Il “Saggio” del mese
DICEMBRE 2022
E’ purtroppo molto
lungo l’elenco delle situazioni – geopolitiche (nella recente nostra conferenza tenuta dal prof. Coralluzzo “L’Europa di
fronte alla guerra in Ucraina” sono emersi con chiarezza i gravi limiti della
politica estera “europea” di fatto inesistente perché ancora demandata ad ogni
singolo Stato), economiche, sociali, ambientali, culturali - che evidenziano quanto sia
ancora lunga la strada per poter compiutamente parlare di “Europa Unita”. Sono poi frequenti le contrapposizioni,
fra singoli Stati e fra gruppi di Stati, a segnare fratture difficilmente
superabili, che non lasciano ben sperare per il prossimo futuro. Al di là di
queste difficoltà e divergenze, colpisce in particolare la mancanza di una più
precisa idea condivisa di Europa, di una sua concezione ideale, capace di orientare
strategie, politiche di lungo respiro e singoli passaggi. A più di ottant’anni
dal “Manifesto di Ventotene”, la prima forte sollecitazione
all’unità europea basata proprio su motivazioni di ordine ideale e valoriale, è
quindi ancora tutto da definire il concetto di “identità europea”. Le attuali emergenze impongono di
colmare il prima ed il meglio possibile questo vuoto. Per sperare di riuscirci,
per incidere sul presente e sul futuro europei, diventa innanzitutto indispensabile
recuperare dal passato le ragioni, di ordine storico, culturale e ideale, a cui
guardare in questo sforzo. Il “Saggio” di questo mese si muove esattamente in
questa direzione
Il saggio (prima edizione del
2007, quella utilizzata per questa sintesi è edita da “Il Mulino” nel 2016) di Rossi (1930, torinese, filosofo e storico
della filosofia, per molti decenni docente di Filosofia delle storia
dell’Università di Torino) attesta la grande
attenzione verso questo tema nel recente dibattito storico-filosofico italiano,
confermata dalla pubblicazione, appena precedente (2003), del saggio di
Giovanni Reale (1931-2014, filosofo, storico della
filosofia, accademico e traduttore italiano).
Questo testo (in cui emerge la
profonda e sincera fede cristiana di Reale) individua, pur non rinnegando il peso di altre influenze, le radici
culturali e spirituali della possibile idea di Europa soprattutto nella “filosofia classica greca” (con al centro un
concetto di uomo coincidente con la sua “psychè”, il “pensare per concetti, il
valore della persona, della sua intelligenza e della sua anima), nel “cristianesimo” (nella sua strettissima
relazione con la filosofia greca ed in particolare con quella di Platone), ed infine nel “metodo matematico-sperimentale” (alla base dell’affermarsi delle scienza
moderna). Il dibattito sulle possibili radici
culturali e spirituali europee tanto è aperto, approfondito, in costante
evoluzione, in campo culturale quanto è sterile, superficiale, strumentale,
deformato e rigido, in campo politico ed ideologico. Seguendo la traccia del
saggio di Rossi ci si muoverà, ovviamente, nel primo solco (I primi tre Capitoli, quelli di inquadramento
generale, sono qui percorsi a volo d’aquila)
Capitolo primo = Un continente
“inventato”
Condizione essenziale per definire una possibile
identità comunitaria è avere contezza dei confini fisico/geografici che la
contengono. Per quelli dell’Europa sorge però in una prima complicazione, non
aiuta infatti la sua conformazione orografica e idrografica. Se non vi è dubbio
sui suoi confini occidentale, settentrionale e meridionale, chiaramente definiti
da mari e oceani, quella orientale che
sfuma verso l’Asia ha invece sempre avuto confini incerti stante la loro continuità
fisica.
Attualmente per Europa, nella parte
orientale e sud-orientale, si intende il territorio delimitato dalla lunga
catena degli Urali, dal fiume Ural, dal Mar Caspio, dalla catena del Caucaso,
dal Mar Nero, dallo stretto dei Dardanelli e del Bosforo. Sono però confini naturali
non omogenei essendo il risultato di un lungo percorso storico nel corso del
quale essi sono stati più volte ridefiniti non sulla base di evidenze fisiche,
ma su una sempre provvisoria delimitazione geo-politica e culturale. L’Europa
rappresenta quindi un caso a sé rispetto a tutte le altre aree continentali
proprio perché la sostanziale continuità territoriale con l’Asia (tale da definire non due continenti distinti, ma
un’unica entità geografica: l’Eurasia. All’interno della quale la parte storicamente definibile come Europa ha
comunque sempre avuto dimensioni non comparabili a quelle dell’Asia). Un destino peraltro segnato
fin dall’origine mitica del nome “Europa” (il nome della fanciulla sedotta da Zeus e da lui resa
madre di Minosse alludeva in effetti al solo legame tra la civiltà cretese e
quella greca). Anche la trasposizione del nome di Europa da una figura femminile mitica
ad una mutevole parte della Terra dimostra che essa è, di fatto, una “invenzione storico-culturale” che si è costituita, e
spesso smarrita, nel corso dei secoli.
