tuttora producendo, un quantità altrettanto impressionante di rifiuti
termici, CO2 in primis, immessi
nell’atmosfera. In estrema sintesi in questo consiste ciò che chiamiamo “riscaldamento
climatico” ed il soggetto chiamato a contenerlo, fermarlo,
invertirlo, è una umanità avviata verso 9 miliardi di abitanti (che,
seppure con notevoli diversità e disuguaglianze, nasce e cresce nel “mercato”). In questo quadro
è il concetto stesso di “sostenibilità” che deve essere rivisto. Quello
classico, introdotto nel 1987 dal “Rapporto Brundtland”, cita “E’ sviluppo
sostenibile quello che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la
possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Per realizzarlo,
mantenendo almeno stabile l’attuale concentrazione di CO2, si dovrebbero
abbattere, oggi, le emissioni di GHG del 90%. Obiettivo irrealistico per ovvie
ragioni. E’ però tempo di una riconversione energetica vera, radicale e globale,
ma soprattutto concretamente realizzabile, gestibile ed efficace.
PARTE TERZA
= LA TRANSIZIONE E LE SUE QUALITA’
Le strategie per fronteggiare il
cambiamento climatico si articolano su due tipi di pratiche: “mitigazione” (diminuzione delle
immissioni in atmosfera)
e “adattamento” (accorgimenti per
attutire l’impatto del clima che cambia). Quest’ultimo ha due ordini di problemi: capire su cosa
intervenire (il
rischio è che sia ispirato da logiche economiche, il valore di ciò che si vuole
proteggere) e una
traiettoria del riscaldamento molto lineare, mentre al contrario la sua
caratteristica è la “discontinuità” (dovuta anche alla
imprevedibilità dei “punti soglia” (tipping points)
nostra parola del mese di Marzo 2021]. La mitigazione sembra quindi
essere, anche per considerazioni di altra natura, la strategia migliore (lasciando
all’adattamento quello che non si riesce a mitigare). Qui di seguito Nicolazzi evidenzia
le problematiche, le difficoltà, le contraddizioni che di più la stanno condizionando.
La transizione
retrograda = La
transizione energetica è una componente fondamentale della mitigazione, visto
quanto sopra è urgente decidere di farla avendo chiarito, il meglio possibile,
il “come” realizzarla. I dati di partenza da invertire sono impressionanti: nel
2018 il consumo primario di energia è stato coperto dal fossile per circa 14.000
milioni di tonnellate (4.700 petrolio nei suoi vari componenti,
3.500 gas naturale, 3.800 carbone,
insieme
valgonol’81% dell’energia utilizzata) per una percentuale pari all’81% del consumo totale, seguono
poi sempre in milioni di tonnellate: 700 di nucleare, 950 di idroelettrico,
meno di 600 da rinnovabili. L’obiettivo primario consiste quindi nell’ “aggredire” questo 81% di fossile con un processo graduale
di sostituzione che (obiettivi formalmente fissati negli accordi
internazionali sul clima)
dovrebbe vedere per il 2050: la fine totale del carbone, la diminuzione del
petrolio in una forchetta che va dal 32% al 74% e quello del gas dal13% al 60%.
Compensate da un parallelo aumento delle rinnovabili dall’attuale 10% al 49%-67%
(ci
sono poi il nucleare, questione molto controversa come si vedrà in seguito, l’idroelettrico,
realizzabile però solo in zone molto limitate, e le biomasse, che per avere una
scala significativa richiederebbero comunque un territorio troppo vasto). Le fonti energetiche alle quali
guardare non sono quindi così tante: sole, vento, acqua (il ruolo
dell’idrogeno è oggetto di ampie dispute: non esiste in natura allo stato puro,
lo si estrae dal metano, producendo molta CO2, o dall’acqua con
costi che, al momento, non sembrano incentivare un suo uso su grande scala). Che a
ben vedere vorrebbe dire, in un percorso retrogado, tornare alle componenti che
per millenni hanno alimentato l’energia organica. Le modalità tecniche
per aumentarne e ottimizzarne l’utilizzo non sembrano essere, per ora, sufficientemente
adeguate per l’obiettivo fissato ed intanto il petrolio resta un formidabile
concorrente: eccellente combustile, le sue performance in termini di densità di
energia (per
unità di volume)
e di densità di potenza sono, al momento, più alte, di quanto ricavabile da
sole, vento, acqua (che inoltre non possono garantire un flusso continuo ed
omogeneo, il che implica l’enorme problema dell’ “immagazzinamento”
di parte dell’energia prodotta per fronteggiare i cali fisiologici di
produzione). Altre
problematiche (impatto
paesaggistico, aree rurali e aree urbane, trasporto) non sono meno rilevanti, ma non tali
da spostare il percorso di transizione. La consapevolezza di questo gap impone quindi
chiare scelte in ordine a: finanziamenti adeguati, supporto alla ricerca
scientifica, quadro geo-politico governabile (il possesso dei
minerali rari, molto variegato e disomogeneo, è aspetto centrale). E’ l’evidente
chiamata in gioco della “politica”.
