La parola del mese
Una
parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione
MARZO
2023
Si presentano come due parole distinte e con un loro preciso
significato a tutti, in apparenza, ben chiaro. Qui però le presentiamo fra di
loro abbinate a formare un’unica parola capace di riassume un concetto che,
dopo aver attraversato caratterizzandolo tutto il pensiero occidentale,
rappresenta ai nostri giorni uno degli snodi culturali attorno ai quali si
gioca la partita di una reale svolta ambientale. Questo connubio terminologico è
reso possibile dalla presenza di “vs” (contrazione della preposizione latina “versus”
= contro, in contrapposizione) che fissa il loro essere due concezioni in “opposizione”. E se in effetti non si può negare
che, a partire dalla cultura classica greca in poi, così sia stato, si sono però
accumulate sia evidenze di tipo scientifico sia riflessioni critiche sul ruolo
dell’uomo nell’ambiente tali da mettere in seria discussione quel “vs”. Stiamo parlando di …………
NATURA vs CULTURA
Riprendiamo con questa duplice parola una riflessione già presente
in molti altri precedenti post [ad esempio:
“Heidegger ed il nuovo inizio” di Umberto Galimberti, “saggio del mese” di
Maggio 2021, le “parole del mese” Antropocentrismo (Marzo 2018), Gaia (Ottobre
2022, con riferimento ad un saggio di Bruno Latour, filosofo francese
recentemente scomparso), responsabilità (che ripercorreva il pensiero
filosofico di Hans Jonas ed il suo “principio responsabilità”)]. Seppure con percorsi e finalità
diverse in tutti emergeva centrale il tema di questa contrapposizione fra “natura” e “cultura”,
fra l’ambiente naturale, in tutte le e sue molteplici forme, e le costruzioni
concettuali, astratte e concrete, proprie dell’animale uomo. Un preciso invito
a rivedere il senso di questa dicotomia era esplicitamente presente nel nostro
“Saggio del mese” di Giugno 2021: “Oltre natura e
cultura” dell’antropologo francese Philippe Descola (antropologia è una scienza biologica che studia l’umanità dal
punto di vista naturalistico).
Il quale da una parte constatava come la loro contrapposizione fosse presente in
particolare nella “cultura occidentale”, e
dall’altra, citando interessanti esperienze, come nel pensiero di altre culture,
non a caso declassate da quella occidentale a “primitive”, esse fossero invece
fra di loro legate in un più armonico connubio. In questo post riprendiamo tale
considerazione per ripercorrere la genesi di questa divergenza, per comprenderne
la ricaduta sull’attuale emergenza ambientale, e per meglio capire se e come
sia possibile superarla. Per farlo, restando in ambito antropologico, ci
affidiamo alle riflessioni che su questo tema sono state fatte da
Francesco Remotti (1943, filosofo
e antropologo torinese, professore di Antropologia culturale e Direttore del
Dipartimento di Scienze antropologiche dell’Università di Torino, autore di
diversi saggi fra cui citiamo “Cultura:
dalla complessità all’impoverimento 2011 Laterza”) curatore per l’Enciclopedia delle
Scienze Naturali Treccani della voce “Natura/cultura:
da domini naturali a costrutti culturali” e da
Andrea Staid (1982,
docente di Antropologia culturale e visuale presso la Naba, Nuova Accademia
Belle Arti, di Milano, direttore per Melteni editore della collana “biblioteca
di antropologia”, autore di diversi saggi) con il suo recente libro (che
ha ispirato questa “Parola del mese”) “Essere natura: uno sguardo antropologico per
cambiare il nostro rapporto con l’ambiente”
Una
preliminare avvertenza: non entreremo qui nel merito specifico dei due termini,
ognuno dei quali meriterebbe ben altro approccio. Il concetto di “natura”
è infatti centrale in tutto il percorso culturale umano, ed in particolare in
quello occidentale lo è, filosoficamente e letterariamente, fin dalla cultura
classica greca, e quello di “cultura”, seppure di più recente introduzione,
ha ben presto assunto una sua autonoma rilevante importanza. Limitando quindi
la nostra attenzione al loro dualismo richiamato da questa “Parola del mese”
prendiamo le mosse per questa sua sintetica esplorazione dal libro di Staid
ispirato, più ancora che ad un approfondimento culturale, a promuovere un
diverso modo di “stare
al mondo” come apertamente dichiarato nell’introduzione:
……per cambiare il
mondo da un punto di vista ecologico e sociale è necessario un modo differente
di guardare e pensare alla “natura”…..che non è un luogo, ma un organismo
vivente e noi come specie ne facciamo parte. Sembra una piccola cosa da
comprendere, ma è fondamentale per ripensarci nel qui e ora…..