Capitolo secondo = Etnie, lingue e
patrimonio genetico
Una seconda, non meno rilevante,
complicazione deriva poi dalla composizione etnica dei popoli che l’hanno
abitata. Il recente sviluppo della mappatura genetica delle popolazioni, con
l’ausilio della ricerca archeologica e linguistica, consente ormai di avere un
quadro sufficientemente preciso. Il processo di formazione della popolazione
europea ha inizio (circa 50.000 anni fa) con alcuni più
consistenti arrivi dall’Africa di Sapiens, la cui prolungata (e talvolta conflittuale) convivenza con i preesistenti
Neanderthal (poi estintesi circa 40.000 anni fa, a
giudizio di molti anche per mano di Sapiens, ma le cui tracce genetiche sono
comunque in parte rimaste negli attuali europei) dà vita ai primi
sparuti insediamenti umani. A partire da circa 12.000/10.000 anni questi originari
Sapiens “europei” scompaiono (lasciando tracce genetiche in pochissime aree, ad
esempio nelle regioni basche) essendo stati assorbiti/integrati dalle
ripetute, e ben più consistenti ed attrezzate, migrazioni di popolazioni di
ceppo indo-europeo. E’ in questa fase che si forma la comune base genetica che resta in gran misura la caratteristica di base dell’intera
attuale popolazione europea. Altre successive ondate migratorie, e la diffusione
verso nuove aree di quelle preesistenti, creano, già a partire dal
terzo/secondo millennio a.C., un rilevante grado di differenziazione “etnica”. Sulla comune base genetica si innestano
cioè evoluzioni, culturali e linguistiche, che differenziano, su base locale,
la primigenia unità di stirpe, segnando un processo evolutivo che si è di fatto
concluso (dopo la determinante fase dell’espansione
“romana” e delle ultime ondate di invasioni barbariche) solo durante il Medioevo.
Parallelamente a questo processo si è sviluppato quello, linguistico a comporre
un mosaico di lingue, frammentate in una miriade di dialetti locali, solo
parzialmente affiancate nei secoli dell’Impero Romano dal latino e, sempre a
partire dal Medio Evo, dal primo affermarsi di lingue territorialmente più
diffuse grazie alla lenta costruzione di regni e imperi. (chi fosse interessato ad approfondire l’evoluzione
linguistica europea può visionare il nostro post del “Saggio del mese” di Aprile 2022 “Storia universale delle lingue” di Harald Haarman). L’Europa, così come è
oggi intesa, presenta quindi una originaria unità genetica (determinata più dalle vicende preistoriche che da
quelle storiche), seguita però da una variegata differenziazione etnica e linguistica con,
a grandi linee, una linea di separazione tra le popolazioni dell’area
mediterranea e quelle dell’area centro-settentrionale
Capitolo terzo = il mondo antico e la
nascita dell’Europa
L’originaria idea di Europa della classicità
greca, ben più ristretta di quella attuale essendo limitata alla sola area
mediterranea, [Erodoto (484 a.C. – 425
a.C.) definiva Europa la parte di mondo compresa fra l’Asia e la Libia, a
indicare l’Africa], è rimasta a lunga intatta, per poi conoscere una prima estensione grazie a
quella parallela del dominio romano al di là delle Alpi verso Nord e verso Est
(ma mai oltre il fiume Reno). La lunga stagione successiva
al dissolvimento dell’Impero Romano non modifica più di tanto questa visione
che semmai (con la nascita dell’Impero Carolingio,
verso la fine del primo millennio dell’era volgare) sposta il suo
baricentro dal Mediterraneo verso la terraferma continentale. Per alcuni secoli
è poi la Chiesa cristiana, con la sua diffusione, a rappresentare una parvenza
di idea unitaria di Europa, ma la sua successiva divisione fra Chiesa
d’Occidente e Chiesa d’Oriente (avvenuta con lo scisma
di inizio nuovo millennio) fissa una netta linea di demarcazione. A lungo
l’idea di Europa, per quanto ancora sempre solo abbozzata, includerà quindi solo
la parte occidentale del continente. Solo con l’impero di Carlo V d’Asburgo (1500-1558) in questo termine confluirà, accanto al compiuto
consolidamento di questa parte (rafforzata
dall’opposizione all’avanzata dell’Islam arabo) un primo sguardo verso
l’Oriente, aprendo una più netta strada verso un’idea di Europa sempre più
sovrapponibile a quella attuale.
