Il “Saggio” del mese
FEBBRAIO 2023
affronta Giorgia Serughetti (ricercatrice in Filosofia della
politica presso l’Università di Milano Bicocca. Si occupa, con diversi saggi
pubblicati, di problematiche di genere, dei fenomeni migratori, e più in
generale di teoria politica)
Già
nella premessa è esplicitata la tesi che ispira l’intero saggio:…. intendo sostenere che esiste un’affinità nascosta tra
neoliberismo e conservatorismo populista…..
dove quest’ultimo, costruito su una forte
visione identitaria, viene inteso come svilimento dei valori dell’uguaglianza,
della partecipazione, della libertà
politica e dell’intero Stato di diritto.
Nel testo compaiono numerosi riferimenti alle opere di altri
autori. In questa sintesi, per non appesantire la lettura, si cita solamente il
nome dell’autore, in calce si trova un loro riepilogo con relativa opera citata
Capitolo 1
Il Giano bifronte populista
1.1 Cos’è
il populismo? = Si
è detto in apertura che non è corretto parlare
di “populismo”
essendo da tempo presenti nell’attuale scena politica globale diversi populismi che si differenziano fra di loro in relazione
agli specifici contesti nazionali (si pensi ad es. a
quello di Narendra Modi, l’attuale Premier indiano). E’ quindi bene
precisare che questo saggio prende in considerazione il populismo nativista e autoritario della destra
radicale europea e americana inteso come “uno spirito anti-establishment che fa leva sulla contrapposizione tra
“popolo” ed “élite”. In questo primo
Capitolo si sintetizzano i caratteri ideologici e programmatici che giustificano
questa definizione basata su elementi di analisi ormai consolidati che richiedono
però di essere messi in un certo ordine, iniziando dalle tre proposizioni
che costituiscono il manifesto ideologico populista:
“il
popolo è il detentore della sovranità”, “i nemici del popolo stanno espropriando questo potere”, “il potere deve essere restituito al popolo”. Seguiti da un corollario non meno fondante: “è attraverso un
leader che ciò può realizzarsi”. Si
tratta di concetti così generici da prestarsi persino ad una lettura “di
sinistra”, però qui l’idea di “popolo” non
coincide con l’intera popolazione, ma intende solo una sua parte dotata di una
specifica identità intesa come quella “autentica”. Una autenticità spesso costruita non “in positivo”, ma “in negativo”, escludendo cioè tutti coloro che non sono ritenuti degni
di rientrarvi (Paul Taggart, scrive: i populisti sono più
sicuri di ciò che non sono piuttosto che di ciò che sono). L’evidenza dei fatti
dimostra che non rientrano nel “popolo autentico” le etnie diverse, chi ha
comportamenti non allineati ad una certa idea di morale, e più in generale tutti
coloro che non sono definibili “gente comune” perché privilegiati,
acculturati, cosmopoliti. E’ su questa nozione di popolo che è stata costruita
l’ “identità politica” populista.
1.2 Il posto dei valori = Questa costruzione
si è concretamente formata sulla base di alcune specifiche problematiche: “l’immigrazione”, declinata come “paura dello straniero” in quanto minaccia per
l’unità etnica e religiosa, “la sicurezza”, vissuta come negativa cifra della contemporaneità,
“la
degenerazione morale”, insita nei nuovi
modi di vivere la sessualità ed i rapporti umani. Ad esse il populismo risponde
con un richiamo a presunti “valori tradizionali”
visti come elemento identificativo, come barriera
protettiva e come elemento base per il futuro, sostituendo in questo modo il “linguaggio dei diritti”, per definizione universale, con “il linguaggio dei
valori”, propri
del popolo “autentico”.