Staid
ritiene che il punto di vista antropologico possa essere di grande aiuto in
questo sforzo, da molti decenni (come meglio
si vedrà con Remotti), anche grazie ai contributi di etnografia e paleoantropologia, è
convinzione acquisita che la “cultura” non sia un fatto esclusivamente umano
e che quindi sia sempre meno sostenibile una netta separazione tra “natura e cultura”.
Ambedue si rivelano di fatto come “costruzioni culturali” e come tali vengono
interpretate in modi differenti dalle diverse popolazioni nel mondo. Bruno
Latour (1947-2022, sociologo, antropologo
e filosofo francese, il suo libro “Tracciare la rotta. Come orientarsi in
politica” è stato nostro “Saggio del mese” di Aprile 2020, e la “parola del
mese” di Ottobre 2022 “Gaia” è stata suggerita dal suo saggio “La sfida di
Gaia, il nuovo regime climatico”) afferma
perentoriamente nel suo saggio “Non siamo mai stati moderni” (edizione Eleuthera 2018) che il concetto stesso
di cultura è un prodotto artificiale creato mettendo la natura tra parentesi.
Gli studi antropologici concordano nel ritenere che la separazione tra natura e cultura,
nella versione che caratterizza la cultura occidentale, sia strettamente
connessa alla “nascita
della civiltà”, che, già latente nelle prime costruzioni culturali dell’area
mediterranea e medio orientale, è stato elevata a vero paradigma da Aristotele (per il quale tutta
la natura è organizzata secondo una costruzione
piramidale dove ogni gradino è materia per lo sviluppo del grado successiva con
al suo vertice l 'uomo che, proprio grazie alla sua cultura, è in grado di trasformare tutte le potenzialità contenute nei
gradi inferiori giustificando così ogni loro uso), per poi conoscere una prima
decisiva evoluzione con l’avvento del pensiero scientifico di Galileo (Galileo Galilei, 1564 – 1642, nel suo
“Saggiatore” del 1623, sostiene che il “gran libro della natura” è
scritto in termini matematici e può pertanto essere compreso solo
attraverso l’uso di tale linguaggio alla base della cultura) ed essere infine compiutamente codificata da Cartesio (Cartesio, 1596 – 1650, con il suo “cogito
ergo sum” sintetizza l’intera essenza umana nel pensiero riducendo la realtà
naturale a sua pura estensione, sancendo
così la definitiva separazione la res cogitans, la
cultura, e la res extensa,
la natura, l’una negazione dell’altra). E’ difficile non vedere anche in queste
concezioni la genesi intellettuale dei processi che hanno portato attuale
disastro ecosistemico, e non cogliere che in questo dualismo stanno quindi le
fondamenta dell’Antropocene (Parola del mese di Ottobre 2021) e dell’Antropocentrismo (Parola del mese di Marzo 2018). Nella cultura occidentale l’uomo, in cima alla piramide
aristotelica ed esterno alla res estensa cartesiana, si è ritenuto padrone e
possessore della natura e come tale plasmato, corpo e mente, per una sua separata
esistenza nel mondo. Come anticipato non esiste nel panorama culturale globale
solo questa concezione, è al contrario molto lungo e significativo l’elenco
delle diverse visioni del rapporto tra natura e cultura. Philippe Descola (richiamato in precedenza) propone una loro sintetica classificazione basata
sulle tipologie di relazione tra umano e non umano:
animismo, in
cui non c’è distinzione
naturalismo,
in cui l’uomo è un essere culturalmente superiore anche se collegato sul piano
fisico al non umano
totemismo, in
cui umano e non umano condividono una parte delle loro caratteristiche
analogico, in
cui ogni essere umano e non umano è diverso da tutti gli altri
La
dicotomia natura
vs cultura non è quindi
universalmente condivisa, ma nel mondo occidentale si è ormai così consolidata da
divenire un “senso
comune” che esclude, aprioristicamente, ogni altra concezione. Una vera
e propria presunzione che resiste, proprio per la sua veste di “senso comune”
alle recenti evidenze fornite, in aggiunta a quelle antropologiche, da biologia,
etologia e neuroscienze, e più in generale dalle scienze umane.