Capitolo quarto = Le molteplici “radici”
dell’Europa
Il quadro sin qui molto sinteticamente tracciato
rappresenta il contesto geo-storico nel quale si colloca la ricerca, che per
non essere fuorviante non deve però essere mossa da motivazioni ideologiche, delle
possibili “radici” dell’Europa. Quella delle radici è
chiaramente una metafora e come tale di complessa lettura, meglio è tentare di
ricostruire le possibili “componenti costitutive
della cultura europea”, individuando cioè i processi che hanno portato al loro formarsi,
conservarsi, trasformarsi e talvolta cancellarsi. In questo senso si impone una
prima considerazione: alla base della cultura europea si rintracciano una
pluralità di componenti – religiose, politiche, etniche, sociali – il cui peso
è mutato più volte nel corso dei secoli (il quadro storico tracciato dà senso ad una loro ricerca solo a partire dagli ultimi secoli del primo
millennio E.V.). Dall’insieme delle più recenti ricerche in campo storico [emergono fra gli altri i lavori di Dawson Christopher
(1889-1970) e di Febvre Lucien (1878-1956) fondatore della Ecole des Annales] sostanzialmente emergono
tre rilevanti componenti:
la cultura greco-latina = o perlomeno quanto,
per tutto il Medioevo, ne viene recuperato nei monasteri e nelle “scholae”. In essa rientra anche il modello romano di
organizzazione politico-amministrativa ampiamente diffuso e sedimentato, e la sua
successiva “commistione” (che comunque ne salva l’impianto di base) con l’organizzazione
tribale delle ripetute invasioni barbare (e’ opinione condivisa in campo storico che la stessa società feudale
europea sia il frutto della combinazione di “elementi romani” e “elementi barbari”)
la religione cristiana = che soppiantando i culti pagani (molte tracce dei quali sono comunque rinvenibili nello stesso canone
religioso cristiano) assicura
per diversi secoli non solo una fondamentale unificazione religiosa, ma anche
una organizzazione sociale gerarchica non meno decisiva per l’integrazione dei
popoli barbari
l’assimilazione etnica = che, attraverso un percorso lungo
e spesso tortuoso, consente la progressiva sintesi in un unico sentire delle
comunità locali che, per quanto molto frazionate, lentamente forma essenziali elementi
di omogeneità sociale e culturale.
Queste componenti conoscono una loro
specifica evoluzione:
la cultura classica conosce nella stagione “umanistica” (1300-1500) una diffusa espansione,
non poco aiutata dal parallelo affermarsi delle “lingue volgari”, delle “autonomie locali” e delle “corti signorili”. Nascono in questo periodo le prime vere
“scuole filosofiche” protagoniste di un
intenso recupero e valorizzazione della classicità che, iniziato in Italia,
presto diffonde in tutta Europa gli “studia humanitatis” fondamentali per il
formarsi di una prima comune “cultura europea”
la religione cristiana, prima della sua
traumatica divisione con il Protestantesimo (la
Chiesa d’Oriente ha esclusiva influenza
nella regione balcanica e nelle regioni europee più orientali), conosce una diffusione
ad ampio raggio (coinvolgendo via via
tutte le etnie comprese quelle barbare) ed in profondità in ogni strato sociale per quanto non poco condizionata, come meglio
si vedrà qui di seguito, dall’affermarsi del “potere temporale” della Chiesa
il processo di integrazione etnica, se lentamente contribuisce a formare
una visione comunitaria capace di inglobare, ma a
lungo solo su scala locale, le diverse culture etniche, acquisisce, strada
facendo, caratteri politici, tali da segnare l’evoluzione delle forme di potere,
il contrasto tra città e campagne, l’affermarsi di nuovi strati sociali legati
al commercio e alle finanze, ma anche la lunga stagione delle infinite guerre
che segnano, con geometria variabile, l’intera storia europea
Capitolo quinto = Il rapporto con il
passato tra richiamo e distacco
Il lungo percorso che vede queste tre “componenti” formare, lentamente e con un andamento quanto
mai irregolare, un primo più compiuto abbozzo di Europa, ha alla sua base un comune
e decisivo elemento, che si prolunga fino alle soglie della Modernità,
costituito dal bisogno, visto come salvifica soluzione, di un “ritorno al passato”. Che però, inevitabilmente, si è sempre
manifestato con uno sguardo molto condizionato da contingenti convenienze e
quindi di fatto rivolto verso aspetti, a formare un’idea di un passato
strumentalmente idealizzato, di volta in volta differenti. Questo sguardo “obliquo” non può pertanto non rafforzare la stessa perplessità verso l’uso del termine
“radici”, le quali presuppongono al contrario una
loro costante e immutabile interpretazione. Non a caso il grande storico Eric
J. Hobsbawn (1917-2012) ha perentoriamente
affermato che la tradizione di un popolo, di una comunità, non è un dato certo
e permanente, ma è al contrario il risultato di un continuo processo di
formazione, è sempre “il prodotto di una
invenzione più o meno intenzionale”. Questa
strumentale deformazione ha riguardato tutte le tre componenti:
“il rapporto con l’antichità”, si è infatti manifestato
in momenti diversi della storia europea assumendo ogni volta differenti
valenze. All’originaria volontà medioevale di trovare nei testi classici spunti
di conforto, morale e culturale, lungo i “secoli bui”, è subentrata, nel corso del Rinascimento prima italiano e poi europeo,
quella di vedere e recuperare nell’antichità greco-romana “modelli ideali di bellezza, di armonia, di tensione
culturale” per sostenere l’dea di una nuova humanitas. Ma già verso la fine 1600 il
primato della cultura antica viene messo in discussione nel corso della “querelle des anciens e des modernes”, promossa dalla Académie
Francaise, che vedeva nel moderno uomo europeo un soggetto più preposto al
progresso proprio perché capace di riassumere in sé, andando oltre i modelli
del passato antico, “tutti gli ingegni dei
secoli precedenti”. Non a caso già da metà Settecento, con il crescente affermarsi delle
scienze moderne, la classicità, pur mantenendo una qualche presenza negli studi
umanistici e negli stessi percorsi educativi, viene ridotta a puro modello
estetico per le arti figurative.
