venerdì 1 dicembre 2023

La Parola del mese

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

DICEMBRE 2023

E’ da sempre considerata una delle peggiori calamità naturali, in molte parti del mondo è purtroppo una tragica costante storica, ma soprattutto il suo diffondersi ed il suo accentuarsi sono considerati una preoccupante conferma del cambiamento climatico in corso e  una delle più impattanti  emergenze naturali, e quindi economiche e sociali, che investiranno l’umanità nei prossimi decenni. La Parola di questo mese è

SICCITA’

dal vocabolario on line Treccani

Siccità = sostantivo femminile, dal latino siccitas derivato da siccus (secco) = Mancanza o scarsezza accentuata di pioggia che si protrae per un periodo di tempo eccezionalmente lungo

La nostra attenzione è comprensibilmente rivolta a capire quanto, e con quali conseguenze, il fenomeno della siccità evolverà nel prossimo futuro in conseguenza del riscaldamento climatico e, non di meno, quali accorgimenti dovranno essere adottati per contenerla e gestirla. Per farlo ci siamo appoggiati ad un saggio di recente uscita con titolo omonimo dal quale abbiamo tratto le considerazione che di più ci sono sembrate utili per meglio leggere ed ancor meglio affrontare questo fenomeno

il cui autore è Giulio Boccaletti

(Giulio Boccaletti è saggista, ricercatore onorario alla Smith School di Oxford e Senior Fellow del Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici. Laureato in fisica a Bologna, ha conseguito un dottorato a Princeton. È stato ricercatore all’MIT, dove si è occupato di sicurezza idrica con governi e istituzioni internazionali. Nel 2014 il World Economic Forum di Davos lo ha nominato Young Global Leader per il suo lavoro sull’acqua, che nel 2020 è stato oggetto del documentario di PBS H2O: The Molecule That Made Us. Il suo libro Acqua. Una biografia (Mondadori, 2022), è stato selezionato come uno dei migliori libri del 2021 da The Economist)

