Il “Saggio” del mese
DICEMBRE 2023
L’autore
lo conosciamo bene, così come il tema al centro del suo precedente libro (“Heidegger ed il nuovo inizio” è il suo precedente libro da noi
sintetizzato come “Saggio del mese” di Maggio 2021), ossia
la sua feroce critica all’attuale epoca dominata dalla tecnica, ma quello che di
più ci ha spinto a proporlo come Saggio del mese è in effetti il suo, stupendo,
titolo
di Umberto
Galimberti
(1942,
filosofo, saggista e psicoanalista, editorialista di La Repubblica)
Catturati dal titolo abbiamo però sottovalutato le dimensioni
del volume (quasi 500 pagine) e soprattutto lo spessore della
trattazione che rappresenta la summa dell’intero suo pensiero filosofico. Sono
due aspetti inconciliabili con il taglio usuale dei nostri post, tali da averci
imposto un drastico adattamento di questa sintesi. La quale si concentrerà quindi
sull’ultima parte del testo, la Parte Quinta “Dallo spaesamento all’etica del viandante”, quella che sintetizza il suo pessimistico e preoccupato
giudizio ultimo su quanto, a suo avviso, emerge dalle analisi sviluppate nelle
quattro Parti precedenti e, accanto, la sua idea di una possibile via di uscita
affidata per l’appunto alla fascinosa definizione di “Etica del viandante”. Invece ci limiteremo a riferire
unicamente alcuni sintetici tratti di quanto da Galimberti esplorato nelle parti
precedenti, così articolate
Introduzione
1. Le vicissitudini dell’etica nella storia
dell’Occidente
2. La tecnica ed il grande capovolgimento
3. La risoluzione del “mondo della vita” nel
“mondo della tecnica”
4. La fine della modernità e il tramonto
delle grandi ideazioni
Parte prima = Le vicissitudini dell’etica nella storia
dell’Occidente
In
questa prima parte Galimberti ripercorre le varie concezioni dell’etica (sommariamente
definita come
l’individuazione e la definizione dei fini che devono guidare l’agire umano)
che hanno caratterizzato il pensiero occidentale a partire da quelle che a suo
avviso hanno posto le fondamenta di ogni successiva elaborazione: l’etica greca e quella giudaico-cristiana. Per i Greci antichi
l’uomo, pienamente inserito nella “natura”, doveva essere guidato da una “etica della saggezza”, la dote che,
riflettendo sul senso delle sue azioni, di volta in volta permetteva di distinguere
il bene dal male. Il pensiero giudaico-cristiano, partendo dalla diversa idea
di uomo visto come parte del creato divino e così consegnando a Dio il possesso
dei fini morali, giudica la coerenza delle azioni umane in relazione ad essi,
definendo in tal modo una “etica delle
intenzioni”. L’inizio della modernità, segnato dall’affermarsi
progressivo del pensiero scientifico, riporta sulla terra l’individuazione
delle leggi che devono guidare l’agire umano, il quale è però troppo spesso ispirato
da contrapposte convenienze, per porre un freno alle quali viene introdotta una
“etica contrattuale” (il
contratto sociale) definita con riflessioni altrettanto scientifiche
ed affidata, come garante, al potere del Sovrano, dello Stato (Thomas Hobbes, 1600). Il continuo evolvere
della scienza, che sempre più individua le leggi di funzionamento della realtà,
ha poi imposto anche all’agire morale l’individuazione “razionale” di analoghe leggi
viste come sue “forme
a priori”, il cui rispetto sancisce, recuperando la sfera delle
individuali intenzioni, il sorgere di una “etica della
ragione” (Immanuel Kant, 1700). L’ulteriore
impressionante sviluppo scientifico e tecnologico con le sue incredibili
potenzialità impone una ulteriore svolta: la sollecitazione ad una “etica delle responsabilità” finalizzata a
porre limiti morali al suo procedere (Max Weber, Hans Jonas,
1900)
Parte seconda = La tecnica ed il grande capovolgimento
Il
salto avvenuto con la modernità occidentale trova, come evidenziato, la sua
