mercoledì 1 marzo 2023

La Parola del mese - Marzo 2023

 

La parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

MARZO 2023

Si presentano come due parole distinte e con un loro preciso significato a tutti, in apparenza, ben chiaro. Qui però le presentiamo fra di loro abbinate a formare un’unica parola capace di riassume un concetto che, dopo aver attraversato caratterizzandolo tutto il pensiero occidentale, rappresenta ai nostri giorni uno degli snodi culturali attorno ai quali si gioca la partita di una reale svolta ambientale. Questo connubio terminologico è reso possibile dalla presenza di “vs(contrazione della preposizione latina “versus” = contro, in contrapposizione) che fissa il loro essere due concezioni in “opposizione”. E se in effetti non si può negare che, a partire dalla cultura classica greca in poi, così sia stato, si sono però accumulate sia evidenze di tipo scientifico sia riflessioni critiche sul ruolo dell’uomo nell’ambiente tali da mettere in seria discussione quel “vs”. Stiamo parlando di …………

NATURA vs CULTURA

Riprendiamo con questa duplice parola una riflessione già presente in molti altri precedenti post [ad esempio: “Heidegger ed il nuovo inizio” di Umberto Galimberti, “saggio del mese” di Maggio 2021, le “parole del mese” Antropocentrismo (Marzo 2018), Gaia (Ottobre 2022, con riferimento ad un saggio di Bruno Latour, filosofo francese recentemente scomparso), responsabilità (che ripercorreva il pensiero filosofico di Hans Jonas ed il suo “principio responsabilità”)]. Seppure con percorsi e finalità diverse in tutti emergeva centrale il tema di questa contrapposizione fra “natura” e “cultura”, fra l’ambiente naturale, in tutte le e sue molteplici forme, e le costruzioni concettuali, astratte e concrete, proprie dell’animale uomo. Un preciso invito a rivedere il senso di questa dicotomia era esplicitamente presente nel nostro “Saggio del mese” di Giugno 2021: “Oltre natura e cultura” dell’antropologo francese Philippe Descola (antropologia è una scienza biologica che studia l’umanità dal punto di vista naturalistico). Il quale da una parte constatava come la loro contrapposizione fosse presente in particolare nella “cultura occidentale”, e dall’altra, citando interessanti esperienze, come nel pensiero di altre culture, non a caso declassate da quella occidentale a “primitive”, esse fossero invece fra di loro legate in un più armonico connubio. In questo post riprendiamo tale considerazione per ripercorrere la genesi di questa divergenza, per comprenderne la ricaduta sull’attuale emergenza ambientale, e per meglio capire se e come sia possibile superarla. Per farlo, restando in ambito antropologico, ci affidiamo alle riflessioni che su questo tema sono state fatte da


Francesco Remotti (1943, filosofo e antropologo torinese, professore di Antropologia culturale e Direttore del Dipartimento di Scienze antropologiche dell’Università di Torino, autore di diversi saggi fra cui citiamo “Cultura: dalla complessità all’impoverimento 2011 Laterza”) curatore per l’Enciclopedia delle Scienze Naturali Treccani della voce “Natura/cultura: da domini naturali a costrutti culturali” e da


Andrea Staid (1982, docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba, Nuova Accademia Belle Arti, di Milano, direttore per Melteni editore della collana “biblioteca di antropologia”, autore di diversi saggi) con il suo recente libro (che ha ispirato questa “Parola del mese”) “Essere natura: uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente”

Una preliminare avvertenza: non entreremo qui nel merito specifico dei due termini, ognuno dei quali meriterebbe ben altro approccio. Il concetto di “natura” è infatti centrale in tutto il percorso culturale umano, ed in particolare in quello occidentale lo è, filosoficamente e letterariamente, fin dalla cultura classica greca, e quello di “cultura”, seppure di più recente introduzione, ha ben presto assunto una sua autonoma rilevante importanza. Limitando quindi la nostra attenzione al loro dualismo richiamato da questa “Parola del mese” prendiamo le mosse per questa sua sintetica esplorazione dal libro di Staid ispirato, più ancora che ad un approfondimento culturale, a promuovere un diverso modo di “stare al mondo” come apertamente dichiarato nell’introduzione:

……per cambiare il mondo da un punto di vista ecologico e sociale è necessario un modo differente di guardare e pensare alla “natura”…..che non è un luogo, ma un organismo vivente e noi come specie ne facciamo parte. Sembra una piccola cosa da comprendere, ma è fondamentale per ripensarci nel qui e ora…..

Staid ritiene che il punto di vista antropologico possa essere di grande aiuto in questo sforzo, da molti decenni (come meglio si vedrà con Remotti), anche grazie ai contributi di etnografia e paleoantropologia, è convinzione acquisita che la “cultura” non sia un fatto esclusivamente umano e che quindi sia sempre meno sostenibile una netta separazione tra “natura e cultura”. Ambedue si rivelano di fatto come “costruzioni culturali” e come tali vengono interpretate in modi differenti dalle diverse popolazioni nel mondo. Bruno Latour (1947-2022, sociologo, antropologo e filosofo francese, il suo libro “Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica” è stato nostro “Saggio del mese” di Aprile 2020, e la “parola del mese” di Ottobre 2022 “Gaia” è stata suggerita dal suo saggio “La sfida di Gaia, il nuovo regime climatico”) afferma perentoriamente nel suo saggio “Non siamo mai stati moderni” (edizione Eleuthera 2018) che il concetto stesso di cultura è un prodotto artificiale creato mettendo la natura tra parentesi. Gli studi antropologici concordano nel ritenere che la separazione tra natura e cultura, nella versione che caratterizza la cultura occidentale, sia strettamente connessa alla “nascita della civiltà”, che, già latente nelle prime costruzioni culturali dell’area mediterranea e medio orientale, è stato elevata a vero paradigma da Aristotele (per il quale tutta la natura è organizzata secondo una costruzione piramidale dove ogni gradino è materia per lo sviluppo del grado successiva con al suo vertice l 'uomo che, proprio  grazie alla sua cultura, è in grado di trasformare tutte le potenzialità contenute nei gradi inferiori giustificando così ogni loro uso), per poi conoscere una prima decisiva evoluzione con l’avvento del pensiero scientifico di Galileo (Galileo Galilei, 1564 – 1642, nel suo “Saggiatore” del 1623, sostiene che il “gran libro della natura” è  scritto in termini matematici e può pertanto essere compreso solo attraverso l’uso di tale linguaggio alla base della cultura)  ed essere infine  compiutamente codificata da Cartesio (Cartesio, 1596 – 1650,  con il suo “cogito ergo sum sintetizza l’intera essenza umana nel pensiero riducendo la realtà naturale a sua pura estensione,  sancendo così la definitiva separazione la res cogitans, la cultura, e la res extensa, la natura, l’una negazione dell’altra). E’ difficile non vedere anche in queste concezioni la genesi intellettuale dei processi che hanno portato attuale disastro ecosistemico, e non cogliere che in questo dualismo stanno quindi le fondamenta dell’Antropocene (Parola del mese di Ottobre 2021) e dell’Antropocentrismo (Parola del mese di Marzo 2018). Nella cultura occidentale l’uomo, in cima alla piramide aristotelica ed esterno alla res estensa cartesiana, si è ritenuto padrone e possessore della natura e come tale plasmato, corpo e mente, per una sua separata esistenza nel mondo. Come anticipato non esiste nel panorama culturale globale solo questa concezione, è al contrario molto lungo e significativo l’elenco delle diverse visioni del rapporto tra natura e cultura. Philippe Descola (richiamato in precedenza) propone una loro sintetica classificazione basata sulle tipologie di relazione tra umano e non umano:

*   animismo, in cui non c’è distinzione

*   naturalismo, in cui l’uomo è un essere culturalmente superiore anche se collegato sul piano fisico al non umano

*   totemismo, in cui umano e non umano condividono una parte delle loro caratteristiche

*   analogico, in cui ogni essere umano e non umano è diverso da tutti gli altri

La dicotomia natura vs cultura non è quindi universalmente condivisa, ma nel mondo occidentale si è ormai così consolidata da divenire un “senso comune” che esclude, aprioristicamente, ogni altra concezione. Una vera e propria presunzione che resiste, proprio per la sua veste di “senso comune” alle recenti evidenze fornite, in aggiunta a quelle antropologiche, da biologia, etologia e neuroscienze, e più in generale dalle scienze umane.

Questa ultima considerazione chiama in causa Remotti, e la sua ricostruzione dell’evoluzione culturale avvenuta sul tema dal punto di vista antropologico ed epistemologico (l’epistemologia è lo studio critico delle strutture logiche e della metodologia delle scienze)

……Per tutti noi eredi del pensiero logico occidentale tutti i concetti oppositivi, compreso quello fra Natura e Cultura, danno l’impressione di una ovvietà facilmente inquadrabile. Fino al 1949 (data di uscita del suo saggio “Le strutture elementari della parentela”) era questo il pensiero anche di Claude Levi-Strauss (padre nobile della antropologia contemporanea), ma già due decenni dopo (nella seconda edizione del 1967 dello stesso saggio riferendosi all’emergere di evidenze che attestavano come  linguaggio e simbolismo fossero proprietà anche di altri animali) evidenziava invece che le linee di confine tra natura e cultura non sembravano più così nette ed inequivocabili essendo in effetti ambedue degli “oggetti teorici” frutto del pensiero umano. Prendeva così forma più compiuta la considerazione che ciò che l’uomo definisce “natura” sia comunque una “categoria culturale” frutto di un percorso evoluzionistico di lunga durata. E’ una svolta rivoluzionaria che ha investito in modo significativo la stessa antropologia (disciplina a tutti gli effetti definibile come “l’auto-interpretazione” degli esseri umani) fin lì usa ad una netta distinzione dei due campi nominalmente definiti come “antropologia fisica e biologica”, quella che studia la “natura” dell’uomo, e “antropologia sociale e culturale” quella che guarda invece alla sua “cultura”. In precedenza la convinzione della netta separazione fra uomo e natura aveva di fatto convogliato l’attenzione del moderno pensiero occidentale sulle scienze della natura (il “gran libro” di Galilei) portate avanti con sistemi e metodi a sé stanti, senza una adeguata riflessione sulla loro valenza “epistemologica”.  Solo nella seconda metà dell'Ottocento si apre un primo spiraglio in questa direzione con Edward B. Tylor (1832-1917, antropologo inglese di scuola darwiniana, l'inventore della "scienza della cultura") il quale riteneva che "i nostri pensieri, le nostre volontà e le nostre azioni si conformano a leggi altrettanto determinate quanto quelle che governano il moto delle onde, la combinazione degli acidi e delle basi, la crescita delle piante e degli animali", delineando così, seppure a grandi linee, una piattaforma comune per tutte le scienze. Ma ancora a lungo nel vocabolario concettuale degli stessi antropologi e degli scienziati sociali la nozione di scienza della cultura era applicata, affiancando quelle canonicamente preposte allo studio delle leggi universali della realtà fisica, unicamente all’analisi delle attività umane a comporre una disciplina definita come “scienze dello spirito o della cultura', ed escludendo così quindi ogni suo possibile collegamento metodologico con le scienze della natura. Solo a metà Novecento prende forma una diversa concezione generale della “scienza” che dà avvio al fiorire di intense indagini epistemologiche su tutte le discipline scientifiche. Emerge in particolare il lavoro di Kuhn (Thomas Samuel Kuhn 1922 –1996, fisico e filosofo statunitense) che definisce la scienza, in tutte le sue varie articolazioni, come “una impresa collettiva che funziona con l'elaborazione e la condivisione di paradigmi, ovvero di schemi mentali che guidano e orientano qualsiasi ricerca e raccolta di dati e la loro interpretazione”. Un