Transizione adolescente
= Il volume di
risorse finanziarie necessario per gli obiettivi fissati è sicuramente
eccezionale. Le soluzioni per reperirle finora individuate poggiano su tre
possibilità: tassazione mirata, divieto, sussidio.
La tassazione mirata consiste nell’utilizzare la leva fiscale sia per
disincentivare l’uso massiccio e prolungato di combustibili fossili che per
destinare alla transizione le risorse così ottenute. Sanando per altro
un’ingiustizia storica: l’industria petrolifera di fatto non è mai stata
chiamata a rispondere, almeno in termini di costi, della rilevante produzione
di rifiuti termodinamici (a puro titolo indicativo si tenga conto che
100 litri di petrolio possono diventare, con raffinazione, 15/20 litri di
benzina, tutto il resta è rifiuto)
e neppure dei più immediati danni ecologici legati a produzione e trasporto. Si
tratta di un dato che le teorie economiche definiscono “esternalità” (danni collaterali strutturalmente derivanti
da una attività, quelli collegabili al fossile valgono, secondo stime prudenti,
circa 5.000 miliardi di dollari l’anno, circa il 6,5% del PIL mondiale) e per la loro corretta gestione
indicano sostanzialmente due soluzioni: quella che prevede il loro inserimento,
tramite tassazione, nei costi di produzione (e quindi sul prezzo finale
del prodotto),
e quella che lascia al mercato la definizione del prezzo finale ma fissa, con
normative apposite, i limiti accettabili di esternalità. Alla prima si ispira
la “Carbon tax”, un sovrapprezzo applicato
ad ogni prodotto energetico in proporzione alla percentuale di CO2 rilasciata in atmosfera (l’idea è quella di
far andare fuori mercato i prodotti ed i produttori più inquinanti. E’ già
adottata, o in via di adozione, da parte di diversi paesi, ma con aliquote
molto differenziate. Alcuni paesi hanno introdotto una carbon tax anche sui
prodotti finali come i carburanti, già gravati da altre imposte. E’ il caso
della Francia e della conseguente rivolta dei gilet gialli), alla seconda la “Cap and trade”, altrimenti detta Ets (Emission Trading System), un limite di emissione di CO2 (cap) fissato per legge e suddiviso in
quote fra i produttori interessati con il prezzo finale determinato dal gioco
di mercato (la
UE lo ha adottato nel 2005 per le industrie energetiche con un sistema di
aggiudicazione delle quote tramite asta). Il dibattito su quale possa essere la più efficace è quanto
mai aperto e non poco complicato dalla difficoltà di individuare, in relazione
agli obiettivi, un “giusto prezzo del carbonio”.
Non aiuta di certo il fatto che, mentre il riscaldamento climatico è globale, tale
prezzo è però fissato in autonomia dai singoli paesi, innescando pesanti
aggiunte di concorrenza sleale fra Stati (non sono insoliti i
casi di imprese che spostano le attività verso Stati che applicano normative
più leggere). Una
possibile alternativa potrebbe essere quella di un “price
the carbon” (prezza il carbonio) deciso non sulla base delle
emissioni nei paesi di produzione, ma su quelle che si sarebbero prodotte nel
paese di importazione (border tax”, tassa al confine)
per realizzare
prodotti analoghi. La conseguenza inevitabile è che manca per ora, a livello
globale, una chiara e condivisa volontà politica di usare in modo adeguato,
diffuso ed equilibrato la leva della tassazione mirata. Prima mancata risposta della politica.