ragione d’essere nell’avvento della scienza. La spiegazione ultima del mondo e
del posto dell’uomo in esso, che la cultura greca attribuiva alla natura e
quella giudaico-cristiana a Dio, viene assunta a sé dall’uomo stesso proprio
grazie al potere di conoscenza e di utilizzo della natura tutta, che la scienza
gli consegna mediante l’inarrestabile progresso della “tecnica”,
la sfera umana che comprende sia “l’apparato tecnologico” vero e proprio, sia la
“razionalità”
che presiede alla sua messa a punto e al suo impiego. La tecnica, così intesa,
era in effetti nata, fin dagli albori della civiltà umana, come strumento per
supplire ai limiti fisiologici dell’uomo nel suo rapporto con la “natura”
fino a divenire, da subito, “condizione essenziale per la stessa esistenza umana”
questo
fondamentale aspetto è ben presente nel pensiero filosofico di tutti i tempi,
lo si coglie ad esempio n Platone, Tommaso d’Aquino, Kant, Schopenhauer,
Nietzsche. E già Aristotele coglieva in esso il presupposto per il superamento
del dualismo “anima-corpo” essendo la prima nient’altro che
“l’interiorizzazione dell’operare tecnico” senza la quale il secondo non
potrebbe essere al mondo
Tutto
ciò è valso per secoli fino a giungere alle soglie della sua “modernità”
allorquando il realizzarsi delle prime significative conquiste scientifiche ha
consentito, grazie all’uso libero della “ragione” e al rapportarsi con la natura basato
sul “metodo
scientifico”, uno straordinario sviluppo quantitativo della
strumentazione tecnica. Ed è un progredire così potente da innescare un
cambiamento radicale nel rapporto “uomo-tecnica” che già Hegel (nella
sua “Scienza della logica” del 1812) poteva
definire
“capovolgimento
della quantità in qualità”, intendendo con ciò che il crescere quantitativo
della tecnica è tale da “mutare qualitativamente lo scenario”, visto
che scopi e fini umani non si rendono più possibili se non attraverso la “mediazione
tecnica”. Questo potenziamento della strumentazione tecnica trascina
inoltre con sé due capovolgimenti: quello dei “beni trasformati in merci” (Marx
e la sua analisi del mercato capitalistico) e quello, persino
più impattante, dei “mezzi (tecnici) in fini” (ancora Hegel). “il mezzo tecnico
si autonomizza a tal punto dallo stesso uomo e da qualsiasi suo fine fino a
divenire il primo fine da conseguire”.
Parte terza = La risoluzione del “mondo della vita” nel “mondo
della tecnica”
Questa
radicale svolta nel rapporto tecnica-uomo è tale da chiamare in causa la
categoria dell’ “assoluto” (dal latino solutus ab, sciolto da),
nella quale i “fini
umani” sono risucchiati e concentrati nei “risultati tecnici”, ossia i fini
dell’operare in sè. Una metamorfosi tale da produrre una vera e propria “umana assenza di
scopi” e quindi una “caduta del senso ultimo dell’agire umano”. E
là dove un senso storicamente consolidato viene a mancare occorre inventarne
uno nuovo, e la tecnica, con il suo costante progredire, non ha tardato a farlo
incidendo sulle idee di “progresso” (il miglioramento delle
condizioni di vita) e di “sviluppo” (il semplice incremento
della produzione) fino a farle coincidere. Nel contempo,
sorta come si è visto sulla base del metodo scientifico, ha stravolto il
precedente rapporto “uomo-natura”, sostituendo l’idea di “cause finali”,
le spiegazioni ultime delle componenti naturali, di per sé non calcolabili
perché orientate alle loro “qualità”, con quella delle loro “quantità”,
al contrario misurabili, verificabili e utilizzabili (Heidegger
sintetizza questa svolta in “la ragione ridotta a
calcolo”). Ha
così modificato lo stesso concetto di “verità” risolvendolo in quello di “esattezza”
(“esatto”
deriva dal latino “exactus”, ossia misurato, pesato con precisione).
