La Parola del mese
Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di
riflessione
DICEMBRE 2023
E’ da sempre considerata una delle peggiori calamità naturali, in
molte parti del mondo è purtroppo una tragica costante storica, ma soprattutto
il suo diffondersi ed il suo accentuarsi sono considerati una preoccupante
conferma del cambiamento climatico in corso e una delle più impattanti emergenze naturali, e quindi economiche e
sociali, che investiranno l’umanità nei prossimi decenni. La Parola di questo
mese è
SICCITA’
dal
vocabolario on line Treccani
Siccità = sostantivo
femminile, dal latino siccitas derivato da siccus (secco) = Mancanza o scarsezza accentuata di pioggia che si protrae per
un periodo di tempo eccezionalmente lungo
La nostra attenzione è comprensibilmente rivolta a capire quanto,
e con quali conseguenze, il fenomeno della siccità evolverà nel prossimo futuro in
conseguenza del riscaldamento climatico e, non di meno, quali accorgimenti
dovranno essere adottati per contenerla e gestirla. Per farlo ci siamo
appoggiati ad un saggio di recente uscita con titolo omonimo dal quale abbiamo
tratto le considerazione che di più ci sono sembrate utili per meglio leggere
ed ancor meglio affrontare questo fenomeno
il cui autore è Giulio Boccaletti
(Giulio
Boccaletti è saggista, ricercatore onorario alla
Smith School di Oxford e Senior Fellow del Centro Euro-Mediterraneo per i
Cambiamenti Climatici. Laureato in fisica a Bologna, ha conseguito un dottorato
a Princeton. È stato ricercatore all’MIT, dove si è occupato di sicurezza
idrica con governi e istituzioni internazionali. Nel 2014 il World Economic
Forum di Davos lo ha nominato Young Global Leader per il suo lavoro sull’acqua,
che nel 2020 è stato oggetto del documentario di PBS H2O: The Molecule That
Made Us. Il suo libro Acqua. Una biografia (Mondadori, 2022), è stato
selezionato come uno dei migliori libri del 2021 da The Economist)
I fenomeni
siccitosi che da sempre angosciano l’umanità stanno conoscendo una drammatica
accelerazione nell’attuale era dell’Antropocene e del cambiamento climatico. E’
ormai dato acquisito che una delle più preoccupanti conseguenze di questo
fenomeno consiste proprio nell’accentuazione e nella estensione dei fenomeni
estremi: siccità e precipitazioni
disastrose, due facce della stessa medaglia, si alterneranno ovunque sempre più
frequentemente. Va da sé che la loro vera mitigazione non può che consistere in
interventi radicali sulle cause ultime, quelle antropologiche, dell’innalzamento
della temperatura globale, ma ciò scontato non sono meno importanti, sul breve
periodo, ragionati interventi di adattamento ai cambiamenti in corso, che
richiedono, per fronteggiare siccità
e fenomeni estremi, di ripensare in modo radicale il nostro rapporto con
l’elemento acqua, con l’intero suo ciclo di trasformazione, partendo da una
prima confortante evidenza: le molecole di acqua sulla Terra non sono scarse, il
nostro pianeta dispone di una enorme quantità d’acqua (il nome “pianeta blu” si
spiega proprio per questa caratteristica) sostanzialmente
immutata dal suo formarsi miliardi di anni fa. Ma, valutandola dal punto di
vista umano, essa è una sostanza di complesso utilizzo per alcune inaggirabili
sue caratteristiche: l’acqua si muove incessantemente nello spazio e nel
tempo assumendo sempre forme diverse. Deriva da questo dato di fatto
una prima decisiva considerazione: la relazione dell’umanità con l’acqua è conseguentemente sempre
stata, e sempre sarà, la risposta collettiva a questa complessità ed è pertanto
un fatto politico, che consiste nella scelta delle modalità, dei
criteri, delle logiche, delle istituzioni, adottate per attuarla. L’attenzione
di Boccaletti si concentra proprio su questo aspetto. Lo fa con uno sguardo
globale partendo, per meglio coinvolgere il lettore italiano al quale questo
saggio si rivolge, dalla situazione che interessa il nostro paese. In questo
senso colpisce una prima affermazione: l’Italia non è povera d’acqua. Per capirlo
vale il raffronto con Il Regno Unito, paese che ha fama di essere quanto mai
piovoso: ebbene il suolo inglese riceve la stessa quantità dal cielo che cade
sul suolo italico (tra 250 e
300 miliardi di metri cubi all’anno). La
differenza, che c’è, non si spiega quindi nella quantità assoluta di acqua
piovana, ma nel modo in cui essa attraversa il paesaggio (con le sue specifiche caratteristiche geologiche)
e nell’intensità
idrica (vale a dire
il modo in cui piove, nel Regno Unito ciò avviene in modo più costante ed
equilibrato, in Italia invece in modo molto più variabile e con maggiori picchi
di intensità). E’ solo un esempio utile a precisare che, coerentemente a quanto
poco sopra anticipato, nell’era del cambiamento climatico, l’acqua non sarà globalmente scarsa perché
mancherà, ma perché sarà sempre più difficile averla quando e dove serve.