1.3 L’ossessione dell’identità = Quali dinamiche
hanno contribuito all’affermazione di questa autentica “ossessione per l’identità” ? Una possibile risposta
può essere trovata nell’intreccio fra i processi socio-economici che hanno segnato
gli ultimi decenni e l’impatto che hanno avuto, in modo differenziato, sulle
diverse componenti sociali. Si confrontano, nell’ambito delle scienze sociali, due tesi: una prima che pone l’accento su dinamiche economiche
ed una seconda che privilegia aspetti culturali
1.3.1 I “perdenti” della globalizzazione = la spiegazione
economica chiama in causa il peso negativo della globalizzazione, dell’innovazione
tecnologica, della persistente crisi finanziaria, e la conseguente insicurezza economica,
reale o percepita, soprattutto tra i ceti medi e medio-bassi ed in particolare
nelle aree periferiche e rurali. Hanno un ruolo significativo in questo
contesto fenomeni quali i processi di delocalizzazione, l’automazione spinta
delle produzioni, con il conseguente stravolgimento del mercato del lavoro, e
non ultima la stessa immigrazione percepita come ulteriore concorrenza
occupazionale. (Dani Rodrik ha
stabilito, sulla base di accurate analisi globali,
una relazione diretta fra “stadi avanzati della
globalizzazione mondiale” e la ricaduta sul
“sentore politico locale” quasi ovunque declinato come “contraccolpo populista”). Si sarebbe così formata
una vasta area sociale definibile come quella dei “perdenti della globalizzazione”, formata da tutti coloro che hanno vissuto
tali cambiamenti come arretramento sociale e perdita di futuro. Sentimenti
capaci di contagiare anche gli strati
sociali più bassi fino a formare
l’indistinta base umorale ed elettorale di “partiti antisistema” più rapidamente intercettata da una destra più capace di offrire ricette, tanto
semplicistiche quanto accattivanti, di chiusure nazionalistiche, di generico
assistenzialismo e di politiche contro l’immigrazione. La destra populista identitaria sarebbe cioè riuscita a meglio
intercettare questo malcontento declinandolo in una indistinta contrapposizione
tra generici “noi” e “loro”
1.3.2 Il contraccolpo culturale = La seconda interpretazione, mossa da
alcune evidenti incongruenze della prima tesi, ritiene più determinanti le
conseguenze di carattere culturale indotte dai cambiamenti socio-economici. Colin Crouch,
ad esempio, ha evidenziato che la tesi dei “perdenti della globalizzazione” non
riesce da sola a spiegare fenomeni come la Brexit, la vittoria di Trump,
l’affermazione elettorale di Alternative fur Deutschland alle ultime europee, tutti
accomunati da consensi ottenuti in aree con bassa immigrazione. Più in
generale, come evidenziato da Francis Fukuyama, le
difficoltà di ordine economico sono state interpretate soprattutto come perdita
dello “status
sociale” fin lì vissuto come fonte di identità. Ambedue evidenziano
che sono emersi sentimenti, diffusi e trasversali, che non possono essere
ridotti a mero sottoprodotto
dei cambiamenti economici perché indicano il prevalere di stati
d’animo ”culturali”
che vanno ben oltre la sola oggettiva caduta di reddito. Si tratta di reazioni,
che spiegano anche il mancato appoggio alle politiche di sinistra
tradizionalmente più attente alle disuguaglianze economiche, che si sono
solidificate in un “risentimento” indirizzato tanto verso l’alto,
verso le presunte élite, quanto verso il basso, verso gruppi sociali, ritenuti
inferiori ma più favoriti dalle politiche sociali, che accentuano la percezione
di perdita di status e di conseguente disorientamento identitario. Ronald Inglehart e Pippa Norris in un lavoro comune parlano di “cultural
backlash (contraccolpo culturale)”, una reazione istintiva contro
cambiamenti sociali negativi imputati alle politiche di segno progressista
proprio perché improntate ad una “uguaglianza” inaccettabile per chi aveva
fondato la sua identità sociale su graduazioni di, auto-gratificante, disuguaglianza.
Sono casi emblematici in questo senso la Svezia e la Danimarca, due paesi con
alto livello di reddito e di welfare, che hanno però conosciuto una impressionante
crescita del consensi populisti non certo spiegabili solo per ragioni di disagio
economico. La natura culturale di questo “contraccolpo”, specie nelle fasce più
anziane e meno acculturate, spiega allora il ritorno ai valori tradizionali vissuti
come quelli più adatti a ricostruire la persa identità sociale.
1.4 La sinistra perduta = Le due
tesi, non così alternative da non consentire una loro sintesi, guardano peraltro
ad un campo politico abbandonato dalla sinistra che, si è di fatto dimostrata
inadeguata alle sfide di cambio secolo. Le
possibili spiegazioni sono molteplici e divergenti, sono però due quelle che di
più possono interessare il tema al centro di questo saggio. La prima, più
legata alla situazione statunitense, punta il dito su una controproducente “deriva
identitaria”. Richard Rorty già negli
anni Novanta evidenziava come la sinistra americana avesse, a partire dagli
anni Settanta, spostato la sua attenzione dai temi delle ingiustizie economiche
a quelli delle discriminazioni di razza, sesso, religione, orientamento
sessuale, venendo così premiata da un meritevole avanzamento nel campo dei
diritti, ma dimostrandosi incapace,
quando non dimentica, di politiche contro le disuguaglianze economiche e
sociali proprio mentre la globalizzazione neoliberista le faceva esplodere. Su
questa linea si aggiungono le analisi di Mark Lilla e
dello stesso Francis
Fukuyama che hanno in sintonia
evidenziato come questa
svolta identitaria, che abbandonava la visione del “noi” per concentrarsi sulla
dimensione dell’ “io”, abbia,
neanche tanto paradossalmente, rafforzato lo stesso mito neoliberista dell’individualismo.