Transizione sussidiata = La strategia dei divieti sembrerebbe
più semplice ed immediata, ma le esperienze sin qui avvenute evidenziano al
contrario una minore efficacia e gestibilità. Escluso un divieto totale tout
court di fossile (pena lo stop immediato dell’economia globale) si può solo procedere fissando, in
progressione, “limiti” di emissione, i quali
però, per quanto adottati con prudenza, se mirano ad una vera efficacia sempre
e comunque comportano ricadute dirette sulle dinamiche produttive e sui loro costi.
Ed anche in questo caso si sta rivelando un grave impedimento la gestione
affidata ai singoli Stati di una strategia che, per funzionare non può che essere
universale ed omogenea. Più complessa è la scelta di puntare sui “sussidi”, vale a dire politiche di sostegno
finanziario, in qualche misura già attuate in diversi paesi, capaci di
incentivare l’avvio di una riconversione ad energia da rinnovabili (ad impianto attivato
i costi marginali di produzione sono minimi, sole e vento sono gratis). E’ infatti l’ammortamento
dell’investimento iniziale lo scoglio principale da superare per determinare,
nell’ambito dei piani finanziari che fissano entità del sussidio, un prezzo/tariffa
finale concorrenziale sul mercato (di norma infatti la concessione del sussidio
si accompagna all’impegno, da parte dello Stato di acquisire tutta l’energia
così prodotta).
Una problematica che ha, a chiusura del ciclo investimento
sussidiato-acquisto-vendita, una diretta
ricaduta sulle modalità di reperimento delle risorse per coprire il sussidio
che di fatto consistono, in un costo aggiuntivo (oneri di sistema) applicato in bolletta agli utenti finali
(è
un passaggio quasi obbligato per evitare che tali costi ricadano nel debito
pubblico statale)
che rischia di essere penalizzante per i redditi bassi, e di avere, in generale,
un effetto recessivo (più alto è l’obiettivo di raccolta più alto diventa il
prezzo al consumatore finale. Queste problematiche saranno esaminate più in
dettaglio qui di seguito).
La pressante fame di energia fa poi sì che una significativa quota parte degli
attuali sussidi sia destinata anche alla produzione delle fonti “assimilabili” (risorse energetiche
ottenute con calore di recupero da impianti che a monte hanno utilizzato fonti
fossili) , con
le quali rientra dalla finestra il fossile fatto uscire dalla porta, piuttosto
che il fossile stesso finanziando prezzi agevolati per certi settori (ad es. il gasolio in
agricoltura, il carburante per il trasporto aereo e navale, ovvero ribaltando
sui costi di sistema del trasporto ferroviario i minori introiti da accise
stradali). Sono
tutte complicazioni sanabili, ma per farlo ancora una volta occorre una
maggiore chiarezza ed un maggiore coraggio nelle scelte politiche di indirizzo,
aspetto che al momento sembra mancare. Seconda e
terza mancata risposta della politica.
Transizione manzoniana = Il famoso “adelante
con jiucio, si puedes” si adatta perfettamente alle concrete azioni
messe in atto a livello globale per rispettare gli impegni assunti nelle varie COP (Conferenze Of Parties, le riunioni annuali dei Paesi che hanno
ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) le cui decisioni fin qui non hanno
carattere vincolante e non prevedono sanzioni per i paesi che non raggiungono
gli obiettivi. Tutta la storia delle decisioni COP (comprese quelle di
Rio, di Kyoto, di Parigi, le più rilevanti in termini di obiettivi) è la
storia di ritardi, di mancati traguardi, di rinvii e dilazioni. La
ricerca del consenso elettorale interno prevale sempre sul coraggio di dare
reale seguito a scelte non sempre “popolari”.