I fenomeni siccitosi che da sempre angosciano l’umanità stanno conoscendo una drammatica accelerazione nell’attuale era dell’Antropocene e del cambiamento climatico. E’ ormai dato acquisito che una delle più preoccupanti conseguenze di questo fenomeno consiste proprio nell’accentuazione e nella estensione dei fenomeni estremi: siccità e precipitazioni disastrose, due facce della stessa medaglia, si alterneranno ovunque sempre più frequentemente. Va da sé che la loro vera mitigazione non può che consistere in interventi radicali sulle cause ultime, quelle antropologiche, dell’innalzamento della temperatura globale, ma ciò scontato non sono meno importanti, sul breve periodo, ragionati interventi di adattamento ai cambiamenti in corso, che richiedono, per fronteggiare siccità e fenomeni estremi, di ripensare in modo radicale il nostro rapporto con l’elemento acqua, con l’intero suo ciclo di trasformazione, partendo da una prima confortante evidenza: le molecole di acqua sulla Terra non sono scarse, il nostro pianeta dispone di una enorme quantità d’acqua (il nome “pianeta blu” si spiega proprio per questa caratteristica) sostanzialmente immutata dal suo formarsi miliardi di anni fa. Ma, valutandola dal punto di vista umano, essa è una sostanza di complesso utilizzo per alcune inaggirabili sue caratteristiche: l’acqua si muove incessantemente nello spazio e nel tempo assumendo sempre forme diverse. Deriva da questo dato di fatto una prima decisiva considerazione: la relazione dell’umanità con l’acqua è conseguentemente sempre stata, e sempre sarà, la risposta collettiva a questa complessità ed è pertanto un fatto politico, che consiste nella scelta delle modalità, dei criteri, delle logiche, delle istituzioni, adottate per attuarla. L’attenzione di Boccaletti si concentra proprio su questo aspetto. Lo fa con uno sguardo globale partendo, per meglio coinvolgere il lettore italiano al quale questo saggio si rivolge, dalla situazione che interessa il nostro paese. In questo senso colpisce una prima affermazione: l’Italia non è povera d’acqua. Per capirlo vale il raffronto con Il Regno Unito, paese che ha fama di essere quanto mai piovoso: ebbene il suolo inglese riceve la stessa quantità dal cielo che cade sul suolo italico (tra 250 e 300 miliardi di metri cubi all’anno). La differenza, che c’è, non si spiega quindi nella quantità assoluta di acqua piovana, ma nel modo in cui essa attraversa il paesaggio (con le sue specifiche caratteristiche geologiche) e nell’intensità idrica (vale a dire il modo in cui piove, nel Regno Unito ciò avviene in modo più costante ed equilibrato, in Italia invece in modo molto più variabile e con maggiori picchi di intensità). E’ solo un esempio utile a precisare che, coerentemente a quanto poco sopra anticipato, nell’era del cambiamento climatico, l’acqua non sarà globalmente scarsa perché mancherà, ma perché sarà sempre più difficile averla quando e dove serve. Questo aspetto si collega ad una correlata constatazione storica: l’umanità da sempre ha cercato di costruirsi una vita prevedibile in un contesto naturale che del tutto prevedibile non è, in particolare proprio per la disponibilità controllabile di acqua. La sicurezza idrica, vale a dire avere acqua quando e dove serve, è quindi sempre stata il prodotto di abitudini, istituzioni e infrastrutture create per tenere sotto controllo questa discrepanza naturale. E’ questo il quadro storico di base nel quale si sono innestati gli attuali fenomeni estremi che, come tali, non hanno solo sconvolto il comportamento naturale dell’acqua, ma hanno drammaticamente evidenziato la fragilità delle logiche sin qui alla base dell’impalcatura artificiale creata nella speranza di raggiungere un accettabile standard di sicurezza. I problemi legati alla siccità vanno allora visti come il risultato non solo della pur rilevante penuria di precipitazioni, ma anche, se non soprattutto, di uno sfasamento tra bisogni e disponibilità spiegabile proprio con l’inadeguatezza delle modalità sin qui seguite per la gestione del ciclo dell’acqua.

sul quale già incidono in misura importante le specifiche caratteristiche ambientali nelle quali avviene. Ad esempio in Italia, dei 250/300 miliardi di precipitazioni la vegetazione ne intercetta, prima che confluiscano in corsi d’acqua e falde, tra un terzo e la metà, la cosiddetta “acqua verde”, quella usata dalle piante, riduce l’ “acqua blu” a circa 100/150 miliardi. Ciò avviene perchè. l’Italia ha una significativa copertura boschiva. Dei circa 30 milioni di ettari di superficie totale 3 milioni, il 10%, sono urbanizzati, 15 milioni (il 50%) sono terreni agricoli, pascoli, aree non utilizzate, i restanti 12 milioni (il 40%) sono bosco misto

Tali modalità sono state ovunque storicamente calibrate in relazione a specifici fabbisogni che si sono nel corso del tempo via via modificati in conseguenza del mutare delle attività, agricole/industriali/civili, fino a determinare l’attuale status quo. Sempre restando all’esempio italiano il prelievo umano sul patrimonio d’acqua realmente disponibile è così articolato: il 49% per usi agricoli, il 21% per usi industriali, il 19% per usi civili, il restante 11% per il settore energetico. Su questi volumi di prelievo si articolano due modalità, ben distinte, di utilizzo: “uso” e “consumo”, il 49% prelevato dal settore agricolo è interamente consumato, il restante 51% viene usato, ma non interamente consumato per tutti i restanti fabbisogni, una parte infatti, in misura più o meno significativa, rientra come scarico nel ciclo dell’acqua. Questo dato italiano vale, al di là del nostro particolare interesse, per capire che ovunque la reale disponibilità di risorse idriche, localmente garantita dalle specifiche impalcature artificiali concretamente realizzate per ottenere la maggior disponibilità possibile, va commisurata al suo reale utilizzo finale. Vale a dire che la siccità deve essere sempre e ovunque valutata non solo in relazione al dato quantitativo delle precipitazioni ma anche alla intrinseca sostenibilità, ed efficienza, dello specifico ciclo di “uso e consumo”.