Ogni sapere “umanistico”
passa così in secondo piano, quando non declina del tutto, perché schiacciato
dal prevalere totalitario degli aspetti tecnico-scientifici. Ciò che era nato
come “mezzo”
è ormai assurto a “fine unico” e l’uomo ed il suo pensare etico
non possono più impedire alla tecnica “di fare tutto ciò che può fare” (Emanuele
Severino “Il destino della tecnica”).
Parte quarta = La fine della modernità ed il tramonto delle
grandi ideazioni
Questa
invadente potenza della tecnica si è progressivamente sviluppata lungo un arco
temporale, che prende avvio con l’inizio della “Modernità” occidentale a cavallo
dei secoli XVII e XVIII, su due presupposti di base: sulla “razionalità”,
ossia la piena fiducia negli strumenti della ragione umana, e su una sua
potenziale “universalità”.
Sono queste le convinzioni che hanno da lì in poi ispirato il rapporto
dell’uomo occidentale con la natura, con il mondo della produzione e delle
relazioni sociali. Oggi ciò a cui assistiamo è però il crollo della ragione
universale, posta in crisi proprio dallo sviluppo scientifico e,
soprattutto, tecnologico da essa stessa messo in moto. Due eventi storici, fra
di loro connessi, hanno segnato, in modo drammatico, l’innesco di tale crollo: il nazismo,
con la sua programmazione “scientifica” dell’Olocausto, e la bomba atomica,
emblema di una tecnologia che possiede la potenzialità di cancellare l’intera
umanità (Gunther Anders “L’uomo è antiquato”).
Entrambi in effetti altro non sono che il capolinea dell’illusione della
ragione universale di governare il mondo ed il corso della storia tanto da aver
segnato il definitivo passaggio “dalla modernità alla post-modernità”, sancito,
oltre che dal crescente predominio della tecnica, anche dal parallelo
superamento delle “ideologie” (il complesso di idee
che definiscono la formulazione teorica di una visione del mondo ed un
collegato sistema di valori) che
avevano sin lì contrassegnato l’intero percorso della modernità occidentale (che,
pur non potendo non coltivarle, le considerava, relazionandole al procedere
razionale, “aspetti irrazionali insiti nella natura
umana”). A tutti gli
effetti la post-modernità ha così tanto celebrato il ruolo della razionalizzazione
del mondo e della tecnica nel superare l’irrazionalità delle ideologie, da
farle a loro volta evolvere in ideologia. Una forma mentis che
ormai permea l’intero agire umano, a partire dall’economia (il
neoliberismo altro non è che l’ideologizzazione
della razionalità del mercato) con il suo imperativo della
crescita (la sola ipotesi che possa arrestarsi
produce inquietudine, ansia, segni tipici di un vuoto ideologico) e
con il mito ideologico
del consumo. Per non dire
della politica
che, ormai ancella
dell’economia, non mira più a governare l’agire sociale, ma si è ridotta a
strutture, ruoli e competenze (quando ci sono), obbligate
ad essere compatibili con il calcolo tecnico. Fino ad incidere pesantemente sulla stessa democrazia (la
dimensione politica per eccellenza della storia occidentale degli ultimi
secoli) essendo le masse ormai così impossibilitate a
comprendere la complessità degli scenari tecnologici da disinteressarsene. Non
a caso quindi la politica sempre più delega parti delle sue competenze alla cultura
algoritmica, all’intelligenza artificiale, per quanto sia evidente
che la logica
lineare delle macchine è incapace di recepire tutta la complessità
delle relazioni umane e del “mondo della vita” (l’algoritmo guarda
unicamente a come “l’uomo funziona”). E
in questa epoca del “tempo breve” della tecnica si è sempre più
ristretto anche il sentire religioso che, per sua natura, guarda a tempi ben più lunghi. Non stupisce allora che il passaggio
dalla modernità alla post-modernità segni la “fine della storia umana” nei
termini che l’hanno sin qui caratterizzata (il termine storia deriva
dalla radice indoeuropea “oìda” che significa “vedere”, “hìstor” è colui “che
sa per aver visto”). L’assorbimento in sé di tutti i possibili
fini da parte della tecnica ha infatti tolto alla stessa storia la capacità di
esprimere le
vicissitudini dell’etica nella storia dell’Occidente “ e le finalità da
raggiungere all’interno di un orizzonte di senso”, rendendo lo
scorrere del tempo privo di una consapevole direzione.