Non sono tuttavia mancati passi in avanti di un certo rilievo: grazie al rispetto
globalmente avvenuto degli obiettivi COP sembra infatti ottenibile per il 2040
una prima riduzione, su base 2017, della quota di energia coperta dal fossile dall’81%
al 74%. Dato confortante ma che purtroppo si scontra con quello parallelo di un
aumento del consumo energetico globale che comunque porterebbe, sempre proiezione
al 2040, a 3,3 giga-tonnellate di gas serra in più (sempre su 2017). E ciò nonostante che, grazie alla
tecnologia, stia anche crescendo l’efficientamento dei consumi energetici e
che, quindi, per unità di prodotto serva sempre meno energia [un’altra formula
sintetizza bene questo aspetto: E=PAT, dove E, l’energia totale utilizzata dall’umanità, è il
risultato della combinazione di P,
popolazione, A , affluence (ricchezza,
benessere) e T, tecnologia, più questa
cresce meno pesa l’energia richiesta]. Vale a dire che il passaggio alle rinnovabile rischia
di essere meno incisivo se non si accompagna ad un correlato contenimento dei
volumi globali di energia prodotta e consumata. Gli indirizzi COP, fin qui misura
disattesi, da soli non basteranno, anche se pienamente applicati, occorre che
siano accompagnati e sostenuti da una visione globale del “viaggio dell’umanità”. Quarta
mancata risposta della politica
Transizione elettrica = l’elettricità, la forma di energia
ricavabile dalla maggior parte delle rinnovabili, è punto fermo della
transizione energetica e sta inoltre diventando il vettore energetico al quale
guarda la produzione globale di autoveicoli (l’attuale parco
mondiale conta quattro miliardi e trecento milioni di veicoli a motore!).
Siamo ancora in una fase di trend, il dato che vede la domanda di
elettricità crescere del 70% dal 2000 al 2018 deve essere infatti proporzionato
al parallelo aumento della popolazione mondiale e dei consumi. Occorre poi
tenere conto che il contributo che viene dalle rinnovabili è ancora modesto, ancora
nel 2018 circa il 38% dell’energia elettrica mondiale è stato generato da
centrali a carbone, ed una percentuale appena più bassa da centrali a gas,
lasciando alle rinnovabili una percentuale del 26%. Buona, ma ancora
insufficiente e molto concentrata in Europa (il cui dato
aggiornato al 2021 si attesta al 37%) la quale però incide per poco più del 10% sul totale
mondiale delle emissioni di CO2. Altre buone notizie arrivano per i costi: quelli dei
pannelli fotovoltaici e solari sono in costante discesa grazie alle economie di
scala rese possibili dal mercato in espansione. Se non è più utopia un futuro
in cui l’energia elettrica sia solo da rinnovabili e a costi bassi, resta pur
vero che al momento la comparazione dei costi di generazione elettrica dalle
varie fonti (metodo
Lcoe, Levelled Cost Of Electricity) attesta che quella più economica
resta il gas naturale (e lo sarà ancora per almeno vent’anni, conforta
che, in questo stesso, il carbone andrà definitivamente fuori mercato proprio
per i suoi costi sempre più alti).
Già ora però le fonti alternative risultano quelle più competitive là dove il
solare e l’eolico possono garantire una buona continuità di flussi. La loro
giusta “localizzazione” è quindi elemento
fondamentale, soprattutto se inserito in una visione di collaborazione ottimale
fra paesi. Resta, come già anticipato, centrale lo sviluppo tecnologico dei
sistemi di “accumulo” in grado di attutire
il punto debole delle rinnovabili: la loro “discontinuità
di flussi”. Al momento comunque incidono notevolmente i costi iniziali
di investimento, non sempre competitivi specie per impianti di grandi
dimensioni. Quasi ovunque, Italia compresa, le risorse per coprirli sono in
buona percentuale ottenuti da voci aggiuntive spalmate sulle “bollette” delle utenze domestiche/commerciali e
industriali (come
già anticipato trattando della transizione sussidiata). Senza entrare nel dettaglio tecnico
dei criteri di fatturazione utilizzati (troppo variegati e differenziati) in generale si rileva che quello
base fa esclusivo riferimento al volume dei consumi senza specifici
bilanciamenti con il reddito del consumatore. [Questo ad esempio significa
che chi (perché a basso reddito o perché abita in quartieri e fabbricati che
non lo consentono) non può installare pannelli ricavandone così un ritorno
economico copre in bolletta la quota sussidi anche per chi, avendoli montati, già
sta risparmiando sui consumi. Non esattamente un criterio redistributivo]. Per quanto concerne infine la