Allargando il campo di osservazione all’Europa emerge una seconda
risposta, quella della grave sottovalutazione di una fondamentale
contraddizione del populismo: che per un verso raccoglie la maggior parte dei suoi
consensi negli “esclusi dalla globalizzazione” ma per un altro, senza pagare
dazio elettorale, di fatto porta avanti la stessa agenda economica neoliberista
che quella esclusione ha provocato. Quello che
poteva essere un importante cavallo di battaglia non poteva però essere colto e
gestito non tanto per un difetto di analisi, ma per il fatto che molta della
sinistra occidentale si è non di meno allineata a quelle stesse politiche
neoliberiste. Si tratta, in ambedue i casi, di spiegazioni non esaurienti perché,
se già fallimentari nella tradizionale capacità di rappresentanza del
malcontento socio-economico, le politiche di sinistra hanno dimostrato una
gravissima sottovalutazione anche degli aspetti culturali, poco sopra evidenziati. La
sinistra non ha cioè adeguatamente colto la duplice natura del neoliberismo
capace di coniugare, e rafforzare, le proprie sciagurate politiche economiche con
una più ampia “razionalità”
(nel senso proposto da Michel Foucalt) capace di
governare la vita (biopolitica) di
individui e comunità, di plasmare i soggetti e di orientare le loro stesse
scelte politiche (un testo
che, a nostro avviso, resta fondamentale per comprenderla è “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità
neoliberista” di Christian Laval e Pierre Dardot, 2013 DeriveApprodi). Con una
duplice negativa conseguenza: da una parte di essere identificata, molto di più
dello sfacciato sostegno populista, con la visione economica neoliberista, ed
al tempo stesso di non aver adeguatamente costruito una propria alternativa
culturale alla razionalità neoliberista lasciando di fatto campo aperto alla
retorica nativista, sovranista, tradizionalista, del populismo conservatore di
destra, non cogliendo, e quindi non opponendosi in modo efficace, il suo essere una sorta di “Giano
bifronte”.
Capitolo 2
L’individuo senza società
Per
approfondire le basi e l’evoluzione del populismo conservatore di destra
occorre mettere ordine nel suo bagaglio culturale/ideologico a partire dalla “concezione
dell’individuo” nella società. A differenza di quella “dichiaratamente
fascista”, che concepisce l’individuo come una “componente della nazione” ai cui fini deve sottostare, la destra populista
è tutt’altro che anti-individualista, anzi l’individuo, o meglio ancora l’individualismo,
sono “la
pietra miliare della vita sociale”. Si parla però di una particolare
forma di individualismo
2.1 La democrazia del “me ne frego” = Nadia Urbinati opportunamente ci ricorda che il termine “individualista” nasce, all’indomani della Rivoluzione Francese, per definire tratti negativi dell’individuo: egoismo, indifferenza e insofferenza verso gli altri e le regole. Nell’altra grande Rivoluzione, quella americana, Alexis de Tocqueville già registrava però una accezione diversa: l’individualista americano non è egoista, ma un soggetto sociale che coltiva la propria sfera privata a latere di quella pubblica. Duecento anni dopo Norberto Bobbio confermava l’esistenza di questi due individualismi: il primo, erede della tradizione liberale, del singolo slegato dal corpo organico della società, ed il secondo, quello della storia democratica, del singolo che considera centrale l’unione sociale. Hanna Arendt sottolineava, parlando dell’individualismo, la differenza sostanziale fra “solitudine” e “isolamento”, con la prima utile pre-condizione per una autonomia morale ed il secondo preludio invece all’impotenza nell’agire sociale. Il populismo di destra non solo guarda all’individualismo della tradizione liberale, ma lo accentua con una forte venatura di isolamento che lo porta a negare i valori della convivenza civile: il rispetto degli altri, l’uguaglianza, la solidarietà, i diritti collettivi. L’individualismo populista ai richiami dei valori fondanti di un vero vivere sociale risponde con un perentorio “me ne frego”.