Questa ultima considerazione
chiama in causa Remotti, e la sua ricostruzione dell’evoluzione culturale avvenuta
sul tema dal punto di vista antropologico ed epistemologico (l’epistemologia è lo studio
critico delle strutture logiche e della metodologia delle scienze)
……Per tutti
noi eredi del pensiero logico occidentale tutti i concetti oppositivi, compreso
quello fra Natura
e Cultura, danno l’impressione di
una ovvietà facilmente inquadrabile. Fino al 1949 (data
di uscita del suo saggio “Le strutture elementari della parentela”)
era questo il pensiero anche di Claude Levi-Strauss (padre nobile della antropologia contemporanea),
ma già due decenni dopo (nella
seconda edizione del 1967 dello stesso saggio riferendosi all’emergere di
evidenze che attestavano come linguaggio
e simbolismo fossero proprietà anche di altri animali) evidenziava invece che le linee di confine tra natura e cultura non sembravano più così nette ed inequivocabili
essendo in effetti ambedue degli “oggetti teorici” frutto del pensiero umano. Prendeva così forma più compiuta la
considerazione che ciò che l’uomo definisce “natura” sia comunque una “categoria culturale” frutto di un percorso evoluzionistico di lunga durata. E’ una svolta
rivoluzionaria che ha investito in modo significativo la stessa antropologia (disciplina a tutti gli effetti definibile
come “l’auto-interpretazione” degli esseri umani) fin lì usa ad una netta distinzione dei due campi
nominalmente definiti come “antropologia fisica e biologica”, quella che studia la “natura” dell’uomo, e “antropologia sociale e culturale” quella che guarda invece alla sua “cultura”. In precedenza la convinzione
della netta separazione fra uomo e natura aveva di fatto convogliato l’attenzione
del moderno pensiero occidentale sulle scienze della natura (il “gran libro” di Galilei) portate avanti con sistemi e metodi a sé stanti, senza una adeguata
riflessione sulla loro valenza “epistemologica”. Solo nella seconda metà dell'Ottocento si apre
un primo spiraglio in questa direzione con Edward B. Tylor (1832-1917, antropologo inglese di scuola darwiniana, l'inventore
della "scienza della cultura") il quale riteneva che "i nostri pensieri, le nostre volontà e le nostre
azioni si conformano a leggi altrettanto determinate quanto quelle che
governano il moto delle onde, la combinazione degli acidi e delle basi, la
crescita delle piante e degli animali", delineando così, seppure a
grandi linee, una piattaforma comune per tutte le scienze. Ma ancora a lungo nel
vocabolario concettuale degli stessi antropologi e degli scienziati sociali la
nozione di scienza
della cultura era applicata, affiancando quelle canonicamente
preposte allo studio delle leggi universali della realtà fisica, unicamente
all’analisi delle attività umane a comporre una disciplina definita come “scienze dello spirito o della cultura',
ed escludendo così quindi ogni suo possibile collegamento metodologico con le scienze della
natura. Solo a metà Novecento prende forma una diversa concezione generale
della “scienza”
che dà avvio al fiorire di intense indagini epistemologiche su tutte le
discipline scientifiche. Emerge in particolare il lavoro di Kuhn (Thomas Samuel Kuhn 1922 –1996, fisico
e filosofo statunitense) che definisce la scienza, in tutte le sue varie
articolazioni, come “una impresa collettiva che funziona con l'elaborazione e
la condivisione di paradigmi, ovvero di schemi mentali che guidano e orientano
qualsiasi ricerca e raccolta di dati e la loro interpretazione”. Un cambiamento
decisamente innovativo che poco dopo viene di molto rafforzato, nel campo delle
scienze della cultura,
dal rivoluzionario emergere di evidenze etologiche (l’etologia studia le abitudini e i costumi degli animali, e
l'adattamento delle piante all'ambiente) tali da imporre l’ineludibile constatazione che la cultura
non è un fatto esclusivamente umano. Sono ormai tanti gli esempi, scientificamente