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Parte quinta = Dallo spaesamento all’etica del viandante
Lo stato d’animo che l’uomo
prova quando il mondo intorno a sé si è fatto indecifrabile, quando sono venute
a mancare idee certe, quando la stessa etica appare indefinita, ha un nome “spaesamento”.
E sembra sempre più possibile parlare persino di uno “spaesamento della stessa etica” ormai
incapace di prescrivere il giusto “fare generale” perché di fatto ridotta ad
inseguire gli effetti già concretizzati del “fare tecnico”, una produttività
ed una efficienza prive di un loro senso, e un “fare economico”, inteso come denaro
che assorbe ogni valore. In questo scenario sorge in chi ancora guarda al senso
del vivere collettivo una domanda, un dubbio: è ancora possibile nell’epoca
della tecnica una morale riconosciuta e condivisa, una morale “a tutti comune”?
vale a dire “la
morale possibile nel mondo della tecnica”? Si tratta per certo di un
percorso impervio, che impone come primo passo la consapevolezza di ciò che è
venuto a mancare con l’avvento del predominio tecnologico. L’elenco (qui
Galimberti riassume per punti quanto analizzato nelle Parti precedenti) è
lungo e preoccupante:
la nozione di verità,
non più definita come conformità ad un sistema di valori, ma ridotta a pura e semplice efficacia (vero è
ciò che è efficace e falso ciò che è inefficace)
la fine delle ideologie,
ridotte a preistoria dalla capacità della tecnica di svilupparsi senza
riferimento alcuno a visioni del mondo dottrinali
la percezione del mondo,
con la natura tutta completamente vista non più come paesaggio ma come semplice riserva
per utilizzazioni e consumo
l’insignificanza del
senso, reso inutile dal continuo scorrere della temporalità
tecnica che ha come unico orizzonte il perfezionamento delle potenzialità
tecnologiche
l’impotenza della morale,
del
tutto superflua in un’epoca in cui l’uomo è sottomesso alla (im)moralità
della tecnica che ha come unico
scopo il proprio potenziamento
la scomparsa dello
scenario dell’imprevedibile nel quadro complessivo
dell’agire umano in cui i processi tecnici si sono auto-definiti impermeabili
al dubbio dell’imprevedibilità delle possibili conseguenze
Emerge così una sorta di “etica della tecno-scienza”
che ha giustificato il “fare tutto ciò che si può fare, perché ormai conosciuto”,
senza più chiedersi, come in tutte le precedenti etiche, se “un’azione, per
il solo fatto di essere possibile, debba essere fatta”. L’uomo che,
partendo da tutto ciò, percorre l’impervio cammino di cui si è detto sembra
avere il profilo di un “viandante”,
e cioè di colui che “non disponendo di mappe affronta le difficoltà del
viaggio a seconda di come esse di volta in volta si presentano e con i mezzi al
momento a sua disposizione”. Qui cade l’abissale differenza fra l’essere
viandante o viaggiatore. Questi si
muove avendo in mente una meta, un fine, e a differenza del viandante, che si
limita a viaggiare, viaggia per arrivare”. L’etica della
tecno-scienza, ormai l’unico fine del viaggio umano, ha infatti privato di
direzione il percorso dell’uomo, rendendolo per l’appunto un viandante alla
affannosa scoperta di sé e di quello che potrebbe/dovrebbe essere il suo
cammino. Lungo questa nuova strada il primo passo dell’attuale viandante non
può che consistere nel fare i conti con il suo “antropocentrismo”, la
consolidata idea, propria dell’uomo occidentale, di un primato dell’uomo su
tutto il resto del creato, della natura. Una nuova etica
del viandante deve cioè rinunciare
alla presunzione del dominio umano sulla terra, all’idea di un umanesimo che
sta davvero condannando l’uomo a non avere un futuro. Per farlo è necessario fare i conti con
l’eredità culturale delle due visioni del mondo, quella greca e quella
giudaico-cristiana, che, seppure in modo differente fra di loro,
sono ambedue alla base dell’antropocentrismo. In quella greca la natura era un