2.2 L’individualismo autoritario = Con l’aggiunta ulteriore di una
aggravante solo all’apparenza contraddittoria: questo ritrarsi individualista
non si limita all’esaltazione dell’ “io”, ma pretende di intervenire, in nome della
sua ossessione
dell’identitaria, sul “noi” (quello “autentico” prima evidenziato) escludendo
e disegnando confini e appartenenze. Il “me ne frego” cancella il fondamentale equilibrio
fra attenzione per l’individuo e senso di appartenenza ad una condivisa
comunità che la Arendt sintetizzava nel concetto di “pluralità” capace di tenere
insieme uguaglianza
e distinzione. Un tratto che bene testimonia la duplice negatività
di eccesso di individualismo e imposizione identitaria, è la pratica
scientifica della “disintermediazione”, la totale
delegittimazione di ogni corpo sociale intermedio, di ogni filtro
istituzionalizzato di gestione dei rapporti sociali. Si tratta di un decisivo salto
di qualità negativo rispetto alle precedenti forme di populismo, che per quanto
aggressive contemplavano comunque la presenza di momenti di intermediazione organizzati
e istituzionalizzati, l’attuale populismo conservatore di destra si muove al
contrario lungo una precisa catena identitaria che parte dall’individuo per
chiudersi con un leader che la personifica. Ed è proprio qui, su questo terreno
che si realizza l’assonanza, ideologica e programmatica, con il neoliberismo economico
a sua volta refrattario, in nome del “libero mercato”, al ruolo di partiti politici,
parti sociali, sindacati. Come ha sottolineato Marco Revelli su questo
aspetto si realizza la chiamata alle armi di singoli individui rinchiusi nel
loro “isolamento” sociale ed esistenziale ed acquista senso e sostanza un “individualismo
autoritario”. Anche in questa esasperazione si accentua una certa distanza
dal fascismo classico e dalla sua idea di “Stato etico” che manteneva, per
quanto distorta, una visione comunitaria (il
populismo di destra, come evidenzia Rocco Ronchi,
è semmai più vicino al “me ne frego”
delle squadracce degli Arditi del Popolo). Un preciso supporto ideologico viene
dalla distinzione che Friedrich von Hayek
(uno dei padri nobili del
neoliberismo) faceva fra
un
individualismo
“vero” ed uno “falso” con il primo, quello giusto, che vede la
società come il prodotto delle azioni individuali che spontaneamente realizzano
un ordine sociale autoregolamentato, ed il secondo, quello sbagliato (che proviene dall’onda lunga della Rivoluzione
Francese) che vede la società come il risultato di una visione generale volta a conseguire
determinate finalità. A suo avviso quindi l’ordine sociale, basato sul libero
esprimersi degli individualismi economici, ha già dentro di sé i fondamenti di
legittimità, e la politica ha semmai il compito di proteggerlo, certo non
quello di indirizzarlo. Non a caso Chantal Mouffe definisce
questa costruzione ideologica, neoliberista e populista, “post politica”, il presunto
potere autoregolatore del mercato la rende infatti del tutto superflua e la
riduce alla mera gestione di faccende tecniche da affidare ad esperti. Due
slogan di Margaret Thatcher sintetizzano perfettamente questa visione: “there is no
alternative” (“non c’è
alternativa”, spesso contratto in TINA) al pieno
libero esprimersi del mercato, e “la società non esiste”, vale a dire che non
esiste, come evidenzia Corey Robin, una
dimensione altra dalla somma degli individui, dei loro raggruppamenti
spontanei, delle famiglie.
Capitolo 3
Patria e famiglia (senza dimenticare Dio)
Sono
tre i terreni sui quali di più si esprime questo populismo individualista e
conservatore:
la difesa dei confini, la famiglia tradizionale, la religione declinata in
chiave identitaria, su di essi si articola la mobilitazione del “popolo”
autentico per la restaurazione di un “ordine” che rischia di andare perduto
3.1 La nostalgia dell’ordine sovrano = il “nativismo”, l’esaltazione ideale dell’essere nati in un posto con una lingua, una storia, un ordine morale, rappresenta l’elemento cardine del “sovranismo” volto a realizzare un “ordine sociale e storico”, al ripristino di una sorta di “sovranità westfliana” (alla pace di Wefstalia del 1648 si fa risalire l’idea di uguaglianza e autonomia delle singole nazioni), coniugata con la “sovranità popolare” e la “sovranità dell’individuo”.
3.1.1 Il sovrano e lo straniero = Non è corretto sovrapporre “sovranismo”
e “nazionalismo”,
per quanto entrambi esaltino il popolo nazione. “Nazionalismo” ha, lungo la
prima fase della modernità, indicato l’anelito di popoli alla libertà dal
vecchio ordine imperiale, mentre “sovranismo” è un’istanza di difesa di quanto
ritenuto tradizione di un popolo congiunta alla retorica esaltazione di un autonomo
potere che non riconosce altri poteri. Tradizione e recupero di potere, (sentirsi “padroni in casa propria”), sono
quindi gli elementi ideologici fondanti degli attuali sovranismi, la cui ascesa
ha trovato genesi non casuale nella feroce opposizione ai flussi immigratori con
la paranoica esaltazione della “difesa dei confini”
dalla “minaccia dello straniero”. E’ ben noto che i fenomeni migratori sono un
dato ormai costitutivo dell’attuale ordine mondiale, tanto da essere, per
cause varie, di fatto inevitabili, allo stesso modo appare poi evidente che in
questo quadro una loro qualsiasi gestione scavalca ogni dimensione nazionale.