acquisiti, di “cultura
animale” (tradizioni
comportamentali trasmesse alle generazioni successive, manipolazioni e usi di
strumenti socialmente appresi e condivisi, forme articolate di linguaggio), e sempre
più lo stesso mondo vegetale si rivela capace di comportamenti simil-culturali
(ad es. le piante dialogano tra di loro, adottano
volutamente complesse strategie di adattamento all’ambiente). Tutto ciò non intacca l’evidenza che
l’uomo resta, tra tutte le specie, quella più culturale, ma rende sempre più
evidente che la cultura
si prospetta come una possibilità zoologica di ampia portata frutto della
generale evoluzione della vita sul nostro pianeta e come tale preesistente
all'uomo stesso. Ne consegue allora che “cultura” non può più essere
considerata, essendo stata fin lì erroneamente attribuita al solo uomo, come
termine antitetico a “natura”, diventando una dimensione, condivisa
in modo ampio, pienamente interna a quest’ultima. L'aver spezzato il legame di
corrispondenza biunivoca tra cultura e umanità non ha soltanto comportato la
sua estensione extra-antropologica, ma questa sua più ampia declinazione “zoologica” (oltretutto sempre più estendibile a quanto pare
anche al mondo vegetale), ha implicato anche una ridiscussione
della stessa evoluzione culturale umana. Questa sua nuova concezione ribalta
infatti tempi e modi del suo rapporto con l’uomo, il quale, se evoluzionisticamente
inteso come erede di una preesistente natura già organicamente culturale, non può
più avanzare l’arrogante pretesa di esserne il primo ed unico artefice e
possessore. Detto in altro modo: non si sarebbe
data la stessa umanità se prima non vi fosse già stata una qualche cultura.
La quale, in questo nuovo contesto, deve allora essere diversamente studiata
non essendo più una dimensione alternativa, superiore, a ciò che si considera
innato, istintivo, fissato rigidamente - sia nel comportamento, sia nella
struttura fisica - dalle leggi dell'ereditarietà. John T. Bonner (1920-2019,
biologo evoluzionista statunitense) propone di
tradurre l'opposizione innato vs culturale nella distinzione tra comportamenti
"con
risposta singola" e comportamenti come "risultato di una
scelta multipla", la cultura umana diventa così, in piena sintonia
con altre forme di vita, la dimensione "del sorgere e del progressivo affermarsi di
comportamenti che presentano possibilità molteplici di scelta" (la trasmissione per via genetica ovviamente
non scompare, ma viene da questa affiancata). In
questa sua nuova accezione acquista allora ancor più importanza lo studio, in
primis antropologico, delle modalità di trasmissione delle componenti
culturali, ossia tutte quelle forme che consolidano la conservazione piuttosto
che lo sviluppo, degli elementi che costituiscono ogni specifica civiltà, che risultano non
meno decisivi anche per una diversa lettura del rapporto natura e cultura, (si pensi
ad esempio al ruolo delle tradizioni culturali,
spesso tradotte in “rituali”, non a caso pratica
riscontrabile anche in diverse specie animali). I
milioni di anni che separano i primi ominidi dall’Homo sapiens sono un arco enorme
di tempo in cui, a completare ed integrare l’evoluzione fisiologica ed organica,
si sono consolidate pratiche di conservazione piuttosto che di sviluppo di
elementi culturali. Con le prime patrimonio delle quattro tipologie di rapporto
fra umano e non umano individuate da Descola, già del loro più strettamente connesse
alla natura,
e le seconde al contrario prerogativa di una civiltà come quella occidentale
costruita in maggior misura sul concetto di cultura. Ed è in questo differenziato contesto
evolutivo che vanno allora collocate e comprese le diverse concezioni del
rapporto tra natura
e cultura, capaci, grazie alle
rispettive modalità di trasmissione, di costruire forme altrettanto
diversificate di una sorta di “seconda natura evolutiva dell’uomo”.