orizzonte insuperabile che limitava l’agire tecnico ed etico dell’uomo, il
quale pur tuttavia si auto-poneva al suo centro, in quella giudaico-cristiana,
con la natura consegnata all’uomo dalla volontà creatrice divina, anche tale
orizzonte diveniva superabile. Il progressivo fondersi di queste due visioni
nella comune cultura europea, all’interno della quale la tecnica, dote da
sempre indispensabile alla stessa sopravvivenza umana, non ha tuttavia prodotto
mutamenti radicali stante il suo limitato perfezionamento. E’ l’umanesimo
rinascimentale che prepara il terreno all’affermarsi dell’antropocentrismo
occidentale (esemplare è il “De hominis
dignitate” di Pico della Mirandola che celebra la superiorità dell’uomo su
tutte le altre forme di vita) e alla successiva nascita
della moderna scienza (per Bacone, considerato assieme a
Cartesio il genitore filosofico del metodo scientifico, l’uomo grazie ad essa
può divenire il “soggiogatore della necessità”). Tutto
il successivo sviluppo della cultura occidentale fino ai giorni nostri prende
le mosse da questo intreccio divenendo la base intellettuale dell’atteggiamento
antropocentrico. Oggi però lo sguardo del viandante può ben cogliere che
l’evoluzione, più volte già evidenziata, della tecnica da mezzo a fine sta
mettendo a dura prova questi presupposti umanistici dell’antropocentrismo proprio mentre continua a rafforzare, tecnologicamente, l’intenzione antropologica di dominare la
natura. L’etica antropocentrica, che assume l’uomo come fine di
tutte le cose, sta cioè definitivamente implicando la sostituzione
dell’ancestrale timore della natura, dall’uomo spesso vista come ostile, con
quello delle conseguenze che la natura stessa presenta per il suo eccessivo
consumo, per la sua usura (e d’altronde già gli antichi greci,
per bocca di Sofocle nella sua “Antigone”, dicevano “molte
sono le cose inquietanti, ma nessuna più dell’uomo”).
Al viandante allora non resta che essere consapevole che è tempo di percorrere
la terra senza la pretesa, sempre più insostenibile, di possederla, e di
pensare ad un’etica che abbia al suo centro non più l’uomo, ma la natura, la
vera fonte della vita. L’etica del viandante deve quindi sostituire
l’antropocentrismo con il “biocentrismo”.
I
primi viandanti che dovrebbero abbracciare il biocentrismo, peraltro sostenuto
dalla “legge dell’entropia” (tutta l’energia
passa da forme utilizzabili a forme inutilizzabili) da loro ben conosciuta,
sono gli scienziati che non possono più (auto)definirsi neutrali per predisporsi
con convinzione a raccogliere l’invito di Jonas al “principio
di responsabilità”, al costante interrogarsi etico sugli esiti del loro
operare
Il biocentrismo trascina
con sé un secondo passo da compiere: cambiare l’idea di tempo. L’uomo occidentale
da sempre vive nella “storia”, in una idea dello scorrere del tempo
che, come prevede la cultura giudaico-cristiana, acquista senso solo guardando
al suo esito finale nella salvezza divina (l’eschaton, il tempo ultimo prima della fine dei
tempi). Per il viandante, ed il suo nuovo intendere, sembra ormai
più familiare il tempo
biologico, ossia quello scandito dal ritmo naturale del vivere. Egli
è costretto a questo cambiamento perché constata che il primato del tempo
storico, così proiettato su un futuro indefinibile, ha in effetti lasciato spazio
all’avvento della modernità tecnica che, al contrario tutta concentrata sul
presente, rischia di cancellare ogni possibile futuro. Il viandante non ripudia
la storia, perché non si può ripudiare il tempo in cui si è nati ed in cui si
vive, ma si sottrae alla tirannia del presente tecnico perché guarda ad un
diverso futuro, che non è quello della “salvezza” (l’eschaton),
e neppure quello dell’infinito “progresso” (l’illusione illuminista
di una ragione che con il tempo avrebbe condotto ad una salvezza terrena),
ma quello di un
diverso modo di abitare la terra (il biocentrismo).