l’eredità religiosa della cristianità conosce a sua volta un
percorso ben più complesso. Se non muta, nella sua più intima sostanza, il
sentimento religioso cambiano invece, e anche profondamente, i modi in cui si esso
è stato vissuto e le forme in cui si è storicamente manifestato. Emergono, già nei primi secoli del nuovo millennio, profonde differenze
nelle sguardo rivolto al passato, alle origini del cristianesimo, a formare due
tendenze che si misurano spesso in forte contrasto tra di loro. Da una parte quella della devozione, della fede popolare mossa dall’immagine
idealizzata delle originarie comunità cristiane, con la loro carica di
fratellanza e di attenzione caritatevole verso i bisogni degli ultimi,
dall’altra quella dell’istituzione Chiesa che, in nome della titolarità della “vera fede” già a partire dagli ultimi secoli del primo millennio,
acquisisce una dimensione di potere “temporale”. Nei
primi secoli del Medioevo si assiste infatti alla graduale costruzione di una monarchia
pontificia al culmine di una struttura gerarchica
i cui pilastri consistono nel “primato del Vescovo di Roma”, nel sorgere di una “curia”,
nella “separazione
tra clero e fedeli”, di fatto relegati ad
un ruolo passivo, nella uniformazione dei contenuti dogmatici, dei riti, della
liturgia. Come contraltare la fede
popolare ha spesso promosso movimenti (fra gli altri si ricordano quelli dei Catari, degli Albigesi, dei Valdesi) che, richiamandosi
alla povertà evangelica del passato originario, non di meno formano uno dei
presupposti fondamentali della cultura europea sfociando in un loro definitivo compimento
con la “Riforma protestante”. La quale però, in
aggiunta al rifiuto del ruolo della Chiesa romana, segna una svolta ben più
profonda basata su una costruzione teologica assai distante anche dall’originario
Cristianesimo medioevale. Il principio della “sola scriptura” (l’unico vero riferimento del fedele sono le Sacre Scritture) incide profondamente nelle modalità di vivere le fede
e crea una netta divisione nel campo cristiano che vede, a grandi linee, restare
sotto il controllo della Chiesa l’Europa mediterranea con quella continentale
che, con varie articolazioni, aderisce invece al Protestantesimo, incidendo così
in profondità sull’esistenza di una unica “radice cristiana” (la lunga stagione delle guerre europee è
in gran misura alimentata, in aggiunta al formarsi degli Stati nazionali su cui
si tornerà in seguito, da questo contrasto)
E’ comunque nella congiunzione fra
Rinascimento e Riforma, nell’evoluzione delle prime due componenti, che si
pongono le basi dell’Europa moderna, ed ambedue condividono, nella loro genesi,
la forte valenza di questo ricorrente “ritorno al passato”, per entrambi però segnato dalla condanna, dal
rifiuto di quello più recente, quello della cultura della cultura scolastica
per il Rinascimento e quello delle decadenza temporale della Chiesa per la
seconda. In questa loro congiunzione si innesta poi, e non caso, l’irruzione
della scienza, del metodo scientifico, dell’epoca dei “Lumi”, a segnare la definitiva cesura con i
secoli precedenti e a formare un nuovo fondamentale terreno comune sul quale
germoglierà definitivamente l’Europa Moderna.