cambiamento decisamente innovativo che poco dopo viene di molto rafforzato, nel campo delle scienze della cultura, dal rivoluzionario emergere di evidenze etologiche (l’etologia studia le abitudini e i costumi degli animali, e l'adattamento delle piante all'ambiente) tali da imporre l’ineludibile constatazione che la cultura non è un fatto esclusivamente umano. Sono ormai tanti gli esempi, scientificamente acquisiti, di “cultura animale(tradizioni comportamentali trasmesse alle generazioni successive, manipolazioni e usi di strumenti socialmente appresi e condivisi, forme articolate di linguaggio), e sempre più lo stesso mondo vegetale si rivela capace di comportamenti simil-culturali (ad es. le piante dialogano tra di loro, adottano volutamente complesse strategie di adattamento all’ambiente).  Tutto ciò non intacca l’evidenza che l’uomo resta, tra tutte le specie, quella più culturale, ma rende sempre più evidente che la cultura si prospetta come una possibilità zoologica di ampia portata frutto della generale evoluzione della vita sul nostro pianeta e come tale preesistente all'uomo stesso. Ne consegue allora che “cultura” non può più essere considerata, essendo stata fin lì erroneamente attribuita al solo uomo, come termine antitetico a “natura”, diventando una dimensione, condivisa in modo ampio, pienamente interna a quest’ultima. L'aver spezzato il legame di corrispondenza biunivoca tra cultura e umanità non ha soltanto comportato la sua estensione extra-antropologica, ma questa sua più ampia declinazione “zoologica(oltretutto sempre più estendibile a quanto pare anche al mondo vegetale), ha implicato anche una ridiscussione della stessa evoluzione culturale umana. Questa sua nuova concezione ribalta infatti tempi e modi del suo rapporto con l’uomo, il quale, se evoluzionisticamente inteso come erede di una preesistente natura già organicamente culturale, non può più avanzare l’arrogante pretesa di esserne il primo ed unico artefice e possessore.  Detto in altro modo: non si sarebbe data la stessa umanità se prima non vi fosse già stata una qualche cultura. La quale, in questo nuovo contesto, deve allora essere diversamente studiata non essendo più una dimensione alternativa, superiore, a ciò che si considera innato, istintivo, fissato rigidamente - sia nel comportamento, sia nella struttura fisica - dalle leggi dell'ereditarietà. John T. Bonner  (1920-2019, biologo evoluzionista statunitense) propone di tradurre l'opposizione innato vs culturale nella distinzione tra comportamenti "con risposta singola" e comportamenti come "risultato di una scelta multipla", la cultura umana diventa così, in piena sintonia con altre forme di vita, la dimensione "del sorgere e del progressivo affermarsi di comportamenti che presentano possibilità molteplici di scelta" (la trasmissione per via genetica ovviamente non scompare, ma viene da questa affiancata). In questa sua nuova accezione acquista allora ancor più importanza lo studio, in primis antropologico, delle modalità di trasmissione delle componenti culturali, ossia tutte quelle forme che consolidano la conservazione piuttosto che lo sviluppo, degli elementi che costituiscono ogni specifica civiltà, che risultano non meno decisivi  anche per una diversa lettura del rapporto natura e cultura(si pensi ad esempio al ruolo delle tradizioni culturali, spesso tradotte in “rituali”, non a caso pratica riscontrabile anche in diverse specie animali). I milioni di anni che separano i primi ominidi dall’Homo sapiens sono un arco enorme di tempo in cui, a completare ed integrare l’evoluzione fisiologica ed organica, si sono consolidate pratiche di conservazione piuttosto che di sviluppo di elementi culturali. Con le prime patrimonio delle quattro tipologie di rapporto fra umano e non umano individuate da Descola, già del loro più strettamente connesse alla natura, e le seconde al contrario prerogativa di una civiltà come quella occidentale costruita in maggior misura sul concetto di cultura. Ed è in questo differenziato contesto evolutivo che vanno allora collocate e comprese le diverse concezioni del rapporto tra natura e cultura, capaci, grazie alle rispettive modalità di trasmissione, di costruire forme altrettanto diversificate di una sorta di “seconda natura evolutiva dell’uomo”.