Il viandante sa bene che i giochi per il futuro non sono mai fatti in modo
definitivo, sa che è possibile “turbare il futuro” per ridare un senso al suo
camminare nel presente sapendo meglio giudicare i passi compiuti nel passato.
Così facendo si asterrà inoltre dal riproporre l’idea occidentale che il
proprio modo di essere, di vivere, debba valere per l’intera umanità. La
supponenza europea di un “primato della propria cultura” (l’eurocentrismo) altro
non ha significato che l’impedire, negandole, ogni altra appartenenza
culturale. Ed in più ha troppo spesso comportato l’introduzione forzata, con
una contraddizione evidente, dello stesso concetto di “democrazia”, attuando in effetti
una unificazione coatta del mondo proprio attraverso la tecnica e la sua
appendice del “mercato”.
Il viandante, ammonito da questo passato che ha giustificato la pretesa
occidentale di un infrangibile “noi” fuori dal quale ci sono solo degli indistinti
“loro”,
legittima tutte le persone e tutti i popoli che incontra lungo il suo cammino
proprio perché “ognuno
di loro ha la sua narrazione”.
(si è dovuto attendere l’affermarsi della “antropologia
culturale” per capire quanta cultura, e di quanto valore, sia rintracciabile,
se si usa uno sguardo pulito da ogni preconcetto, nei popoli che l’arroganza
occidentale ha considerato, e tuttora considera, primitivi). Questo
nuovo modo di stare nel mondo con “altri” deve però fare i conti con un nuovo
preoccupante pericolo: l’affermarsi della “memoria informatica”
che, come sviluppo peggiorativo della memoria culturale occidentale, rischia di
sradicare ogni uomo, ogni etnia, ogni popolo dal pezzo di terra che abita. La
memoria informatica, la memoria affidata alle “macchine”, non abita infatti uno
“spazio”,
perché tutti li travalica, e non possiede un “tempo”, perché riassorbe nel
proprio presente tutto il passato e non di meno lo stesso futuro imprigionato
nelle sue possibilità di previsione e di controllo. Eppure la memoria
informatica altro non è che una pura raccolta di dati, di informazioni, che
assunti asetticamente, non contestualizzati, non possono spiegare il mondo. Ciononostante
essa pretende di possedere una sicurezza di “conoscenza”, come se la
riduzione del “pensiero
a calcolo” (Heidegger)
fosse in grado di cogliere l’imprevisto, il sorprendente, l’emozionante, quel
di più, non omologabile rispetto al dato nudo, che molto, se non tutto, spiega
dell’uomo e del suo vivere. Queste considerazioni spingono il viandante ad
affrontare di petto il tema della scienza e della sua vantata potenza
cognitiva. Lo sguardo del viandante deve perciò risalire molto addietro, a
quando con Socrate e Platone nacque il pensare per “concetti astratti”, intesi come
la capacità di unificare il molteplice (ad es. usando il
concetto di albero per rappresentare tutti gli alberi indipendentemente dalle
loro variegate forme), per consentire così facendo una sorta di “controllo”
sulle cose da conoscere. Questa “logica concettuale” rappresenta a tutti gli
effetti il primo passo vero il “pensiero scientifico”, ed è ancora Platone a
fornire la sua ragione giustificativa là dove evidenzia che solo così si può
costruire un “sapere
universale e valido per tutti”, un sapere che però non può che
basarsi su rappresentazioni oggettive come numeri e misure raccolte da un “osservatore
esterno” che si pone “al di fuori” degli oggetti da conoscere.
