Il “Saggio” del mese
AGOSTO
2023
Il crescente dibattito attorno
all’evoluzione sempre più accelerata dell’Intelligenza
Artificiale (per il quale abbiamo fornito un
primo inquadramento di carattere tecnico grazie al saggio di Francesca Rossi
“Il confine del futuro” usato come traccia per la “parola del mese” di Giugno
2023) sicuramente imporrà
diversi approfondimenti che contiamo di seguire anche in questo nostro blog.
Anche il Saggio di questo mese si collega a tale dibattito affrontando una
tematica propedeutica alla comprensione di cosa si debba intendere per “intelligenza”, umana in particolare. Lo fa
ricostruendo l’evoluzione delle cosiddette moderne “scienze
cognitive”, ossia l’insieme delle discipline (in
particolare neuroscienze, psicologia cognitiva, filosofia della mente e del
linguaggio)
che hanno per oggetto lo studio dei processi cognitivi umani e artificiali. Il
saggio in questione è
(Paolo
Pecere = docente di Storia della Filosofia presso l’Università degli Studi Roma
Tre, collabora a diverse riviste filosofiche, autore di numerosi saggi tra cui
“La filosofia della natura in Kant” e “Il libro della natura”)
Il libro tratta della minuziosa
ricostruzione, soprattutto di ordine filosofico,
che inizia da Cartesio
(1596-1650 filosofo e matematico
francese) e
dalle sue idee sulla mente umana, dell’evoluzione di una disciplina che, grazie
alla combinazione di approfondimenti umanistici e scientifici, ha consentito il
grande salto di qualità nella comprensione dei meccanismi intellettivi umani
1 - La doppia eredità di
Descartes
Premessa
terminologica: termini come “mente”-“spirito”-“anima”, seppure con declinazioni
differenti, si sono in una prima fase di questi dibattito molto spesso confusamente
sovrapposti. Come si vedrà solo con Kant, a fine Settecento, tale
sovrapposizione avrà finalmente un qualche maggiore ordine
E’
opinione condivisa e convinta il riconoscimento di Cartesio come apripista per
un vero approccio analitico ai processi mentali. Per quanto molte delle sue
ipotesi neurofisiologiche, fatta la doverosa tara ai sistemi ancora artigianali
di indagine anatomica e fisiologica del tempo, sembrino oggi persino ingenue
(a partire dal concetto dell’esistenza di una “sostanza
mentale”), non
poche delle sue ipotesi, che tentavano di tenere insieme concetti filosofici ed
osservazioni scientifiche, mantengono un loro fascinoso interesse. Influenzato
dalla concezione di Galileo della meccanica dei corpi Cartesio tenta infatti di
esplorare il “rapporto
mente corpo” introducendo da una
parte la visione “meccanicistica” del funzionamento di quest’ultimo (il
corpo e le sue parti che funzionano come una macchina) e
dall’altra la convinzione che mente e linguaggio rispondano ad altre leggi,
definendo così quello che è passato alla storia come “dualismo cartesiano”.
Antonio Damasio, uno dei massimi neuroscienziati contemporanei (il suo testo “Sentire e conoscere” ha dato spunto per la nostra “Parola del mese” di Giugno 2022 “coscienza”) nel suo saggio di fama mondiale “L’errore di Cartesio” critica, sulla base delle odierne evidenze scientifiche, esattamente questa concezioneA
Più
in generale il “meccanicismo
cartesiano” vede i componenti della natura tutta, la res extensa, la
realtà fisica estesa, limitata, inconsapevole, caratterizzati da qualità (figura,
grandezza, posizione, movimento, colori, sapori, suoni, etc.)
tra di loro in rapporto dinamico spiegabile come reciproca influenza fissata da
leggi puramente fisiche e quindi privo di qualsiasi particolare finalità. A
questa visione riduttiva di ordine meccanico si affianca da una parte il ruolo
di Dio come creatore e regolatore (il grande orologiaio
dell’universo) e
dall’altra la realtà psichica (res cogitans) propria
del solo uomo che, basata su “libertà, inestensione e consapevolezza”, può
esplorare la res extensa vista come oggetto di conoscenza grazie all’uso di un
approccio scientifico in primo luogo matematico. Questa esplorazione non può
prescindere dall’impatto della res extensa sui sensi umani (spiegato
con la meccanica degli atomi) che produce nel cervello
delle “tracce
mnestiche” (immagini mentali)
che a loro volta rappresentano la base fisiologica della memoria umana. Si
tratta, va da sé, di pure ipotesi, di suggestioni, prive di fondamenta
verificabili (per le tecniche del tempo non poteva
che essere così) ma che, mosse soprattutto da finalità
filosofiche, rappresentano una svolta radicale per la comprensione dei
meccanismi mentali e contengono comunque alcune significative intuizioni. La
prima e la più importante delle quali è la localizzazione di tutte funzioni cognitive nel
cervello, che Cartesio completa, andando ben oltre le preesistenti
idee della sussistenza dell’anima nel corpo, individuando in quale parte del cervello
ciò avvenga. Aggiunge infatti, sulla base delle sue artigianali conoscenze
anatomiche, che è la ghiandola pineale (una piccola ghiandola
endocrina, altrimenti denominata epifisi, posta, aspetto decisivo per l’ipotesi
cartesiana, al centro del cervello) la parte del cervello dove,
a suo avviso, si concentrava l’unificazione del dati sensoriali e dove,
necessariamente, avevano sede immaginazione e memoria (era
lì che si depositavano le tracce mnestiche). Ed è sempre qui
che si realizza il prodigio della coscienza umana (alla
base del suo celeberrimo “cogito ergo sum”, io esisto in quanto essere
pensante), che la res cogitans evolve nella coscienza di sé. In
Cartesio, ed è questo il secondo suo fondamentale contributo, la “coscienza”
smette di essere un termine puramente morale per rappresentare una fondamentale
caratteristica della mente. Ne consegue che non altrove può trovare
dimora nel corpo umano la stessa anima.