l’evoluzione della terza componente, quella etnica, va
collocata in questo quadro. La sua valenza resta a lungo sostanzialmente
stabile manifestandosi, quasi sotto traccia, nelle varie comunità locali del
loro non poco impermeabili alle sollecitazioni culturali. Sono quindi un caso a
sé alcune dinamiche, come quella francese che vede la sconfitta della cultura
occitanica da parte di quella delle regioni centrosettentrionali. Non deve
quindi stupire che lo sguardo etnico al proprio passato lo fissi come elemento
fondativo, spesso di carattere mitico, che rende il mondo delle comunità locali
quello più lento nel percorso verso una identità più ampia. Non incidono più di
tanto su di esso neppure i nascenti stati monarchici che, basati su chiave
dinastica, accorpano, ma in un continuo confuso mutare di confini, etnie
diverse non di rado in contrasto tra di loro. E’ stata semmai la Riforma a
mettere in moto un cambiamento delle culture locali favorendo l’uso delle loro
lingue per tradurre e leggere le Sacre Scritture (fin lì diffuse solo in latino) e creando così un collegamento tra
religione ed etnia fin lì di fatto sconosciuto. La persistenza del compattamento
etnico spiega, successivamente, anche la resistenza verso il carattere
universalistico della cultura illuminista. Vista come un “prodotto francese” innesca una difesa del passato
identitario di comunità, un elemento che lo stesso Romanticismo europeo assumerà come proprio riferimento identitario. Sarà infine il
superamento degli Stati dinastici (quello Asburgico in
primis) e l’affermazione di Stati più coincidenti con una più ampia comunità a
formare uno “spirito del popolo” capace di inglobare, con
riferimento ad un comune territorio, le singole component etniche. Ma l’onda
lunga di uno sguardo rivolto ad un passato di mitica omogeneità etnica non
scomparirà mai del tutto, tanto da manifestarsi, ancora in pieno Novecento, con
l’esaltazione nazista della razza ariana e con il mito fascista del destino
imperiale romano (e con la stessa esplosione
di nazionalismi e sovranismi sorti negli ultimi decenni)
Capitolo sesto = Identità per differenza
Al termine di questa
complessa e disordinata evoluzione diventa possibile, a partire dalla
Modernità, una riflessione su una, per quanto ancora ipotetica, “identità europea”. Il concetto di identità è in effetti una nozione di per sé stessa a rischio
di vaghezza, e più è ampia, composita, antica, la comunità alla quale riferirla e più
rischia di essere vaga e artificiale. E quindi è bene tenere ferma la
considerazione che questa possibile identità non può essere intesa, a
differenza di quelle nazionali, come una espressione di elementi strettamente
connessi tra di loro a formare un insieme organicamente definito. Sarebbe cioè una
inutile forzatura, un grave errore, immaginarla come un insieme di valori, di
comportamenti, di credenze, condivisi con identico coinvolgimento in ogni
singola realtà nazionale. Essa può semmai
indicare una continuità di comune percorso nel tempo, a comporre una memoria
altrettanto comune, definibile sulla base di una attenta selezione degli
elementi che la compongono. Sono infatti molteplici i processi che possono
concorrere a delinearla e quello che emerge per primo dal percorso storico
europeo è il suo manifestarsi per via negativa, vale a dire per dinamiche di esclusione di altre identità viste come
alternative. Nella storia secolare dell’Europa è infatti chiaramente rintracciabile un
costante alternarsi di processi di inclusione e, ancora più spesso, di
esclusione. Fra quelli più significativi il primo a manifestarsi è stato il conflitto plurisecolare con il mondo islamico [è soprattutto nel secolo che va da metà 1400 alla
battaglia di Lepanto del 1571 che la guerra contro l’Islam diventa un elemento
decisivo per la nascita di un’idea di Europa, anche se già nelle “Chanson de
geste” (il ciclo cavalleresco del paladino Orlando) compare per la prima volta
la parola “Europa” e i guerrieri che combattono gli Arabi sono chiamati
“europei”] Le diverse analogie fra Cristianesimo e Islam (entrambi religioni monoteiste, “del libro”, di derivazione dall’ebraismo,
di aspirazione universalistica) sono esattamente la ragione che spiega la
loro storica inconciliabilità (che perdurerà fino
all’Età Moderna per poi stemperarsi con non poca fatica) che impone all’Europa
intera di unirsi, spiritualmente e militarmente (rientrano in questo aspetto le diverse Crociate per liberare Gerusalemme,
anche se discontinue e spesso improvvisate), per fronteggiare le mire
espansionistiche mussulmane. Ed è ancora una differenza di carattere religioso
alla base di un secondo conflitto secolare: quello con la Chiesa “ortodossa”. Se con l’Islam la minaccia percepita arrivava
da Sud, quella con i popoli dell’oltre Elba (il fiume che attraversando Germania e Repubblica Ceca ha per diversi secoli
segnato il confine orientale dell’Europa) arriva da Est, dalla parte dell’Asia che a
lungo è stata vissuta come una minaccia, mai ben definita, di una civiltà
comunque differente. Ma in questa oscura minaccia, che dalla lontana Asia investiva il cuore
dell’Europa, è a lungo ricaduto anche l’ampio spazio geografico (occupato da popoli di etnia germanica, slava, nordica) nel quale si sono
concentrate due correlate ragioni di diversità: quella teologica con la Chiesa
Ortodossa (nata a Bisanzio nel 988), e quella geopolitica con
la Russia imperiale (che si forma ad inizio
Settecento). Vero è che la contrapposizione tra il Cristianesimo romano e quello
Ortodosso non ha mai generato, a differenza dell’Islam, espliciti conflitti
armati ed ha semmai, nel corso dei secoli, creato una configurazione di
influenza religiosa a macchia di leopardo. Diversa quella con la Russia, a
lungo vista come una potenza ostile con mire espansionistiche e quindi motivo
di frequenti conflitti armati, la quale era percepita come una differente forma
di forte potere centralizzato di tipo dispotico inconciliabile con i valori di
libertà che, negli stessi secoli di formazione dell’Impero Russo, sempre più si
affermavano. Al punto di vivere questa differenza come una autentica “contrapposizione tra civiltà e barbarie” [episodicamente interrotte per brevi periodi da alcuni
imperatori illuminati come Pietro il Grande (1672-1725) e Caterina II
(1729-1796)] Come meglio si vedrà qui di seguito questo percorso di formazione di una “idea di Europa” come differenza da altre culture ha però
al tempo stesso contribuito a formare la convinzione europea (rafforzata dalla incontestabile superiorità
tecnologica che troverà ulteriore accentuazione nella espansione coloniale
verso Africa, Asia ed America, e nell’incontro con altre civiltà) di uno status di
superiore civiltà, di essere destinata su questa base ad una sorta di “missione civilizzatrice”, come se all’Europa
fosse stato consegnata, nel suo definirsi identitario, “la sorte di guidare l’umanità”.