per quanto concerne l’efficienza il caso italiano si presta ad una precisazione relativa alla quota di acqua  potabilizzata non utilizzabile per  “perdite di rete” da molti additate come la causa  principale delle penuria idrica.. Dal punto di vista del ciclo complessivo dell’acqua la dispersione causata dalle falle della rete idrica di volumi, che comunque attraverso il suolo in qualche misura in esso rientrano, è un danno più economico che idrologico. Si parla di valori significativi, in Italia in media circa un terzo di acqua potabilizzata va disperso, seppure con variazioni fra zona e zona che vanno dal 10% al 70%. Va però tenuto conto che non esistono nel mondo reti che non perdano, anche se va riconosciuto che altre nazioni si comportano meglio dell’Italia. Ad esempio la Germania perde in media solo il 10%, ma è un dato che ancora una volta rimanda all’aspetto economico, mentre in Italia l’acqua potabile costa mediamente 1,5 euro al metro cubo, in Germania si sale a 4,5 euro, e non a caso quindi le risorse destinabili ad una manutenzione efficiente sono tre volte tanto

Sono questi gli aspetti di base per capire l’accelerazione che il fenomeno della siccità ha assunto e le conseguenti logiche che devono ispirare un cambiamento radicale nel modo di gestire il ciclo dell’acqua. Deve essere chiaro che si tratta di una svolta radicale che dovrebbe da subito tradursi in un insieme complesso e variegato di azioni concrete, che vanno ad esempio dall’aumento di produttività per unità d’acqua (che consiste non solo nell’efficientamento della rete, ma anche nell’ottimizzazione dell’agronomia modificando i sistemi di irrigazione, ad esempio investendo, quando possibile, in quella goccia a goccia e soprattutto adottando una maggiore diversità di coltivazioni), alla radicale riorganizzazione degli enti gestionali unificandoli in un’unica regia che permetta scambi e sinergie (rimettendo in discussione tutti gli attuali enti, ottimizzando in primis le autorità di bacino) , e all’ampliamento delle strutture  di raccolta e stoccaggio, i cosiddetti invasi

attualmente la capacità di quelli italiani, in grave diminuzione a causa dell’interramento (la sedimentazione  di suolo e rocce erose nel bacino) copre a malapena la metà del fabbisogno irriguo annuale, in Spagna, non meno investita da carenze idriche equivalgono a due anni e mezzo di fabbisogno. Va però precisato che ogni sistema idrico per puntare alla migliore efficienza possibile non deve puntare alle sole infrastrutture, ma deve ottimizzare l’intero ciclo delle acque in ogni singolo ampio bacino idrico