nuova frontiera dell’elettrico, il trasporto su strada, la questione non sembra
così definita per diverse ragioni ed il dibattito al riguardo è molto acceso,
nonostante che istituzioni e case produttrici sembrino marciare spediti in
questa direzione. Se è vero infatti che il motore elettrico non emette gas di
scarico, altri aspetti tecnico/politici (soprattutto se
riferiti al gigantesco parco veicoli da
sostituire)
vanno comunque evidenziati: la natura della fonte che alimenta l’energia delle
colonnine di ricarica e di quella che serve per la produzione di batterie (se arriva dal
fossile il vantaggio finale di minori emissioni viene non poco compromesso), il mantenimento, mediante
sostituzione, del numero totale dei veicoli circolanti non risolve l’inquinamento
urbano (in
un mondo in cui si prevede che nel 2050 quasi il 70% delle persone vivrà in megalopoli, i veicoli elettrici, che pesano di
più, accentueranno il problema delle polveri sottili dovute all’attrito
stradale), l’insufficiente
disponibilità dei minerali necessari per le batterie di alimentazione (al momento quelle a
celle di idrogeno non sono concorrenziali, prevalgono quelle al litio che
contengono anche cobalto. Non sono proprio “terre
rare”, ma le loro miniere sono poche e concentrate in aree non
“tranquille”)
ed infine una, non trascurabile, di carattere sociale: l’auto elettrica costa
ancora molto (anche
perché il mercato punta, assurdamente, soprattutto su modelli di gamma, e
potenza, alta) ed
in molti paesi, per incentivarne l’acquisto, sono previsti consistenti bonus a
carico della fiscalità generale. Vale a dire che l’intera collettività paga in quota
parte significativa un prodotto non proprio alla portata di tutti. Quinta mancata risposta della politica.
Transizione diseguale = E’ opinione diffusa fra analisti
economici e sociali che i programmi di
miglioramento ambientale, così come definiti finora rischiano di incidere di
più sulla fasce a medio/basso reddito, mentre, anche per raccogliere il necessario
consenso diffuso per politiche in qualche modo restrittive (oltre che per
considerazioni generali di giustizia sociale) è invece necessario che la sostenibilità ecologica non sia disgiunta dall’equità
sociale. I tre strumenti -
tassazione mirata, divieti, sussidi – fin qui esaminati vanno allora
valutati non solo in relazione alla loro reale efficacia ma anche per le ricadute
sociali che possono implicare. E’ opinione ormai consolidata che la strategia
del “price the carbon” (tassare il carbonio) sia, in termini di efficacia, quella
migliore (modulando
combinazioni fra lo strumento dell’Ets e della Carbon Tax in relazione ai
contesti specifici)
Ma, passando al secondo ordine di problemi, è innegabile una ricaduta economica
sui consumatori finali.
La carbon tax ad esempio può far raccogliere dallo Stato ingenti risorse
finanziarie le quali però (come dimostrano accurati studi economici riportati in
dettaglio nel saggio),
non sono ricavate in modo omogeneo dai diversi decili di reddito/ricchezza (l’insieme della popolazione
divisa in dieci decili in base al reddito/ricchezza posseduti). Colpisce infatti, coerentemente
con la sua filosofia, di più quelli che hanno una “impronta
ecologica e di carbonio” più alta (usano di più l’auto,
hanno più elettrodomestici, fanno più vacanze, etc.), di norma quelli che compongono i quattro/cinque
decili della “middle class”. Allo stesso
tempo però, anche se colpiti meno significativamente, i due/tre decili più
bassi hanno margini di reddito così ristretti da soffrire di più ogni
variazione in aumento dei prezzi. La congiunzione di queste due diverse
ricadute spiega bene come sia tutt’altro che scontato il consenso per
politiche di de-carbonizzazione (la base sociale dei neo-populismi e delle
rivolte settoriali non a caso è sempre più formata da questi due segmenti
sociali, come testimoniano i gilet gialli). Si pone allora con urgenza
l’opportunità di utilizzare, in quota parte, le risorse aggiuntive derivanti
dal “price the carbon” per finanziare
interventi mirati di “compensazione” (ad es. di ordine fiscale,
di servizi offerti, di aumento di pensioni e salari) in favore del decili più colpiti e
meno “consensuali”. Anche in questo caso
sarebbe opportuna una omogeneità di indirizzo a livello globale per evitare
ulteriori dannose divisioni e disuguaglianze fra Stati ed aree (un tema che dovrebbe
quindi essere assunto anche nelle stesse COP). Sesta
mancata risposta della politica.