Questo aspetto si collega ad una correlata constatazione storica: l’umanità da
sempre ha cercato di costruirsi una vita prevedibile in un contesto naturale
che del tutto prevedibile non è, in particolare proprio per la disponibilità controllabile
di acqua. La sicurezza idrica, vale a dire avere acqua
quando e dove serve, è quindi sempre stata il prodotto di abitudini,
istituzioni e infrastrutture create per tenere sotto controllo questa
discrepanza naturale. E’ questo il quadro storico di base nel quale si sono
innestati gli attuali fenomeni estremi che, come tali, non hanno solo sconvolto
il comportamento naturale dell’acqua, ma hanno drammaticamente evidenziato la fragilità delle
logiche sin qui alla base dell’impalcatura artificiale creata nella speranza di
raggiungere un accettabile standard di sicurezza. I problemi legati
alla siccità vanno allora visti come il
risultato non solo della pur rilevante penuria di precipitazioni, ma anche, se
non soprattutto, di uno sfasamento tra bisogni e disponibilità
spiegabile proprio con l’inadeguatezza delle modalità sin qui seguite per la
gestione del ciclo dell’acqua.
sul
quale già incidono in misura importante le specifiche caratteristiche
ambientali nelle quali avviene. Ad esempio in Italia, dei 250/300 miliardi di
precipitazioni la vegetazione ne intercetta, prima che confluiscano in corsi
d’acqua e falde, tra un terzo e la metà, la cosiddetta “acqua verde”, quella usata dalle piante, riduce l’ “acqua blu” a circa 100/150 miliardi. Ciò avviene
perchè. l’Italia ha una significativa copertura boschiva. Dei circa 30 milioni
di ettari di superficie totale 3 milioni, il 10%, sono urbanizzati, 15 milioni
(il 50%) sono terreni agricoli, pascoli, aree non utilizzate, i restanti 12
milioni (il 40%) sono bosco misto
Tali modalità
sono state ovunque storicamente calibrate in relazione a specifici fabbisogni
che si sono nel corso del tempo via via modificati in conseguenza del mutare
delle attività, agricole/industriali/civili, fino a determinare l’attuale
status quo. Sempre restando all’esempio italiano il prelievo umano sul patrimonio
d’acqua realmente disponibile è così articolato: il 49% per usi agricoli, il
21% per usi industriali, il 19% per usi civili, il restante 11% per il settore
energetico. Su questi volumi di prelievo si articolano due modalità, ben
distinte, di utilizzo: “uso” e “consumo”, il 49% prelevato dal settore
agricolo è interamente consumato, il restante 51% viene usato, ma non
interamente consumato per tutti i restanti fabbisogni, una parte infatti, in
misura più o meno significativa, rientra come scarico nel ciclo dell’acqua. Questo
dato italiano vale, al di là del nostro particolare interesse, per capire che
ovunque la reale disponibilità di risorse idriche, localmente garantita dalle
specifiche impalcature artificiali concretamente realizzate per ottenere la
maggior disponibilità possibile, va commisurata al suo reale utilizzo finale.