Sono queste solo alcune delle possibili azioni concrete da mettere in atto, ciò che resta fondamentale è che maturi in fretta una piena consapevolezza della gravità e della complessità del problema che sappia tradursi in un percorso politico capace di inserire la questione “siccità” nel più ampio contesto dell’ aspetto e della struttura del territorio, vale a dire che non è sufficiente un semplice rafforzamento dei capitoli di spesa, si deve ripensare l’intera nostra relazione con il territorio ed il paesaggio. Non diverso, ma anzi strettamente connesso, deve essere l’approccio all’altra faccia della medaglia: l’intensità crescente delle precipitazioni che si alternano ai periodi di siccità e che inesorabilmente provocano disastri idrogeologici (ne è tristissimo esempio italiano l’alluvione  che ha colpito buona parte dell’Emilia-Romagna nel mese di Maggio 2023 quando in un giorno e mezzo è caduto un terzo dell’acqua che di norma precipita in un anno trovando un terreno reso particolarmente duro ed impermeabile da diversi mesi di caldo siccitoso). Non è certo un problema dovuto solo alla cattiva gestione di fossi, tombini piuttosto che alla scarsa pulizia degli alvei fluviali, la questione vera consiste nel fatto che i crescenti eventi estremi degli ultimi anni non sono fronteggiabili dalle, pur eccellenti, strutture di contenimento e canalizzazione delle acque che per secoli hanno mantenuto sotto buono controllo il regime delle acque. Il successo nel governare l’acqua non si misurerà più nell’auspicata assenza di catastrofi, che anzi aumenteranno in quantità ed in gravità (non per nulla stanno colpendo tutti i paesi, quelli ipertecnologici come il Giappone, e quelli tecnologicamente arretrati), ma in una nuova capacità di gestire la diversa normalità. Bisogna cioè mettere mano ad una modifica radicale delle logiche che hanno sin qui guidato, peraltro con innegabili successi, quella che si può definire “l’ingegnerizzazione del territorio” italiano. Storicamente l’intervento umano sul paesaggio italiano è stato finalizzato alla realizzazione di modifiche utili a favorire la crescita economica e a ottimizzare gli insediamenti umani (l’area vasta di Milano è un esempio emblematico. situata tra due fiumi, l’Adda ed il Ticino, si è progressivamente allargata grazie ad intense opere di canalizzazione delle loro acque). Il risultato finale che la storia ci consegna si sta però rivelando inadatto ai nuovi scenari creati dal riscaldamento climatico, e la sua indispensabile, ed urgente, modifica richiede che preliminarmente siano chiare le nuove finalità che la debbono ispirare. Ed è in questo inaggirabile passaggio che si manifesta la natura politica del problema. La soluzione non può infatti scaturire automaticamente dalla tecnologia, alla quale spetta sicuramente un ruolo centrale come strumento per attuare scelte di lungo periodo che non possono non essere che politiche. Questa è la vera sfida sul tappeto: l’intera società, attraverso le sue istituzioni ed i suoi processi decisionali, è chiamata per fronteggiare siccità e eventi estremi, così come per l’intera emergenza ambientale e climatica, a decidere e attuare risposte tanto condivise quanto davvero efficaci.

poco aiuta in questo senso il fatto che la proprietà privata dei terreni agricoli, di coltivazione e di allevamento, sia la principale istituzione umana che di fatto governa il territorio. Questo dato comporta uno sforzo aggiuntivo nel ridefinire le sinergie per attuare azioni che avranno senso e speranza di successo solo se coinvolgeranno convintamente tutte le parti in causa

E qui il discorso si allarga perché occorre anche capire la scala geografica appropriata per risolvere queste sfide che comunque travalicano la sfera locale. Sono cioè necessarie azioni, da calare in ogni specifico ambito, che al contempo sappiano guardare al contesto generale. Lo impongono sia lo stretto intreccio tra la valenza globale dei fenomeni da affrontare sia la evidente enorme rilevanza dei volumi di investimento necessari.

vale la pena ricordare che l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, organismo ONU) avverte nei suoi sempre più precisi studi che il cambiamento climatico colpirà l’Europa più che il resto dell’emisfero settentrionale, la sua regione mediterraneo più che il resto del continente europeo, e l’Italia più che altri paesi mediterranei