Cartesio
introduce in questo contesto una riflessione straordinariamente anticipatrice
di uno degli aspetti dirimenti dell’attuale I.A. (Intelligenza Artificiale):
per spiegare la distinzione mente-corpo egli usa l’illuminante esempio degli “automi”, esseri artificiali che Dio, volendolo,
potrebbe creare dotandoli delle stesse caratteristiche meccaniche di corpi
viventi, ma, riflettendo sulla coscienza di sé, scrive …. La macchina può essere progettata per pronunciare parole
ma non può disporle diversamente dal senno di chi l’ha creata….. e
ancora ….. la macchina potrebbe fare molte cose
tanto bene quanto ciascuno di noi, e anche meglio, ma fallirebbe in altre
scoprendo così di non agire per conoscenza, ma solo in virtù della disposizione
dei suoi organi … (Cartesio “Discorso sul metodo”).
L’insieme
di questi elementi, che rappresentano la doppia eredità cartesiana consegnata
allo studio dei meccanismi mentali, lascia chiaramente intendere che per
Cartesio, coniugando aspetti filosofici e (para)scientifici,
la conoscenza umana della realtà, della natura, dell’uomo stesso, non è
possibile senza il ruolo dell’intelletto, della mente, a loro volta ispirati e
guidati dall’anima in stretto contatto con Dio. Ed inoltre (come
sostenuto nella sesta meditazione dei “Principi di filosofia” dove la
distinzione corpo-mente, per quanto confermata, assume a maggior ragione una
diversa elaborazione) che se l’intelletto presiede sia ai segnali
che provengono dai sensi, dal corpo, sia ai moti delle passioni, diventa allora
possibile associare stimoli e pensieri e modificarli sotto la guida dell’anima
stessa. Pur con tutti i comprensibili limiti, emerge già materia sufficiente
per iniziare a parlare di “scienze dell’intelletto”
2 – Meccanicismo, metafisica e mente nel XVII secolo
L’eredità di Cartesio fa sentire il suo peso già nel corso dello
stesso Seicento innescando accesi confronti sia in ambito filosofico che
scientifico (per molti versi le due discipline ancora si sovrapponevano). Nel secolo della “rivoluzione scientifica”, e della prima definizione di un “metodo scientifico”, le critiche mosse alle ipotesi filosofiche/scientifiche cartesiane
si basano sostanzialmente sulla loro indimostrabilità sperimentale, una accusa
che peraltro va estesa anche alle varie ipotesi alternative. Non a caso quindi non
possono lasciare spazio a passi in avanti minimante significativi i tre nuovi elementi
metodologici, la matematizzazione
della natura, la meccanizzazione, lo sperimentalismo, che di più annullano
la presunta oggettività scientifica delle indagini filosofiche sulla mente. Più
complessa si presenta la situazione del dibattito filosofico attorno al
dualismo cartesiano. Se non mancano velleitari recuperi di antiche concezioni,
come quella degli “spiriti animali”,
Lo stesso Cartesio ne aveva supposto l’esistenza come una
forza, una carica vitale, fatta di materia impalpabile contenuta negli spazi
interstiziali del cervello e dei nervi, ma limitando il loro ruolo al solo
movimento dei muscoli. Alcuni autori li estendono, in riflessioni filosofiche,
ad agenti anche di sentimenti e pensieri
riflessioni ben più significative arrivano da tre filosofi che
segnano il dibattito filosofico seicentesco: Thomas Hobbes (1588-1679, filosofo britannico), Baruch Spinoza (1632-1677, filosofo
olandese di origina ebrea), Gottfried Leibniz (1646-1716 matematico e filosofo tedesco)
Questo saggio di Pecere non ha propriamente carattere
divulgativo e si rivolge a lettori già in possesso di conoscenze filosofiche. Dando
quindi per scontata quella dei tratti fondamentali del pensiero di tutti i
numerosi filosofi citati si limita ad approfondire per ognuno di essi le parti
del loro pensiero più connesse all’indagine sulla mente. Tentiamo qui di
rimediare almeno in parte con sinteticissimi rimandi più generali
Thomas Hobbes (il cui contributo filosofico più rilevante è sicuramente
consistito nel “Leviatano”, opera nella quale fissa concetti fondamentali per
la moderna teoria dello stato, del diritto e del potere), nell’ambito di una
visione giusnaturalista (l’idea di un diritto naturale intrinsecamente giusto), sviluppa una
concezione fortemente materialista e ritiene che ogni atto, ogni movimento,
ogni azione, sia unicamente corporeo. Ne consegue, ed in questo consiste la sua
profonda divergenza dal dualismo cartesiano, che l’immaterialità, anima e Dio
compresi, sia un concetto contraddittorio e insostenibile. La stessa mente
opera unicamente in relazione ai concreti movimenti materiali esterni e le “immagini mentali” altro non sono che una “computazione
nominalistica” (il linguaggio è per Hobbes il tramite fondamentale tra mente
umana e realtà/natura). Il dualismo cartesiano sparisce con lo sparire della sua
seconda componente. Su tutt’altro versante si muove invece Baruch Spinoza pur
non meno critico verso Cartesio.