Vale a dire che la siccità deve essere sempre e
ovunque valutata non solo in relazione al dato quantitativo delle
precipitazioni ma anche alla intrinseca sostenibilità, ed efficienza, dello
specifico ciclo di “uso e consumo”.
per
quanto concerne l’efficienza il caso italiano si presta ad una precisazione
relativa alla quota di acqua potabilizzata non utilizzabile per “perdite di rete” da molti additate come la
causa principale delle penuria idrica..
Dal punto di vista del ciclo complessivo dell’acqua la dispersione causata
dalle falle della rete idrica di volumi, che comunque attraverso il suolo in
qualche misura in esso rientrano, è un danno più economico che idrologico. Si
parla di valori significativi, in Italia in media circa un terzo di acqua
potabilizzata va disperso, seppure con variazioni fra zona e zona che vanno dal
10% al 70%. Va però tenuto conto che non esistono nel mondo reti che non
perdano, anche se va riconosciuto che altre nazioni si comportano meglio
dell’Italia. Ad esempio la Germania perde in media solo il 10%, ma è un dato
che ancora una volta rimanda all’aspetto economico, mentre in Italia l’acqua
potabile costa mediamente 1,5 euro al metro cubo, in Germania si sale a 4,5
euro, e non a caso quindi le risorse destinabili ad una manutenzione efficiente
sono tre volte tanto
Sono questi
gli aspetti di base per capire l’accelerazione che il fenomeno della siccità ha assunto e le conseguenti
logiche che devono ispirare un cambiamento radicale nel modo di gestire il
ciclo dell’acqua. Deve essere chiaro che si tratta di una svolta radicale che
dovrebbe da subito tradursi in un insieme complesso e variegato di azioni
concrete, che vanno ad esempio dall’aumento di produttività per unità d’acqua
(che consiste non solo
nell’efficientamento della rete, ma anche nell’ottimizzazione dell’agronomia
modificando i sistemi di irrigazione, ad esempio investendo, quando possibile, in
quella goccia a goccia e soprattutto adottando una maggiore diversità di
coltivazioni), alla radicale riorganizzazione degli enti gestionali unificandoli in un’unica regia che permetta
scambi e sinergie (rimettendo
in discussione tutti gli attuali enti, ottimizzando in primis le autorità di
bacino) , e all’ampliamento delle strutture
di raccolta e stoccaggio, i cosiddetti invasi
attualmente
la capacità di quelli italiani, in grave diminuzione a causa dell’interramento
(la sedimentazione di suolo e rocce erose nel bacino) copre a malapena la metà del fabbisogno irriguo annuale, in
Spagna, non meno investita da carenze idriche equivalgono a due anni e mezzo di
fabbisogno. Va però
precisato che ogni sistema idrico per puntare alla migliore efficienza
possibile non deve puntare alle sole infrastrutture, ma deve ottimizzare
l’intero ciclo delle acque in ogni singolo ampio bacino idrico
Sono queste solo
alcune delle possibili azioni concrete da mettere in atto, ciò che resta
fondamentale è che maturi in fretta una piena consapevolezza della gravità e
della complessità del problema che sappia tradursi in un percorso politico
capace di inserire la questione “siccità”
nel più ampio contesto dell’ aspetto e della struttura del territorio, vale
a dire che non
è sufficiente un semplice rafforzamento dei capitoli di spesa, si deve
ripensare l’intera nostra relazione con il territorio ed il paesaggio. Non
diverso, ma anzi strettamente connesso, deve essere l’approccio all’altra
faccia della medaglia: l’intensità crescente delle precipitazioni che si
alternano ai periodi di siccità
e che inesorabilmente provocano disastri idrogeologici (ne è tristissimo esempio italiano l’alluvione che ha colpito buona parte
dell’Emilia-Romagna nel mese di Maggio 2023 quando in un giorno e mezzo è
caduto un terzo dell’acqua che di norma precipita in un anno trovando un
terreno reso particolarmente duro ed impermeabile da diversi mesi di caldo
siccitoso). Non è certo un problema dovuto solo alla cattiva gestione di fossi,
tombini piuttosto che alla scarsa pulizia degli alvei fluviali, la questione