Il richiamo sovranista alla “difesa dei confini”, di fatto impossibile in
questo quadro globalizzato, evidenzia quindi tutto il suo carattere di natura
culturale ed ideologica perchè alimenta, al di là della sua effettiva
sostenibilità, la carica emozionale di una “nazione” minacciata nella sua purezza etnica
di popolo. Ed anche qui si misura il doppio gioco con la visione globalizzata
neoliberista. Questa, che a tutti gli effetti è una delle cause più importanti
dei fenomeni migratori, viene di fatto taciuta, l’opposizione ai “poteri forti”
vale tutt’al più qualche stanco slogan. Anche la sovranità conferma che il
populismo è “illiberale,
non anti-liberista”. .
3.1.2 Il popolo e le corti =
Il concetto di “popolo” architrave del sovranismo populista, viene scientificamente
costruito, come precisa Alessandro Ferrara, con la combinazione di tre
fattori: la
riduzione del popolo al corpo elettorale, l’attribuzione ad esso del potere costituente, basato
sull’esistenza di un unico e vero interesse del popolo, e dà, su queste basi,
titolo per giustificare ogni intolleranza verso ogni opposizione. La
volontà del popolo, quello autentico, deve potersi affermare senza limiti ed
intralci, chi rema contro è un nemico da combattere anche violentemente (le rivolte post voto negli USA ed in
Brasile). Non è allora casuale
la
costante pulsione, presente in tutti i populismi, alla modifica-sovvertimento
dei principi costituzionali (non
a caso con il ricorso a referendum), al punto che è sempre
più difficile non vedere nel populismo sovranista l’attuale vera antitesi della
democrazia
3.1.3 L’individui confinato = All’interno di questa recessione
democratica ritorna il ruolo del soggetto al centro del progetto populista di
destra: l’individuo. E’ all’individuo, alle sue esigenze di recupero di identità,
di sicurezza, alla sua personale sovranità sociale ed esistenziale, che guarda
l’appello sovranista. Peraltro è questo un concetto tutt’altro che nuovo nel pensiero
filosofico-politico della modernità occidentale: Hobbes (1588-1679),
Locke (1632-1704), Rousseau
(1712-1778),
Hegel (1770-1831) ritenevano
che la sovranità dello Stato, delle sue politiche, fosse mirata proprio ad ampliare
e difendere la sovranità dell’individuo. Ma, come più volte già evidenziato, la
sovranità individuale nel pensiero populista sovranista prende una ben precisa
piega: essa non è diritto di tutto il popolo, ma spetta solo alla sua parte “autentica”.
L’insistita separazione fra il “noi” e gli “altri” implica allora che i confini
da difendere non formano solo la barriera esterna contro “lo straniero”, ma guardano
anche, con piglio non meno autoritario, a ripristinare le giuste difese contro
i rischi interni di degenerazione morale e culturale, di attacco ai valori
tradizionali del vero popolo
3.2 Panico demografico e 3.3 nascita e nazione = Una questione che sta oggettivamente interessando buona parte dell’Occidente, Europa in particolare, riassume e amplifica questi sentimenti: l’accentuato e, all’apparenza, inarrestabile calo della sua popolazione autoctona (la culla vuota della civiltà) correlato poi alla minaccia della sua progressiva sostituzione con l’immigrazione. Svanito ogni allarme per la possibile sovrappopolazione globale, il tema che oggi si impone alle agende sovraniste è come fermare questi due processi. (la colpa di tutto ciò viene individuata nella visione globalista e progressista che ha negato adeguate politiche di sostegno alle famiglie “native”, oltretutto dimenticando che per fare un figlio servono un uomo ed una donna). La questione è sicuramente complessa e si presta a diverse interpretazioni, emerge però ancora una volta la contraddizione fra l’accettazione dei fondamenti dell’economia neoliberista e questo accorato appello alla famiglia ed alla natalità, che deliberatamente sottovaluta l’influenza degli stili di vita basati su consumismo e individualismo naturale conseguenza delle logiche neoliberiste. La soluzione individuata dai vari sovranismi di politiche di sostegno economico alla famiglia, (che resta il pilastro su cui tutto poggia), e alla natalità (in Ungheria Orban ha introdotto una legge che consente fino a tre anni di copertura “maternità). hanno sin qui avuto ben scarso successo perché da sole non incidono su tutti i cambiamenti in gioco (a dimostrazione della complessità variegata della questione). In compenso rivelano bene l’ideologia che le sostiene basata sugli inattaccabili valori della tradizione e della difesa della purezza etnica, a delineare un’idea di popolo che non coincide più sul concetto di “demos”, basato sulla cittadinanza, ma con quello dell’ “ethnos”, dove prevalgono origine, sangue e religione. Luigi Ferraioli non a caso evidenzia come il concetto di “cittadinanza”, affermato dalla Rivoluzione Francese come base dell’uguaglianza politica, si trasformi nella sua versione populista in una drammatica differenza di status: quella fra “cittadini e non cittadini”. L’idea di tornare a “riempire le culle”, al di là della sua realizzabilità, è però un puntello irrinunciabile per impalcatura ideologica populista e sovranista.