Spinoza è uno dei maggiori filosofi della modernità europea,
il suo pensiero etico sull’uomo è tornato di grande attualità in questi confusi
e tormentati tempi e, non a caso, è stato oggetto di una nostra conferenza
dell’Aprile 2022 della quale, purtroppo, non è disponibile la registrazione
Tanto Hobbes critica il dualismo cartesiano mosso da una
forte visione materialista tanto Spinoza lo fa muovendo da una visione
panteista di un Dio identificato con la natura (Deus sive natura, Dio ovvero la natura). La sua visione
teologica di un Dio “naturante”, nel quale tutto
confluisce, ingloba necessariamente anche la mente individuale. La quale quindi
è, unitamente al corpo, uno degli attributi divini. Ciò annulla ogni loro
insostenibile distinzione, la mente individuale è l’insieme dei pensieri che
partono dal corpo, dalla realtà, e lì ritornano a completare il ciclo divino.
Il monismo spinoziano (esiste una sola realtà che è immanente in tutto l’universo
il quale a sua volta è contenuto in Dio) si estende ad ogni forma di vita e
quindi, come l’uomo, anche gli animali possiedono una mente, lo studio del
corpo umano diventa allora strumento anche per capire la diversità della mente
umana. Se è pur vero che il Seicento europeo è il secolo del metodo scientifico
e di un più rilevante progresso delle scienze tutte, le riflessioni filosofiche
sulla mente non si limitano ad essere puro esercizio speculativo e diventano
una dote di intuizioni e supposizioni raccolte dalla scienza come domande alle
quali tentare di dare risposta. E’ questa una tendenza che cresce per tutto il
secolo (buona parte degli scienziati seicenteschi si dedica al contempo alla
filosofia) e che trova, nel passaggio al Settecento in Gottfried Leibniz un esemplare interprete. Leibniz infatti, rifiutando al pari di Hobbes e Spinoza, la
distinzione tra res extensa e res congitans, tenta però di accompagnare questa
convinzione filosofica con una più significativa accentuazione scientifica.
Recupera cioè l’idea atomistica di Democrito ed Epicuro aggiornandola, sulla
base dei riscontri che la scienza inizia a fornire, nella teoria delle “monadi”
dal greco monas = uno, singolo, unico, intese come “sostanze semplici”, tutte diverse tra
di loro, che come atomi fisici costituiscono la
natura delle sostanze e dei corpi e come atomi psichici il pensiero e la mente
Le monadi, essendo distinte, devono comunque entrare in
rapporto tra di loro (per confluire nell’unità indivisibile di Dio) e ciò avviene in
modo differente a seconda del loro status: quelle fisiche lo realizzano in
forma inconscia con una modalità che Leibniz definisce “percezione”, quelle psichiche, proprie solo dell’anima, al contrario si
muovono con una logica razionale e cosciente definita “appercezione”. Ed è proprio il fatto che l’intera natura, uomo compreso,
sia composta da monadi, a rendere insostenibile, secondo Leibniz, l’esistenza
di una res cogitans distinta dalla res extensa (non a caso ritiene che non esista un luogo fisico
dell’anima). La mente umana quindi rientra pienamente nella res extensa
e come tale deve essere studiata.
3 – Materia attiva, poteri mentali e limiti della conoscenza
Le idee di Leibniz aprono una nuova fase nello sviluppo di
quelle che diverranno scienze cognitive. Il suo atomismo/monadismo non solo
sembra rappresentare il definitivo superamento del dualismo cartesiano, ma
offre anche spunti per muoversi verso nuove direzioni. Lo accompagnano in
questa importante fase di passaggio altre due rilevanti figure: John Locke (1632-1704, medico e
filosofo inglese) e Isaac Newton (1643-1727, matematico, fisico, astronomo, filosofo
naturale) che già, come formazione culturale, testimoniano una più valida
connessione tra filosofia e scienza. Il
testo di John Locke “Saggio
sull’intelletto umano” (1689), espressamente dedicato allo studio delle
forme dei processi cognitivi umani, parte dalla critica della nozione
metafisica di “materia
pensante” (un concetto in gran vigore nell’Illuminismo
delle origini) giudicata inspiegabile se non completata da due
opposte precisazioni: o si ritiene che la materia pensante abbia origine dalla
materia (cerebrale) e che poi Dio vi abbia aggiunto il pensiero, o
viceversa si ritiene che Dio abbia preliminarmente attribuito la facoltà del
pensiero direttamente ad una nuda sostanza per poi collegarla alla materia.