Trattandosi, come si è appena evidenziato, di scelte politiche appare allora evidente che la scala geografica, ed istituzionale, alla quale guardare non può che essere l’Europa Unita, in quanto principale strumento politico chiamato a intervenire in modo coordinato sulle conseguenze del cambiamento climatico che stanno investendo l’intero continente. Va purtroppo constatato che al momento non si colgono segnali confortanti in questo senso: nell’attuale bilancio settennale UE e nello stesso NextGenEU non emerge un intervento lucido e lungimirante di adattamento del continente ai cambiamenti in corso. L’attenzione che, giustamente, si è messa in moto sulle problematiche della transizione energetica non trova in effetti adeguata corrispondenza per quanto riguardo la mitigazione delle conseguenze di siccità e fenomeni estremi. Eppure uno sforzo condiviso in questa direzione potrebbe in aggiunta rappresentare un importante contributo anche per superare l’innegabile impasse nel percorso di una vera Europa Unita. Nel momento in cui il cambiamento climatico sta (ri)portando il territorio in primo piano l’attenzione all’ambiente che è dichiaratamente al centro del progetto europeo (la Carta Europea dei diritti fondamentali del 2000 e 2007 lo esplicita con chiarezza) impone che la UE si faccia parte attiva per raggiungere la sicurezza idrica e climatica ed ogni paese, Italia compresa, deve muoversi in modo coordinato con riferimento alle indispensabili linee guida che saranno fissate a livello europeo. Un altro aspetto, in gran misura sottovalutato, conferma lo stretto intreccio fra globale e locale per quanto concerne il ciclo generale dell’acqua: il mondo intero è attraversato da una sorta di “grande fiume virtuale” che sposta quantità enormi di acqua da una parte all’altra del pianeta senza che di essa se ne abbia la giusta contezza. Si tratta dell’acqua contenuta nella miriade di merci, soprattutto prodotti agricoli e di abbigliamento, che compongono il grande flusso del commercio mondiale.

l’agricoltura e la coltivazione utilizzano quantità di acqua che sono vari ordini di grandezza più grandi di quella contenuta nel prodotto finale. Ad esempio una maglietta di cotone contiene circa tremila litri di acqua usati per coltivare il cotone di cui è fatta, e un hamburger ben quindicimila litri, quelli impiegati per il foraggio dei bovini usati per produrlo

Quando le aree del mondo, ovunque esse siano, nelle quali sono concentrate queste attività vengono investite dai fenomeni estremi climatici di cui si è detto si possono innescare pesanti turbative sia sulla loro disponibilità sia sui loro prezzi e sia sulla loro sostenibilità operativa dalla quale dipendono intere popolazioni. E’ allora evidente che il contenuto di questa acqua virtuale lega un luogo, quello della produzione, con un altro, quello del consumo, che possono essere anche fra di loro distanti migliaia di chilometri. Una interrelazione che chiama in causa le conseguenze di una eventuale siccità nel primo ed al tempo stesso anche il suo rapporto politico, di potere e subordinazione, con il secondo. Tutto ciò dovrebbe quindi indurre a rivedere abitudini, stili di vita e di consumo, flussi commerciali, (ri)valutandoli anche in relazione al loro contenuto di acqua, di fatto “reale”.

L’Italia  è pienamente inserita nel fiume virtuale dal quale attinge ogni anno circa cinquanta miliardi di metri cubi d’acqua, più del doppio di quanto mediamente attinge dalle sue risorse idriche per irrigare i propri campi.

Rientra in questo contesto anche il tema delle “guerre per l’acqua”, invocata ogni qualvolta si innesca un conflitto armato connesso anche ad un problema idrico. L’oggetto a contendere si crea quando una risorsa idrica, fiume o lago, alimenta il fabbisogno di due o più paesi che si trovano lungo il suo percorso piuttosto che sulle sue sponde. Nel pianeta esistono oltre trecento bacini che presentano tali caratteristiche (l’Italia gestisce il solo caso del fiume Isonzo, che in parte scorre in Slovenia, e condivide con la Svizzera il Lago Maggiore ed il Lago di Lugano). Se è indubbio che nell’era dei fenomeni estremi la certezza della disponibilità d’acqua si è fatta quanto mai aleatoria, e che quindi la gestione delle risorse idriche, quando comuni, rischia di alimentare contenziosi anche di forte rilevanza, è pur vero che l’innesco di conflitti armati ha sempre avuto anche altre motivazioni quasi sempre più decisive

storicamente la gestione di questo tipo di controversi si è basata su tre opposte dottrine di diritto internazionale: la sovranità territoriale assoluta, che sancisce il diritto di un paese di utilizzare a proprio piacimento le acque del suo territorio, l’integrità territoriale assoluta, i paesi a monte devono sottostare a vincoli per non danneggiare quelli a valle, ed infine la sovranità territoriale limitata, l’idea che quando l’acqua travalica più confini nessuna delle parti può vantare diritti assoluti