Investimenti per la
transizione = Reperite,
in modo mirato alla sostenibilità ecologica e attento alla equità sociale, le adeguate
risorse occorre capire quali investimenti meglio possano sostenere una reale
riconversione energetica. Il quadro globale di partenza non sembra confortante:
gli investimenti energetici stagnano, tra 2015 e 2017 quelli complessivi sono
costantemente diminuiti per poi stabilizzarsi nel 2018 su una cifra di quasi
1.800 miliardi di dollari. Ma ancora più preoccupante è la loro ripartizione: circa 700 miliardi sono ancora per petrolio e gas
naturale a fronte di soli 300 miliardi circa in rinnovabili (i restanti 800
miliardi sono stati utilizzati per efficientamento energetico degli impianti
fornitori e utilizzatori già esistenti). Siamo, per le rinnovabili, su importi decisamente
inferiori a quelli stimati necessari per raggiungere gli obiettivi di
superamento del fossile (circa 500/600 miliardi di
dollari l’anno per i prossimi trent’anni). E’ un dato che non stupisce: la
maggior parte degli investimenti nel settore energetico proviene da soggetti
economici privati (ancora nel 2017 ben
il 95% degli investimenti in generazione elettrica proviene dal privato, con il
pubblico, che copre quasi per intero la ricerca, che interviene in quota parte
tramite società miste pubblico/privato),
il quale, va da sé, decide il da farsi sulla base di valutazioni di ritorno
economico. Non deve allora stupire se (vedi
considerazioni precedenti)
gli investimenti sul fossile, considerati investimento sicuro e redditizio ancora
per un significativo arco temporale, prevalgano su quelli per le fonti
alternative giudicate non in grado di garantire ritorni adeguati sul
breve/medio periodo (dato per interessante
sul lungo periodo, ma si parla di orizzonti temporali oltre il 2050). L’unica via di uscita da questo pericoloso stallo non può che essere quella di politiche statali di indirizzo capaci,
in aggiunta all’auspicato soccorso di ulteriori innovazioni tecnologiche, di
definire un quadro finanziario capace di garantire, da subito, adeguati ritorni
economici (ad esempio fissando prezzi competitivi
in contratti pubblici di acquisizione energia validi anche sul medio periodo, fermo
restando quanto prima sulla ricaduta finale sui consumatori). Al momento, globalmente, non si
colgono però segnali confortanti in questa direzione. Settima mancata
risposta della politica
Considerazioni aggiuntive: Dall’insieme di quelle fin qui svolte in questa parte emerge
che un vero
percorso di de-carbonizzazione non è ancora cominciato, non deve
quindi stupire che, nonostante i richiami delle varie COP, il carbonio in atmosfera
continui a crescere: più 3% di emissioni di CO2 nel
mondo nel 2017 su 2016 e 4,6% nel 2018 su 2017. Non è allora un caso che da più
parti, per ragioni quasi mai disinteressate, ci sia un ritorno di interesse per
il nucleare. Il dibattito sulla sua reale sostenibilità - tecnica, economica
e politica – è tanto acceso quanto complesso, e non è possibile in questa
sede entrare nel merito. E’ però certo che il nucleare non può essere
presentato come una opzione realizzabile in tempi compatibili con l’urgenza di
invertire la rotta (anche solo quelli di
progettazione e realizzazione sono ancora molto lunghi) ed è comunque una scelta che implica
una chiara gestione da parte della politica sul preliminare processo
decisionale, autorizzativo ed esecutivo. Non a caso, mancando un quadro certo
di riferimento, il regime attuale dei prezzi dell’energia da nucleare sono tali
da rendere economicamente improponibili nuove centrali (non a caso al momento si punta quasi esclusivamente
sull’allungamento della vita tecnica delle centrali già esistenti). Ottava mancata risposta della politica.