Nulla però cambia secondo Locke perché è impossibile guardando alla nuda
materia capire in che modo essa si sia associata ad una forma di pensiero. La
sola cosa che si può stabilire è che, indipendentemente dal percorso di
associazione materia/pensiero, le idee sono di due tipi: di “sensazione”, quelle che provengono
da sostanze esterne tramite i sensi oppure di “riflessione”, quelle che maturano dalle esperienze interne
come stati d’animo e passioni. Ma perché esse si sviluppino, e consiste in
questo passaggio l’originalità del pensiero lockiano, è necessaria l’esistenza
di “sistemi organizzati di materia” che
risiedono nel cervello. Con una aggiunta di grande importanza che (come si
vedrà dopo) sarà poi sviluppata da Kant: questi sistemi
organizzati sono, per ogni singolo individuo, la fonte della sua “identità”, della sua “coscienza di sé”, il solo
tratto umano in grado di unificare gli aspetti materiali con quelli spirituali.
Anche Isaac Newton, peraltro passato alla storia delle idee per altre
discipline, ha indagato per tutta la sua vita la connessione tra processi
mentali e processi fisici. Un vivo interesse che non si è mai tradotto in
un’opera organica restando in forma di appunti sparsi (raccolti
in un’opera collage pubblicata solamente nel 1962) dai
quali emerge con chiarezza la distanza di Newton da Cartesio, così come dal
materialismo accentuato di Hobbes e dalla visione panteista di Spinoza. Ma
soprattutto, man mano che le sue osservazioni scientifiche assumono un corpus
organico di interpretazione della realtà, dei corpi e del moto fisico, diventa
manifesta la sua perplessità sulla possibilità di stabilire, con una doverosa
scientificità, il rapporto tra corpo, natura, e mente. L’impossibilità di verifiche sperimentali rende
ogni ipotesi al riguardo aleatoria e provvisoria. A
questa perplessità, aggiunge inoltre un importante parallelismo: così come la
forza di gravità, una forza di cui è evidente l’esistenza ma che resta indefinibile
nella sua ultima essenza, regola i rapporti dei corpi celesti allo stesso modo deve esistere una analoga forza, non meno
indefinibile, che codifica i rapporti tra corpo, natura, e mente. La
scienza dell’intelletto, non diversamente da quella fisica, deve
conseguentemente individuare le leggi speciali che ne confermino esistenza e ruolo.
Il mondo culturale europeo del tempo reagisce alle nuove idee lockiane e
newtoniane con un gran fiorire di approfondimenti, contestazioni, integrazioni.
E’ in questo confuso fermento che maturano nuove considerazioni che sanciranno
una decisiva svolta.
4–Fisiologia della mente, autonoma della ragione, l’eredità
kantiana
Ben poco di tale fervore culturale, che copre
la prima metà del Settecento, ha comunque superato la prova del tempo, una vera
evoluzione si ha solamente con l’opera filosofica di Immanuel
Kant (1724-1804, filosofo tedesco, il massimo
esponente dell’Illuminismo tedesco). Nel mare magnum della sua filosofia non
poteva mancare una precisa attenzione alla mente ed ai suoi processi cognitivi.
Kant muove da un assunto di base: fa sue le idee di Newton di spazio e tempo
come “forme a priori” dei
fenomeni,
Kant ritiene infatti che esistano solo due forme pure a priori della sensibilità: spazio e tempo; il primo è la forma
dell'intuizione sensibile esterna, il secondo è la forma dell'intuizione
sensibile interna. Entrambi sono forme dell'intuizione, non concetti, come Kant
sottolinea polemicamente contro Leibniz
ma riformula la sua argomentazione dell’impossibilità
di conoscerne i “fondamenti”
precisando che l’indagine umana può tutt’al più tentare di interpretare “a posteriori” i fenomeni “riducendo
al minor numero possibile le forze fondamentali” che
li spiegano, così come le apprende dall’esperienza. E questa considerazione
vale anche per ogni ipotesi sui processi cognitivi umani sulla natura
dell’anima e della mente. L’apriorismo kantiano ha da subito una grande
influenza sul dibattito culturale del tempo attorno al tema della mente, ma
soprattutto imprime una svolta sull’irrisolta questione che, da Cartesio in
poi, è al centro di tale dibattito: la
sostenibilità, ed i presupposti che la giustificano, della separazione fra
sostanze materiali e sostanze immateriali. Rispetto al Seicento il
Settecento europeo già conosce, a partire da Newton, un significativo progresso
in campo scientifico, ed è anche su queste nuove basi (incidono
in particolare gli studi sempre più approfonditi di anatomia neurofisiologica
da Kant molto ben conosciuti e seguiti) che Kant afferma, con
forte convinzione, che il problema di una “sede dell’anima” è questione del tutto filosofica, che va
tenuta distinta dalle scoperte scientifiche che devono invece mirare a
localizzare “il
sensorio comune”, ossia il luogo del cervello in cui
convergono, per essere fra di loro collegati, gli stimoli sensoriali. Ed è
quindi con Kant che si pongono i fondamenti culturali per la definitiva
separazione disciplinare fra i domini della “facoltà medica nel suo ramo anatomico-fisiologico” e
quelli della “filosofia
nel suo ramo psicologico-metafisico”. Mentre la prima può e deve operare sulle
evidenze a posteriori, la seconda poggia pienamente sui fondamenti a priori.