Diventa possibile, sulla base di questa complessa ricostruzione,
meglio comprendere genesi e persistenza dei diversi modi di intendere il
rapporto natura e cultura. Nessuno di questi
può, per le ragioni esposte, essere di per sé considerato quello “esatto”, nessuno
può considerarsi quello “autentico”. Tutti vanno però interpretati e valutati in
relazione alle concrete ricadute sociali ed ambientali. In questo senso è
indubbio che alcune hanno sviluppato e trasmesso, una cultura
della natura meno invasiva, meno impattante,
più rispettosa degli altri forme di vita. Così non sembra essere stato per la cultura occidentale che ha oggettivamente sviluppato
un rapporto con la natura, e gli altri
esseri viventi, più aggressivo, invasivo, distruttivo. E’ questa la
considerazione che Staid porta avanti in modo appassionato nel suo testo al
quale quindi ritorniamo.
…… La
separazione fra umanità e natura è la visione del mondo che ha
giustificato il pensiero antropocentrico e l’intero percorso storico della
modernità prima europea e poi occidentale in generale. Su queste basi
l’intreccio fra spinte economiche e sociali ha poi dato avvio al radicale
cambiamento della industrializzazione spinta di questa parte del mondo. Con
tutte le ormai ben note problematiche ambientali e sistemiche che ne sono
derivate. Ma l’antropocentrismo, nella sua declinazione occidentale, è stato
anche uno dei motori del colonialismo, della esportazione dei presunti
valori della civiltà europea in ogni parte del mondo che ha accompagnato, e
giustificato, la predazione sistematica di risorse naturali e financo di esseri
umani. L’impatto sulle diverse concezioni del rapporto uomo-natura, tradizionale
patrimonio valoriale delle terre colonizzate, è stato devastante. Tutte le
mitologie, le memorie dei luoghi, le lingue, i modi di vita, l’intera loro cultura sono
state investite da un radicale processo di “sbiancamento”. L’imposizione forzata e molto
spesso violenta dell’idea europea e occidentale del rapporto natura e cultura,
coniugata con il cinico sfruttamento economico, ha anche comportato una
impressionante distruzione di ecosistemi. L’attuale emergenza ambientale si
spiega anche per essere il frutto della predazione economica, dell’imposizione
dei modelli socio-economici occidentali, e della cancellazioni culturali
imposte dal colonialismo. Stiamo parlando di una tragedia storica di portata
epocale che l’Occidente ancora stenta a riconoscere nella sua valenza avendola
troppo presto cancellata dalla sua coscienza storica. Un fenomeno, fra i tanti,
testimonia l’impatto dell’imposizione colonialista della visione
antropocentrica: l’estrattivismo.
Una pratica predatoria che ancora oggi rappresenta una costante in molti paesi
di quello che viene chiamato il “Sud globale” ed è una delle principali cause
dell’accelerazione del cambiamento climatico. La deforestazione e l’uso dei
suoli liberati per coltivazioni estensive e per l’allevamento contribuiscono in
modo determinate all’aumento dei gas serra in atmosfera. E ciò che è ancor più
grave è il fatto che questa logica estrattivistica, i cui ritorni economici
continuano peraltro a premiare il ricco Nord, si è ormai diffusa nelle
popolazioni locali proprio perché divenute orfane delle tradizionali concezioni
che per millenni hanno mantenuto un perfetto equilibrio uomo-natura.