Tra governo e tecnologia =
La transizione energetica non sembra quindi essere una strada in discesa, incidono
ancora molto (soprattutto nelle
ricorrente crisi economiche e geopolitiche) le disponibilità accertate di fossile (viste in precedenza), ed è quantomeno un azzardo immaginare che il privato
orienti adeguati investimenti sulle rinnovabili. La transizione si è comunque in
qualche modo avviata, ma il suo orizzonte temporale di compimento resta molto
incerto. Le linee guida che la stanno ispirando aggiungono altre complicazioni
essendo tutte “modelli
top-down” (si fissano obiettivi e a cascata si pianificano le
azioni) che non
fanno adeguatamente i conti con le oggettive difficoltà di percorso. Va inoltre
detto che per realizzare una compiuta transizione energetica non ci si può limitare
a “cambiare
la fonte” (dal fossile ad altro) ma si deve in parallelo “modificare il convertitore” (Parte prima:
processo energetico = combustibile + convertitore), un’operazione che, stante la
platea di convertitori in opera, non si compie a sua volta in tempi brevi (significa sostituire con altri tutti gli strumenti,
industriali e civili, che attualmente funzionano a fossile). Occorre pertanto una giusta dose
di concretezza, capace di accompagnare le motivazioni di fondo, la quale può oggettivamente
contare su due soli strumenti: governo (dei processi)
e tecnologia. Quest’ultima, chiamata a fornire
soluzioni, a breve e vincenti, per la sostituzione della fonte e per la modifica/sostituzione
dei convertitori, sembra avere buone potenzialità per rispettare il suo
impegno. Ma da sola la tecnologia non basta, serve “governare”, in ogni suo aspetto,
il processo di transizione. E qui, come si è visto, la politica stenta a rispondere
alle domande che stanno emergendo. Certo non è un passaggio semplice
da concepire ed avviare, si tratta di sottoporre a critica radicale tutte le
convinzioni – economiche, sociali, culturali - che hanno sin qui accompagnato
il percorso storico in connubio della modernità e del ruolo del fossile, a partire in
particolare da quell’inciso evidenziato nella Parte Seconda relativamente al
concetto di “crescita”.
Già negli anni Sessanta il Club di Roma (libera
associazione di scienziati, economisti, politici, Capi di Governo e di Stato,
la cui formazione e attività è stata molto sollecitata da Aurelio Peccei, uomo
d’affari italiano) sosteneva
che il rischio ambientale e climatico richiedeva una inversione radicale della
crescita dei consumi e della popolazione. A distanza di sessant’anni non sembra
proprio che tale sollecitazione, e le molte altre di pari tono che l’hanno
successivamente rafforzata, siano state raccolte. Lo dimostra lo stesso
racconto, da più parti proposto, di una transizione energetica presentata come
un percorso, colorato di verde, capace, grazie alla tecnologia, di risolvere i
problemi ambientali e al tempo stesso di garantire costante crescita
di ricchezza. Questo saggio non può entrare nel merito di una questione così
ampia, Nicolazzi, nel fare comunque sue le perplessità di ordine generale sulla
sostenibilità delle crescita infinita, si limita ad aggiungere, in sintonia con
il tema specifico da lui trattato, una perplessità di carattere “energetico”: esistono
oggettivi limiti alla capacità/possibilità di ottimizzare l’uso delle risorse,
flussi energetici compresi. La formula sintesi vista in precedenza, E=PAT,
bene riassume la convinzione ottimistica sulla transizione energetica: T,
la tecnologia, si fa così efficiente da consentire da una parte la diminuzione
di E,
il fabbisogno energetico, e dall’altra la libera crescita di P,
la popolazione, e di A, la ricchezza, il benessere. La storia del
Novecento evidenzia però che A si è sempre tradotta in una
esplosione incontrollata dei consumi e quindi, a ricaduta, dei consumi
energetici da questi indotti. Vale a dire che E, l’energia, e T,
la tecnologia, sono sempre cresciute, vista la parallela crescita di A, di pari passo. Rivedere il concetto di
crescita passa anche attraverso questo aspetto.
Epilogo
sulla
democrazia = Come si è visto ogni transizione energetica si è
accompagnata a collegate modifiche delle forme del potere. Se il fossile ha
reso diffusamente possibile l’avvento della democrazia, oggi non si può non
constare che il rapporto con la transizione della democrazia rappresentativa è
ambiguo, incostante, troppo condizionato dal consenso a breve. E’ uno scoglio
di non poco conto da superare adesso che l’umanità è chiamata a rivedere la sua
stessa idea di “abitare
la terra”