All’interno di questo più definito quadro Kant distingue, precisandoli, i
diversi concetti collegati al pensiero:
l’anima deve essere intesa come elemento puramente metafisico che
non può essere oggetto di ricerca scientifica
la mente è invece la “facoltà che compone in
unità le percezioni sensoriali, l’intuizione, l’immaginazione (sempre intese però
come “rappresentazioni empiriche”), ed è l’oggetto di studio della psicologia empirica e della
fisiologia
la “coscienza pura” ossia la capacità
della mente di rappresentarsi come l’ “Io penso” che accompagna
tutte le rappresentazioni, è l’intelligenza pura intesa come fonte dei pensieri
che si identifica nel soggetto che pensa.
L’importanza
di Kant nella storia delle scienze cognitive non consiste soltanto nel valore
intrinseco delle sue considerazioni, ma risalta soprattutto perché rappresenta
il culmine della prima fase di questo processo, quella in cui sono è la
metafisica della mente a prevalere relegando alla scienza il compito di
individuare le evidenze che confortino le sue riflessioni sul tema. Dura poco
questa prevalenza, l’Ottocento vedrà infatti un ribaltamento totale: la parola
passa alla scienza e da questa deriveranno anche nuove considerazioni
filosofiche.
5 – Cervello, coscienza e
inconscio: la svolta del XIX secolo
E’ verso metà Ottocento che una diversa connessione tra filosofia e scienza
si rende manifesta grazie ad alcune importanti novità scientifiche, fra le
altre emergono:
le prime evidenze delle “azioni riflesse” (antesignane
della futura scoperta dei neuroni specchio)
lo studio quantitativo delle
correnti nervose
la scoperta dell’inibizione
neurale
le indagini psicofisiche
sulle relazioni di stimolo sull’intensità delle sensazioni
i primi esperimenti di
stimolazione elettrica della corteccia cerebrale
l’evoluzione dell’indagine
microscopica del sistema nervoso (è in questo ambito che sono stati adottati i termini di “neurone”, la cellula nervosa, e di
“sinapsi”, la struttura filamentosa
che mette i neuroni in collegamento fra di loro e con altri tipi di cellule)
Questo
elenco, per quanto parziale, dà il segno della portata del cambiamento, che ha luogo
nella più generale rivoluzione scientifica ottocentesca, che in pochi decenni
avviene nello studio della mente (non poco stimolato da collegate
scoperte a carattere generale, quali la definizione della “legge di conservazione dell’energia” e la
diffusione dell’ “evoluzionismo darwiniano”).
E’ quindi comprensibile che questo fervore scientifico abbia inizialmente contribuito
a rafforzare, in campo filosofico, posizioni fortemente “materialiste” con al centro una
forte valorizzazione del monismo (l’idea filosofica che
riduce la pluralità degli esseri ad un’unica sostanza, ad un unico principio).
Ne sono esempio Goethe (1749-1832,
scrittore e filosofo tedesco) e Schelling (1775-1854, filosofo naturalista
tedesco) che si richiamano esplicitamente al “vitalismo”
di Leibniz e al “monismo” di Spinoza
ed
il prevalere di visioni metafisiche limitate all’interpretazione delle funzioni
psicofisiche messe in luce dalla scienza. Non mancano però scatti di orgoglio e
di volontà di riconquista di spazi autonomi che, da lì a poco, trovano un fondamentale
punto di appoggio in un nuovo concetto base: “l’inconscio”. Non si tratta di
un’idea nuova in filosofia, la tesi di una conoscenza “preconscia” era già presente
nello stesso Platone (filosofo
greco V° secolo a.C.), ed attenzioni verso di esso erano
presenti in molti dei filosofi qui citati, in particolare, come si è visto, in
Kant. Ma proprio in parallelo al fervore scientifico ottocentesco l’inconscio,
nella nuova accezione di “inconscio metafisico dinamico”, trova una
nuova e specifica interpretazione per merito soprattutto di Arthur Schopenhauer (1788-1860, filosofo tedesco).