3.4 Dio, patria e famiglia = Tutto
quanto fin qui evidenziato trova infine nella “religione” un collante ed un
supporto fondamentali, una componente decisiva per la “sacralizzazione” dei valori populisti
e sovranisti. Quello che prevale non è tanto il credo religioso in sé (difficile negare quanto poco
coerentemente sia vissuta la fede da parte di molti dei leader populisti), ma
il suo ruolo nel definire l’“identità” del popolo. Anche in questo caso non si
tratta di una novità, per tutta la modernità la dottrina dello Stato ha visto
nel legame tra religione e sovranità un prezioso rafforzamento della
legittimità del potere. Certo è che nel bagaglio ideologico del sovranismo
populista questo legame ha riassunto un ruolo centrale. Non ovunque, e con
intensità comunque varia, questo appello strumentale (ai limiti del cattivo gusto come in
alcune esposizioni mediatiche di simboli religiosi)
viene ricambiato dalle gerarchie ecclesiastiche, là dove succede (come
in Polonia ed in Ungheria) il supporto ottenuto è fondamentale
per il successo populista.
3.5 L’inganno populista =
Nonostante gli innegabili successi elettorali (peraltro
spiegabili con i molteplici fattori che compongono l’attuale crisi della
democrazia rappresentativa) l’ideale sovranista del populismo non
è esente da una fragilità di fondo. Appare al momento irreversibile la crisi
della sovranità statale nell’epoca della globalizzazione neoliberista
“trans-nazionale”, ed appare poi oggettivamente labile il concetto di “popolo
autentico” in una epoca di profondi mutamenti socio-economici e culturali. La stessa
stretta connessione con l’ideologia neoliberista potrebbe poi far esplodere la
contraddizione fra il mito del libero mercato e l’intero bagaglio valoriale
populista, il cui accentuato sguardo “all’indietro” rischia di entrare in
conflitto che i costanti ed incontrollati mutamenti in campo economico.
Capitolo 4
Che genere di
popolo?
Siamo
costretti, per restare nei limiti abituali di un post, a trascurare questo Capitolo per quanto
non meno determinante nell’analisi dei caratteri costitutivi del populismo
conservatore di destra. Giorgia Serughetti (la
cui attività saggistica è in prevalenza dedicata proprio alle problematiche “di genere”) delinea
qui, lucidamente e analiticamente, le ragioni ideologiche e valoriali, che
spiegano bene i nervi scoperti del populismo per l’affermazione di sacrosanti
diritti che rischiano di far crollare l’intera sua costruzione dell’identità di
popolo e di individuo. Emerge in particolare una caratteristica che non poco
definisce questa repulsione: le frustrazioni che
attraversano il mondo maschile. Il populismo conservatore è infatti anche
il tentativo “del maschio” di riaffermare il suo potere sulle donne e sulla morale
imponendo la sua visione mascherata, in modo improprio, come quella “naturale”.
Sono indubbiamente problematiche centrali contiamo quindi di recuperarle appena
possibile ben sapendo che l’agenda populista non mancherà purtroppo di
fornircene occasione
Capitolo 5
Tempo futuro: democrazie al bivio
Accertata,
sulla base di quanto sin qui esaminato, la necessità di una seria attenzione ai
pericoli che ne derivano per la cultura della convivenza e della stessa tenuta della democrazia, è
indispensabile riflettere sulle possibili alternative
5.1 Il “noi” oltre l’identità = Francesco Remotti,
nella sua decennale indagine antropologica sulle ossessioni identitarie evidenzia uno stretto nesso fra il loro insorgere e i
processi di impoverimento culturale dei quali esse sono al tempo
stesso effetto e causa. Un richiamo che impone di uscire dalla passiva accettazione
di un fenomeno tanto preoccupante quanto affrontabile, che non esclude, anzi,
il valore del “noi”,
purchè (ri)declinato con l’ideale di “convivenza egualitaria” e di una idea
alternativa di “identità”.
Sono due i terreni sui quali muoversi in questa direzione: il recupero/rilancio
dell’idea di “cittadinanza”,
come porta di accesso per tutti a tutti i diritti civili, politici, sociali e
culturali, e la “cura”,
la capacità diffusa di rispondere ai bisogni “vitali” delle persone e
dell’ambiente. A loro volta ambedue possono diventare percorribili solo se
inseriti, e rafforzati, nello sforzo di uscire dalle logiche di mercato
neoliberiste. La pandemia ha in questo molto da dirci.