(Staid rafforza queste considerazioni sui devastanti
effetti del colonialismo con il racconto del suo impressionante impatto sulla
vita e sulla cultura di numerose comunità
indigene, molte delle quali sono state soggetto delle sue ricerche
archeologiche sul campo). Questa appassionata illustrazione delle
gravi conseguenze sulla vita di molte popolazioni e sull’equilibrio ambientale,
che si spiegano anche sulla base della visione antropocentrica di “natura vs
cultura”, non sono tradotte da Staid in approfondimenti
epistemologici come quelli di Remotti, e neppure in proposte culturali e
politiche di carattere generale, la seconda parte di questo suo libro è invece
dedicata al racconto della sua personale scelta di vita. Lo spiega bene in
questo passaggio:
…….sicuramente è attraverso lo studio e la
ricerca che ho culturalmente messo a fuoco il concetto di natura-cultura, ma è praticando una relazione con
l’ambiente nella mia vita quotidiana che sono riuscito ad avere una
comprensione antropologica del vivente……
Gli ultimi due capitoli sono infatti dedicati (oltre che a raccogliere testimonianze di altri da lui definiti come “disertori della crescita”) al racconto della sua scelta di non vivere in città, del rapporto vissuto
quotidianamente con la flora e la fauna che circondano la sua casa
nell’entroterra collinare ligure, con il quale è arrivato a meglio comprendere
la loro “cultura”,
della lettura attenta del paesaggio, della cura dell’orto (gestito seguendo le indicazioni di Masanobo Fukuoka,
1913-2008, filosofo e botanico giapponese, sostenitore dell’agricoltura
naturale del “non fare” sintetizzata nel suo saggio “La rivoluzione del filo di
paglia”). E’ possibile che qualcuno giudichi curioso,
estemporaneo, chiudere un post con un prima parte occupata da una ponderosa
analisi epistemologica con questi richiami, apparentemente, di filosofia
spicciola. Ma c’è una logica in questo “salto” espositivo di Staid bene
riassunto da questa sua frase:
…..E’ necessario conoscere il mondo e lo si può fare in due modi: in modo
epistemologico, quello che
riguarda la conoscenza, e in modo ontologico, quello che riguarda l’essere….
Ci permettiamo di tradurre queste parole in un invito: una soluzione vera per affrontare, e risolvere, i problemi ambientali che l’umanità è chiamata ad affrontare, deve saper coniugare proposte generali con modi personali di vivere ad esse coerente. L’una senza l’altra non regge. Una diversa declinazione del rapporto natura-cultura ci chiede anche di stare al mondo, dentro la natura, in modo diverso. Non sono considerazioni di bassa lega, anzi, da sempre sono molti i filosofi che sono vissuti proprio cercando di coniugare idee e vita. Fra i tanti ne citiamo uno che abbiamo avuto modo in questo blog di conoscere, seppure troppo velocemente: nella “parola del mese” di Agosto 2019, “Ecosofia” veniva richiamata l’opera filosofica, di assoluto valore, di Arne Naess (1912-2009, norvegese, filosofo, grande alpinista, eccellente pianista)
Naess,
molto influenzato da Baruch Spinoza (le cui idee sono state al centro di due nostre recenti iniziative) a cui dedicò molti saggi, conia il termine “ecosofia” per indicare la sua
idea di risposta alla crisi ecologica (per affrontarla concretamente distingueva tra ecologia profonda quella che si interroga circa i perché della
crisi ponendo domande radicali e cercando di andare al cuore dei problemi, ed ecologia superficiale , quella che si limita a proporre
correttivi all’interno del sistema, cercando di conciliare crescita e ambiente)
che così sintetizza: col termine ecosofia intendo una filosofia
dell’armonia o dell’equilibrio ecologico”. L’ecosofia si presenta come
una visione totale della vita, che muove dalla gravità della situazione
(ambientale ed esistenziale) per proporre un cambiamento dello stile di vita. Ed in effetti Naess, ottimo esempio di una diversa
declinazione di “natura
e cultura”, ha vissuto l’intera sua vita, fra l’altro parecchio
lunga, in modo coerente alle sue idee filosofiche. Staid ha quindi predecessori
di altissimo livello.
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