E’ difficile prevedere i possibili sviluppi futuri, ma è storicamente certo che l’accesso alle risorse idriche, da solo, non è mai stato la sola causa scatenante di conflitti armati, ma è sempre coesistito con altre ragioni di contrasto tali da essere la vera spiegazione dell’innesco di guerre. Lo attestano tutte le controversie fra Stati per ragioni idriche quali, ad esempio: la guerra Arabo-Israeliana del 1967 (quella che i media per prima definirono “guerra per l’acqua”) legata alle acque del fiume Giordano, quella di lunga durata fra India e Pakistan per il fiume Indo, quella fra la Cina e tutti gli stati a valle del fiume Mekong (finora mai sfociata in conflitto armato ad ulteriore conferma di questa tesi), quella per interposta persona fra Egitto ed Etiopia per le acque del Nilo Azzurro, e la stessa attuale guerra fra Russia e Ucraina per le sponde del Dnipro. Sono tutti conflitti spiegabili con ragioni ben più determinanti del solo controllo di risorse idriche, e sono tutti casi in cui un vero sforzo di cooperazione per la gestione dell’acqua avrebbe con buona probabilità contribuito a smorzare le tensioni. E d’altronde ben si sa che l’acqua, a differenza degli uomini, non conosce confini. Anche in questo caso, come più volte già sottolineato, è la politica ad essere chiamata in causa, così come, e a maggior ragione, passando alla gestione delle conseguenze dei periodi di siccità così come degli eventi estremi. Finora ovunque si sono di norma attuati gli interventi consolidati del caso, ma il riscaldamento climatico rappresenta una urgenza di natura totalmente diversa, quello che oggi avviene, ancora saltuariamente, è una anticipazione su scala ridotta di quello che potrebbe, abitualmente, verificarsi nel prossimo futuro. A maggior ragione, come già evidenziato, servono allora strategie di lungo periodo capaci di mettere in atto interventi di “adattamento” da affiancare a quelli, di più ampio respiro, di mitigazione delle cause scatenanti. Occorre soprattutto che la politica definisca appropriate azioni immaginate con quello stesso fervore e spirito, seppure con finalità del tutto diverse se non opposte, che nel corso del 1800 e del 1900 ha contribuito a mettere a punto strategie di gestione idrica capaci di sostenere sul lungo periodo lo sviluppo della produzione e dei consumi. Al momento, come già evidenziato per la UE, non sembrano emergere, ovunque nel mondo, adeguate tendenze in questo senso, ben lo testimoniano i modi con cui la politica recepisce le avvertenze che la scienza del clima da tempo sta lanciando

sono fondamentali in questo senso i rapporti periodici sull’avanzamento del riscaldamento globale pubblicati dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Chiange)  l’organismo costituito nel 1988  dalla Organizzazione metereologica mondiale e dall’ONU