5.2 La lezione della pandemia = La speranza del suo definitivo superamento
non deve impedire di trarne gli importanti ammonimenti sulla insostenibilità dei
mali dell’attuale società tardo-capitalista in versione neoliberista. Mariana
Mazzuccato vede nella crisi
pandemica il grande
fallimento dello Stato reso “minimo” da queste logiche, misurato
ovunque dal grave deficit di efficienza dei sistemi sanitari pubblici dopo la
cura neoliberista. Un gruppo di ricercatori britannici nel 2021 ha pubblicato,
proprio sulla base dell’esperienza pandemica, un “Manifesto della cura” in cui
compare una illuminante frase: siamo stati resi sempre più inadeguati a prenderci cura
delle persone perché caldamente incoraggiati a limitare il nostro interesse per
gli altri, visti estranei e distanti da noi. Ed è proprio in questo
vuoto esistenziale, e nella “paura” che ha creato, che si è innescato il
discorso populista. Come ci ricorda Martha Nussbaum
la paura è asociale, narcisistica, e non a caso accentua il malessere
individuale e collettivo culla del populismo. La pandemia ha però al contempo
messo a nudo l’illusorietà della narrazione dei confini, l’inutilità di
rinchiudersi entro spazi troppo fragili, e ci chiama ad uno sguardo diverso sul
mondo.
5.3 Tecnocrazia e populismo = La pandemia ha anche reso incerta ogni
dimensione temporale: il futuro non sembra più ottimisticamente immaginabile e
lo stesso passato appare ormai in gran misura irrecuperabile. Questa nuova generalizzata
condizione umana viene affrontata dal neoliberismo con una ulteriore accentuazione
della “governance
dei numeri”, una soluzione tecnocratica che promette di superare
l’incertezza con la calcolabilità scientifica dei dati (ovviamente recuperati con il controllo
invasivo, reso possibile dalla Rete, delle nostre vite). Fa
il paio con questa soluzione quella populista che, coerentemente con il suo
sistema valoriale, identifica le vite da proteggere con quelle del “popolo autentico”
escludendo quindi tutte le altre. Entrambe per dimostrarsi efficaci devono però
inserirsi in modo sostenibile nel quadro delle relazioni internazionali
globalizzate, i cui scenari, determinati dalle attuali logiche globali, sono,
secondo Vittorio
Emanuele Parsi, sostanzialmente
due: “restaurazione
o fine
dell’egemonia occidentale”. La prima confida, ma a questo si limita,
che lentamente la scena economica e politica globale possa smaltire gli effetti
pandemici (il saggio è
precedente alla guerra russo-ucraina ed ai mutamenti che sta imponendo)
ripristinando i rapporti globali pre-crisi, la seconda vede invece l’innescarsi
di una crisi irreversibile tale da portare all’inasprimento dei contrasti fra
aree del mondo con l’Occidente, Europa in particolare, in forte difficoltà.
Entrambi questi scenari presentano fragilità intrinseche così accentuate da rendere
vuoi illusorio il primo vuoi ingovernabile il secondo. Si aprirebbero allora
spazi per un terzo scenario, quello di un nuovo “Rinascimento”, fatto di politiche
nazionali e globali in grado di opporsi in modo efficace alle logiche
neoliberiste (e
più in generale al mito della “crescita infinita”) ed
al tempo stesso capaci di ricreare solidarietà, senso di appartenenza,
giustizia sociale.
5.4 There is no alternative = Il primo non rinviabile passo in questa
direzione è infrangere il muro della rassegnazione, dell’adattamento passivo,
inculcato dal “TINA”
thatcheriano. L’alternativa può invece esserci e deve essere costruita avendo adeguata
chiarezza sulla direzione da seguire. Al momento nel campo degli orientamenti
generali sembrano essere due le proposte che si confrontano (la riflessione della Serughetti è
concentrata sul terreno specifico della lotta al populismo conservatore, e qui non
prende quindi in considerazione i contributi che potrebbero venire da altri
fronti di lotta, quello contro l’emergenza ambientale e climatica):
uno definibile come “populismo di sinistra” ed uno che pone al
centro la “cura”.