vera consiste nel fatto che i crescenti eventi estremi degli ultimi anni non
sono fronteggiabili dalle, pur eccellenti, strutture di contenimento e
canalizzazione delle acque che per secoli hanno mantenuto sotto buono controllo
il regime delle acque. Il successo nel governare l’acqua non si misurerà più
nell’auspicata assenza di catastrofi, che anzi aumenteranno in quantità ed in
gravità (non per nulla stanno colpendo
tutti i paesi, quelli ipertecnologici come il Giappone, e quelli
tecnologicamente arretrati), ma in una nuova capacità di gestire la diversa
normalità. Bisogna cioè mettere mano ad una modifica radicale delle
logiche che hanno sin qui guidato, peraltro con innegabili successi, quella che
si può definire “l’ingegnerizzazione
del territorio” italiano. Storicamente l’intervento umano sul
paesaggio italiano è stato finalizzato alla realizzazione di modifiche utili a
favorire la crescita economica e a ottimizzare gli insediamenti umani (l’area vasta di Milano è un esempio emblematico. situata tra due
fiumi, l’Adda ed il Ticino, si è progressivamente allargata grazie ad intense
opere di canalizzazione delle loro acque). Il risultato
finale che la storia ci consegna si sta però rivelando inadatto ai nuovi
scenari creati dal riscaldamento climatico, e la sua indispensabile, ed
urgente, modifica richiede che preliminarmente siano chiare le nuove finalità
che la debbono ispirare. Ed è in questo inaggirabile passaggio che si manifesta la
natura politica del problema. La soluzione non può infatti scaturire
automaticamente dalla tecnologia, alla quale spetta sicuramente un ruolo centrale come strumento per attuare scelte di lungo periodo che non possono non
essere che politiche. Questa è la vera sfida sul tappeto: l’intera
società, attraverso le sue istituzioni ed i suoi processi decisionali, è
chiamata per fronteggiare siccità e eventi estremi, così come per l’intera
emergenza ambientale e climatica, a decidere e attuare risposte tanto condivise
quanto davvero efficaci.
poco
aiuta in questo senso il fatto che la proprietà privata dei terreni agricoli,
di coltivazione e di allevamento, sia la principale istituzione umana che di
fatto governa il territorio. Questo dato comporta uno sforzo aggiuntivo nel
ridefinire le sinergie per attuare azioni che avranno senso e speranza di
successo solo se coinvolgeranno convintamente tutte le parti in causa
E qui il
discorso si allarga perché occorre anche capire la scala geografica appropriata
per risolvere queste sfide che comunque travalicano la sfera locale. Sono cioè
necessarie azioni, da calare in ogni specifico ambito, che al contempo sappiano
guardare al contesto generale. Lo impongono sia lo stretto intreccio
tra la valenza globale dei fenomeni da affrontare sia la evidente enorme rilevanza
dei volumi di investimento necessari.
vale
la pena ricordare che l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change,
organismo ONU) avverte nei suoi sempre più precisi studi che il cambiamento
climatico colpirà l’Europa più che il resto dell’emisfero settentrionale, la
sua regione mediterraneo più che il resto del continente europeo, e l’Italia più che altri paesi mediterranei
Trattandosi,
come si è appena evidenziato, di scelte politiche appare allora evidente che la
scala geografica, ed istituzionale, alla quale guardare non può che essere
l’Europa Unita, in quanto principale strumento politico chiamato a intervenire
in modo coordinato sulle conseguenze del cambiamento climatico che stanno
investendo l’intero continente. Va purtroppo constatato che al momento non si colgono segnali
confortanti in questo senso: nell’attuale bilancio settennale UE e
nello stesso NextGenEU non emerge un intervento lucido e lungimirante di
adattamento del continente ai cambiamenti in corso. L’attenzione che, giustamente,
si è messa in moto sulle problematiche della transizione energetica non trova in
effetti adeguata corrispondenza per quanto riguardo la mitigazione delle
conseguenze di siccità e fenomeni estremi.