Capitolo settimo = Identità locali,
identità nazionali, identità europea
Il lungo, tormentato e complesso, percorso storico di
formazione di una possibile identità europea, è stato non meno condizionato di
quello, a lungo su di esso prevalente, di un’altra forma di identità, l’ “identità
nazionale”. Il senso di appartenenza comunitaria, che nell’antichità
si esauriva nella “consanguineità dell’appartenenza etnica”
vissuta nelle piccole comunità del tempo (lungo i
suoi molti secoli anche l’Impero romano, quando non percepito come occupatore,
non sembra aver costituito una diffusa appartenenza identitaria)
a partire dal medioevo inizia a coincidere con una superiore dimensione
socio-economica: quella delle città, là dove queste sorgono come risultato
di un processo di inurbamento (a creare sedi di residenza del
potere, temporale e religioso, e di concentrazione dei commerci). La contemporanea successiva appartenenza
a regni ed imperi, vissuti come una “dimensione altra” (come si è
visto per molti secoli soggetta a continue modificazioni), non sembra aver inficiato le basi
questa radicata relazione identitaria. E’ solo molto più tardi, agli albori
della modernità europea con la progressiva affermazione della forma “Stato”,
che il concetto di “nazione”, di “stato nazionale”, inizia ad
avere una sua valenza nello spazio identitario. Gli elementi che hanno concorso
al formarsi di questo nuovo senso di appartenenza, ad una comunità non più
etnica ma “politica”
di più ampie dimensioni (anche in questo processo il ruolo
del definirsi “per differenze” è stato
fondamentale), sono
stati molteplici. E’ rimasta centrale la consanguineità, che però, inserita in
un più ampio contesto, non sempre corrispondeva esattamente alla reale comunanza
etnica, essendo diluita in una sorta di “nuovo potere”. Tant’è che ad essa si è dovuta progressivamente
affiancare una “comunanza
culturale”, la condivisione di “miti fondativi” basati su un passato
idealizzato da narrazioni letterarie (si pensi ad
esempio, per il caso italiano, a Dante e a Petrarca, al più politicizzato
Machiavelli, e poi secoli dopo alla loro ripresa da parte di Vittorio Alfieri
ed Ugo Foscolo). Per il
sorgere di una identità nazionale è stato quindi fondamentale il ruolo della “nazione
culturale”, anch’essa non sempre esattamente sovrapponibile ai
preesistenti legami identitari. Solo a processo di formazione dei moderni Stati
nazionali completato l’avvenuta unificazione di un territorio in un’unica “entità politica”
giustificata da una ben individuata “sovranità statale” [In questo
contesto, politicamente e istituzionalmente definito, hanno poi giocato un
ruolo decisivo di rafforzamento della costruzione identitaria l’istruzione pubblica ed il servizio militare (nella
mitologia della nazione il “morire per la patria” ha acquisito un significato
sacrale)] si è completato
il processo
di identificazione dei vari popoli europei, magari comprensivi di
più etnie, con le rispettive “patrie” . E’ n questo quadro va collocata la stessa incidenza
della stagione dei “Lumi” sulla storia della
cultura europea. A dispetto del suoi caratteri fondanti - esaltazione del ruolo
della scienza e del metodo scientifico, promozione di una visione sociale
basata su un marcato laicismo in netta contrapposizione ad ogni forma di
dispotismo e di condizionamento religioso, convinzione del carattere
universalistico di tali valori – che avrebbero potuto costituire un fondamentale
apporto alla costruzione di una identità europea, le ricadute effettive dell’Illuminismo
in ambito europeo hanno invece avuto un esito del tutto opposto, tanto da
rendere difficile (come anticipato in precedenza) la sua assunzione al rango di
“componente”
di una identità europea. L’universalità del suo messaggio è stata infatti sicuramente
recepita, in forme più o meno consistenti e diffuse, nell’ambito culturale di
diversi paesi europei, ma divenendo nel reale procedere storico una visione ovunque
declinata in termini nazionalistici. In ogni caso l’identità nazionale, liberamente
scelta piuttosto che artificiale, forzata quando non costruita ad arte, ha caratterizzato
per più secoli, fino a giungere al suo drammatico culmine nei conflitti
novecenteschi, l’intero percorso identitario europeo. Il quale è potuto
rientrare apertamente in scena solo nel secondo dopoguerra proprio come reazione
ovunque condivisa a queste autentiche carneficine. La partita è però tutt’altro
che chiusa, le idealità del dopoguerra hanno sì messo in moto l’attuale contraddittorio
percorso di costruzione comunitaria ma l’attuale cronaca politica sembra essere
caratterizzata dal risorgere di “nazionalismi” e “sovranismi”. E’ non è casuale il
loro manifestarsi, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica e del suo
ferreo controllo, soprattutto in quella “terra di mezzo mai compiutamente “europeizzata”
come si è visto in precedenza.