Questo
aspetto è considerato da Galimberti decisivo per comprendere l’evoluzione del
pensiero scientifico occidentale tanto da essere al centro della sua lettura
dell’elaborazione filosofica di Heidegger (come si può cogliere nel nostro “Saggio
del mese” di Maggio 2021 che sintetizzava il suo testo “Heidegger ed il nuovo
inizio”) e non di meno di quelle di Hegel, Marx, Freud e Nietzsche
A fronte di tutto ciò, nel
momento di capire quale diversa etica possa guidare i suoi passi, diventa
comprensibile lo sconforto del viandante: ovunque volge il suo sguardo trova
ostacoli da rimuovere, pericolose tendenze in atto da fronteggiare. Si rende
cioè conto di essere ad un punto di non ritorno, il suo viaggio è tutto da
inventare. Neppure volgere lo sguardo verso le stelle, verso l’infinità
dell’Universo sembra essergli di sostegno. Proprio la scienza, con i tanti
progressi dell’indagine sul cosmo, ha dimostrato la casualità dei processi che
lo agitano, la Terra stessa non ha futuro, per quanto distante possa essere
quel momento il Sole si spegnerà e l’umanità scomparirà, con tutto il pianeta,
nel nulla. Il
viandante sa di non poter dare un senso all’Universo, né questo può dare un
senso a lui. Eppure una via d’uscita c’è ed il viandante la trova
proprio nell’essere compagno del viaggio verso l’inevitabile assieme a tutto
ciò che anima questo suo pianeta. Questa consapevolezza accresce le ragioni per
congedarsi dall’etica antropocentrica e dalla insostenibile presunzione umana
di una sorta di diversità esistenziale. Non l’uomo allora, ma la “vita della Terra”
deve diventare la misura ultima di tutte le cose, di tutte le sue azioni,
assumendo così come centrale anche una inedita “etica
planetaria”. Non basta infatti ridurre il potere distruttivo
umano nei confronti della natura per sperare di salvare sé stesso, sarebbe
riaprire una finestra all’antropocentrismo per quanto più gentilmente declinato.
Il viandante sa che deve divenire cosa unica con tutto il mondo e tutta la
natura. Certo, egli è consapevole della portata di una simile svolta filosofica,
ma sa anche che non sarebbe una visione mai delineata, il senso profondo del “Cantico delle
creature” di San Francesco d’Assisi (ripreso da un altro
contemporaneo Francesco) stava proprio nel suo celebrare
l’interdipendenza di tutto quanto si muove sulla Terra. L’etica planetaria per
divenire vera fonte ispiratrice deve però necessariamente coinvolgere l’intera
umanità e deve quindi superare anche le etiche tradizionali che pur guardando a
valori condivisibili avevano un orizzonte ristretto nei confini della cultura
che esprimevano. La domanda sorge spontanea: come conciliare l’universalità
dell’etica planetaria con il “multiverso delle culture”, così differenti per
lingua, etnia, religione e così fondanti identità e appartenenza? La terra che
il viandante ha alle spalle è quell’Occidente di cui si è detto, ma è proprio
lì che è rintracciabile una prima, decisiva, risposta: la rinuncia da parte dell’Occidente alla
presunzione di ritenere la propria cultura, ed i valori etici che essa esprime,
la forma più alta di civiltà finora raggiunta e quindi in diritto di essere
ovunque esportata per essere imposta a tutte le altre culture (l’attuale globalizzazione economica
altro non è che il definitivo compimento di questo processo).