Eppure uno sforzo condiviso in questa direzione potrebbe in aggiunta
rappresentare un importante contributo anche per superare l’innegabile impasse
nel percorso di una vera Europa Unita. Nel momento in cui il cambiamento
climatico sta (ri)portando il territorio in primo piano l’attenzione
all’ambiente che è dichiaratamente al centro del progetto europeo (la Carta Europea dei diritti fondamentali del 2000 e 2007 lo
esplicita con chiarezza) impone che la UE si faccia parte
attiva per raggiungere la sicurezza idrica e climatica ed ogni paese, Italia
compresa, deve muoversi in modo coordinato con riferimento alle indispensabili
linee guida che saranno fissate a livello europeo. Un altro aspetto, in gran
misura sottovalutato, conferma lo stretto intreccio fra globale e locale per
quanto concerne il ciclo generale dell’acqua: il mondo intero è attraversato da
una sorta di “grande
fiume virtuale” che sposta quantità enormi di acqua da una parte
all’altra del pianeta senza che di essa se ne abbia la giusta contezza. Si
tratta dell’acqua contenuta nella miriade di merci, soprattutto prodotti
agricoli e di abbigliamento, che compongono il grande flusso del commercio
mondiale.
l’agricoltura
e la coltivazione utilizzano quantità di acqua che sono vari ordini di
grandezza più grandi di quella contenuta nel prodotto finale. Ad esempio una
maglietta di cotone contiene circa tremila litri di acqua usati per coltivare
il cotone di cui è fatta, e un hamburger ben quindicimila litri, quelli
impiegati per il foraggio dei bovini usati per produrlo
Quando le
aree del mondo, ovunque esse siano, nelle quali sono concentrate queste
attività vengono investite dai fenomeni estremi climatici di cui si è detto si
possono innescare pesanti turbative sia sulla loro disponibilità sia sui loro prezzi
e sia sulla loro sostenibilità operativa dalla quale dipendono intere
popolazioni. E’ allora evidente che il contenuto di questa acqua virtuale lega un luogo,
quello della produzione, con un altro, quello del consumo, che possono essere
anche fra di loro distanti migliaia di chilometri. Una interrelazione
che chiama in causa le conseguenze di una eventuale siccità nel primo ed al
tempo stesso anche il suo rapporto politico, di potere e subordinazione, con il
secondo. Tutto ciò dovrebbe quindi indurre a rivedere abitudini, stili di vita
e di consumo, flussi commerciali, (ri)valutandoli anche in relazione al loro
contenuto di acqua, di fatto “reale”.
L’Italia è pienamente inserita nel fiume virtuale dal
quale attinge ogni anno circa cinquanta miliardi di metri cubi d’acqua, più del
doppio di quanto mediamente attinge dalle sue risorse idriche per irrigare i
propri campi.
Rientra in
questo contesto anche il tema delle “guerre per l’acqua”, invocata ogni qualvolta
si innesca un conflitto armato connesso anche ad un problema idrico. L’oggetto
a contendere si crea quando una risorsa idrica, fiume o lago, alimenta il
fabbisogno di due o più paesi che si trovano lungo il suo percorso piuttosto
che sulle sue sponde. Nel pianeta esistono oltre trecento bacini che presentano
tali caratteristiche (l’Italia
gestisce il solo caso del fiume Isonzo, che in parte scorre in Slovenia, e
condivide con la Svizzera il Lago Maggiore ed il Lago di Lugano).