La già citata Chantal Mouffe, nel suo saggio “Populismo di sinistra”, ritiene che proprio il malcontento sociale
e politico nel quale è nato e cresciuto il populismo offra potenzialità per una
sua declinazione in senso opposto. Occorre però sporcarsi le mani ed entrare
senza diffidenze nel vivo delle domande che esso pone, e del dialogo/confronto
con i soggetti che le avanzano, per spostarne il baricentro verso politiche che
ricreino fiducia verso la giustizia sociale e difesa dei diritti. Non sono però
poche le perplessità per una prospettiva che, utilizzando le chiavi di lettura
classiche della “lotta di classe”, rischia di non tenere adeguato conto della
forte incidenza di fenomeni (quelli
del populismo culturale) quali razzismo, xenofobia,
conservatorismo morale. Eric Fassin mette
in ordine proprio queste perplessità ed invita a cogliere in tutta la sua
valenza una caratteristica “filosofica” degli elettori della destra populista,
i quali sono “soggetti
mossi da passioni tristi da combattere con altri soggetti mossi da altre
passioni” (le
“passioni tristi”, a cui contrappone le “passioni gioiose”, sono uno dei
caposaldi del pensiero di Baruch Spinoza che abbiamo esplorato nel nostro
scorso programma 2021/2022). Il tema delle “passioni”,
dei modi di porsi nei confronti del mondo e delle sue problematiche, può risultare
cruciale nello sforzo di costruire una alternativa, per la quale non può
bastare la sola razionalità politica: occorrono contrapposte “idee ed emozioni”
capaci di sostenerla e meglio indirizzarla. In questo senso, sempre secondo
Fassin, sono tre le prime aree di intervento: una “politica dell’educazione”, con
al centro una scuola ed un percorso educativo capaci di creare comprensione,
partecipazione attiva, confronto aperto su passioni e sentimenti, una “mobilitazione
simbolica”, fondamentale in questa era mediatica, attraverso letteratura,
musica, cinema, arti, ed infine una più mirata “azione politica” attenta a proporre
finalità generali capaci di intercettare concretamente le domande che vengono
dalle basi sociali tradizionali e da quelle dei movimenti per i diritti della
persona e di genere, e quelli giovanili fortemente coinvolti nella lotta per
l’ambiente come “Fridays for future”
5.5 L’orizzonte dei diritti = Non meno decisivo è poi un confronto
aperto su quali diritti siano quelli più importanti da subito per una
inversione di rotta. Non v’è dubbio che un posto di rilievo spetti a quello dell’uguaglianza,
in tutte le sue possibili declinazioni, restando consapevoli però che essa non
si presenta come un dato naturale e che sono semmai naturali le differenze percepite
come più adatte a definire l’unicità individuale. L’uguaglianza è al contrario
il risultato di un preciso agire politico che ha al suo centro il principio di
giustizia. Scrive Hanna Arendt nel suo “Le
origini del totalitarismo”: “non si nasce eguali, lo si diventa come membri di una
società che garantisce eguali reciproci diritti”. E questi diritti
fondamentali, ben richiamati da Ferraioli, sono ancora quelli eterni ed
universali, ma da declinare nell’attuale contesto storico: “diritti di
libertà”, “diritti civili”, “diritti politici”, “diritti sociali”,
da sempre attenti proprio alle ineliminabili differenze fra individui. E’
esattamente quello che viene richiamato nell’Articolo 3 della Costituzione
italiana, e sta esattamente in questo il nesso tra sovranità popolare e
democrazia e le considerazioni che dovrebbero motivare tutte le forze che si
oppongono al neoliberismo ed alla deriva populista.
5.6 Una società che cura = C’è
infine una dimensione che queste tradizionali concezioni dell’uguaglianza non
hanno finora preso in considerazione e che rappresentano invece una domanda
molto forte nell’attuale contesto sociale: la sfera delle attività di cura. Non a caso è
soprattutto il pensiero
femminista a porlo come tema centrale, per la semplice ragione che i
compiti di cura, oltretutto erroneamente considerati “attività improduttive”, da
sempre gravano sulle spalle delle donne. In questi ultimi decenni il tema si
sta imponendo come fondamentale: generare e crescere figli, accudire persone
anziani e disabili, curare la propria salute e quella dei propri cari,
alimentare i rapporti sociali, sono alcuni dei problemi che, accentuati dallo
smantellamento neoliberista del welfare, gravano ormai pesantemente su tutta la
comunità. E’ una dimensione di vita nella quale nessuno vale solo come “attore
del mercato” o come “cittadino”, ma in cui tutti valgono come persone che hanno
bisogno di cura per poter vivere il meglio possibile. E sono allora proprio le
“relazioni di
cura” ad alimentare il sentimento di appartenenza ad una
collettività percepita vicina. E sono anche queste una decisiva sfida alle
politiche populiste, di ispirazione neoliberista, di ripristino della
centralità della famiglia tradizionale, di riduzione dell’autonomia delle
donne, di negazione di diritti per chiunque si configuri come “altro”. A tutte
queste sfide è possibile trovare risposte adeguate.
///////////////////////////////////////////////////////////////
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