Se mai questa convinzione iniziasse ad muovere passi concreti si porrebbe però
da subito la necessità di conciliare identità e appartenenze comunitarie,
dimensione irrinunciabile per tutti gli uomini della terra, con
l’irrazionalità delle artificiali divisioni fra Stati. Storicamente
questi sono da sempre entità istituzionali fragili, provvisorie, dannose per i
conflitti che innescano per la loro innata pretesa di difendere, se non
allargare, linee di separazione fra umani, i confini, che a ben vedere non hanno nessuna
ragione di essere. “Etica cosmopolita” è il termine per definire questo diverso sistema
di relazioni fra culture diverse indispensabile per sostenere l’etica
planetaria, un obiettivo che non potrebbe essere mai raggiunto se si puntasse
ad un accordo tra i differenti valori che da secoli, millenni, sostengono le
diverse culture. La strada maestra da seguire altra non è che quella di puntare
a soluzioni che mitighino, risolvano, i conseguenti “conflitti di interessi” pratici
e concreti. Non diversamente dalla logica che ha sostenuto la nascita degli
Stati moderni, vale a dire la rinuncia di un parte delle libertà individuali
per avere in cambio sicurezza e pace sociale, si potrebbe allora pensare ad
analoghi “contratti”
tra Stati che, per salvare umanità e pianeta, rinuncino ad una parte dei loro
interessi. Nemmeno tanto paradossalmente un fondamentale contributo potrebbe,
in questa ottica, venire proprio da “mercato e tecnica” che da sempre operano nel
segno della “deterritorializzazione”,
e che, va da sé per i propri fini, da tempo stanno svuotando di potere gli
Stati. Immaginati questi primi due passi il viandante comprende che il terzo,
conseguentemente, non può non consistere che nella definizione e realizzazione
di una “etica del trascendimento”. La
trascendenza
alla quale guarda il viandante non ha il senso religioso dell’eschaton, ma è un
aspetto strettamente legato all’immanenza, alla realtà intrinseca del vivere
umano. E’ stato il filosofo tedesco Karl Jaspers a introdurre il concetto di “trascendenza
immanente” intendendo con questa sorta di ossimoro che la
trascendenza umana si annuncia nella realtà del vivere, e quindi nella sua
immanenza, per quel tanto di incompiutezza di senso percepita dall’uomo. Come
dire che questi non si esaurisce nella sua essenza anatomica, fisiologica,
psicologica e sociologica, perché è nella sua natura essere costantemente
portato ad evolvere sé stesso rispetto a quello che è, l’uomo quindi è
costituzionalmente un essere incompiuto votato al cambiamento. Non si tratta
del generico desiderio di un futuro esistenziale migliore, ma della tensione
verso un costante completamento di sé.
un
tratto che Nietzsche ha tradotto nella sua idea di “Ubermensch”
strumentalmente tradotto, nella vulgata fascista e nazista, in “superuomo”
mentre la sua interpretazione corretta, come evidenziato da Gianni Vattimo nel
suo libro su Nietsche “Il soggetto e la maschera” , e “Oltre-uomo”
E’ proprio la trascendenza
immanente che induce il viandante, nel suo rifiuto dell’etica antropologica e
nel suo sostituirla con l’etica planetaria e l’etica cosmopolita, a completare
il senso del suo viaggio con un’ulteriore evoluzione culturale finalizzata a far diventare
reale il possibile, a dare cioè traduzione concreta alla sua
pulsione vero un pieno completamento di sé. L’evoluzione umana ha sempre
coniugato l’aspetto
biologico con quello culturale,
con la radicale differenza rispetto all’adattamento biologico che questo
secondo aspetto evolve
per decisioni e libere scelte capaci di dare risposte nuove a situazioni nuove.
Ciò significa che le negative novità del nostro tempo richiedono che l’uomo sia
ispirato anche da una “etica del trascendimento”, capace di includere in sé le
norme morali dell’etica planetaria e dell’etica cosmopolita. Questo significa però
che la tensione al cambiamento, al completamento, nel contesto attuale non può
realizzarsi se l’ “io individuale” non viene fatto precedere dal
“noi
collettivo”. L’etica del trascendimento impone che tutte le
decisioni etiche siano ispirate dal senso di “fraternità” rivolto a tutti gli altri uomini, ma non di meno alla
natura tutta.
L’etica del
viandante non è pertanto, come un tempo, un appello, un auspicio, una
speranza, ma una necessità imposta
dalla sopravvivenza della specie. E’ questa la ragione per cui il viandante,
con la sua etica, può essere punto di riferimento per l’umanità a venire, per
un nuovo uomo sempre meno soggetto alle leggi del territorio perché fa appello
a valori che trascendono le frontiere ed i confini che spartiscono la Terra e
separano gli uomini che, nella storia, hanno per questo sempre regolato i loro
rapporti secondo la logica del nemico non rendendosi così conto che nei
confronti della Terra il nemico siamo noi
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