Considerato il filosofo
del “pessimismo cosmico”, ritiene che la
realtà possa essere vista o come “volontà” o
come “rappresentazione”, se questa spiega i
fenomeni in modo razionale, la prima al contrario non è razionale, ma è l’unica
forza in gradi di governare la realtà
Per
Schopenhauer l’inconscio, che nella veste di una “volontà inconscia” di fatto
spiega l’esistenza dell’intera realtà, non può non avere un ruolo fondamentale
anche per i processi mentali, i quali avvengono, per l’appunto inconsciamente,
ad una velocità tale da rendere consci solo i loro risultati finali (Friedrich
Nietzsche, 1844-1900, filosofo tedesco molto legato all’idee di
Schopenhauer, definisce la coscienza come “commento,
più o meno fantastico, di un testo inconscio e inconoscibile”). Ed
è proprio sulla scia di queste considerazioni filosofiche, suffragate dal suo
concreto lavoro neurologico, che Sigmund Freud (1856-1939, neurologo tedesco
fondatore della psicanalisi) eleva poi l’inconscio a
motore di tutto il nostro vivere psichico e dei nostri processi mentali (i
quali comunque mantengono, a suo avviso, una natura originariamente biologica).
L’irruzione
dell’inconscio nel rapporto dialettico tra filosofia e scienza evidenzia due
aspetti tra di loro correlati: da una parte la filosofia ottocentesca, a fronte
degli innegabili crescenti successi della ricostruzione scientifica dei
processi mentali, è costretta ad abbandonare in gran misura il bagaglio delle
idee metafisiche che da Cartesio in poi, come si è visto, si proponevano di
spiegarle, dall’altra però individua nell’inconscio, così inspiegabile e inconoscibile, un punto debole
delle spiegazioni scientifiche tale da riaprire un dibattito che sembrava da
quelle definitivamente egemonizzato. Da qui in poi, e siamo alle soglie del
Novecento, il problema della “coscienza”, strettamente connesso
all’inconscio, diventa il tema centrale del dibattito attorno alla mente,
ridisegnando per la sua portata un nuovo intreccio tra filosofia e scienza più
basato sulla reciproca influenza. La figura di Emil
du Bois-Reymond (1818-1896,
fisiologo tedesco. Fondatore della
moderna elettrofisiologia, conosciuto per le sue ricerche sull'attività
dell'elettricità nei nervi e nelle fibre muscolari) appare quella che meglio testimonia questa
nuova svolta. Ed è
proprio il tema della coscienza, della sua incompleta esplorazione e
conoscenza, sintetizzata in una storica sintetica: “Ignorabimus (non lo sapremo mai)” (dando
così avvio ad un dibattito sul tema durato per quasi tutto il Novecento
definito proprio “controversia
sull’Ignorabimus”) che lo spinge ad una diversa concezione del
rapporto filosofia/scienza per lo studio della mente. Se da una parte resta
convinto della oggettiva limitatezza delle ipotesi metafisiche, dall’altra
riconosce che il livello della ricerca scientifica del tempo non era
analogamente in grado di formulare alcuna seria spiegazione organicistica. A
suo avviso se per qualsiasi altro contenuto mentale (memoria, pulsioni, pensiero razionale) si stavano rendendo esplorabili i correlati “meccanismi
cerebrali”, nulla lasciava ancora
presuppore una analoga soluzione per il mistero “coscienza”. Se la pur
rilevante ascesa delle neuroscienze sembrava cioè sempre più in grado di
definire, da sola, le funzioni ed i vari ruoli dell' “apparato cognitivo”, la coscienza imponeva un cambiamento
radicale del “metodo di ricerca”, coinvolgendo in una migliore sinergia scienza
e filosofia chiamate a risolvere, con una diversa reciproca collaborazione, quello
che non era un “normale” problema, ma un autentico “mistero”.
A sostegno di ciò Pecere cita un consistente numero di
filosofi e scienziati della mente che, nella prima metà del Novecento, di più
si sono mossi nell’alveo di questa commistione scienza/filosofia. Si tratta di
autori tanto valenti quanto sconosciuti al pubblico dei non addetti. Non sono
qui citati perché per ognuno di essi sarebbe corso l’obbligo di un seppur
minimo inquadramento con un eccessivo appesantimento di questa sintesi
6 – Filosofia della mente
e neuroscienze: prove, ipotesi, critiche
Ancora
una volta un nuovo straordinario balzo in avanti della ricerca scientifica, reso
possibile dallo sviluppo di strumenti d’indagine sempre più sofisticati, ha
consentito, a partire dagli ultimi decenni del Novecento, una nuova svolta
nello studio della mente
Vanno in particolare
citati lo sviluppo di modelli matematici delle reti neurali e l’adozione di
nuove straordinarie tecnologie, quali: l’elettroencefalografia ad alta
definizione (brain imaging), la risonanza magnetica funzionale, la tomografia
ad emissione di positroni, la stimolazione transcranica)
Le
attuali scienze cognitive possono ormai contare su simulazioni e mappature
complete del cervello e, su queste basi, osservare, modellare, modificare,
riprodurre ad hoc, i processi cerebrali corrispondenti a determinati stati