Se è indubbio che nell’era dei fenomeni estremi la certezza della disponibilità
d’acqua si è fatta quanto mai aleatoria, e che quindi la gestione delle risorse
idriche, quando comuni, rischia di alimentare contenziosi anche di forte
rilevanza, è pur vero che l’innesco di conflitti armati ha sempre avuto anche
altre motivazioni quasi sempre più decisive
storicamente
la gestione di questo tipo di controversi si è basata su tre opposte dottrine
di diritto internazionale: la sovranità
territoriale assoluta, che sancisce il diritto di un paese di utilizzare
a proprio piacimento le acque del suo territorio, l’integrità
territoriale assoluta, i paesi a monte devono sottostare a vincoli per
non danneggiare quelli a valle, ed infine la
sovranità territoriale limitata, l’idea che quando l’acqua travalica più
confini nessuna delle parti può vantare diritti assoluti
E’ difficile
prevedere i possibili sviluppi futuri, ma è storicamente certo che l’accesso
alle risorse idriche, da solo, non è mai stato la sola causa scatenante
di conflitti armati, ma è sempre coesistito con altre ragioni di contrasto tali
da essere la vera spiegazione dell’innesco di guerre. Lo attestano tutte le
controversie fra Stati per ragioni idriche quali, ad esempio: la guerra
Arabo-Israeliana del 1967 (quella che i
media per prima definirono “guerra per l’acqua”)
legata alle acque del fiume Giordano, quella di lunga durata fra India e
Pakistan per il fiume Indo, quella fra la Cina e tutti gli stati a valle del
fiume Mekong (finora mai
sfociata in conflitto armato ad ulteriore conferma di questa tesi),
quella per interposta persona fra Egitto ed Etiopia per le acque del Nilo
Azzurro, e la stessa attuale guerra fra Russia e Ucraina per le sponde del
Dnipro. Sono tutti conflitti spiegabili con ragioni ben più determinanti del
solo controllo di risorse idriche, e sono tutti casi in cui un vero sforzo di
cooperazione per la gestione dell’acqua avrebbe con buona probabilità contribuito
a smorzare le tensioni. E d’altronde ben si sa che l’acqua, a differenza degli
uomini, non conosce confini. Anche in questo caso, come più volte già
sottolineato, è la politica ad essere chiamata in causa, così come, e a maggior
ragione, passando alla gestione delle conseguenze dei periodi di siccità così come degli eventi estremi.
Finora ovunque si sono di norma attuati gli interventi consolidati del caso, ma
il riscaldamento climatico rappresenta una urgenza di natura totalmente diversa,
quello che oggi avviene, ancora saltuariamente, è una anticipazione su scala
ridotta di quello che potrebbe, abitualmente, verificarsi nel prossimo futuro. A maggior
ragione, come già evidenziato, servono allora strategie di lungo periodo capaci
di mettere in atto interventi di “adattamento” da affiancare a quelli, di più
ampio respiro, di mitigazione delle cause scatenanti. Occorre soprattutto
che la politica definisca appropriate azioni immaginate con quello stesso fervore
e spirito, seppure con finalità del tutto diverse se non opposte, che nel corso
del 1800 e del 1900 ha contribuito a mettere a punto strategie di gestione
idrica capaci di sostenere sul lungo periodo lo sviluppo della produzione e dei
consumi. Al momento, come già evidenziato per la UE, non sembrano emergere,
ovunque nel mondo, adeguate tendenze in questo senso, ben lo testimoniano i
modi con cui la politica recepisce le avvertenze che la scienza del clima da
tempo sta lanciando
sono
fondamentali in questo senso i rapporti periodici sull’avanzamento del
riscaldamento globale pubblicati dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate
Chiange) l’organismo costituito nel 1988
dalla Organizzazione metereologica
mondiale e dall’ONU
In molte, troppe stanze della politica (così come nella stessa narrazione mediatica), sembra ancora prevalere la percezione che questi dati siano semplicemente l’espressione scientifica di un eccesso di sensibilità ambientale. Non è per nulla così: le radici della scienza del clima non affondano nell’ambientalismo bensì in più vecchi interessi di sicurezza civile (ed anche militare). E’ stata proprio l’evidenza di un processo di riscaldamento globale fornita dai dati raccolti a sollecitare gli ambienti scientifici a concentrarsi sul suo studio, raccogliendo e analizzando sempre più informazioni che dicono di un progressivo cambiamento radicale del pianeta (e l’acqua sarà una delle componenti ambientali più interessata da