In molte, troppe stanze della politica (così come nella stessa narrazione mediatica), sembra ancora prevalere la percezione che questi dati siano semplicemente l’espressione scientifica di un eccesso di sensibilità ambientale. Non è per nulla così: le radici della scienza del clima non affondano nell’ambientalismo bensì in più vecchi interessi di sicurezza civile (ed anche militare). E’ stata proprio l’evidenza di un processo di riscaldamento globale fornita dai dati raccolti a sollecitare gli ambienti scientifici a concentrarsi sul suo studio, raccogliendo e analizzando sempre più informazioni che dicono di un progressivo cambiamento radicale del pianeta (e l’acqua sarà una delle componenti ambientali più interessata da questo cambiamento). Non mancano nella discussione globale sul tema accenti catastrofisti, ma non in ambito scientifico, però spesso indotti dal disperato tentativo di smuovere attenzioni e politiche adeguate che ancora sembrano difettare. Siamo cioè ancora nella situazione evidenziata da molti della difficoltà strutturale della politica, nell’ambito della democrazia rappresentativa, a farsi parte davvero attiva a causa di una sua congenita titubanza nei confronti di segnali provenienti da ambiti non politici (la vicenda della pandemia da Covid-19 è un’altra inoppugnabile testimonianza in questo senso). Non aiuta neppure la scarsa consapevolezza delle popolazioni, soprattutto quelle, Italia compresa, della parte ricca del mondo che, restando anche solo al tema dell’acqua, considera scontata la disponibilità di questa risorsa e che, almeno per ora, è ancora marginalmente coinvolta. Il dramma dell’acqua che manca, per siccità prolungate, o che tutto distrugge, per eventi estremi, interessa invece in modo drammatico, da sempre, i popoli che vivono al di fuori della fascia di benessere. Si parla soprattutto di due miliardi di persone (su una popolazione mondiale di otto miliardi) che già non hanno accesso all’acqua potabile. Si tratta di un dato sconfortante che, riguardando non solo l’uso civile ma anche la possibilità di sostenere una qualche economia produttiva, continua a condannare questo quarto della popolazione mondiale a impossibili condizioni di vita e quindi, in molti casi, a inevitabili migrazioni. Una situazione che l’attuale innalzamento delle temperature, con le conseguenti siccità, rischia di peggiorare ulteriormente,

la quasi totalità di queste persone vive di agricoltura e pastorizia di sussistenza, due attività che la mancanza prolungata di acqua rende insostenibili. L’Alto Commissariato ONU per i rifugiati riferisce che i disastri naturali, principalmente legati all’acqua, hanno provocato, dal 2008 in qua, il progressivo spostamento di oltre ventisei milioni di persone all’anno

Una tragedia epocale che però non si spiega solamente con fattori ambientali, incidono in modo altrettanto decisivo da una parte i moltissimi casi di malgoverno locale e dall’altra le inadeguate politiche di sostegno internazionale

anche solo guardando ai sostegni finanziari il quadro è poco confortante: nel 2009 i paesi ricchi del mondo, Italia inclusa, sancirono nell’ambito della COP 14 (il termine COP è acronimo di “Conferenza delle Parti” che riunisce tutti i Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) l’impegno a fornire ogni anno cento miliardi  di dollari per finanziare l’adattamento delle nazioni povere al cambiamento climatico, promessa rinnovata sei anni dopo alla COP 21 di Parigi e poi ancora alla COP 26 di Glasgow. Quindici anni dopo dalla COP 14 l’impegno è stato in grandissima misura disatteso

….. nel suo fluire attraverso il territorio l’acqua sostiene ecosistemi, comunità umane e le loro produzioni connettendo il tutto in un sistema inseparabile, l’intersezione di tutti queste componenti è forte, regolarne una significa regolarle tutte. Si fa quindi un grave errore di categoria a pensare che la siccità, o le alluvioni, siano un problema meramente tecnico. Siamo chiamati da questi fenomeni a cambiare l’intero nostro territorio, se non lo faremo noi sarà il clima stesso a farlo. Può sembrare inimmaginabile che l’Italia, e con essa il mondo intero, possa compiere un’operazione simile, ma se lo facesse non sarebbe la prima volta. Nei secoli precedenti le aspirazioni di sviluppo economico hanno portato a sfruttare fiumi e bonificare paesaggi fino a convertire il clima in risorsa. Si può quindi farlo di nuovo, anche se in senso opposto. Ma per farlo serve una buona “politica”, la sola che possa governare tale intersezione. Assumere questo compito come quello prioritario renderà chiaro a tutti noi che solo una piattaforma politica, in stretta connessione con il sapere scientifico, è in grado di dare le giuste risposte a problemi finora mai affrontati dall’umanità.





1 commento:

  1. Infatti è prioritario coniugare l’azione politica con il sapere scientifico, come sapientemente illustrato da MICROMEGA n.5/2023 “ La scienza è una questione di metodo”, in particolare l’articolo di Lorenzo Ciccarese e Sofia Belardinelli “ Sfide globali, diplomazia e scienza” pag.84.

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