mentali, rendendo comprensibile un iniziale nuovo entusiasmo attorno alla
possibilità che l’empirismo scientifico possa da solo possedere le potenzialità
di dare risposte verificabili
a tutte le domande sulla mente, ne è esempio la “teoria dell’identità”
esistendo
solo una realtà sostanziale, quella fisica, materiale., anche la mente non può che essere qualcosa
di materiale. Essa quindi coincide totalmente con il cervello: tutti i fenomeni
mentali atro non sono che particolari stati o processi neurali
Si
è trattato però di un entusiasmo di breve durata, il semplice fatto che non
poche delle nuove scoperte scientifiche siano state di fatto “indirizzate”
da alcune suggestioni filosofiche come i concetti di “credenza” e “conoscenza”
proposti da Ludwig Wittgenstein (1889-1951, filosofo e logico austriaco, studioso del
linguaggio e della mente e della filosofia della matematica, considerato uno
dei massimi pensatori del XX secolo), unitamente alla constatazione che per quanto l’asticella delle
conoscenze empiriche si fosse alzata alcune domande di fondo restavano senza
risposte davvero esaurienti ha
nuovamente imposto a scienza e filosofia
un dialogo collaborativo, in cui ognuna mantenesse un suo preciso ruolo: per la
filosofia quello di operare nella sfera delle intuizioni, per la scienza quello
di utilizzarle come indirizzo per le proprie ricerche. Già negli anni Sessanta si affermano, a
confermare questa nuova sinergia alcune teorie, come quella del “funzionalismo
computazionale”
teoria che concepisce gli stati mentali identificabili per il
loro ruolo funzionale (funzionalismo) ed il pensiero come un processo che sempre si
ripete seguendo tre fasi: formulazione del problema, espressione di una
possibile soluzione, sua esecuzione e valutazione dell’esito (computazionale)
Nata su spinta di Hilary Putnam (1926-2016, filosofo della mente e matematico
statunitense) il quale
affermava che a nulla serve l’eterna questione materia/anima, ciò che importa è
l’organizzazione funzionale del cervello (fino ad affermare che potrebbe anche essere fatto di
formaggio svizzero tanto nulla cambierebbe!) la quale, a conferma però di un residuo eccesso
meccanicistico, potrebbe essere replicata persino in sistemi artificiali,
recependo così le idee di Alan
Turing (1912-1954, matematico, logico, crittografo e filosofo britannico, considerato uno
dei padri dell'informatica e uno dei più grandi matematici del XX secolo).
Non a caso il funzionalismo computazionale è stato da subito criticato
in campo filosofico, in particolare da John Searle (1932,
professore di filosofia statunitense noto per i suoi contributi alla filosofia
del linguaggio e alla filosofia della mente) e non pare più godere di
considerazione neppure in campo scientifico
Ed è esattamente in questo nuovo clima che,
negli anni Settanta, si può collocare la nascita delle attuali vere e proprie
“scienze cognitive” ossia l’insieme interconnesso delle
discipline (in particolare neuroscienze, psicologia
cognitiva, filosofia della mente e del linguaggio)
che hanno per oggetto lo studio dei processi cognitivi umani e artificiali.
L’origine organizzativa è avvenuta esattamente nel 1978, anno in cui a
La Jolla (California) si tenne un convegno organizzato dalla Cognitive Science
Society cui parteciparono ricercatori psicologi, linguisti, neuroscienziati e
filosofi, proprio per stabilizzare una maggiore comunicazione tra i diversi
ambiti disciplinari e ottenere teorie sempre più complesse ed elaborate circa
il funzionamento mentale. Nacque, di conseguenza, la rivista Cognitive Science
e da quel momento in poi in più di novanta università in Nord America, Europa,
Asia e Australia sono stati istituiti diversi corsi di scienze cognitive.
La necessità di rafforzare, concretizzatasi anche
formalmente con questa scelta, le sinergie fra scienze della mente e
filosofia/psicologia ha sicuramente offerto importanti spazi di collaborazione
e confronto paritario, ma da sola non sembra comunque aver attenuato più di
tanto le reciproche diffidenze. Permangono, seppure manifestate con toni
collaborativi, gli storici motivi di dissenso, metodologico innanzitutto
La linee di
demarcazione è rappresentata, ancora oggi, dalla mancata soluzione delle
ragioni e delle forme che soprassiedono alla mente nella sua unitarietà totale.
Il brain imaging riesce ad esempio a individuare le singole aree cerebrali
attivate da determinate immagini o azioni, ma non è in grado da solo a cogliere
la collegata ed ininterrotta intera attività neurale
Ed è sempre il tema della coscienza che di più
incide a mantenere questo contrasto. Il dibattito attorno al “mistero
coscienza” si è semmai arricchito di
nuove occasioni polemiche legate al procedere degli studi neurofisiologici del
cervello e, soprattutto, alle impattanti prospettive aperte dalla Intelligenza
Artificiale.