Capitolo ottavo = L’Europa e le altre
Europe
In questo Capitolo Pietro Rossi ripercorre, inevitabilmente in modo non poco sintetico, il percorso storico europeo di “esportazione/imposizione”
della propria cultura e del proprio modello di società in tutto il resto del
mondo sulle ali della sua colonizzazione spinta. Un processo che ha creato “altre Europe”,
per diversi aspetti molto dissimili tra di loro stante la diversità delle
civiltà colonizzate, spiegabile con la superiorità tecnologica, economica, e
militare europea. Si tratta comunque di un tema così complesso da non poter
essere trattato nel dettaglio in questa sede. Certo è che la vicenda coloniale
ha avuto una precisa influenza sulla genesi dell’identità europea avendo
accentuato non poco quella presunzione europea di una superiorità
culturale e civile già messa in luce nel precedente capitolo sesto. Allo stesso modo non è affrontato in questo
Capitolo il tema, in parte ripreso nell’ultimo
Capitolo decimo, di quanto
abbia influito, e stia tuttora influendo, l’evidenza di una Europa che non è
più la guida del mondo in quanto sopravanzata, e sostituita in questo ruolo, da
molte delle stesse parti del mondo a lungo colonizzate
Capitolo nono = Integrazione senza unità
Sembra davvero difficile sostenere che il processo sin
qui avvenuto di integrazione e di costruzione di una vera comunità europea
abbia adeguatamente contribuito al rafforzamento di quella identità europea
immaginata, auspicata e teorizzata, dalle correnti di pensiero che, seconda
guerra ancora in corso, con questo concetto si sono misurate. Nel difficile
contesto geopolitico del secondo dopoguerra, condizionato dai fragili equilibri
consentiti dalla guerra fredda, era pressoché inevitabile che la spinta iniziale
per una visione comunitaria poggiasse soprattutto sugli aspetti economici. Già
nella fase di ricostruzione postbellica (e poi a
maggior ragione nel tumultuoso affermarsi di un mercato sempre più globalizzato) la dimensione nazionale risultava
inadeguata alle sfide del mercato. I sogni autarchici,
che a lungo sono stati una importante componente delle identità nazionali, divenuti
ormai insostenibili appartenevano definitivamente al passato. A distanza di più di
cinquant’anni dai primi passi (creazione di un primo abbozzo di mercato comune delle materie prime,
carbone e acciaio in primis) va riconosciuto che, pur nella sua incompletezza e nelle sue consistenti
contraddizioni, si è realizzata, una significativa “comunità economica europea” con alla
base un unico grande mercato, privo di barriere doganali, dove merci, capitali
e persone possono liberamente circolare. Ma al tempo stesso non si può non
cogliere che questi importanti passi in avanti sul piano delle relazioni
economiche comunitarie si sono dimostrati, come d’altronde era prevedibile,
inadeguati a realizzare da soli una più ampia e definita identità europea. Perchè ciò potesse avvenire era,
fin dall’inizio, indispensabile che alla costruzione di un “mercato comune
europeo” corrispondesse un parallelo processo politico di
costruzione di istituzioni europee investite di reale potere, vale a dire la
realizzazione, per quanto progressiva, di una corrispondente vera “unità politica
europea”, in grado a sua volta di promuovere una concreta
unificazione sociale e culturale. E cioè di replicare, su scala ampia, i
processi formazione delle identità nazionali. Così non è stato, così non si è
voluto che fosse, (un primo eloquente segnale negativo
in questo senso è stata, già alla fine degli anni cinquanta, la rinuncia alla
creazione di “esercito comune europeo”
capace di supportare una “comune politica estera”.