Diventa possibile, sulla base di questa complessa ricostruzione, meglio comprendere genesi e persistenza dei diversi modi di intendere il rapporto natura e cultura. Nessuno di questi può, per le ragioni esposte, essere di per sé considerato quello “esatto”, nessuno può considerarsi quello “autentico”. Tutti vanno però interpretati e valutati in relazione alle concrete ricadute sociali ed ambientali. In questo senso è indubbio che alcune hanno sviluppato e trasmesso, una cultura della natura meno invasiva, meno impattante, più rispettosa degli altri forme di vita. Così non sembra essere stato per la cultura occidentale che ha oggettivamente sviluppato un rapporto con la natura, e gli altri esseri viventi, più aggressivo, invasivo, distruttivo. E’ questa la considerazione che Staid porta avanti in modo appassionato nel suo testo al quale quindi ritorniamo.

…… La separazione fra umanità e natura è la visione del mondo che ha giustificato il pensiero antropocentrico e l’intero percorso storico della modernità prima europea e poi occidentale in generale. Su queste basi l’intreccio fra spinte economiche e sociali ha poi dato avvio al radicale cambiamento della industrializzazione spinta di questa parte del mondo. Con tutte le ormai ben note problematiche ambientali e sistemiche che ne sono derivate. Ma l’antropocentrismo, nella sua declinazione occidentale, è stato anche uno dei motori del colonialismo, della esportazione dei presunti valori della civiltà europea in ogni parte del mondo che ha accompagnato, e giustificato, la predazione sistematica di risorse naturali e financo di esseri umani. L’impatto sulle diverse concezioni del rapporto uomo-natura, tradizionale patrimonio valoriale delle terre colonizzate, è stato devastante. Tutte le mitologie, le memorie dei luoghi, le lingue, i modi di vita, l’intera loro cultura sono state investite da un radicale processo di “sbiancamento”. L’imposizione forzata e molto spesso violenta dell’idea europea e occidentale del rapporto natura e cultura, coniugata con il cinico sfruttamento economico, ha anche comportato una impressionante distruzione di ecosistemi. L’attuale emergenza ambientale si spiega anche per essere il frutto della predazione economica, dell’imposizione dei modelli socio-economici occidentali, e della cancellazioni culturali imposte dal colonialismo. Stiamo parlando di una tragedia storica di portata epocale che l’Occidente ancora stenta a riconoscere nella sua valenza avendola troppo presto cancellata dalla sua coscienza storica. Un fenomeno, fra i tanti, testimonia l’impatto dell’imposizione colonialista della visione antropocentrica: l’estrattivismo. Una pratica predatoria che ancora oggi rappresenta una costante in molti paesi di quello che viene chiamato il “Sud globale” ed è una delle principali cause dell’accelerazione del cambiamento climatico. La deforestazione e l’uso dei suoli liberati per coltivazioni estensive e per l’allevamento contribuiscono in modo determinate all’aumento dei gas serra in atmosfera. E ciò che è ancor più grave è il fatto che questa logica estrattivistica, i cui ritorni economici continuano peraltro a premiare il ricco Nord, si è ormai diffusa nelle popolazioni locali proprio perché divenute orfane delle tradizionali concezioni che per millenni hanno mantenuto un perfetto equilibrio uomo-natura. (Staid rafforza queste considerazioni sui devastanti effetti del colonialismo con il racconto del suo impressionante impatto sulla vita e sulla cultura di numerose comunità indigene, molte delle quali sono state soggetto delle sue ricerche archeologiche sul campo). Questa appassionata illustrazione delle gravi conseguenze sulla vita di molte popolazioni e sull’equilibrio ambientale, che si spiegano anche sulla base della visione antropocentrica di “natura vs cultura”, non sono tradotte da Staid in approfondimenti epistemologici come quelli di Remotti, e neppure in proposte culturali e politiche di carattere generale, la seconda parte di questo suo libro è invece dedicata al racconto della sua personale scelta di vita. Lo spiega bene in questo passaggio:

…….sicuramente è attraverso lo studio e la ricerca che ho culturalmente messo a fuoco il concetto di natura-cultura, ma è praticando una relazione con l’ambiente nella mia vita quotidiana che sono riuscito ad avere una comprensione antropologica del vivente……

Gli ultimi due capitoli sono infatti dedicati (oltre che a raccogliere testimonianze di altri da lui definiti come “disertori della crescita”) al racconto della sua scelta di non vivere in città, del rapporto vissuto quotidianamente con la flora e la fauna che circondano la sua casa nell’entroterra collinare ligure, con il quale è arrivato a meglio comprendere la loro “cultura”, della lettura attenta del paesaggio, della cura dell’orto (gestito seguendo le indicazioni di Masanobo Fukuoka, 1913-2008, filosofo e botanico giapponese, sostenitore dell’agricoltura naturale del “non fare” sintetizzata nel suo saggio “La rivoluzione del filo di paglia”). E’ possibile che qualcuno giudichi curioso, estemporaneo, chiudere un post con un prima parte occupata da una ponderosa analisi epistemologica con questi richiami, apparentemente, di filosofia spicciola. Ma c’è una logica in questo “salto” espositivo di Staid bene riassunto da questa sua frase:

…..E’ necessario conoscere il mondo e lo si può fare in due modi: in modo epistemologico, quello che riguarda la conoscenza, e in modo ontologico, quello che riguarda l’essere….

Ci permettiamo di tradurre queste parole in un invito: una soluzione vera per affrontare, e risolvere, i problemi ambientali che l’umanità è chiamata ad affrontare, deve saper coniugare proposte generali con modi personali di vivere ad esse coerente. L’una senza l’altra non regge. Una diversa declinazione del rapporto natura-cultura ci chiede anche di stare al mondo, dentro la natura, in modo diverso. Non sono considerazioni di bassa lega, anzi, da sempre sono molti i filosofi che sono vissuti proprio cercando di coniugare idee e vita. Fra i tanti ne citiamo uno che abbiamo avuto modo in questo blog di conoscere, seppure troppo velocemente: nella “parola del mese” di Agosto 2019, “Ecosofia” veniva richiamata l’opera filosofica, di assoluto valore, di Arne Naess (1912-2009, norvegese, filosofo, grande alpinista, eccellente pianista)


Naess, molto influenzato da Baruch Spinoza (le cui idee sono state al centro di due nostre recenti iniziative) a cui dedicò molti saggi, conia il termine “ecosofia” per indicare la sua idea di risposta alla crisi ecologica (per affrontarla concretamente distingueva tra ecologia profonda  quella che si interroga circa i perché della crisi ponendo domande radicali e cercando di andare al cuore dei problemi, ed ecologia superficiale , quella che si limita a proporre correttivi all’interno del sistema, cercando di conciliare crescita e ambiente) che così sintetizza: col termine ecosofia intendo una filosofia dell’armonia o dell’equilibrio ecologico”. L’ecosofia si presenta come una visione totale della vita, che muove dalla gravità della situazione (ambientale ed esistenziale) per proporre un cambiamento dello stile di vita. Ed in effetti Naess, ottimo esempio di una diversa declinazione di “natura e cultura”, ha vissuto l’intera sua vita, fra l’altro parecchio lunga, in modo coerente alle sue idee filosofiche. Staid ha quindi predecessori di altissimo livello.




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