nell’ultima
parte del saggio Pecere riassume dettagliatamente molte delle prese di
posizione dei due approcci Impossibile
in questa sintesi entrare nel merito, ci limitiamo pertanto ad esporre
sinteticamente quelle meno specialistiche che di più ci sono parse essere entrate nel dibattito
pubblico
Thomas Nagel (1937, filosofo statunitense) sostiene (nel suo citatissimo saggio
“Che cosa si prova ad essere un pipistrello?) convintamente l’irriducibilità della coscienza alla attività
cerebrale
Daniel Dennet (1942,
filosofo statunitense), Patricia
Churchland (1942, filosofa
canadese) unitamente a
Hilary Putnam danno grande
affidamento alla possibilità di una spiegazione neurobiologica in termini di
computazione neurale
John
Searle (1932,
filosofo statunitense) per la sua puntigliosa critica dell’Intelligenza
Artificiale (è famoso il suo esperimento mentale della
“stanza cinese” La stanza cinese |
BRAINFACTOR) parte dalla convinzione che per la coscienza (per quanto
sostenuta da una base biologica) sia
fondamentale il ruolo della “intenzionalità”
Noam
Chomsky (1928,
filosofo, ma soprattutto teorico linguista) guida una nutrita schiera di
studiosi (una corrente di pensiero denominata “misterianismo”) che
mantengono l’opinione di du Bois-Reymond (Ignorabimus): l’ipotesi biologica, per
quanto verosimile, non sarà mai concretamente confermata
David
Chalmers (1966,
filosofo australiano, soprannominato per il
suo look molto giovanile “la rock star della filosofia) sostiene che indagare la coscienza pone due
ordini di problemi: uno “facile”, l’approccio
neurobiologico, e uno “difficile”, la
spiegazione completa degli
aspetti qualitativi e soggettivi dell'esperienza cosciente
Gerald
Edelmann (1929-2014, biologo statunitense, premio Nobel per la medicina
nel 1972, sostenitore della teoria dell’’evoluzionismo
neurale) , Michael
Gazzaniga (1939, psicologo e neuro-scienziato statunitense) e Giulio Tononi (1960, psichiatra e neuro-scienziato statunitense di
origine italiana) ritengono
unitamente che la coscienza, ed in generale tutti i processi mentali, emerga
dalla biofisica del cervello, ma che non sia riducibile ad essa (l’insieme dei
loro studi è stato assemblato a formare una ipotesi teorica denominata “Integrated
Information Theory “ , teoria dell’informazione integrata)
ed infine Antonio
Damasio (1944, neurologo e neuroscienziato portoghese
naturalizzato americano) ritiene che la coscienza sia il risultato della
combinazione fra “immagini
mentali”, derivanti dai sensi, e “rafforzamenti emotivi e sentimentali” finalizzata al mantenimento della “omeostasi”, ossia la capacità di mantenere
costante l'ambiente interno pur nel variare dell'ambiente esterno. (il suo
saggio “Emozione e coscienza” ha dato lo spunto alla nostra “Parola del mese”
di Giugno 2022 – “Coscienza”)
Le contrastanti opinioni di Dennet e Searle, appoggiate da
altri scienziati della mente e da altri filosofi, sono quelle che di più e meglio sintetizzano i
due fondamentali modi di sviluppo delle scienze cognitive (con particolare attenzione al tema della coscienza): Dennet, alfiere di un approccio empirico, ritiene che
diversi aspetti di funzionamento della mente siano “già stati spiegati”, che altri
man mano lo saranno, e che non vi è quindi limite o obiezione fondata
sull’efficacia di procedere “pezzo per pezzo”, Searle al contrario ritiene
questo modo di esplorare la mente accumulando “mattoncini di conoscenza”, per
quanto efficace nel chiarire i processi neurali, inadeguato a tenere conto
delle proprietà “globali”
della mente (unità,
intenzionalità, soggettività da lui raccolte nel concetto di “campo unificato” della coscienza).
Deriva da queste due posizioni un diverso atteggiamento anche
riguardo l’Intelligenza Artificiale: per la prima corrente di pensiero ritiene
che il trasferimento di quanto scoperto “pezzo per pezzo” a “macchine” possa concretamente portare ad una
Intelligenze Artificiale sempre più “umana”, la seconda invece nega che questo
possa avvenire proprio perché mente e coscienza sono qualcosa di diverso, di
più, dell’assemblaggio di singoli moduli computazionali. La ricaduta delle
scienze cognitive - così come emergono al termine di questo percorso storico
della loro formazione e sviluppo - sulle possibilità di ulteriore sviluppo
della I.A. è comunque tema molto complesso e molto controverso. In questo
saggio lo stesso Pecere non entra più di tanto nel dettaglio limitandosi a
fornire una base teorica storica indispensabile per la sua comprensione e per
la sua possibile evoluzione. Nel modesto ambito di questo blog continueremo a
seguirne gli sviluppi e a darne conto là dove emergessero novità
significative. Ci piace però chiudere
questa sintesi con una opinione di Antonio Damasio che recupera un aspetto
forse erroneamente troppo trascurato: …. la
coscienza umana è una proprietà di organismi che sono nati da altri organismi e
che si sono sviluppati gradualmente, un caso del tutto diverso dalle macchine
per quanto queste possano essere sempre più capaci di riprodurre, ed in alcuni
casi oltrepassare, capacità dell’intelligenza umana ……