La stessa attuale guerra russo-ucraina ha messo drammaticamente in luce il peso
di queste assenze). Alle
resistenze nazionalistiche alla cessione di ambiti di potere si è poi aggiunto,
ad aggravare la situazione, un allargamento degli Stati aderenti (soprattutto di quelli tornati indipendenti dopo il Crollo del Muro di
Berlino e la fine dell’egemonia sovietica) affrettato, mal governato, mosso in gran prevalenza
da ragioni puramente economiche di mercato. La conseguente nascita, in quel di
Maastricht nel 1993, dell’Unione Europea rappresenta un suggello di una
costruzione unitaria per molti versi formale, incompiuta, persino mal
tollerata. Il rammarico per questa incompiutezza è accentuato dalla
constatazione che nel corso di questi decenni, anche grazie ad ammirevoli iniziative
comunitarie, si è davvero realizzato un concreto avvicinamento tra popoli e paesi europei che ha inciso profondamente su abitudini di vita,
su modi di vivere e di relazionarsi: un’altra componente che, se ben
accompagnata ed incentivata, può davvero essere fondamentale per una più
diffusa identità europea. Resta purtroppo evidente un bilancio complessivo di
costruzione di una vera Europa Unita non sufficientemente positivo, improntato
di più ad una “uniformazione”
che ad una autentica “unità”. Non deve allora stupire, accentuato
dalle complesse sfide interne e globali, il risorgere di nazionalismi, di
sovranismi, di veti incrociati determinati da insostenibili egoismi. A distanza
di così tanti decenni, per troppi versi, si deve ancora parlare di una “Europa delle
patrie”.
Capitolo decimo = Quale identità?
A chiusura di questo viaggio nella storia e nella
cultura europea sembra comunque possibile sostenere l’esistenza di elementi adeguati a suffragare una idea di “identità europea”.
La quale non poggia però su presunte uniformi “radici culturali e spirituali”,
le quali, come si è visto, pur svolgendo un ruolo rilevante hanno più caratteristiche di “componenti”
di un quadro identitario decisamente complesso. Il richiamo alla classicità greco-romana,
quello al primo cristianesimo e quello all’influenza etnica, hanno da
parte loro avuto un ruolo decisivo nel creare un originario substrato comune
che non si è però, per le ragioni sin qui evidenziate, sufficientemente evoluto
e adattato al nuovo spirito del tempi. Allo stesso modo la decisiva spinta verso la
modernità del secolo
dei Lumi ha contribuito di più alla nascita degli “Stati nazionali”, in costante
conflitto tra di loro, che alla nascita di una condivisa idea di Europa.
L’insieme di questi fattori comunque ha rappresentato, nel bene e nel male, un
terreno culturale, sufficientemente compatto, per il primo reale manifestarsi
di una potenziale “identità europea”. La quale, al termine di una
lunga incubazione iniziata fin dal Medioevo, si è manifestata in nuce con la
congiunzione di tutte queste componenti nell’“età moderna europea ”. Vale a
dire l’era in cui l’Europa, nel suo insieme, assume un ruolo oggettivamente centrale,
grazie allo straordinario sviluppo scientifico, tecnologico, economico e
sociale, nel quadro geo-politico globale. La diffusa consapevolezza di essere
divenuta, purtroppo anche grazie alle ciniche e crudeli politiche coloniali ed
espansionistiche, il perno del mondo intero ha da una parte contribuito a
rafforzarla fino a generare uno “spirito europeo”, ma dall’altra, come si è già
detto, lo ha fatto coincidere con l’auto-rappresentazione di una sua,
superiore, diversità rispetto al resto del mondo [questo aspetto è stato lucidamente
analizzato dal padre della sociologia moderna Max Weber (1864-1920)]. Questa, provvisoria e incompiuta, identità
europea, composta da molte luci e molte ombre, appare comunque alle “soglie di una
profonda trasformazione”. L’Europa non è più il perno del mondo,
molte altre aree l’hanno ormai superata a formare un quadro geo-politico che
per molti aspetti, aggravati dai suoi stessi limiti, l’ha relegata ad una
posizione marginale. L’ideale unitario, frutto delle tragedie novecentesche,
dovrebbe allora essere incentivato dalla consapevolezza che, in questo quadro,
solo l’unità comunitaria le può consentire un ruolo, certo diverso ma sicuramente forte sul piano valoriale, adeguato al suo passato. L’Europa di oggi è un
cantiere in corso e la sua identità, non può che essere ridefinita sulla base
del “materiale
a disposizione”. Non sono poche le complicazioni che incidono sulla
qualità di questo materiale: la sua composizione etnica, sotto la spinta di
inarrestabili migrazioni, sta mutando, si riaffacciano sul suolo europeo i
fantasmi di guerre e di conflitti etnico-religiosi, è sempre più difficile la
sostenibilità dei sistemi di “welfare” che hanno segnato l’autentico trentennio
d’oro del vecchio continente in campo economico e sociale, la sua cultura fatica
a reggere il confronto con quelle provenienti dal resto del mondo ed ondeggia
indecisa sotto la spinta della omogeneizzazione consumistica. Quel che resta
certo è che senza la capacità di preservare e rilanciare, adeguandola ai tempi,
l’eredità
della cultura europea e traducendola
in una sua nuova
identità, sarà sempre più difficile reggere le sfide del nuovo
millennio.
Nessun commento:
Posta un commento