questo cambiamento). Non mancano nella discussione globale sul tema accenti catastrofisti, ma non in ambito scientifico, però spesso indotti dal disperato tentativo di smuovere attenzioni e politiche adeguate che ancora sembrano difettare. Siamo cioè ancora nella situazione evidenziata da molti della difficoltà strutturale della politica, nell’ambito della democrazia rappresentativa, a farsi parte davvero attiva a causa di una sua congenita titubanza nei confronti di segnali provenienti da ambiti non politici (la vicenda della pandemia da Covid-19 è un’altra inoppugnabile testimonianza in questo senso). Non aiuta neppure la scarsa consapevolezza delle popolazioni, soprattutto quelle, Italia compresa, della parte ricca del mondo che, restando anche solo al tema dell’acqua, considera scontata la disponibilità di questa risorsa e che, almeno per ora, è ancora marginalmente coinvolta. Il dramma dell’acqua che manca, per siccità prolungate, o che tutto distrugge, per eventi estremi, interessa invece in modo drammatico, da sempre, i popoli che vivono al di fuori della fascia di benessere. Si parla soprattutto di due miliardi di persone (su una popolazione mondiale di otto miliardi) che già non hanno accesso all’acqua potabile. Si tratta di un dato sconfortante che, riguardando non solo l’uso civile ma anche la possibilità di sostenere una qualche economia produttiva, continua a condannare questo quarto della popolazione mondiale a impossibili condizioni di vita e quindi, in molti casi, a inevitabili migrazioni. Una situazione che l’attuale innalzamento delle temperature, con le conseguenti siccità, rischia di peggiorare ulteriormente,
la
quasi totalità di queste persone vive di agricoltura e pastorizia di
sussistenza, due attività che la mancanza prolungata di acqua rende
insostenibili. L’Alto Commissariato ONU per i rifugiati riferisce che i
disastri naturali, principalmente legati all’acqua, hanno provocato, dal 2008
in qua, il progressivo spostamento di oltre ventisei milioni di persone
all’anno
Una tragedia
epocale che però non si spiega solamente con fattori ambientali, incidono in
modo altrettanto decisivo da una parte i moltissimi casi di malgoverno locale e
dall’altra le inadeguate politiche di sostegno internazionale
anche
solo guardando ai sostegni finanziari il quadro è poco confortante: nel 2009 i
paesi ricchi del mondo, Italia inclusa, sancirono nell’ambito della COP 14 (il termine COP è acronimo di “Conferenza
delle Parti” che riunisce tutti i Paesi che hanno ratificato la Convenzione
Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) l’impegno a
fornire ogni anno cento miliardi di
dollari per finanziare l’adattamento delle nazioni povere al cambiamento
climatico, promessa rinnovata sei anni dopo alla COP 21 di Parigi e poi ancora
alla COP 26 di Glasgow. Quindici anni dopo dalla COP 14 l’impegno è stato in
grandissima misura disatteso
….. nel suo
fluire attraverso il territorio l’acqua sostiene ecosistemi, comunità umane e
le loro produzioni connettendo il tutto in un sistema inseparabile,
l’intersezione di tutti queste componenti è forte, regolarne una significa
regolarle tutte. Si fa quindi un grave errore di categoria a pensare che la siccità, o le alluvioni, siano un
problema meramente tecnico. Siamo chiamati da questi fenomeni a cambiare
l’intero nostro territorio, se non lo faremo noi sarà il clima stesso a farlo.
Può sembrare inimmaginabile che l’Italia, e con essa il mondo intero, possa
compiere un’operazione simile, ma se lo facesse non sarebbe la prima volta. Nei
secoli precedenti le aspirazioni di sviluppo economico hanno portato a
sfruttare fiumi e bonificare paesaggi fino a convertire il clima in risorsa. Si
può quindi farlo di nuovo, anche se in senso opposto. Ma per farlo serve una
buona “politica”, la sola che possa governare tale intersezione. Assumere
questo compito come quello prioritario renderà chiaro a tutti noi che solo una
piattaforma politica, in stretta connessione con il sapere scientifico, è in
grado di dare le giuste risposte a problemi finora mai affrontati dall’umanità.
Infatti è prioritario coniugare l’azione politica con il sapere scientifico, come sapientemente illustrato da MICROMEGA n.5/2023 “ La scienza è una questione di metodo”, in particolare l’articolo di Lorenzo Ciccarese e Sofia Belardinelli “ Sfide globali, diplomazia e scienza” pag.84.
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